sabato 24 settembre 2005

sinistra
Corriere della Sera 24.9.05
Bertinotti: presidente della Camera, perché no? «Gli attacchi da sinistra non mi spaventano, ora lotto per l’egemonia»
di Aldo Cazzullo

«Qual è il loro? Noi guardavamo alla società. L'Udc, alle istituzioni. Sia che punti a un'ipotesi neocentrista, sia che l'obiettivo sia la grande coalizione che stenta a decollare a Berlino ed è ormai in crisi a Bruxelles, non credo ce la farà. Né penso che il centrodestra abbia alternative vincenti a Berlusconi. Toccherà a lui scegliere tra il modello Merkel e il modello Brunetta». Brunetta? «Tra liberalismo e populismo. Se Berlusconi si presenta con un candido volto liberale, perde di sicuro. Può essere pericoloso se sceglie il suo volto di demagogo: basta con Letta, Ciampi, Gifuni, basta establishment, euro, mediazioni. Ma la magia del 2001, il connubio liberalpopulista, è irripetibile. Per questo siamo condannati a vincere». E' proprio qui il problema. Se Bertinotti rinuncia alla conflittualità, rischia di indebolirsi sino all'irrilevanza. Lui stesso dice che «stavolta il trucchetto della destra non funzionerà, nessuno potrà fare leva su di me, non mi impiccheranno a parole-chiave come la patrimoniale. Le altre volte ne avevamo bisogno: eravamo fuori, dovevamo ottenere qualcosa, un segno, un simbolo. Ora siamo dentro. Non più come spina nel fianco. Lottiamo per l'egemonia». Per questo Bertinotti ha deciso di fare una campagna a largo raggio. Avrebbe potuto puntare soprattutto a mobilitare i suoi; «invece ho scelto di rivolgermi a tutti», approfittare dell'assenza di un candidato della sinistra storica, battere le feste dell'Unità cogliendo talora più applausi dei diessini, evocare antichi riflessi di appartenenza, cercare sintonie con le varie anime del suo stesso percorso politico, la socialista, la comunista, l'anarchica. «Senza mai attaccare Prodi». Pagando il prezzo di crearsi nemici o almeno rivali a sinistra.
La minoranza interna al partito, che sfiora il 50%. Diliberto e Cossutta, che difendono Castro quando lui lo critica e attaccano Sharon quando lui lo difende. I Disobbedienti, che non solo hanno un loro candidato, ma sembrano mimare gli Anni Settanta, in una logica antisistema che potrebbe portarli lontano dall'opzione nonviolenta di Bertinotti. «Ma la prospettiva degli attacchi da sinistra, in nome dell'ortodossia o di altro, non mi spaventa affatto - dice lui -. Anche perché le cose non stanno proprio così. Soffro per la distonia con i capi storici del Manifesto , ma il giornale che mi critica è lo stesso che mi contestò la rottura con Prodi, Rossanda esclusa; e poi magari mi capita di fare un libro con una firma del Manifesto (Cosimo Rossi, autore di Io ci provo , in libreria a fine mese). Il movimento è grande e complesso, ci sono cattolici, pacifisti, ambientalisti. Ci sono centri sociali come il Leoncavallo che invitano a votare me. Heidi Giuliani, la madre di Carlo, ha firmato lo stesso appello di Ingrao. Non è vero neppure che ho perso i contatti con i Disobbedienti. Se hanno un candidato vuol dire che riconoscono le primarie, che c'abbiamo preso. L'area antagonista del Nord-Est la conosciamo, tende a farsi partito, con un leader di movimento, che è Luca Casarini e un leader ideologo, che è Toni Negri». Con Negri vi siete confrontati? «Sì. E non nella dialettica destra-sinistra: ad esempio lui è a favore della Costituzione europea, io contro. Non c'è una sola esperienza di lotta che non abbia buoni rapporti con noi».
Sostiene Bertinotti che «è una necessità storica per l'Italia essere guidata ora da una politica di sinistra». Più che antagonismo, la vecchia cara alternativa. «Tra l'idea di una radicalità come organizzazione della protesta, non solo legittima ma persino utile, e l'idea di un governo di sinistra, scelgo la seconda». Così il leader di Rifondazione comunista parla di riforme, anche se non di una prospettiva riformista ma "riformatrice": «E' una prospettiva che si apre per la prima volta dopo 25 anni, dai tempi del centrosinistra e poi della lunga stagione di lotte aperta nel '68-'69 e chiusa con la sconfitta dell'80. In questo quarto di secolo abbiamo vissuto la restaurazione in tutte le sue forme: il riflusso, il neoliberismo, la globalizzazione. Ora si apre un nuovo corso. Non controriforme; riforme». Che Bertinotti ovviamente inquadra in una prospettiva di discontinuità: «Non andiamo al governo per reprimere il conflitto, ma per mobilitare nuove e vecchie lotte, dalla difesa dell'acqua come bene pubblico al contratto dei metalmeccanici». Con lui, o almeno curiosi di lui, un pezzo dell' intellighenzia e dello spettacolo, «da Edoardo Sanguineti a Max Gazzé, da Aldo Nove a Fuksas, da Monicelli a Maurizio Scaparro. Massimo Ranieri». Ranieri? «Non so se vota per me, certo è uno di sinistra ed è un mio amico. Gli scrittori bolognesi. E poi Iacchetti, Leo Gullotta, Vergassola. In platea ho avuto Ottieri, Carlo Giuffré, Giuliana Lojodice».
La suggestione storica è il grande sciopero seguito alla vittoria del Fronte popolare nella Francia del '36. L'esito potrebbe essere più pericoloso di una patrimoniale. Non per lui: «Dobbiamo dispiegare le potenzialità del movimento, non comprimerle. Il movimento sarà il motore della trasformazione. Il governo deve averlo come interlocutore», come oggi la triplice sindacale e la Confindustria. «La prima riforma sarà la riforma della politica». Per questo Bertinotti dice no all'offerta di cossuttiani e Verdi per una lista Arcobaleno: «Dobbiamo smarcarci dall'abbraccio mortale della politica tradizionale, della vecchia idea di tenere tutto insieme, dall'Ulivo di sinistra». Per lo stesso motivo Rifondazione, pur proporzionalista, non appoggerà la riforma elettorale, «non possiamo dare una mano a Berlusconi proprio ora che la nostra gente ci chiede di buttarlo giù. E' un terremoto che investirà tutta la politica italiana. Tra 5 anni nulla sarà come adesso». E lei? «Non avrò un incarico di direzione operativa». Ministro? «No». Presidente della Camera? «Si vedrà. Una carica istituzionale non può essere risultato di un progetto».


la Carta di Venezia/1
Corriere della Sera 24.9.05
Studiosi, politici, economisti: 250 firme per una Authority indipendente Alleanza per la scienza, nasce la Carta di Venezia
di Mario Pappagallo

VENEZIA - Il senatore Giuliano Amato ha battezzato «Carta di Venezia». Una carta non di soli intenti. «Il problema è far uscire la scienza dal suo ambito ristretto per proiettarla nella vita civile, indipendente, ma concreta nelle proposte per affrontare le emergenze del pianeta, e trasparente verso l'opinione pubblica», spiega Umberto Veronesi.
L'oncologo milanese si è fortemente impegnato per riunire nell'isola di San Giorgio, presso la Fondazione Cini, i realizzatori pratici della sua idea. Politici, giuristi, economisti, imprenditori, religiosi, filosofi, giornalisti e scienziati che al termine dei tre giorni di lavori hanno sottoscritto la Carta. Compresi gli ospiti internazionali, a cominciare da Kathleen Kennedy Townsend, ex governatore del Maryland che ha criticato la politica di Bush per quanto riguarda la ricerca sulle cellule staminali da embrione, il caso Terry Schiavo, la salvaguardia dell'ambiente. «Quando la popolazione è ben informata la scienza vince ed è scelta democraticamente. E le città che oggi hanno un maggiore sviluppo non sono quelle che hanno risorse geografiche e economiche ma quelle che hanno buone università come la Silicon Valley, Boston e Milano che ha una forte università statale», ha detto la Kennedy. ««In più si firma meglio è», hanno concordato Amato e la Kennedy che ha aggiunto: «Mi farà promotrice negli Usa». Ma che cosa dice la Carta? Quattro i punti cardine: creare un'alleanza per la scienza; riportare in primo piano la vocazione umanistica, tollerante e anti assolutistica della scienza; sviluppare e coltivare il pensiero scientifico; favorire l'istituzione di una Authority for science , multidisciplinare e indipendente, incaricata di stabilire gli obiettivi e i limiti del progresso scientifico, di riflettere sul futuro della civiltà e di formulare proposte concrete per la società del domani.
Almeno 250 i primi firmatari, tra cui Marco Tronchetti Provera, presidente della Fondazione Silvio Tronchetti Provera, e Giovanni Bazoli, presidente della Fondazione Cini (organizzatori con la Fondazione Umberto Veronesi del meeting) che hanno chiuso i lavori: «E’ stato un risultato di grande rilievo aver riunito per tre giorni a Venezia illustri personalità per discutere del futuro dei rapporti fra scienza e società - ha detto Tronchetti Provera -. L’obiettivo era di avviare la costruzione di un ponte che permetta alla ricerca di dialogare con la pubblica opinione e alla pubblica opinione di capire che senza la scienza non sono possibili né progresso civile e sociale». Per Giovanni Bazoli il richiamo ai valori umanistici è fondamentale: «Occorre aprire profonde riflessioni che mettano sempre al centro l'uomo e l'umanità come obiettivi della ricerca e dello sviluppo. Nessuno vuole o desidera porre dei limiti alla ricerca scientifica, e nessuno in realtà alla fine ci è mai riuscito, ma occorre sempre accompagnarla a una profonda riflessione umanistica per evitare deviazioni verso catastrofi come in passato accaduto per esempio con la bomba atomica».

la Carta di Venezia/2
IL MANIFESTO 21.9.05
CONFERENZE
La carta della santa alleanza
A Venezia prove di incontro tra religione e scienza
LU. TO.

Crescente influenza delle religioni nel mondo, declinante sostegno pubblico alla ricerca in tutto il mondo occidentale e in particolare in Europa, bruciante sconfitta referendaria su procreazione assistita e ricerca sulle cellule staminali in Italia. Forse non c'è da stupirsi che il mondo della scienza si senta assediato, circondato da una diffidenza sempre crescente, ma sul fatto che prima o poi qualcuno avrebbe tentato una contro offensiva proprio non c'erano dubbi. Questo qualcuno risponde al nome di Umberto Veronesi, il celebre oncologo, ispiratore di questa «Prima conferenza mondiale sul futuro della scienza» conclusasi ieri a Venezia e realizzata con la collaborazione delle Fondazioni Cini e Silvio Tronchetti Provera. E la risposta degli addetti ai lavori è stata decisamente impressionante, a dimostrazione che le preoccupazioni sul domani della ricerca non sono certo confinate al nostro paese. Dal filosofo Edgar Morin allo «scopritore» dell'Aids Luc Montagnier, dal fisico Carlo Rubbia a Emanuele Severino, da studiosi come Daniel Dennett al giurista Amedeo Santosuosso fino all'onnipresente Giuliano Amato e al commissario europeo per la ricerca Janez Potocnik, raramente si è visto un così gran numero di personalità riunite in un unico luogo. Con il risultato di avere prodotto un vero e proprio evento mediatico, cosa affatto rara quando si parla di scienza.

Sono stati tre giorni di dibattito intenso, articolato su tre diversi temi: da «Scienza e valori» a «Scienza e potere», passando per una giornata dal contenuto quasi prevalentemente tecnico non a caso dedicata a «L'impatto della scienza sulla vita umana».

Un dibattito cui gli organizzatori hanno però voluto dare un esito esplicitamente politico, con una raccolta di firme per un testo denominato «Carta di Venezia» (lanciato proprio ieri pomeriggio durante le conclusioni del convegno), che chiama alla costituzione di una (santa?) alleanza per la scienza «che coinvolga scienziati, filosofi, teologi, politici e che contrasti l'isolamento della scienza» con il dubbio obiettivo tra l'altro di «conciliare l'approccio scientifico con quello religioso e di riportare (sic!) i movimenti ambientalisti nell'alveo della scienza». A questo fine i sottoscrittori si sono impegnati a favorire la costituzione di una «Authorithy per la scienza» su scala europea, addirittura incaricata di «stabilire i limiti e gli obiettivi del progresso scientifico». Certo, gli estensori mettono le mani avanti e precisano che questo organismo «non sarà un insieme di super-tecnici che decidono in nome di tutti» ma va sottolineato lo stridente contrasto con la consapevolezza emersa in numerosi interventi della assoluta necessità di un serrato e continuo dibattito democratico su scienza e tecnologia, ben al di là della trita equazione tra ricerca e sviluppo.

E così durante la prima giornata era impossibile sottrarsi alla sensazione che tra il cancelliere della Pontificia accademia Marcelo Sorondo o il presidente della Comunità ebraica italiana Luzzatto da un lato e pasdaran della scienza come il chimico Peter Atkins o il biologo Lewis Wolpert dall'altro fosse in realtà in corso una sorta di mediazione tra differenti poteri sotto la benevola supervisione di filosofi come Giulio Giorello. Conciliare per l'appunto, magari facendo finta di dimenticare che (come splendidamente dimostrato dal filosofo Dariush Atghetchi) le posizioni delle autorità islamiche su questioni come clonazione o cellule staminali sono in realtà molto più aperte di quelle delle gerarchie cattoliche.

Gli scienziati veri e propri si sono impadroniti della scena solamente il giorno successivo, presentando al pubblico tutte le meraviglie promesse dalla ricerca scientifica: dal prolungamento della vita umana alla clonazione animale, dalle applicazioni degli organismi geneticamente modificati all'agricoltura per sconfiggere la fame nel mondo al futuro della lotta contro il cancro (presidente Veronesi, naturalmente) e al ruolo in essa della beneficenza (era prevista la presenza di Giulio Tremonti, ma era in tutt'altre faccende affaccendato). Contributi nell'insieme di estremo interesse, presentati da studiosi animati da uno straordinario, talvolta eccessivo entusiasmo.

E, viene da pensare, forse una parte del problema è proprio qui se per tornare sulla terra, per ascoltare parole sensate sulle possibili cause di quella diffidenza che tutti dicono di temere, abbiamo dovuto attendere ieri, quando hanno preso la parola gli economisti. Sono stati tra gli altri Paul David di Oxford (nel comitato scientifico di Creative commons), Richard Nelson o Alberto Martinelli dell'Università di Milano a mettere il dito nella piaga della allarmante privatizzazione del sapere scientifico, della sua oramai innegabile eterodirezione, della sua distanza dagli interessi della maggior parte degli abitanti del pianeta (e non solo del ricco Occidente).

