venerdì 7 ottobre 2005

sinistra
Corriere della Sera 7.10.05

L’INTERVISTA
Il capo prc: linea giusta sull’Iraq ma dica che è anti Usa
Bertinotti: Afghanistan Romano ha idee datate
«Primarie nel caos, rischiamo di indebolirle»
di Gianna Fregonara


ROMA - Fausto Bertinotti, Romano Prodi ha detto che non sarà lei a fare la politica estera dell’Unione...
«Sono d’accordo».
... la farà chi vince le primarie.
«Abbiamo stabilito regole democratiche nell’Unione, di cui le primarie sono un momento importante».
Accetterete il programma di Prodi se vincerà il 16 ottobre?
«Non esiste il programma di questo o quel candidato, perché ci sarà il programma dell’Unione che non verrà fatto né da chi vince né dal premier: non deve essere octroyé, calato dall’alto. A gennaio non a caso faremo un’assemblea programmatica, che mi auguro sia aperta anche alla società civile e al movimento pacifista con il quale già dialoghiamo da tanto tempo».
Alla vigilia delle primarie il candidato di Rifondazione Fausto Bertinotti è più preoccupato per la carenza di informazioni ai cittadini sulle consultazioni dell’Unione, che per il programma:
«Gli elettori non sanno ancora dove e come si vota, c’è una carenza di informazione che ci fa rischiare di perdere una grande occasione di democrazia, di indebolire l’esito delle primarie».
E a Romano Prodi che, nell’intervista al Corriere, parla dei temi di politica estera, ribatte:
«Non si può dire che l’Iraq è un errore senza ammettere che l’Atlantico è più largo».
Prodi annuncia che se vincerà avvierà consultazioni per il ritiro dall’Iraq.
«Bene. C’è convergenza. E non solo su questo, ma anche sull’assunzione dell’articolo 11 come punto di riferimento della politica estera, cioè il rifiuto della guerra, sull’idea che lo strumento militare non risolve contese internazionali, sul dissenso con gli Stati Uniti sull’Iraq. Penso che tutta questa parte così com’è possa finire nel programma dell’Unione».
Mentre invece...
«Mentre invece quello che non mi convince è l