Luci e ombre a Venezia insomma, perché se è urgente diffondere tra i cittadini una maggiore conoscenza di ciò che la scienza è, lo è altrettanto portare gli scienziati ad una piena e attiva cittadinanza.

antifecondativo maschile
Corriere della Sera 24.9.05
BOLOGNA
L’annuncio: 50 italiani provano il «pillolo»


BOLOGNA - «Cinquanta italiani tra i 21 e i 45 anni stanno provando il contraccettivo maschile, il«pillolo»: studenti, impiegati e professionisti di Emilia-Romagna, Toscana e Lombardia. Ogni 8 settimane si fanno un'iniezione. I risultati sono molto soddisfacenti». L'annuncio è stato dato al congresso della Società italiana di ginecologia a Bologna da Cristina Meriggiola, ricercatrice al Centro per la tutela della Salute sessuale di Bologna.

pirati marxisti?
Corriere della Sera 24.9.05
Ma i Pirati non sono Marxisti
di Giorgio De Rienzo

Nell’immaginario collettivo, attraverso romanzi e film molto popolari, il pirata è un eroe romantico dell’avventura, un simbolo di libertà assoluta e di sfida spavalda alla legge che è sempre in mano a uomini potenti cattivi. Ma arriva uno studio che ribalta tutto. Si racconta che un pirata, fatto catturare da Alessandro Magno, alla domanda dell’imperatore («A cosa miri prendendo possesso ostile del mare?») rispondesse: «Miro alla stessa cosa alla quale miri tu prendendo possesso della terra intera. Ma se lo faccio io, con una piccola nave, sono detto un ladro, se lo fai tu, con una grande flotta, sei definito imperatore». Uno studioso americano, Marcus Rediker, in un libro (Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria , ed. Elèuthera), sostiene che il «terrore» seminato nei mari dai pirati nel Settecento fosse il «terrore del debole» e dell’emarginato dalla società contro la malvagità del «potere costituito». Dunque i pirati «mettevano in luce problemi di classe», se erano «semplici marinai» ribelli, «problemi razziali», se «schiavi africani», «problemi di genere», se donne.
Così La Stampa ha potuto dire, nel titolare una recensione di questo libro, che «i pirati del Settecento» erano «marxisti senza saperlo» e che le loro donne erano «femministe ante litteram ». E’ un vizio ormai diffuso quello di attualizzare tutto, di anticipare i tempi del formarsi delle ideologie, di appiattire la storia sui nostri giorni, togliendole con villania profondità o anche solo la sua banale cronologia. E’ una miopia intellettuale che punta soltanto a stravaganti «scoop».

anticlericalismo (e buona educazione?)
Corriere della Sera 24.9.05
Preti Bacarozzi e Geologi dell’Odio
di Pierluigi Battista

Un geologo che è anche conduttore televisivo nelle trasmissioni di divulgazione scientifica, Mario Tozzi, ha perso la testa nel corso di un dibattito dell’emittente Radio Radio e ha espresso le seguenti opinioni sul cardinal Camillo Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana: «è il più pericoloso dei rifiuti tossici, da eliminare con qualsiasi mezzo» e merita una fine «con un limone in bocca, come la porchetta». Inoltre il ricercatore Tozzi si è anche improvvisato storico asserendo che il miglior periodo della storia è la Spagna della guerra civile, quando i sacerdoti, «i bacarozzi neri venivano inseguiti nelle Chiese e crocifissi sulle croci al posto di Gesù Cristo». Ora, deplorare con troppa veemenza un simile lessico non conviene: come minimo si passa come un bieco clericale che vuole tappare la bocca ai nemici di Ruini, o come un esangue moralista che si lagna per i toni troppo accesi, ovvero come un intollerante che vuole svilire il sacrosanto diritto di critica.
Tuttavia sarà almeno lecito invocare il principio della reciprocità e chiedere a Tozzi e a chi come lui usa il linguaggio per gioire della morte altrui di non protestare se qualche amico di Ruini, per rappresaglia, auspicasse pubblicamente la soppressione degli avversari possibilmente accompagnata dalle grida delle vittime di orribili supplizi paragonabili alla crocifissione.
Il geologo certo non si offenderà se a qualche «bacarozzo» venisse voglia di insultarlo a sangue. E’ normale diritto di critica. O no?

Scienza Einstein e fantasia
Il Tempo 21.9.05

«Festival della Scienza» La star è la fantasia
di Massimo Tosti

«NELLA vita non bisogna mai smettere di fare domande». Questa frase la ripeteva spesso Albert Einstein: lui, di domande, ne poneva (e se ne poneva) in continuazione, e questo spiega perché fu il più grande scienziato del secolo scorso. La curiosità, innanzitutto. E poi lo spirito di osservazione. E l'intelligenza, che resta un requisito indispensabile per chi voglia contribuire a far avanzare le conoscenze del genere umano. La curiosità sembra che oggi non manchi in Italia. Le enciclopedie delle scienze vanno a ruba nelle edicole, e si moltiplicano, talmente ampio è il bacino della domanda. Potrebbe apparire normale questo genere di interesse, visto che la «scienza moderna» (come viene universalmente intesa) nacque in Italia, a cavallo fra il XVI e il XVII secolo per merito di Galileo Galilei, il primo che seppe coniugare intuizione e sperimentazione, ricerca teorica e verifica pratica. Un genio assoluto che, tuttavia, ha fatto pochi proseliti nel nostro Paese, dove, a dispetto delle apparenze (le famose enciclopedie, e i tanti convegni che si organizzano ogni anno) rischiamo di perdere la coda del treno dei Paesi più industrializzati. A denunciare questo stato di cose, tre scienziati (in tre campi diversi): un neurobiologo, Lamberto Maffei; un fisico, Sandro Stringari (un'autorità nel campo della ricerca sugli atomi freddi), e un linguista (è una scienza anche quella, anche se di tipo umanistico), Tullio De Mauro. L'occasione: la presentazione del Terzo Festival della Scienza, in programma a Genova dal 27 ottobre all'8 novembre. Il luogo: l'Accademia dei Lincei. Merita una citazione il luogo, perché De Mauro ha indicato più volte il ritratto di Galilei che campeggiava (sulla sua testa) nel salone della conferenza stampa, per spiegare il ritardo scientifico italiano: «Galileo sapeva benissimo quali guai si passano in questo Paese occupandosi di ricerca». E ha ricordato come i graffiti ritrovati nel carcere dell'Inquisizione indichino in modo inequivocabile che le vittime erano matematici, fisici, chimici. Scienziati, insomma. Stringari ha aggiunto di suo un'altra osservazione: molta gente confonde ricerca scientifica e ricerca tecnologica. Nella seconda ci difendiamo, nella prima non reggiamo assolutamente il confronto con gli altri Paesi avanzati. Torniamo ad Einstein, che diceva un'altra cosa interessante: «La fantasia è più importante della scienza». Ecco: un modo per cercare di ridurre il gap è affidarsi alla fantasia. Ed è quello che fanno gli allestitori del Festival della Scienza (l'Associazione costituita da hoc, in collaborazione con Telecom Italia e con la Compagnia di San Paolo, con una partecipazione dell'Enel) che riescono a stimolare l'interesse dei visitatori. L'anno scorso sono stati 165 mila. Merito di un programma che bada ai contenuti «alti», con dibattiti e conferenze che vedono come protagonisti molti degli scienziati più autorevoli in tutte le discipline, ma anche con mostre e laboratori che - senza pregiudizi - si preoccupano anche di offrire un grande spettacolo. Una specie di Disneyland del sapere, dove i visitatori potranno provare emozioni forti, assistendo a vortici di sabbia, tornado in minatura, scariche elettriche simili a fulmini, creazione di nuvole, vortici di fuoco. Ci saranno anche percorsi che illustreranno i rapporti fra scienza e arte, i segreti dei dinosauri, le progressioni numeriche che possono aiutare ad appassionarsi alla matematica, l'adattamento dell'omo agli ambienti estremi. Fino ai giochi di ruolo ideati apposta per i bambini. Molte di queste idee (o realizzazioni) sono già applicate - da molti anni - in importanti musei della scienza all'estero (a Parigi, a Londra, a Monaco di Baviera). E - forse - oltre alle persecuzioni subite nei secoli scorsi, anche la mancanza di «parchi tematici» stabili, dedicati alla scienza, ha contribuito a non stimolare la passione per la scienza nel nostro Paese. Se fosse così, saremmo ancora in tempo per recuperare.

quello che aveva scambiato sua moglie per un cappello...
Corriere della Sera 24.9.05
Oliver Sacks: la genetica curerà le malattie della mente
Il neurologo a BergamoScienza: sì ai farmaci, ma conta la storia del paziente

Raggiungo il più famoso neurologo vivente, Oliver Sacks, al suo albergo di Amsterdam, in procinto di partire per l’Italia (oggi alle 18 terrà una conferenza a BergamoScienza, su «Cervello e creatività»). Professore all’Albert Einstein College of Medicine e alla New York University, autore di libri tradotti in 23 lingue, Sacks ha creato un nuovo genere letterario, narrando la malattia mentale, per così dire, dall’interno con il vissuto quotidiano del paziente. Dotato da madre natura di una penna felicissima e di una insaziabile curiosità per la natura e per la condizione umana, è stato insignito di onorificenze letterarie e scientifiche e di lauree honoris causa (una delle quali dall’Università di Torino) la cui lista riempirebbe gran parte dello spazio di questo articolo.
Mi parlò di lui per la prima volta, nel 1973, il compianto Ronald D. Laing, padre della cosiddetta e oggi assai dimenticata anti-psichiatria. Laing mi disse che la vicenda clinica vissuta in prima persona da Sacks e raccontata nel suo celebre libro Risvegli (Awakenings), successivamente tradotto in un dramma teatrale da Harold Pinter e in un film con Robert de Niro e Robin Williams protagonisti, era una delle più toccanti e straordinarie di ogni tempo. Un gruppo di pazienti curati da Sacks al Beth Abraham Hospital nel Bronx, affetti da encefalite letargica, in stato di catatonia profonda da decenni, di colpo ritornarono alla vita grazie alla somministrazione di un farmaco allora sperimentale, la L-dopa. La scoperta più straordinaria fu che questi pazienti, a dispetto del loro apparente totale distacco dal mondo, in realtà erano internamente vivissimi e straziati dall’impossibilità di esternare i loro pensieri e i loro sentimenti. Nei suoi libri successivi Sacks esplora il vissuto di altri pazienti affetti da profondi disturbi neurologici, alcuni da manuale, altri rari e insoliti. Il caso dell’uomo che scambiava la propria moglie per un cappello, assurto a titolo di una sua famosa raccolta di casi clinici, è l’epitome della singolarità e della stranezza di alcuni disturbi neurologici. Nella nostra intervista per il Corriere, Sacks insiste sulla necessità di studiare a fondo i singoli casi. «La scienza dell’individuo è fondamentale - mi precisa - la biologia deve incontrarsi con la biografia, il meccanismo deve incontrarsi con la vita. Molti mi chiedono: Caro Dottor Sacks qual è la sua teoria generale della malattia mentale? Ma io non ho una teoria generale e diffido perfino delle categorie cliniche, inclusa quella di malattia mentale». Il suo primo amore è stata la chimica e in luminose conferenze e in un recente libro intitolato Lo Zio Titanio si dilunga in tono quasi lirico sugli elementi primordiali, il gallio, il tungsteno, il wolframio, l’osmio.
Il parallelo con Primo Levi viene subito alla mente. Infatti, Sacks mi conferma: «Ho un’immensa ammirazione per l’opera di Primo Levi. A Torino sono voluto andare a visitare la sua abitazione, e la tromba delle scale che ha visto il suo suicidio, una cosa terribile». Un altro suo eroe è il grande chimico italiano Stanislao Cannizzaro (1826-1910), del quale Sacks ama citare una conferenza storica sull’insegnamento della chimica. Come mai non è diventato lui stesso un chimico? «Non so bene, ma quando avevo l’età di scegliere una facoltà universitaria, negli anni ’50, avevo l’impressione che la chimica fosse ormai diventata molto matematica e io non sono molto portato per la matematica». Tra lo zio Titanio, infaticabile sperimentatore della chimica dei metalli, e la professione della madre, oncologa, Sacks scelse la madre e decise di studiare medicina a Oxford. «La chimica è una scienza del generale, ogni atomo di titanio è uguale a qualsiasi altro atomo di titanio, ma in neurologia abbiamo a che fare con persone irripetibili. C’è molto da imparare dallo studio approfondito dei singoli casi, alcuni dei quali sono unici. Uno dei miei mentori scientifici, che non ho mai incontrato di persona, ma con il quale ho corrisposto per anni, il russo Alexander Romanovich Luria, aveva pubblicato un bellissimo e famoso libro su un caso del tutto eccezionale, quello di un giovane che aveva, appunto, "Una memoria prodigiosa". Quel caso è probabilmente unico e irripetibile, ma ci dice molto su come funziona la mente e su come è organizzata la memoria».
I suoi studi attuali vertono proprio sui difetti patologici della memoria, sulla percezione del colore e sulla visione stereoscopica. Gli chiedo se il futuro del trattamento della malattia mentale sarà essenzialmente basato su predisposizioni genetiche individuate precocemente e sull’uso di psicofarmaci sempre più efficaci. «Sono decisamente a favore delle analisi genetiche e dell’uso sapiente di farmaci, a breve termine almeno, ma sopprimere i sintomi a volte ci allontana dal capire le radici del male. La storia individuale del malato e l’intera vita del malato non devono mai passare in second’ordine». Si accinge, con enorme interesse, a visitare la cittadina belga di Geel, dove, fino dal medioevo, i malati mentali vengono ben accolti e lasciati liberi di circolare. «E’ l’opposto dell’istituzionalizzazione e sono molto curioso di vedere come procede questo esperimento, ormai storico». Quali sono i suoi legami con l’Italia? «Molti, da quando la visitai per la prima volta a 17 anni. Un Paese magnifico». Non vede l’ora di rivedere il suo editore, Roberto Calasso e di conoscere infine di persona Rita Levi-Montalcini, che ammira incondizionatamente. Virginia Volterra è una sua cara collega e amica, da quando Sacks scriveva il suo libro sui sordi congeniti e andò a Roma a visitare l’istituto. Non conosce ancora Bergamo, ma è sicuro che gli piacerà. Uno scienziato e clinico, quindi, per sua ammissione, «senza teoria generale», ma con una vivissima umanità generale, in lui veramente la biologia si sposa con la biografia.

una segnalazione di Gianluca Cangemi
Ansa.it 23.9.05
Depressione post-parto maschile
Colpisce un padre su 25, secondo uno studio inglese

(ANSA) - LONDRA, 23 SET - La depressione post-parto non colpisce solo le neo-mamme, ma anche i papa': un padre su 25 e' affetto da questo disturbo. Emerge da uno studio delle universita' di Oxford, Bristol e di Rochester (Usa) presentato alla conferenza di Royal College of Psychiatrists a Harrogate. E la cosa si ripercuote anche sui igli che hanno il doppio delle probabilita' di avere all'eta' di 3 anni problemi di comportamento o attinenti alla loro sfera emozionale, soprattutto se maschi.

venerdì 23 settembre 2005

sinistra
il manifesto 23.9.05
BERTINOTTI
«Dobbiamo agire subito»
L'opposizione deve allargare il conflitto nel paese
di Carla Casalini
«E' ora di mobilitarsi»
Le elezioni anticipate non verranno da sole. Fausto Bertinotti chiede all'Unione di agire quanto prima sulle «vere questioni sociali che sono all'origine della crisi di governo, in modo da decretarne così la sua fine»
«Un gioco dell'oca», commenta a sera Fausto Bertinotti l'ultima disperata giravolta del governo Berlusconi, che fa rispuntare come ministro dell'economia il già licenziato, e a suo tempo vituperato nella Casa delle libertà, Giulio Tremonti. Ma «il paese oggi è tutto tranne che un gioco: versa in una crisi profonda che è il prodotto delle politiche di questo governo, e lo travolge», rincara il segretario di Rifondazione.

Il governo dilaniato al suo interno, ormai «travolto» dalla crisi. Una situazione che ha spinto il centrosinistra a chiedere a una sola voce, ufficialmente, le elezioni anticipate. Ma oltre a «chiedere», l'opposizione ha anche in animo di «agire»?
La nostra richiesta di elezioni anticipate deve essere fatta vivere come iniziativa politica a tutto campo. Oggi ne discute il vertice dell'Unione, ma per me «far vivere» questa recisa presa di posizione significa costruire occasioni, produrre tutte le iniziative politiche di mobilitazione, per rendere chiaro che non c'è più via d'uscita: nessun «rattoppo» è possibile per le destre che hanno prodotto tali guasti nel paese, bisogna assolutamente fermarle.

Sarebbe opportuno un passaggio all'«azione» del centrosinistra, perché la crisi di questo governo potrebbe anche continuare passo dopo passo fino alla putrescenza...
Sì, l'esito è incerto, se lasciato tutto in mano alle destre. Si tratta di vedere se Berlusconi e soci riusciranno ad aggrapparsi alla riforma elettorale come ultima chance, sperando con questa ipotesi iperpoliticista di bypassare la perdita di consensi che ormai da tempo registrano anche tra quelli che furono i «loro» elettori. E' una pia illusione, ma per questa via continueranno a fottersene del rapporto col paese e a moltiplicarne il disastro.

Ma possono riuscirci, «dilaniati», come tu sottolinei, dai loro conflitti interni?
No, io non lo credo, perciò parlavo di illusione. Anche il `rientro' dei centristi, io già l'anticipavo, non è 'incondizionato', la crisi è un'occasione insperata che l'Udc usa per dichiarare il proprio 'sostegno' a Berlusconi ma solo se cambia la leadership del Polo. E Follini puntualmente lo conferma.

Ma in questa situazione non dovrebbe muoversi con decisione politica, al di là dei vincoli formali, anche Ciampi?
Io penso che anche Carlo Azeglio Ciampi si senta preso in una contraddizione, fra il porre termine a questa condizione che il paese subisce - un termine da porre ieri, non domani; e il problema delle scadenze della legge finanziaria, di un eventuale esercizio provvisorio. Ma è proprio l'impossibilità di una legge finanziaria impegnativa in una situazione di tale sbando del governo, che potrebbe fargli considerare le elezioni anticipate come il male minore.

D'altra parte le dimissioni del ministro dell'economia Siniscalco, a una settimana dalla scadenza della presentazione della finanziaria, oltre al braccio di ferro con Fazio, non hanno forse rivelato l'impossibilità più profonda delle destre di affrontare precisamente la crisi sociale e politica italiana?
E' mia profonda convinzione. A parte la posizione del governatore della Banca d'Italia, la cui testa oggi diventa pura materia di compromesso nel conflitto interno alle diverse componenti di governo - mentre anche questa delicata materia avrebbe richiesto ben altro stile e rigore di sguardo, dal mercanteggiamento in corso. A parte questo, la questione di fondo è che le destre non possono approntare la finanziaria, che implicherebbe un rapporto con la condizione del paese per loro proibitivo. Addirittura, le stesse «compatibilità» economiche richieste dall'Unione europea e dalla loro ispirazione liberista, vanno contro le domande sociali che si muovono in senso diametralmente opposto: la condizione dei salari, il degrado dei redditi di tanta parte della popolazione a fronte del boom dei profitti, delle rendite da capitale libere di gonfiarsi oltre misura...

E adesso lascerete tornare Tremonti, con la 'sua' finanziaria?
Non esiste. Il governo deve sapere che non ci può essere semplice conflitto parlamentare, il conflitto si trasferirà nel paese, in una grande mobilitazione sociale.

evoluzione e cervello
il manifesto 23.9.05
Cosa ci dice il cervello sui segreti della natura umana?
La scoperta del genetista di Chicago è una prova del fatto che l'essere umano civilizzato non ha perso la sua animalità. La tesi contraria, che trova ancora largo consenso, si fonda su un dualismo che va superato: perché siamo, piuttosto, sistemi «ibridi» il cui portato culturale è incarnato nella virtualità biologica
Alcune note a partire dalla scoperta di Lahn, pubblicata su Science, che dimostra come il cervello si sia evoluto anche dopo la comparsa di Homo sapiens. A conferma del fatto che la crescita culturale non sostituisce quella naturale, poiché non è indipendente dalla biologia degli umani. Detto altrimenti: non siamo angeli disincarnati
di Francesco Ferretti

Il primo marzo del 1864 Alfred Russel Wallace intervenne alla riunione della Anthropological Society of London con una relazione destinata ad avere un futuro importante nell'antropologia evoluzionista. Il testo è titolato The Origin of Human Races and the Antiquity of Man Deduced from the Theory of «Natural Selection» e il tema è di fondamentale importanza per la definizione del posto occupato dall'uomo nella natura all'interno del quadro evoluzionista. La domanda chiave attorno a cui ruota il discorso di Wallace è la seguente: i principi dell'evoluzione che valgono per gli animali valgono allo stesso modo per l'essere umano, o esiste qualche proprietà degli umani che va oltre la loro natura biologica e che, per questo, li rende immuni dalla selezione naturale?

Una concezione tipicamente vittoriana
Il testo di Wallace fu letto con notevole attenzione da Charles Darwin, che nell'Origine dell'uomo lo citò più volte con ammirazione. In particolare, Darwin mostrava di condividere l'idea di Wallace secondo cui la selezione naturale agisce sull'essere umano fintantoché questo non ha guadagnato le sue facoltà morali e intellettuali: quando ciò avviene, diversamente dagli animali inferiori che possono rispondere alle mutate condizioni ambientali soltanto adattando la loro struttura corporea (acquisendo denti o artigli più robusti, ad esempio), l'essere umano modifica poco o nulla della sua morfologia: perché «l'uomo per le sue facoltà mentali può "mantenere un corpo immutabile in armonia col mutevole universo"». L'evoluzione culturale, una volta raggiunta, segue una via diversa dall'evoluzione biologica e la pressione selettiva cessa di influenzare la morfologia degli individui.

La tesi di Wallace esemplifica la concezione, tipica dell'antropologia vittoriana, che vede l'essere umano (più specificamente i bianchi del mondo civilizzato) come l'esito ultimo e perfetto del «progresso» evolutivo. Quando l'uomo (con una vera e propria rottura col resto della natura) guadagna attraverso la cultura un grado di specialità nel mondo animale, la selezione naturale cessa di avere effetti sulla sua struttura corporea. La cultura agisce a un livello indipendente da quello biologico. Una tesi di questo tipo apre la strada a una visione dualistica della natura umana. Patrick Tort, nel suo L'antropologia di Darwin (Manifestolibri, 2000), commenta questa posizione sostenendo che l'insistenza sulla specificità di quanto è «veramente umano» è un germe che porterà Wallace alla «fatale deriva» lungo la quale in pochi anni passerà dal porre un «accento ancora discreto sull'eccezionalità dell'uomo (...) all'interpretazione trascendente di un "accrescimento delle facoltà mentali", che la selezione naturale non può spiegare».

La tesi di Wallace è ancora viva nella riflessione contemporanea, tanto che persino Richard Dawkins, un autore che ha fatto della relazione tra geni e comportamento il punto forte della sua proposta teorica, sembra condividerla. Nel libro Il gene egoista (Mondadori, 1992) egli afferma la necessità di introdurre una linea di demarcazione tra l'essere umano e tutti gli altri animali. Dopo aver sostenuto che è la cultura a rendere unica la nostra specie, Dawkins dichiara che le varie forme di abbigliamento, costumi, cerimonie, architettura e tecnologia «si sono tutte evolute nei tempi storici in un modo che sembra accelerato dall'evoluzione genetica, ma che in realtà con essa non ha niente a che vedere». Spiazzando il lettore, egli sostiene che per quanto «costruiti come macchine dei geni e coltivati come macchine dei memi» gli esseri umani, unici animali sulla terra, hanno il potere di ribellarsi «alla tirannia dei replicatori egoisti». L'evoluzione culturale segue leggi sue proprie, che hanno il potere di sostituirsi all'evoluzione biologica. Dawkins si sorprende di essere accusato di dualismo - a noi sorprende che lui possa sorprendersi.

Ultime nuove sul cervello
Il punto non è riconoscere la svolta evolutiva che l'avvento della cultura impone all'essere umano. Il punto è stabilire se questa svolta comporti davvero una cesura con il resto della natura. Ciò che è in questione è capire se davvero l'evoluzione culturale abbia posto fine all'evoluzione biologica. Se, in altre parole, la flessibilità e la velocità di trasmissione dei memi (le unità di base della trasmissione culturale) abbiano comportato l'immobilità organica di cui parla Wallace. L'evoluzione del sistema nervoso umano è considerata una prova di questa tesi. Le competenze che caratterizzano l'essere umano dipendono dalle dimensioni e dalla straordinaria complessità del suo cervello. Ora, la costruzione del cervello umano è il prodotto di una lunga storia evoluta. È opinione comune che, dopo la divisione tra umani e scimpanzé (5-6 milioni di anni fa), il sistema nervoso abbia continuato a mutare sino a produrre il cervello di Homo sapiens (200.000 anni fa). Da allora, con l'avvento della cultura, il cervello umano non è più mutato. Questa tesi è largamente condivisa da scienziati, antropologi e filosofi. Calma piatta su questo fronte.

Prima di raccogliere il sasso nello stagno
Ora, Bruce Lahn, genetista dell'Università di Chicago, ha gettato il classico sasso nello stagno pubblicando i risultati delle ricerche del suo gruppo in due articoli usciti il 9 settembre sulla rivista Science. I dati sperimentali prodotti testimoniano a favore della tesi che il cervello di Homo sapiens abbia subito variazioni sino ad epoche molto recenti (e probabilmente è destinato a subirne in futuro). Risultati di questo tipo sono di straordinario interesse e offrono lo spunto per considerazioni di carattere più generale. Con due premesse. La prima è che i dati empirici aspettano, come ovvio, ulteriori conferme. La seconda consiste in un invito a considerare il fenomeno in tutta la sua complessità. Dopo aver studiato il ruolo di più di 200 geni implicati nello sviluppo del sistema nervoso, Lahn e i suoi collaboratori sono arrivati alla conclusione (per altro nota) che le mutazioni genetiche necessarie all'evoluzione del cervello umano riguardano «migliaia di mutazioni in centinaia (se non migliaia) di geni». Parlare del rapporto tra geni e cervello esclude, dunque, ogni visione che associ alla mutazione di un singolo gene la variazione di un singolo carattere fenotipico. Fatte queste premesse, l'attenzione del gruppo di Lahn si è concentrata sul ruolo giocato da due specifici geni nell'evoluzione del cervello umano: Aspm (abnormal spindle-like microcephaly associated) e Microcephalin associati entrambi alla regolazione delle dimensioni del cervello - negli umani, in effetti, il mancato funzionamento di questi geni causa la microcefalia, un difetto evolutivo caratterizzato da una severa riduzione delle dimensioni cerebrali.

In lavori precedenti il gruppo di Lahn aveva già raggiunto un importante risultato dimostrando che i due geni Microcephalin e Aspm avevano subìto significative (e rapide) mutazioni nel corso dell'evoluzione che dai primati porta agli umani. A partire dalla constatazione che i due geni sono responsabili di alcuni aspetti dello sviluppo cerebrale degli umani nel corso della loro storia evolutiva, i ricercatori si sono posti una ulteriore domanda: la selezione naturale ha ancora effetti su questi geni dopo la costituzione del cervello di Homo sapiens?

Due i risultati interessanti della ricerca appena pubblicata. Il primo è che i geni responsabili dell'incremento della massa cerebrale restano sotto la pressione della selezione naturale anche dopo la formazione dell'uomo moderno: gli autori hanno registrato l'emergere di modificazioni del gene Microcephalin riferibili a circa 37.000 anni fa e modificazioni di Aspm ancora più recenti, relative a 5.800 anni fa. Il secondo risultato, di ordine teorico più generale, è la messa in relazione delle variazioni della massa cerebrale con alcune tappe dell'evoluzione culturale. La mutazione di Microcephalin coincide, secondo Lahn, con l'emergenza della cultura simbolica; la nuova mutazione di Aspm coincide invece con la nascita della scrittura, l'espandersi dell'agricoltura e l'avvento del processo di urbanizzazione.

Alcuni scienziati hanno bollato come «speculative» queste associazioni, considerandole perciò poco attendibili. Ma le considerazioni speculative (se confortate dai dati empirici, ovviamente) hanno il valore specifico di mostrare le connessioni tra i risultati particolari di ogni singola ricerca e i contesti di riflessione di ordine più generale. Ciò che è davvero importante per la maggior parte di noi (non per uno sparuto gruppo di scienziati), d'altra parte, è capire se davvero le ricerche sul cervello possano aiutarci a comprendere i segreti della natura umana.

Tra geni e cultura le relazioni sono indirette
Certo, le considerazioni speculative devono essere fatte con estrema cautela. Innanzitutto perché i dati sperimentali aspettano ulteriori conferme. Ma soprattutto per una questione di carattere più generale: perché dati come quelli proposti da Lahn mettono in luce soltanto relazioni altamente indirette tra geni e cultura. Sostenere che una variazione del gene Aspm coincide, poniamo, con l'avvento della scrittura non significa sostenere che la mutazione genetica è la causa diretta di tale avvento (se così fosse, d'altra parte, dovremmo parlare - come a volte purtroppo si fa - di un «gene della scrittura»). Detto questo, tuttavia, affermare che le relazioni tra geni e cultura sono soltanto indirette non significa dire che non sono importanti. I risultati di Lahn ci comunicano che due geni sono implicati nello sviluppo delle dimensioni cerebrali. Ora, quello che si può sostenere a partire da questi dati è che geni di un certo tipo regolano la costruzione di certi tipi di cervello. Di più: poiché certi tipi di cervello sono capaci di abilità cognitive specifiche, ciò che si può sostenere è che le competenze cognitive alla base della trasmissione e dell'acquisizione delle conoscenze che costituiscono la cultura degli umani dipendono dallo specifico cervello che essi hanno a disposizione. Per quanto non sia possibile studiare direttamente i rapporti tra geni e cultura è dunque plausibile studiare la cultura (almeno alcuni aspetti di essa) come il prodotto dell'attività cerebrale.

La scienza cognitiva e la neuroscienza contemporanee hanno fatto enormi passi in avanti in questa direzione: basterebbe soltanto pensare alla tesi della «epidemiologia delle credenze» proposta da Dan Sperber nel suo Il contagio delle idee (Feltrinelli, 1996) per dar conto del ruolo dei processi cognitivi nell'avvento della cultura umana; o, per citare un altro caso, basterebbe riferirsi al ruolo dei «neuroni specchio» analizzato da Vittorio Gallese per spiegare le forme di base - empatiche e imitative - degli scambi interpersonali tra gli individui di una società.

Le ricerche di Lahn hanno il pregio di mostrare che la cultura non sposta l'essere umano su un piano di indipendenza dalla biologia (non lo rende un angelo disincarnato). Dire che il cervello ha conosciuto tappe evolutive successive all'avvento di Homo sapiens significa sostenere che la sua struttura organica non è immodificabile. L'evoluzione culturale non sostituisce l'evoluzione naturale: non può farlo perché la cultura non è autonoma e indipendente dalla biologia degli umani. La scoperta di Lahn è una prova del fatto che l'essere umano civilizzato non ha perso la sua animalità. La tesi contraria, che trova ancora largo consenso tra antropologi e filosofi, si fonda su un dualismo tra cultura e biologia che non ha più ragione di essere. L'essere umano va pensato in una prospettiva di unificazione. Come realizzare tale prospettiva?

Ritorno a un'ottica continuista
Tornando a Darwin, in primo luogo. Il suo commento al testo di Wallace, che citavamo all'inizio, rappresenta una prima mossa in questa direzione. Contro gli esiti spiritualistici di Wallace, Darwin scrive L'origine dell'uomo con l'obiettivo di spiegare l'avvento delle facoltà superiori umane in una prospettiva continuista. Da questo punto di vista il «rovesciamento» di prospettiva che caratterizza l'avvento della cultura non è in contrasto con i principi di base dell'evoluzione biologica. È quello che Tort chiama l'effetto reversivo: «La selezione naturale ha selezionato gli istinti sociali, che a loro volta hanno sviluppato i comportamenti di assistenza ai deboli e hanno favorito l'attuazione di disposizioni etiche, istituzionali e legali antisellettive e antieliminatorie. In tal modo la selezione naturale ha operato essa stessa per il suo deperimento, seguendo lo stesso modello dell'evoluzione selettiva: l'indebolimento dell'antica forma e la crescita selezionata di una forma nova: in questo caso una competizione i cui fini sono sempre più la moralità, l'altruismo e i valori sociali legati all'intelligenza e all'educazione».

L'effetto «reversivo» spiega come un elemento di rottura (il passaggio dal biologico al culturale) possa essere inquadrato all'interno di una prospettiva continuista. Resta il fatto, tuttavia, che l'effetto «reversivo» ha come esito una «interruzione» della selezione naturale. L'idea che la cultura e le facoltà superiori una volta formate prendano comunque il posto dell'evoluzione biologica rimane forte in questa prospettiva. Si può andare oltre Darwin, però. E i risultati presentati dal gruppo di Lahn incoraggiano, appunto, un passo ulteriore.

Nel sottolineare che ogni acquisizione culturale è un caso di biotecnologia, Roberto Marchesini indica in Post-human (Bollati Boringhieri, 2002) una via percorribile in questa direzione. Dal suo punto di vista, l'avvento della cultura, senza porre l'essere umano al di fuori del processo selettivo, ha avuto il potere di «spostare» la pressione evolutiva. Si pensi al caso degli antibiotici. Quando ancora non esistevano, l'organismo che non era in grado di produrre una risposta naturale (processo di antibiosi) ai batteri dannosi veniva selezionato con la morte. Con l'avvento degli antibiotici l'intreccio coevolutivo uomo-batterio si arricchì di un nuovo elemento, la molecola di sintesi, capace di imprimere una nuova direzione alla pressione selettiva (sia nell'uomo che deve tollerarla, sia nel batterio che deve superarla). Secondo Marchesini ogni «slittamento della pressione evolutiva, realizzato attraverso la mediazione tecnologica, iscrive di fatto quella tecnologia nel patrimonio genetico della specie». Da questo punto di vista gli esseri umani sono sistemi «ibridi» in cui non ha senso considerare la cultura come un elemento che si contrappone al sistema biologico per completarlo: il sistema culturale è, in questa prospettiva, «incarnato nella virtualità biologica».

Una verifica empirica sulla strada del futuro
Anche le forme residue di dualismo, in questo modo, sembrano lasciare il campo a una prospettiva unitaria dell'essere umano. Il fatto che gli umani siano animali culturali, come abbiamo visto, non è una condizione sufficiente a preservarli dal destino che li accomuna al resto del mondo animale. Di più: la natura ibrida degli umani apre la possibilità che il processo di acculturazione sia una delle condizioni di base delle trasformazioni organiche dell'umanità guidate dalla pressione evolutiva. Gli esperimenti di Lahn offrono una verifica empirica all'ipotesi che ciò che è accaduto in un passato recente possa accadere ancora in futuro.

creazionismo
il manifesto 23.9.05
C'è chi parla ancora di creazionismo

Di fronte alla notizia che il cervello umano si sta (forse) ancora evolvendo, come reagiranno i sostenitori più o meno accalorati del creazionismo o della sua versione più moderna, l'intelligent design, teoria secondo la quale una invisibile mano sapiente, e non la selezione naturale, ha governato lo sviluppo della vita sulla terra? Una occasione per farsene qualche idea si potrebbe trarre dal percorso di incontri organizzato - a partire dal 6 ottobre e fino al 14 dicembre - dal gesuita Istituto Stensen di Firenze, che sin dal titolo sceglie una (decisamente impervia) strada di equidistanza: «Evoluzionismo e antievoluzionismo - un contenzioso non ancora chiuso». Da Edoardo Boncinelli, direttore del laboratorio di biologia molecolare al San Raffaele di Milano, al biblista Gianfranco Ravasi, prefetto della Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana, gli appuntamenti vedranno incontrarsi discepoli, magari critici, di Darwin e sostenitori del michelangiolesco gesto divino. L'iniziativa - recita la brochure che presenta il programma - «trae spunto dal dirompente dibattito sul tema dell'evoluzionismo biologico: l'idea di proporre tale percorso è sorta dalle polemiche suscitate l'anno scorso dall'apparente esclusione dell'insegnamento della teoria dell'evoluzione biologica nella nuova riforma della scuola. La controversia è recentemente riesplosa sui media internazionali in seguito alle opinioni espresse del presidente Bush di affiancare gli insegnamenti delle teorie neo-creazioniste a quelle evoluzionistiche.»

crimini cattolici
Gazzetta del Sud 23.9.05
I tribunali dell'Inquisizione
Un museo storico della pena e della tortura nel castello di Brolo
Ingegnosi strumenti di dolore e morte
di Salvatore Di Fazio

Nel castello di Brolo è stato allestito dall'associazione culturale «La Rosa dei tempi», presieduta dall'avv. Nino Germanà, uno dei tre musei italiani dedicati al tema raccapricciante della tortura. Lo ospitano i locali di uno degli edifici del borgo medievale addossati alla Torre. Una consistente teoria di pannelli didattici e figurativi, tratti da antiche stampe e da codici di varia provenienza, facilita il percorso conoscitivo, illustrandolo e documentandolo con singolare puntualità. Prima, durante e dopo il Medioevo. Ma quello che dà la giusta dimensione delle molteplici modalità del martirio a cui venivano sottoposti i rei, veri e presunti, è l'armamentario degli strumenti di pena di cui il museo custodisce un congruo campionario. In primo luogo colpisce, e fa accapponare la pelle la sedia della tortura, impiegata dai tribunali dell'Inquisizione. L'accusato veniva fatto sedere su una di queste robuste poltrone tempestate di aculei di ferro che gli si conficcavano nelle carni e veniva immobilizzato alle braccia e alle gambe con cinture metalliche non meno allucinanti. Con questo metodo l'interrogatorio da parte del giudice, in presenza di un notaio e di un medico-aguzzino, si svolgeva senza troppi preamboli e nel modo più «persuasivo» a estorcergli la confessione o l'ammissione del crimine. Negare la propria colpa comportava il moltiplicarsi dei supplizi. Riconoscerla significava meritarsi quel trattamento. L'imputato, caduto nella trappola del Sant'Uffizio, non aveva vie di scampo. Bersagli preferiti di quella congrega di assassini erano, nel corso dei secoli gli Ariani, i Donatisti, i Càtari, i Valdesi, i Manichei, gli Albigesi, gli apostati, e in particolare gli Ebrei, accusati di «lesa maestà» a nostro Signore. A costoro si aggiungevano, di volta in volta, i bestemmiatori, gli omicidi, i delinquenti, i pubblici peccatori, gli stregoni. A seconda del reato, e della sua gravità, anche se difficilmente provato, le infernali macchine di morte – o di strazio fisico dell'imputato – variavano per la tipologia più che per ferocia. L'infelice che, per una ragione o per un'altra, veniva affidato a quei carnefici, nel severo rispetto di un codice spesso arbitrariamente interpretato e adottato, poteva finire dentro una gabbia di ferro con le gambe divaricate o essere legato con un gambale alle caviglie e appeso a testa in giù, oppure, se il giudice lo riteneva opportuno, condannato alla «ruota», un arnese brutale che spezzava le braccia e le gambe, oppure sulla «scala di stiramento» che disarticolava le giunture staccando le membra dal tronco. L'opera infame di quella associazione di macellai, invasati da un furore sinistro, non risparmiava nessuna delle crudeltà più abominevoli: basta dare uno sguardo allo «schiacciapollici» o allo «spaccaginocchi» o ai «cerchi schiacciatesta a vite» o alla spaventosa «culla di Giuda» o alla «cicogna di storpiatura» o ai «collari spinosi» o al «cucchiaio allungato» con cui si facevano inghiottire liquidi bollenti. Eppure, i tempi funesti dell'Inquisizione non furono quelli del Medioevo, che erroneamente giudichiamo barbaro e oscurantista, ma il XVI e XVII secolo, cioè l'età del Rinascimento e dei lumi della ragione, durante i quali i potenti si servivano del pretesto dell'eresia come di un alibi eccellente per difendere privilegi, per incamerare beni, per colpire i personaggi scomodi e per debellare gli uomini liberi, suscettibili di rivolta.

lmanifesto.it
22 settembre 2005


Quando gli scienziati promettono miracoli
«La necessità di convincere i finanziatori ha un peso enorme». Parla il genetista Kenneth Weiss che interviene oggi alla «Prima conferenza mondiale sul futuro della scienza».
LUCA TOMASSINI
Kenneth M. Weiss è un genetista evoluzionista della Penn State University di New York e ha dedicato la sua vita all'esplorazione di quei territori di frontiera dove l'apparente semplicità dei meccanismi di codificazione del Dna umano e animale si incontra con l'inesauribile ricchezza morfologica e funzionale delle forme di vita complesse. Non sorprende, quindi, che sia giunto a questa «Prima conferenza mondiale sul futuro della scienza» - organizzata a Venezia dalle Fondazioni Veronesi, Cini e Silvio Tronchetti Provera -, con in tasca un intervento dal provocatorio titolo «Genetica biomedica: miracolo o miraggio? Previsione o predicazione?», in calendario per questa mattina all'interno della giornata dedicata all'impatto della scienza sulla vita umana. Le certezze, siano esse della Scienza oppure della Fede (con obbligo di maiuscola), non sono il suo mestiere. «Sono convinto - chiarisce immediatamente - che la scienza sia diventata una vera e propria entità predatrice nella civiltà occidentale. Ci sono certo ragioni che definirei ideologiche, ma ci sono soprattutto ragioni economiche. E anche per questa ragione credo che molti dei problemi sollevati dalle scienze biomediche non riguardano affatto ciò che la scienza è o crede di essere ma la politica. E la mia previsione è che comunque gli scienziati non accetteranno eventuali decisioni di quest'ultima, con il risultato che tutto quello che può essere fatto in una maniera o nell'altra lo sarà. La scienza è un sistema in espansione, dotato oramai di un'organizzazione che definirei industriale e che in larga misura ne determina il movimento, anzi l'inerzia».

Un punto di vista che molti suoi colleghi non condividerebbero.

La maggior parte degli scienziati che conosco vogliono semplicemente continuare a svolgere il loro lavoro e soprattutto non vogliono alcuna restrizione. E per questo hanno bisogno di denaro, sia esso pubblico o privato. Ma le allocazioni di fondi naturalmente dipendono da decisioni politiche che nei diversi paesi sono condizionate da diversi fattori. Dalle chiese, certo, e dal mondo dell'economia, di chi finanzia cioè buona parte della ricerca. Vedo tutti questi soggetti come entità politiche che concorreranno alla definizione di ciò che sarà la scienza del futuro. Ma resto dell'opinione che in una maniera o nell'altra gli scienziati riusciranno a fare quello che vogliono, magari utilizzando qualche stratagemma.

Per esempio?

Non è necessario allontanarci troppo dall'attualità! Consideriamo le cellule staminali, che in Italia come negli Stati Uniti sono al centro di un acceso dibattito. Già oggi è sempre meno necessario utilizzare cellule provenienti da «embrioni» e sempre più nel futuro nuovi tipi di cellule staminali saranno disponibili, magari estratte dai cordoni ombelicali. E allora le resistenze delle istituzioni religiose non potranno che svanire, perché i credenti stessi sono interessati ai benefici che queste tecniche potrebbero rendere disponibili. C'è poi la teoria darwiniana dell'evoluzione: la chiesa cattolica è scesa a patti con essa, papa Giovanni Paolo II lo stabilì con chiarezza. Ma se anche la chiesa può condividere l'idea di un'origine comune della vita certo non può accettare l'idea della generazione casuale delle forme di vita e della loro successiva selezione naturale. Quello che la chiesa cattolica ha fatto è stato semplicemente scendere a patti con una realtà che non poteva più essere negata, e così è sempre successo. Sia chiaro, non voglio affatto sostenere che quella scientifica sia una forma di conoscenza «perfetta» in qualche senso, destinata ad affermarsi proprio in virtù di questa supposta perfezione. Al contrario sono convinto che la vera causa di questa «legge della storia» risieda nell'intrinseca tendenza delle religioni istituzionali a scendere a compromessi con la realtà, anche le realtà del potere e dell'economia. E con queste ultime la scienza ha uno stretto rapporto.

Viene in mente il tema del suo intervento qui a Venezia. Tutto questo ha a che fare con la tentazione della «predicazione»?

Molto, moltissimo. Naturalmente non possiamo dimenticare il sincero entusiasmo di molti scienziati verso il proprio lavoro, ma la necessità di convincere i potenziali finanziatori ha un peso enorme. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (ma sono convinto che anche in Italia la situazione non sia così diversa), i ricercatori evocano ogni tipo di miracoli. Da irragionevoli allungamenti della speranza di vita alla cura di ogni tipo di malattia cronica o del cancro, vediamo gli addetti ai lavori nei campi della genetica e delle biotecnologie non esitare a fare roboanti promesse che a mio parere non potranno essere mantenute. Faccio ricerca da più di quarant'anni e so benissimo che i miei colleghi sono consapevoli della loro falsità: non lo direbbero mai in pubblico ma dietro le quinte confessano la verità.

Quali sono gli effetti di un tale inquinamento del dibattito pubblico?

Cancellare dal dibattito aspetti dall'imprescindibile contenuto etico, rendendo così impossibili decisioni democratiche e condivise. Siamo così sicuri che la maniera più efficace di salvare vite umane sia investire miliardi nella lotta al cancro o a qualche malattia genetica? In fondo nei paesi sviluppati la maggior parte dei casi di tumore insorge in età avanzata e soprattutto è probabilmente evitabile con un migliore stile di vita, mentre i maggiori successi della medicina non hanno niente a che vedere con la scienza avanzata e molto per esempio con la disponibilità di acqua potabile e più in generale di migliori condizioni igieniche.

Una delle proposte degli organizzatori di questo convegno è una authority per la scienza che consigli i governi europei. Cosa ne pensa?

Non ho ancora letto il documento e dunque non ho opinioni in proposito. Può però essere interessante considerare l'esperienza dei Comitati di bioetica, molto diffusi negli Stati uniti. La loro azione è nei limiti di quella che definisco «bioetica sicura», ovvero sii onesto nei confronti delle persone. Ma non affrontano mai questioni di fondo come gli indirizzi della ricerca, non mettono mai in discussione i criteri di spesa: in una parola accettano la situazione data e indicano le migliori soluzioni a partire da essa. Non credo sia loro compito fare di più, ma so che fare di più è assolutamente necessario.

Scienza e potere a Venezia
Come ha scritto il suo ispiratore, l'oncologo Umberto Veronesi, la «Prima conferenza mondiale sul futuro della scienza» nasce dalla convinzione che i progressi della ricerca non trovino adeguata rappresentazione nel dibattito culturale e politico. Di qui l'idea di organizzare a Venezia tre giornate di dibattito su alcuni temi cruciali. Significativo in particolare l'argomento della giornata di domani, Scienza e potere: studiosi del calibro di Richard Nelson discuteranno di rapporti con l'economia ma anche dei legami tra tecnologia e potere politico. Con la speranza di lanciare una «Carta di Venezia», per la costituzione di una «Alleanza per la scienza» e di una Autorità europea «incaricata di stabilire obiettivi e limiti del progresso scientifico». Insomma, la montagna potrebbe produrre il topolino dell'ennesimo comitato di esperti.

il futuro della scienza
il manifesto 22.9.05
Quando gli scienziati promettono miracoli
«La necessità di convincere i finanziatori ha un peso enorme». Parla il genetista Kenneth Weiss che interviene oggi alla «Prima conferenza mondiale sul futuro della scienza».
di Luca Tomassini

Kenneth M. Weiss è un genetista evoluzionista della Penn State University di New York e ha dedicato la sua vita all'esplorazione di quei territori di frontiera dove l'apparente semplicità dei meccanismi di codificazione del Dna umano e animale si incontra con l'inesauribile ricchezza morfologica e funzionale delle forme di vita complesse. Non sorprende, quindi, che sia giunto a questa «Prima conferenza mondiale sul futuro della scienza» - organizzata a Venezia dalle Fondazioni Veronesi, Cini e Silvio Tronchetti Provera -, con in tasca un intervento dal provocatorio titolo «Genetica biomedica: miracolo o miraggio? Previsione o predicazione?», in calendario per questa mattina all'interno della giornata dedicata all'impatto della scienza sulla vita umana. Le certezze, siano esse della Scienza oppure della Fede (con obbligo di maiuscola), non sono il suo mestiere. «Sono convinto - chiarisce immediatamente - che la scienza sia diventata una vera e propria entità predatrice nella civiltà occidentale. Ci sono certo ragioni che definirei ideologiche, ma ci sono soprattutto ragioni economiche. E anche per questa ragione credo che molti dei problemi sollevati dalle scienze biomediche non riguardano affatto ciò che la scienza è o crede di essere ma la politica. E la mia previsione è che comunque gli scienziati non accetteranno eventuali decisioni di quest'ultima, con il risultato che tutto quello che può essere fatto in una maniera o nell'altra lo sarà. La scienza è un sistema in espansione, dotato oramai di un'organizzazione che definirei industriale e che in larga misura ne determina il movimento, anzi l'inerzia».

Un punto di vista che molti suoi colleghi non condividerebbero.
La maggior parte degli scienziati che conosco vogliono semplicemente continuare a svolgere il loro lavoro e soprattutto non vogliono alcuna restrizione. E per questo hanno bisogno di denaro, sia esso pubblico o privato. Ma le allocazioni di fondi naturalmente dipendono da decisioni politiche che nei diversi paesi sono condizionate da diversi fattori. Dalle chiese, certo, e dal mondo dell'economia, di chi finanzia cioè buona parte della ricerca. Vedo tutti questi soggetti come entità politiche che concorreranno alla definizione di ciò che sarà la scienza del futuro. Ma resto dell'opinione che in una maniera o nell'altra gli scienziati riusciranno a fare quello che vogliono, magari utilizzando qualche stratagemma.

Per esempio?
Non è necessario allontanarci troppo dall'attualità! Consideriamo le cellule staminali, che in Italia come negli Stati Uniti sono al centro di un acceso dibattito. Già oggi è sempre meno necessario utilizzare cellule provenienti da «embrioni» e sempre più nel futuro nuovi tipi di cellule staminali saranno disponibili, magari estratte dai cordoni ombelicali. E allora le resistenze delle istituzioni religiose non potranno che svanire, perché i credenti stessi sono interessati ai benefici che queste tecniche potrebbero rendere disponibili. C'è poi la teoria darwiniana dell'evoluzione: la chiesa cattolica è scesa a patti con essa, papa Giovanni Paolo II lo stabilì con chiarezza. Ma se anche la chiesa può condividere l'idea di un'origine comune della vita certo non può accettare l'idea della generazione casuale delle forme di vita e della loro successiva selezione naturale. Quello che la chiesa cattolica ha fatto è stato semplicemente scendere a patti con una realtà che non poteva più essere negata, e così è sempre successo. Sia chiaro, non voglio affatto sostenere che quella scientifica sia una forma di conoscenza «perfetta» in qualche senso, destinata ad affermarsi proprio in virtù di questa supposta perfezione. Al contrario sono convinto che la vera causa di questa «legge della storia» risieda nell'intrinseca tendenza delle religioni istituzionali a scendere a compromessi con la realtà, anche le realtà del potere e dell'economia. E con queste ultime la scienza ha uno stretto rapporto.

Viene in mente il tema del suo intervento qui a Venezia. Tutto questo ha a che fare con la tentazione della «predicazione»?
Molto, moltissimo. Naturalmente non possiamo dimenticare il sincero entusiasmo di molti scienziati verso il proprio lavoro, ma la necessità di convincere i potenziali finanziatori ha un peso enorme. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (ma sono convinto che anche in Italia la situazione non sia così diversa), i ricercatori evocano ogni tipo di miracoli. Da irragionevoli allungamenti della speranza di vita alla cura di ogni tipo di malattia cronica o del cancro, vediamo gli addetti ai lavori nei campi della genetica e delle biotecnologie non esitare a fare roboanti promesse che a mio parere non potranno essere mantenute. Faccio ricerca da più di quarant'anni e so benissimo che i miei colleghi sono consapevoli della loro falsità: non lo direbbero mai in pubblico ma dietro le quinte confessano la verità.

Quali sono gli effetti di un tale inquinamento del dibattito pubblico?
Cancellare dal dibattito aspetti dall'imprescindibile contenuto etico, rendendo così impossibili decisioni democratiche e condivise. Siamo così sicuri che la maniera più efficace di salvare vite umane sia investire miliardi nella lotta al cancro o a qualche malattia genetica? In fondo nei paesi sviluppati la maggior parte dei casi di tumore insorge in età avanzata e soprattutto è probabilmente evitabile con un migliore stile di vita, mentre i maggiori successi della medicina non hanno niente a che vedere con la scienza avanzata e molto per esempio con la disponibilità di acqua potabile e più in generale di migliori condizioni igieniche.

Una delle proposte degli organizzatori di questo convegno è una authority per la scienza che consigli i governi europei. Cosa ne pensa?
Non ho ancora letto il documento e dunque non ho opinioni in proposito. Può però essere interessante considerare l'esperienza dei Comitati di bioetica, molto diffusi negli Stati uniti. La loro azione è nei limiti di quella che definisco «bioetica sicura», ovvero sii onesto nei confronti delle persone. Ma non affrontano mai questioni di fondo come gli indirizzi della ricerca, non mettono mai in discussione i criteri di spesa: in una parola accettano la situazione data e indicano le migliori soluzioni a partire da essa. Non credo sia loro compito fare di più, ma so che fare di più è assolutamente necessario.

Scienza e potere a Venezia
Come ha scritto il suo ispiratore, l'oncologo Umberto Veronesi, la «Prima conferenza mondiale sul futuro della scienza» nasce dalla convinzione che i progressi della ricerca non trovino adeguata rappresentazione nel dibattito culturale e politico. Di qui l'idea di organizzare a Venezia tre giornate di dibattito su alcuni temi cruciali. Significativo in particolare l'argomento della giornata di domani, Scienza e potere: studiosi del calibro di Richard Nelson discuteranno di rapporti con l'economia ma anche dei legami tra tecnologia e potere politico. Con la speranza di lanciare una «Carta di Venezia», per la costituzione di una «Alleanza per la scienza» e di una Autorità europea «incaricata di stabilire obiettivi e limiti del progresso scientifico». Insomma, la montagna potrebbe produrre il topolino dell'ennesimo comitato di esperti.

giovedì 22 settembre 2005

crimini cattolici
Liberazione 22.9.05
Gotovina, Chiesa e Tpi. Meglio tardi che mai
I cattivi non erano solo serbi. La lista dei criminali è ancora lunga. E il Vaticano svolse un ruolo fondamentale per il nazionalismo croato
di Giancarlo Lannutti

Dunque nella ex-Jugoslavia i cattivi non erano soltanto serbi, come per molto tempo induceva a credere il comportamento del Tribunale penale internazionale dell'Aja (per non parlare dei governi occidentali). C'erano cattivi, anzi cattivissimi, anche tra i croati, i macedoni e gli albanesi dell'Udk, sia kosovari che di Macedonia. E il procuratore capo del Tpi Carla del Ponte, in passato attivissima soprattutto nell'accusare e nel ricercare i dirigenti serbi e serbo-bosniaci, adesso reclama con forza la consegna da parte di Zagabria del criminale di guerra croato numero uno, il generale Ante Gotovina, arrivando ad accusare la Chiesa cattolica di Croazia e lo stesso Vaticano di proteggere il ricercato e ostacolare l'operato del Tribunale. Un'accusa che il Vaticano e la Chiesa locale respinge, ma che la fonte da cui viene ha indubbiamente serie motivazioni. Tanto è vero che l'atto di accusa della Del Ponte avrà come probabile conseguenza l'ulteriore rinvio del negoziato di adesione della Croazia all'Unione europea.

Si potrebbe dire meglio tardi che mai. Ci sono voluti infatti parecchi anni perché il comportamento del Tpi cominciasse ad apparire meno unilaterale, senza dimenticare naturalmente i dubbi sul suo fondamento giuridico e il fatto che fu istituito a suo tempo per volontà del governo americano nel quadro della sua politica anti-jugoslava ed anti-serba. E dando atto a Carla Del Ponte delle sue iniziative odierne, non si può certo dimenticare che mentre negli anni '90, e particolarmente ai tempi del Kosovo, gli Usa e alleati demonizzavano il serbo Milosevic - sotto processo all'Aja dal febbraio 2002 - il presidente-dittatore croato Franjo Tudjiman, colpevole della spietata pulizia etnica contro i serbi di Krajna e Slavonia e dei massacri della "Operazione tempesta" del 1995, era rispettato, riverito e aiutato solo perché fedele alleato dell'Occidente.

Ed è proprio di quei crimini che il generale Ante Gotovina è oggi accusato all'Aja: il capo di imputazione fa infatti esplicito riferimento alla uccisione di 150 serbi e alla deportazione di altri 150 o 200 mila, oltre che alla distruzione e al saccheggio di case e di interi villaggi.

Il dato clamoroso degli sviluppi odierni è che il procuratore Del Ponte accusa apertamente la Chiesa croata di tenere Gotovina nascosto in un convento francescano e il Vaticano di «rifiutarsi totalmente di collaborare» per risolvere la questione. «Secondo informazioni da me ottenute - ha detto la Del Ponte - Gotovina è nascosto in un convento francescano e quindi il Vaticano lo sta proteggendo. Dicono (in Vaticano, ndr) di non avere informazioni, ma non ci credo. Credo che la Chiesa cattolica abbia tra le più avanzate reti di informazione e di intelligence»; se volessero, ha aggiunto ancora, potrebbero localizzare «nel giro di pochi giorni» il convento in cui è nascosto.

Santa Sede e governo di Zagabria negano invece di sapere alcunché e mettono in dubbio che Gotovina si trovi in Croazia. Ma la cosa non deve sorprendere. Al clima di esasperato nazionalismo alimentato negli anni '90 dal regime di Tudjiman la Chiesa cattolica di Croazia ha dato un contributo consistente e diretto; e il partito del presidente, l'Hdi, che ha ancora largo seguito nel Paese, era arrivato a rivalutare uomini e simboli della Croazia fascista di Ante Pavelic, tutt'ora citato da molti parroci nelle loro preghiere. Nessuna sorpresa che in questi ambienti il generale Ante Gotovina sia considerato addirittura un "eroe nazionale" e goda quindi di coperture e protezioni.

Quanto al Vaticano, nel 1990-91 fu proprio il suo affrettato riconoscimento della indipendenza di Slovenia e Croazia a contribuire allo scoppio della guerra nella ex-Jugoslavia; e d'altronde la Croazia cattolica è vista come un vero e proprio punto di forza della Chiesa nella penisola balcanica (nelle attenzioni dello stesso Papa Wojtyla fu seconda soltanto alla Polonia).

Il Tpi avrà dunque da penare non poco se vorrà davvero arrivare a vedere Gotovina sul banco degli accusati, tanto più che si avvicina la scadenza (il 2008) entro cui dovranno essere conclusi i processi di primo grado. Oggi ce ne sono in corso nove (su 116 celebrati, 37 dei quali con condanne definitive in maggioranza contro serbi); il più importante fra gli attuali è quello contro Slobodan Milosevic, attualmente nella fase delle testimonianze della difesa, citate dallo stesso ex-presidente serbo che non riconosce l'autorità del tribunale e si difende da solo, nonostante si sia cercato di impedirglielo in tutti i modi.

Carla Del Ponte ha anche rinnovato più volte l'invito al governo di Belgrado a consegnare i due ricercati eccellenti serbo-bosniaci Radovan Karadzic e Ratko Mladic, per i quali peraltro non c'è nessuna prova che siano nei confini della Serbia (di recente le stesse forze Nato hanno compiuto dei blitz per catturare Karadzic, ma nel territorio della Repubblica Srpska di Bosnia); secondo il procuratore tuttavia la Serbia «può prendere Mladic e consegnarlo in poco tempo, ma evidentemente per motivi politici non è pronta a farlo». Forse fra quei «motivi politici» c'è anche il fatto che al momento del sequestro di Milosevic, con un brigantesco colpo di mano, per consegnarlo all'Aja, l'allora primo ministro Zoran Djinjic (poi assassinato a Belgrado nel 2003) aveva ricevuto dagli Usa promesse di aiuti economici che poi non sono state mantenute.

Sta di fatto tuttavia che nel gennaio scorso il ministro degli Interni della Repubblica Srpska, Darko Matijasevic, aveva accompagnato all'Aja Savo Todovic, già direttore del carcere di Foca in Bosnia orientale, accusato di avere deciso la vita o la morte di un gran numero di civili musulmani; e nel consegnarlo al Tpi (con il suo assenso) aveva definito «intensa e molto buona» la collaborazione con le autorità di Belgrado e aveva aggiunto che erano in corso trattative per la consegna, o l'auto-consegna, «di altri ricercati».

Ma, dicevamo in principio, non ci sono solo i serbi e, adesso, i croati. C'è nella lista ad esempio anche l'ex-ministro degli Interni della Macedonia Ljube Borkovski, con la sua guardia del corpo Johan Tarculovski, accusati dell'omicidio di civili albanesi e contro i quali fu emesso un mandato nel marzo scorso; c'è l'ex-comandante dell'Uck albanese in Macedonia Ali Ahmeti, poi diventato segretario dell'Unione democratica per l'integrazione entrata nel governo; e ci sarebbe anche l'ex-generale Gezim Ostreni, anch'egli già comandante dell'Uck e poi vice-presidente del Parlamento di Skopje; senza dimenticare l'ex-primo ministro del Kosovo sotto tutela Nato Ramush Haradinaj, consegnatosi al tribunale ancora nel marzo scorso. Come si vede ce n'è (finalmente) per tutti, con una sola vistosa eccezione, che a sua volta la dice lunga sulla reale natura del Tpi: i crimini commessi dalle forze della Nato durante la guerra del 1999, quelli che venivano cinicamente definiti «effetti collaterali». Di fronte a questi crimini il Tribunale dell'Aja non ha potuto (o non ha voluto) fare altro che ritenersi incompetente. Come se non fossero crimini commessi «nella ex-Jugoslavia».


sinistra
Il Tempo 21.9.05

Fausto e Romano, l’idillio è già finito
Il segretario del Prc rimarca le differenze che lo distinguono dal leader del centrosinistra

TRA Bertinotti e Prodi l’amore è già finito. Il segretario del Prc, ieri a Pisa per il suo tour elettorale, ha infatti voluto sottolineare in maniera netta le differenze che lo separano del Professore. Lo ha fatto in modo garbato, secondo il suo stile consueto, ma Fausto Bertinotti l’ha detto chiaramente: io e Prodi non siamo la stessa cosa. A chi gli domandava maliziosamente se il suo partito dovesse essere considerato affidabile in una prospettiva di governo di centrosinistra, Bertinotti ha ricordato che, nel 1998, il suo sostegno al Professore venne meno quando quest’ultimo decise di adottare una politica di risanamento, anziché una di protezione dei salari. Secondo il segretario del Prc, quest’ultima sarebbe l’unica politica possibile per un governo di sinistra, mentre alla prima corrisponderebbe un segno di destra. Difficile pensare che questo schema sia esente da un fattore propagandistico dettato dalla famosa competition. Ma ciò non esclude che parole come «statalizzazione», «stabilizzazione», «lotta di classe su scala globale», più volte pronunciate ieri da Bertinotti, suonano come una spina nel fianco per chi pensava che questi termini fossero stati estromessi dal lessico politico. Spine che potrebbero trasformarsi in macigni, qualora fossero supportate da un consenso rilevante per il segretario di Rifondazione, ipotesi che molti tendono a non scartare. Lo sa bene ormai anche il diretto interessato il quale, quasi a giocare con i timori dei suoi avversari, ha commentato con un beffardo «buon auspicio» il risultato del sorteggio dei nomi da stampare sulla scheda per le primarie, dal quale è uscito vincitore. Meno soddisfatto il suo diretto avversario Romano Prodi che ieri ha dovuto incassare i fischi di alcuni giovani aderenti ad Azione universitaria (l’associazione universitaria di Alleanza Nazionale). Il Professore, arrivando all’Auditorium in cui si stava presentando la relazione annuale sullo stato delle università italiane, redatta dalla Conferenza dei rettori, è stato contestato dagli studenti. Il leader dell’Unione, però, non ha voluto dare troppa enfasi all’accaduto limitandosi a fare una battuta sulla sua posizione nella scheda elettorale nelle elezioni primarie. Professore, le hanno affidato il numero sei, cosa ne pensa? è stata la domanda dei cronisti. «Mi è capitato il sei, vorrà dire che gli elettori mi voteranno al numero sei».

sinistra
Il Tempo 21.9.05

Soglia al 50%, Prodi rivede le sue stime
Il Professore spera di superare la metà dei voti alle primarie. Prima dell’estate puntava al 70%
Il vincitore designato ondeggia e cala nei consensi. Cresce invece Bertinotti che punta al 25%, tra il 2 e il 5% gli altri candidati
di Silvia Santarelli

UNA cosa è certa alle primarie del centrosinistra. Bertinotti sarà il numero 1. E non si tratta di un sondaggio segreto o di un previsione spericolata. Ma solo della notizia che nell’estrazione dell’ordine dei nomi per la scheda delle votazioni è uscito abbinato al primo posto il leader di Rifondazione. È cominciata così con una "lotteria" la corsa ufficiale alle primarie, la consultazione che il 16 ottobre designerà il candidato premier del centrosinistra. Romano Prodi, il vincitore designato, per ora ha incassato la prima sconfitta. Infatti sarà semplicemente il sesto sulla scheda e poi gli altri cinque (Mastella, Pecoraro Scanio, Di Pietro, Scalfarotto e la senzavolto Simona Panzino) in ordine sparso così come ha deciso la sorte. Il Professore non sembra averla presa troppo sportivamente e a chi gli chiedeva se questo potesse essere un handicap ha risposto seccamente: «Sono il numero 6? Vorrà dire che la gente voterà il numero 6». Ma è probabile che non sia tanto il numero 6 a impensierire Prodi, quanto altre cifre. Per esempio la percentuale che riuscirà a raccogliere la sua candidatura e il numero complessivo di italiani che si recherà alle urne. Infatti in questi mesi quella che doveva essere una felice consacrazione è diventata una vera prova a campo aperto. Con tutti gli altri candidati pronti a battersi fino in fondo. Certo a meno di veri stravolgimenti dovrebbe essere lui, l’ex commissario europeo, a vincere. Ma in questi casi il «come» è fondamentale. Quanti voti e che percentuale: è questo l’assillo dei prodiani. Le previsioni iniziali parlavano di un Professore largamente sopra il 70% dei consensi, ma oggi è chiaro che difficilmente riuscirà a raggiungere il 60%. Anche se qualora i votanti fossero tanti, tantissimi (almeno un milione e mezzo), sarebbe comunque un’investitura (con 800mila voti ci si può sentire piuttosto forti nel correre per governare il Paese). Ma i più pessimisti guardano Prodi e lo vedono intorno al 50%, gli apocalittici un gradino sotto. Per rassicurare e incoraggiare il Professore dice agli amici: «Io posso vincere anche di un solo voto in più, l’importante è che vadano a votare in tanti». Anche se facnedo un po’ di calcoli non è poi così difficile immaginare quanto prenderanno gli sfidanti. Per prima cosa si deve moltiplicare per due le percentuali dei vari partiti (perché rispetto alle normali consultazioni elettorali bisogna considerare i voti del centrosinistra come totale) per avere le percentuali dei vari candidati con i partiti alle spalle, e assegnare a ciascuno degli outsider almeno un 2%, che non gli si può negare. Mastella è convinto che lui al 5% ci arriva senza problemi, raccogliendo voti soprattutto nei piccoli centri. E poi è sicuro: «I miei ci andranno tutti a votare, per i grandi partiti è diverso». Pecoraro Scanio punta a stare tra il 4% e il 5%. Di Pietro il suo 5% è convinto non farà fatica a conquistarselo. Ivan Scalfarotto può trovare un suo pubblico tra chi vede in lui un personaggio fuori dagli schemi, libero di portare avanti le battaglie culturali più radicali. E poi ci sono i noglobal. Loro pensano di riuscire a trovare 40-50mila persone che votino la candidata senza volto. E quindi anche a lei un 2%, se non addirittura qualcosa di più. E poi c’è Bertinotti. L’atteso exploit di Bertinotti. Come minimo può arrivare al 18% ma se fa il pieno dei voti di tutti quelli che vogliono che l’asse del centrosinistra penda a sinistra può raggiungere anche il 25%, nella più rosea delle previsioni. E infatti sembrerebbe che Prodi consideri Bertinotti il suo vero avversario. Questo spiegherebbe perché negli ultimi tempi ha preso posizioni tanto di sinistra. Basti pensare alle dichiarazioni sui Pacs, i patti civili di convivenza, sui quali si è espresso apertamente in sostegno (salvo poi tirare il freno per paura di farsi troppi nemici nella Chiesa e tra i moderati dell’Unione). Ma era già successo di recente, quando aveva detto che la legge Biagi sul mercato del lavoro poteva essere ritirata, proprio per andare incontro alle richieste della sinistra più radicale. Comunque, ragionando e contando, Prodi dovrebbe essere intorno al 55%. Vedremo. Il giorno del giudizio non è lontano. Il 16 ottobre saranno circa 8500 i seggi per le primarie, sparsi in tutta la penisola. Tra bocciofile, circoli sportivi e teatri almeno un milione - stando alle cifre ufficiali dichiarate da Vannino Chiti, ds, coordinatore dell’ufficio di presidenza delle primarie - dovrebbero essere gli italiani che passeranno una domenica a scegliere una delle 7 anime del centrosinistra. Potranno votare tutti i cittadini italiani aventi diritto, gli extracomunitari residenti in Italia da almeno 3 anni (previa iscrizione agli uffici delle primarie), gli italiani residenti all’estero e, se si trova un accordo con il ministero della Giustizia, anche i carcerati. A tutti sarà chiesto semplicemente di sottoscrivere la carta dei principi dell’Unione e lasciare un euro. Alle primarie in Puglia la pioggia portò fortuna a Vendola, il candidato di Rifondazione. Prodi aspetterà il sole.

sinistra
AGI Roma, 22 settembre 2005 - 11:10

SINISCALCO: BERTINOTTI, SOLA SOLUZIONE LE DIMISSIONI DEL GOVERNO

"Da tempo al Paese si sarebbe dovuta evitare l'impotenza di un governo in agonia. Le elezioni anticipate sarebbero state l'unica soluzione politica di una crisi in fieri fin da quando il governo aveva perso la maggioranza reale del Paese e le sue divisioni interne investivano il senso stesso della coalizione governativa. Ma ora ogni limite viene travolto dalla crisi della maggioranza di governo. A farne le spese e' il Paese che ogni giorno vive problemi che l'attuale governo non puo' neanche immaginare di affrontare, a partire da quelli drammatici e irrinviabili di lavoratori che rischiano il posto di lavoro". Lo afferma il segretario del Prc, Fausto Bertinotti, che aggiunge: "Si dovrebbe avviare la discussione parlamentare sul lato piu' impegnativo per il governo del Paese: la legge finanziaria. Invece il Parlamento viene addirittura tenuto all'oscuro di quanto sta accadendo in queste ore. L'abbattimento del potere d'acquisto in cui vivono le popolazioni, problemi drammatici come quello della casa e altri assai impegnativi come tutti quelli riguardanti lo stato sociale e le politiche sociali, chiedono risposte urgenti. Al contrario, si dimette il ministro dell'Economia, cioe' il primo responsabile chiamato ad avanzare le proposte su questo terreno. Il governo e' allo sbando, il Paese in crisi. C'e' una sola soluzione politica: le dimissioni del governo e le elezioni anticipate attraverso le quali la parola passa agli elettori". (AGI)

cattolici: se li conosci li eviti
La Stampa 22.9.05
LA LEGITTIMAZIONE RELIGIOSA UNA SUGGESTIONE PERSINO PER GLI ATEI DICHIARATI
E tra i politici spuntano cattolici di tutti i colori

ROMA. Le opinioni di Camillo Ruini sono un’indebita ingerenza del Vaticano nella vita di uno Stato laico? Politica e religione devono procedere indipendentemente l’una dall’altra? Difficile, visto che molti partiti si dichiarano cattolici, e molti leader vantano scoperte familiarità con il clero. Ma esistono parecchie forme di cattolicesimo, occasionali o deviate, però ripetute, anche in movimenti e in politici all’apparenza laici. E che rendono più complicate le pretese di emancipazione.
ANTONIO BASSOLINO (Ds), governatore della Regione Campania. Cattolico feticista. Da dodici anni consecutivamente assiste al miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro. Anche l’altro giorno, appostato in prima fila, ha baciato l’ampolla che gli poneva il cardinal Giordano. Va molto orgoglioso dell’ufficio di rappresentanza della Campania aperto a New York, Manhattan, inaugurato con una mostra di statuine da presepio dell’Ottocento.(...)
SANDRO BONDI (Forza Italia). Cattolico scalfariano. Come l’ex Presidente della Repubblica è devoto alla Vergine Maria. A differenza di Scalfaro - che nel 1950, a 32 anni, manifestò la sua idea di verginità e santità insultando una donna con le spalle nude in un ristorante - Bondi proviene dal partito comunista, di cui fu segretario della Federazione giovanile. Ora lo si vede spesso portare fiori alla Madonna di Loreto.
UMBERTO BOSSI (Lega Nord). Cattolico secessionista. Nel Ferragosto del 1997, a Ponte di Legno, attaccò il «Papa polacco» e il «nazionalclericalismo», e si prese i duri rimproveri di tutti i politici cattolici, più quelli di Cossutta («sono insolenze da respingere»). Balla fra il paganesimo col dio Po e la Consulta cattolica che fu guidata da Irene Pivetti. Paragona le gerarchie vaticane alla mafia (meno, dopo la malattia) ma difende il crocefisso e le radici cristiane.
LUCA CASARINI (Movimenti no global). Cattolico senza volto. Nonostante la fama in calo, rimane l’esponente più noto dei gruppi antagonisti. Posto il problema di una candidatura alle primarie, i no global pensarono dapprima a don Gallo, poi a don Vitaliano. Sfumate le nomination, si è ripiegato sul candidato senza volto. Ma forse non senza fede.
MASSIMO D’ALEMA (Ds). Cattolico navigato. «Dicono che la fede è un dono. Io non l’ho ricevuto», ha detto sul palco del Maurizio Costanzo Show. Da politico scafato, è però attratto dalla Chiesa come struttura di potere. Nel 2002 presenziò in San Pietro alla santificazione del fondatore dell’Opus Dei, José María Escrivá de Balaguer. Nell’occasione dichiarò: «Questa canonizzazione è un grandissimo evento che non può passare inosservato. Sono qui anche per il rispetto che si deve alla Chiesa cattolica, alle sue istituzioni, alla sua storia, ai suoi testimoni, ai suoi simboli: ed il nuovo santo Escrivá de Balaguer è certamente uno di questi».
GIANFRANCO FINI (An). Cattolico progressista. Leader cristiano di un partito (fondamentalmente) cristiano, stupisce semmai per i molti strappi dalla linea ufficiale: sulla fecondazione assistita e sui pacs, per esempio. Così piace sempre di più ai laici progressisti, come dopo i riposizionamenti con la visita a Gerusalemme o con la dichiarazione sul male assoluto delle leggi razziali.
MARCO PANNELLA (Radicali italiani). Cattolico ingerente. Quando, il 14 novembre 2002, papa Paolo Giovanni II andò in Parlamento chiedendo un atto di clemenza per i carcerati, Pannella non parlò di ingerenza nella vita politica e istituzionale. Anzi, lo scorso 3 aprile il guru radicale ha detto: «Sarebbe stato importante che il provvedimento, amnistia o indulto, fosse giunto prima della morte del Papa che lo aveva chiesto, a ragione, in occasione della sua visita al Parlamento italiano».
MARCELLO PERA (Forza Italia), presidente del Senato. Cattolico meticcio. «Chiedo a Dio di non convertirmi in punto di morte», ha dichiarato a Renato Farina dopo aver aperto l’ultimo Meeting di Comunione e liberazione. Ateo e cresciuto sui testi di Karl Popper, a differenza di tanti credenti è sempre in sintonia col Vaticano, sulla fecondazione assistita, sulle radici cristiane, sui matrimoni gay. Ha firmato libri con Joseph Ratzinger ma non si sente altro che un compagno di viaggio. Per ora.
FRANCESCO RUTELLI (Margherita). Cattolico folgorato. Il passato giovanile di furente militante radicale, libertario e mangiapreti, viene tirato in ballo ogni volta che si allinea alle posizioni della Cei. Ma ha consacrato il matrimonio all’altare e non perde occasione per far visita alla tomba di San Padre Pio. All’inaugurazione della nuova chiesa di San Giovanni Rotondo, dichiarò: «Sono un forte devoto di Padre Pio».
NICKI VENDOLA (Rifondazione comunista), governatore della Regione Puglia. Cattolico eretico. Gay dichiarato, da bambino era chierichetto e nell’Azione cattolica ma detestava il «machismo sportivo» dei piccoli colleghi. Si i- spirava a San Domenico Savio e, più avanti, fu vicino al vescovo di Molfetta, don Tonino Bello. «Non sono mai stato affascinato dall’ateismo», dice, e continua ad andare a messa.

storie dell'ateismo
La Stampa 22.9.05

RIBELLI SANGUINARI E ROMANTICI: UN SAGGIO SIMPATIZZANTE
I pirati del Settecento
marxisti senza saperlo
di Andrea Scanzi

«IL loro era il terrore del debole contro il potente.
I marinai semplici che diventavano pirati mettevano in luce i problemi di classe; gli ex schiavi africani o afro-americani che passavano alla pirateria ponevano l'accento sui problemi razziali; e i pirati donna lo ponevano sulle convenzioni di genere». È uno dei passaggi centrali di Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria (ed. Elèuthera, pp. 188,e17), scritto dallo studioso americano Marcus Rediker.
L'analisi è incentrata sulla fase terminale del fenomeno, i primi tre decenni del Settecento. «Due concezioni, l'una cristiana e provvidenziale, l'altra marinara e sociale, si fronteggiavano in un conflitto cosmico». Uno scontro tra due terrori diversi. Quello del potere e quello dei pirati. Il potere erano i preti, i funzionari regi, le persone abbienti. La pirateria rappresentava un rischio destabilizzante, da qui l'intensificazione della pena capitale. Soltanto tra il 1716 e il 1726 furono effettuate 4418 impiccagioni dei briganti del mare. Un pirata su dieci finiva sulla forca, uno su quattro decedeva per morte violenta, e forse il rapporto arrivava a uno su due.
Per uomini come Cotton Mather, potente reverendo di Boston, i pirati erano «colpevoli di tutti i peccati» e andavano «estirpati dal mondo». Il pirata non poteva invocare il beneficio di alcuna legge, «gli era negata la comune umanità e gli stessi diritti naturali». Durante il processo non poteva parlare, perché «potrebbe giustificarsi, e questo sarebbe un affronto alla Corte». Era previsto che il condannato fosse terrorizzato, «la paura e l'orrore dovevano sovrastarlo», nella speranza che questo portasse a un suo pentimento pubblico, davanti al popolo pronto a spiarne «i colli torti e le braghe bagnate».
Al contrario, ottennero quello che Fabrizio De André ha riassunto nella Ballata degli impiccati:
«Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l'odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso».
Rediker, pur sottolineando che anche i pirati si macchiarono di atrocità, specie nella fase finale (dal 1722 al 1726), non nasconde simpatia per chi, emarginato e povero, scelse quella vita. Dove il libro maggiormente convince, è nel tratteggiare la psicologia dei pirati. Ribelli ora sanguinari e ora romantici, come Henry Avery, «il Robin Hood del mare». Uomini che al patibolo preferivano il suicidio, perché «dannato sia colui che vive fino a portare il cappio». Che cercavano l'oro, non per nasconderlo ma per spenderlo subito.
Nella cultura pirata, la centralità era costituita dall'onnipresenza della morte, l'impulso apocalittico, il credo eterodosso, l'umorismo nero. Una centralità anche simbolica, come dimostra la loro bandiera nera, la «Jolly Roger» («allegro diavolo», ma anche «felice fallo»). Al centro, un teschio bianco; in una mano un dardo che colpisce un cuore sanguinante, nell'altra una clessidra. Morte, violenza, tempo limitato: i simboli per terrorizzare le prede, desunti dall'iconografia cristiana. Lo scheletro rappresentava il «Sinistro mietitore» con falce e clessidra. Per i credenti avrebbe dovuto trasportare l'anima del defunto in cielo, ma ai pirati quella destinazione non interessava. Si riconoscevano piuttosto in Lucifero, e un bandito come Barbanera coltivava scientemente un'immagine di se stesso simile a quella di Satana. «L'inferno era un posto più allegro del cielo, e ai pirati piaceva l'allegria».
Se nello scontro con i governi dell'epoca hanno perso, oggi per Rediker i pirati risultano vittoriosi, perché «hanno osato immaginare una vita diversa. \ Sfidavano, in un modo o nell'altro, le convenzioni di classe, di razza, di genere e di nazione». Emblematica la risposta che un antico pirata, dopo la cattura, dette ad Alessandro Magno, quando questi gli chiese a cosa mirasse «prendendo possesso ostile del mare»: «Alla stessa cosa alla quale miri tu prendendo la terra intera. Ma, se lo faccio io con una piccola nave, sono chiamato ladro. Se invece lo fai tu, con una grande flotta, sei definito imperatore». Risposta che l'imperatore reputò colma d'insolente orgoglio, ma che piacque ad Agostino. «Adeguata e veritiera», così la commentò nella sua Città di Dio.

linguaggi
il manifesto 22.9.05

Molte lingue per dire l'Europa
Tre convegni - a Firenze, a Cluj in Transilvania, e a Venezia - si interrogano sulle strategie per alimentare una composita identità linguistica. Centrale è il contributo della letteratura, non solo in quanto costruttrice critica di miti, ma perché è da sempre il luogo privilegiato di rappresentazione dei limiti interni a ogni pretesa di dominio delle grandi narrazioni, che vorrebbero spiegare tutto
di REMO CESERANI

Dopo la pausa imposta dai risultati, in Francia e in Olanda, dei refendum sulla bozza di costituzione preparata dalla commissione Giscard d'Estaing, questo è un momento di estese riflessioni sull'Europa. Riflessioni da un angolo visuale particolare sono quelle che si stanno svolgendo tra gli studiosi di linguistica, impegnati nell'esame dei rapporti interculturali e delle questioni relative all'immaginario. Nei giorni conclusivi della scorsa settimana si è tenuto a Firenze, organizzato da Mario Domenichelli e dal Centro linguistico dell'ateneo fiorentino, un convegno intitolato I dialetti della tribù, che aveva al suo centro il problema delle lotte fra le lingue maggiori per conquistare l'egemonia, e la questione della sopravvivenza delle lingue cosiddette minori, perché parlate da comunità meno numerose. Vi si sono discusse, inoltre, le soluzioni da adottare a Bruxelles e a Strasburgo, presso la Commissione e il Parlamento europei. Nel frattempo, è in corso da ieri e durerà fino a domenica in Transilvania, all'università di Cluj, un convegno intitolato Gli immaginari d'Europa, organizzato da Corin Braga e dal Centro di ricerche sull'immaginario di Cluj, che ha sede in una situazione di delicato bilinguismo: in questa regione della Romania, infatti, è presente una forte minoranza di lingua e cultura magiara. Nella seconda metà della settimana si terrà, poi, a Venezia, per celebrare il cinquantenario della fondazione, avvenuta proprio nella città lagunare nel 1955, il convegno dell'Associazione internazionale di letterature comparate (Ailc-Icla) intitolato A partire da Venezia: eredità, transiti, orizzonti: temi molto ampi, proiettati su sfondi globali, con al centro una città europea dalla vocazione cosmopolita, ma anche fortemente caratterizzata, presente in modo ossessivo nell'immaginario letterario e artistico degli ultimi secoli, da Ruskin a Proust, da James a Mann, da Hofmannsthal a Brodskij.

Due domande ai linguisti
Sono numerose le domande che devono porsi gli studiosi di linguistica, di letteratura e di studi culturali quando affrontano la questione dell'Europa; e molte, come risulta da relazioni e programmi dei tre convegni ricordati, sono le spinte a cercare, obbedendo a un vero e proprio «inconscio politico», un qualche aiuto nei miti letterari che contribuisca alla auspicata costituzione di una «identità» europea. Nessuna sorpresa: in molti dei paesi europei, soprattutto in quelli di più recente e artificiosa costruzione nazionale, i miti letterari sono stati nei secoli passati una grande risorsa, ampiamente saccheggiata per costruire i vari miti nazionali (o anche regionali e micro-regionali).

Due le domande che mi sento di rivolgere ai linguisti, e soprattutto a quelli fra loro che, come il saggio e pragmatico presidente della Crusca Francesco Sabatini, patrocinano la scelta dell'inglese, che considerano obbligata come lingua di comunicazione pratica; salvo poi desiderare che si stabilizzi - nelle istituzioni europee, nelle pratiche comuni e anche nelle scuole di tutti i paesi europei - la tendenza a mantenere e rafforzare l'uso, accanto all'inglese, delle quattro maggiori lingue (francese, tedesco, spagnolo, italiano) poste su un piano di parità. E si vorrebbe anche difendere l'uso, ciascuna nel suo ambito, di tutte le altre lingue (quelle dei paesi ammessi nella comunità, compreso il maltese e con in più, di recente, il riesumato gaelico). Tre, quindi, le lingue che dovrebbero essere insegnate nelle scuole di tutta Europa: l'inglese, come lingua di comunicazione pratica, la lingua materna, e una delle quattro grandi lingue, già ora presenti in vario modo nell'insegnamento.

La prima domanda è: quale collocazione pensiamo di dare alle altre lingue, di nazioni che ancora non fanno parte dell'Europa ma che vengono parlate in paesi che è difficile non considerare europei, come il russo e le altre lingue slave? O a lingue come l'arabo, fortemente presente in alcune delle nostre lingue (come lo spagnolo), parlato in paesi che per secoli sono stati parte integrante di un comune, anche se spesso conflittuale, spazio mediterraneo, e ora, per di più, diffuso tra noi da moltissimi immigranti? O a lingue di paesi che sono già ora protagonisti della scena mondiale, come il Giappone e la Cina e che presto vi eserciteranno ruoli determinanti?

Seconda domanda: come pensiamo di comportarci verso quei paesi nei quali la lingua veicolare coincide con la lingua materna e che non hanno nessuna ragione pratica per imparare non una terza ma neppure una seconda lingua? È vero quanto dicono alcuni linguisti, come Massimo Arcangeli, ossia che le comunità che non sono chiuse dentro un loro rigido monolinguismo (e ce ne sono tante in Europa, dal Belgio, alla Svizzera, alla Spagna alle tante regioni frontaliere dove da sempre si pratica il bilinguismo) sono più vivaci intellettualmente, più portate all'innovazione, più capaci di dialogare con tutti, socialmente più aperte e politicamente più democratiche? È il caso di sentire su questo punto i neuroscienziati e i cognitivisti? Se questa tesi avesse una qualche plausibilità non faremmo un buon servizio a coloro che parlano solo l'inglese accettando che si adagino pigramente nella loro situazione privilegiata.

Quando ci si rivolge agli studiosi di letteratura e dell'immaginario le domande si fanno ancor più numerose e assillanti. Da che parte state? Da quella, magari senza rendervene conto, di chi ha una concezione mitica dell'Europa e ne invoca le radici (greco-latine, cristiane, ecc.), come il filosofo romantico visionario Friedrich Novalis, il filologo romanzo Ernst Robert Curtius, l'utopista francese di estrema destra Pierre Drieu La Rochelle, la giornalista strapaesana e razzista Oriana Fallaci, il papa defunto e quello in carica, il presidente del Senato Marcello Pera che, filosofo di fragile scuola analitica, ha rivelato d'improvviso la sua profonda ignoranza della storia (o forse semplicemente il suo opportunismo e trasformismo politico) quando si è messo a dire, a una nazione di meticci, che corrono il pericolo di diventare meticci? Per non parlare di leader dell'estrema destra populista e razzista, i vari Jean-Marie Le Pen, Joseph Haider, Umberto Bossi, i quali hanno ricevuto un forte incoraggiamento alle loro sporche battaglie dalle posizioni fondamentaliste dei neo-con americani? Oppure state dalla parte limpida e ferma, sino all'astrattezza, di Jürgen Habermas, il quale ha scritto e ripetuto, in molte occasioni recenti, che per costituire una nazione, o una federazione di nazioni, non c'è bisogno di «una comunità di destini formati da una discendenza, un linguaggio e una tradizione comuni», perché è sufficiente una «comunità di cittadini»? E non c'è bisogno di una identità, perché basta una appartenenza, per costituire una «comunità civile, invece che etnica»? Una comunità alla quale si aderisce attraverso lo stesso processo democratico che la costituisce, e può nascere sulla base di interessi comuni e condivisi, sulla base di principi generali collettivamente elaborati e accettati, come la solidarietà, il welfare State, l'inclusione anziché l'esclusione sociale ed economica, e l'uso di mezzi per comunicare conoscenza e idee e per costruire ed espandere una «sfera pubblica»? Servono la letteratura e l'immaginario per questo? Sì che servono, soprattutto se si ricorda che la letteratura non è stata soltanto una costruttrice di miti (spesso, già con Omero, alcuni libri della Bibbia, Virgilio, Ovidio, una costruttrice di miti che ospitava al tempo stessa una sotterranea critica di quegli stessi miti, e ne accompagnava il racconto con la rappresentazione delle tragedie e dei disastri a cui essi potevano condurre); ma è stata - la letteratura - anche una aperta, corrosiva rappresentazione - con Ariosto, Cervantes e tanti testi della modernità - dei limiti di ogni sistema di valori assoluto e assolutizzante, di ogni pretesa di potere e di dominio esercitato dalle grandi narrazioni che tutto spiegano e tutto assumono in sé.

E ancora, viene da domandare, siete d'accordo con chi vuol delimitare attentamente (soprattutto verso l'est e verso il sud) i confini del continente europeo e tutto riportare sotto una visione uniforme e uniformizzante delle tante e diverse tradizioni culturali che hanno percorso quei territori nel corso della storia? Oppure siete d'accordo, per esempio, con uno spirito anticonformista e dissidente (pur nella sua fedeltà alla formazione calvinista e alla adesione al «personalismo») come il ginevrino Denis De Rougemont? Egli è stato un propagandista infaticabile della causa europea, e ha fatto molte volte l'elenco delle tante e diversificate radici delle nostre culture: l'idea giudeo-cristiana di un solo Dio, la visione profetica del mondo, il mito dell'incarnazione e crocefissione di Cristo (un tragico esempio di lacerazione, secondo lui, non di pacificazione e promessa di resurrezione), la battaglia contro la schiavitù e la solidarietà fra tutti gli uomini. È risalito alle grandi correnti filosofiche dei Greci, alle scienze naturali, alla logica di Aristotele, alla medicina di Ippocrate e di Galeno, al materialismo degli epicurei, all'etica degli stoici, alla pratica della storiografia, alle arti, al sentimento del tragico e a quello più leggero del comico. Dei Romani Denis De Rougemont ha ricordato l'eredità della istituzionalizzazione delle leggi e delle procedure giuridiche, l'organizzazione burocratica dello Stato e la tendenza unificante dell'ideale imperiale; dai Celti - invece - ci ricorda che abbiamo preso il gusto dell'avventura e della «quête», l'esperienza della sconfitta e della sua trasfigurazione, l'esperienza creativa dell'eccesso (la «dismisura»), la pratica della cavalleria; dai Celti e dai Germani ci viene il senso dell'onore individuale e la lealtà al proprio clan; dalla tradizione cristiana l'assorbimento e addomesticamento di quei valori, attenuati tramite la pratica dell'umiltà e dell'obbedienza a Dio (onde le avventure individuali di Lancillotto e degli altri cavalieri in uno stile al tempo tesso celtico, cistercense, cortese e cataro, cioè manicheo); dagli Arabi abbiamo mutuato il recupero delle scienze filosofiche greche, della matematica, dell'astrologia, della logica, e l'erotismo lirico. E così, via via, tutti gli apporti utili a suffragare la causa europea sono stati ricordati da Denis De Rougemont, fino al gran momento dell'illuminismo, della decristianizzazione, dei progetti di riforma radicale, passando per le eresie e le rivolte, le utopie e le prepotenze dispotiche del potere, le stragi, le guerre, la shoa.

Deviazioni prospettiche
A Firenze, durante il convegno sui «dialetti della tribù», i francesi e i fiorentini presenti devono avere avuto un sussulto di orgoglio, un moto di riconoscimento e di identità culturale, quando François Livi, con un intervento brillante, ha tracciato i rapporti tra Parigi e Firenze, in un momento, quello immediatamente precedente la prima guerra mondiale, in cui è sembrato che le due città esercitassero una funzione egemonica: Parigi su tutta Europa, Firenze su tutta l'Italia. Ma perfino in quel caso si trattò dell'illusione derivante da una scelta di prospettiva scambiabile con un'altra. Basta spostare lo sguardo su qualche altra città europea, per esempio sulla Vienna descritta da Schorske, con le sue straordinarie innovazioni nei molti campi della filosofia, della psicologia, della scienza, delle arti figurative, della letteratura, per avere l'impressione di trovarsi in quella che era, in quel momento, la capitale culturale d'Europa.

Oppure basta seguire, ancora una volta, lo sguardo dello svizzero De Rougement e guardare alla Zurigo di quegli anni, al cabaret Voltaire, alla nascita del dadaismo, alla presenza di Joyce, a quella di Lenin, per avere di nuovo l'impressione di trovarsi nella capitale (un tempo pacifista e rivoluzionaria) d'Europa. E la stessa conclusione, pur derivata da esperienze diverse, la si può trarre quando si guarda al ruolo che svolsero Berlino, Londra, Praga, Torino, e tante altre città. Le domande sono numerose, ma alla fine resta l'impressione che l'apporto alla costruzione dell'Europa, da parte degli storici della cultura e dell'immaginario, possa essere positivo solo se si insiste sulle differenze e si rinuncia alla ricerca di linguaggi, miti, tradizioni, radici, identità comuni.

BergamoScienza
Corriere della Sera 22.9.05
L’OPINIONE
Bisogna lottare contro i «diavoli della mente»
di GIOVANNI CAPRARA


Bergamo torna capitale della scienza. Per la terza volta la città diventa epicentro della cultura del vivere quotidiano; una cultura affascinante che sfida la voglia di crescere. La conoscenza scientifica «non è come aprire gli occhi e constatare che si è fatto giorno», ricordava Albert Einstein, di cui celebriamo i cento anni dalle sue memorabili scoperte capaci di ridisegnare il mondo. Erano parole espresse per incitare al piacere della scoperta, alla conquista di una visione della realtà nella quale l'uomo è artefice delle proprie fortune. Gli scienziati che ci accompagnano in questo futuro da costruire giorno per giorno, con umiltà e felicità, non sono sacerdoti di un sapere inviolabile. Proprio a Bergamo ci aiuteranno a spezzare il pane delle conoscenze maturate nei laboratori e spesso dilagate nella nostra quotidianità. E mentre Oliver Sacks ci rivelerà i segreti della mente e della creatività, John Barrow e Margherita Hack ci immergeranno nei misteri cosmici. Burt Rutan, invece, ci spiegherà come diventeremo tutti «turisti spaziali». Ma accanto alle grandi fughe della scienza potremo fare i conti anche con le promesse delle cellule staminali, con le prospettive e le paure dei cibi geneticamente modificati e le possibilità di difesa dalle terribili minacce del bioterrorismo.
A Bergamo ci immergeremo, dunque, in una «scienza umana» che accende la fantasia e aiuta a crescere meglio senza pericolose illusioni. A volte la scienza inquieta, come spesso accade con il nuovo quando ce lo troviamo di fronte. Ma la ragione e il sapere sono armi preziose per affrontare l’evoluzione nostra e del nostro mondo. Ci aiutano a sconfiggere i «diavoli della mente», come l’astrofisico Carl Sagan chiamava i pensieri irrazionali, le tendenze a credere nella falsa realtà. La fuga irresistibile nell’irrazionale è una malattia contagiosa che in questi anni sembra dilagare senza sosta, negando persino l’evidenza. In tal caso BergamoScienza sarà anche un’ottima terapia.

Repubblica Bologna 22.9.05

LA CITTÀ DEI SAPERI
Dal 29 in S. Lucia convegno di tre giorni con dialoghi-spettacolo e lezioni magistrali
Quando antichisti e scienziati incrociano Platone e Ippocrate
di ILARIA VENTURI

IL chimico che parla con il latinista, l´astrofisico e il politologo che dialogano con i filologi classici, l´architetto che si confronta con l´esperto di antichità romane, il professore di robotica biomedica che discute con lo storico della filosofia antica. A partire dai testi classici. Platone, Lucrezio, Plinio, Cicerone, Ippocrate, per citare alcuni autori. In altre parole, la scienza di fronte ai classici. E´ questa la nuova provocazione culturale lanciata dal Centro studi «La permanenza del classico» diretto da Ivano Dionigi: tre giorni di convegno, «Scientia rerum», dal 29 settembre al primo ottobre nell´aula magna di Santa Lucia, in cui illustri antichisti si confronteranno con autorevoli scienziati. Un dialogo possibile? La sfida sta nella risposta.
«Andare oltre le due culture significa restituire alla conoscenza lo spazio indispensabile nel quale possono maturare la ricerca e il pensiero critico», è l´idea di Dionigi che dopo aver lanciato le letture serali dei classici apre Bologna ad una nuova riflessione capace di volare alto. «I notturni in Santa Lucia erano per il piacere dell´anima, questo momento diurno è per il piacere del cervello». Dionigi sa bene che esistono confini in questo dialogo tra i saperi. «Nessuna confusione, la specificità della chimica non è quella della filologia classica, ma la riflessione sulla unicità degli scopi e anche del metodo, questa sì che è necessaria e urgente. Pensate al pensiero greco che è un pensiero plurale: è sale benefico per la scienza che deve essere sperimentale, non dogmatica». Il chimico Vincenzo Balzani conferma: «C´è bisogno di ricomporre questa frattura ed anche quelle esistenti tra le stesse discipline scientifiche. Il rischio è l´isolamento». Carlo Galli discuterà di democrazia ed élites con Luciano Canfora: «Il rapporto della cultura politica moderna con la polis e il suo mito è una delle chiavi di interpretazione del pensiero politico». Le giornate di studio - già ottocento sono le adesioni - sono state pensate a sessioni precedute da lezioni magistrali affidate al grande comparativista George Steiner, allo scrittore Daniele Del Giudice, al filosofo Giulio Giorello, al matematico Piergiorgio Odifreddi. Seguiranno i duelli culturali tra umanisti e scienziati: gli antichisti Mario Vegetti, Ivano Dionigi, Luciano Canfora, Elio Lo Cascio, Luciana Angeletti, Filippo Coarelli, Wolfgang Hubner, Giuseppe Cambiano; gli scienziati Edoardo Boncinelli, Vincenzo Balzani, Carlo Galli, Paolo Onofri, Giorgio Cosmacini, Francesco Dal Co, Giovanni Bignami, Paolo Dario. Sabato, chiuderà la tavola rotonda «Le conoscenze nel tempo: continuità e discontinuità» a cui interverranno, moderati da Paolo Rossi, Enrico Bellone, Massimo Cacciari, Andrea Giardina e Carlo Alberto Redi. Al convegno sarà anche presentato un progetto pilota di Ateneo sull´antichità classica e i linguaggi delle scienze.
«Servirà - spiega il prorettore Luigi Busetto - ad andare incontro alle esigenze dei colleghi che riscontrano sempre più negli studenti un deficit di cultura di base e di senso di prospettiva storica». Per informazioni e adesioni al convegno: 051 2098539.

il manifesto 22.9.05
Aborto, la pillola che non va giù
Il ministro della Salute, Francesco Storace, blocca la sperimentazione della RU486.
I medici: «Andremo avanti lo stesso»
di IAIA VANTAGGIATO

ROMA. Scordiamoci - dopo i Pacs, la fecondazione assistita eterologa e la ricerca sugli embrioni - anche la pillola abortiva. Il ministro della salute Francesco Storace ha sospeso ieri la sperimentazione della RU486 in corso presso l'ospedale Sant'Anna di Torino. A motivare la sua decisione, quella che viene definita «la cattiva gestione dell'ospedale». Sarebbero stati gli ispettori stessi dell'Agenzia del Farmaco inviati sul posto per controllare le procedure - ha affermato Storace - a denunciare una serie di irregolarità. Tra queste, «persino il caso di una paziente che ha avuto un'espulsione parziale, con seguito emorraggico, fuori dal ricovero ospedaliero».

Uno scenario pulp che i sanitari della struttura torinese smentiscono: «Mi meraviglia questa decisione - dichiara Marco Massobrio, responsabile insieme a Mario Campogrande del progetto di ricerca sulla pillola abortiva - perché la sperimentazione non solo era stata già approvata dal ministero della Salute ma aveva avuto anche l'ok del Comitato etico dell'ospedale». Una sperimentazione - giurano i medici del Sant'Anna - che continuerà checché ne pensi Francesco Storace.

Il cui intervento - oltre che a perlustrare gli alti cieli dell'etica - insiste su un terreno squisitamente politico di cui non manca di accorgersi Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte: «E' un fatto inaudito e un abuso, Storace dovrebbe vergognarsi della sua decisione. Politicamente ritengo l'accaduto una scorrettezza inaudita che non mi sarei mai aspettata da un ministro che è stato presidente di regione sino a poco tempo fa».

Ma il capo della destra sociale non si fa intimidire. Per lui, le dichiarazioni della Bresso sarebbero solo che gravi: «Nella mia decisione c'è semplicemente la volontà di far rispettare le norme di legge. Ho fatto solo il mio dovere a tutela della salute della donna».

Che il ministro pensi a favorire - è il batti e risposta che arriva dal Congresso di ginecologi ed ostretici riuniti a Bologna - il legame tra la donna che prende la pillola antiabortiva e le strutture assistenziali ospedaliere. E che pensi pure a sollecitare la cultura della contraccezione. «Non vi è alcun dubbio - è il parere di Domenico de Aloyso, co-presidente del Congresso - che la scelta abortiva sia un fallimento della contraccezione e che per la donna rappresenti comunque un lutto. La RU468 è solo una via meno traumatica».

Contro l'ex governatore del Lazio - nonché attuale paladino della sanità e delle donne italiana - sono molti ad insorgere: «Illiberale e ideologica» viene definita da Daniele Capezzone dei Radicali italiani la decisione del ministro mentre insorge la sinistra piemontese: di «intrusione inopportuna» parlano i comunisti italiani, il Prc denuncia gli atti oscurantisti «che non tengono conto del principio del diritto alla libertà e del principio di autodeterminazione della donna», mentre i Ds auspicano che «agli aspetti formali contestati nella decisione del ministro venga dato il peso che meritano». Prima, sia chiaro, viene la salute fisica e psicologica della donna che all'interruzione di gravidanza ricorre.

La protesta si è rapidamente estesa oltre i confini piemontesi. «Ancora una volta - commenta di Barbara Pollastrini, responsabile donne dei Ds - il ministro della Salute si distingue per il suo accanimento contro le donne». Al proposito vale in effetti la pena di ricordare la sua battaglia contro i consultori. E di caccia alle streghe parla la deputata verde Laura Cima.

Per fortuna a supportare il ministro - prima dell'ormai certo intervento del Vaticano - rimane la sua sottosegretaria, Elisabetta Alberti Casellati che conciona: «Quando non si conoscono i motivi di una decisione è meglio non fare demagogia se la posta in gioco è la vita». O ancora la Lega Nord, che plaude all'iniziativa del ministro della Salute insieme ad un ringalluzzito Movimento per la vita vivamente soddisfatto per il blitz.

Udc e Margherita? Pesci ancora in barile, visti i tempi: per Volontè, Storace «è un ministro attento e il suo è un atto di buon senso». Quanto al partito di Rutelli è la solita solfa: cautela, non esponiamoci troppo, aspettiamo il Vaticano.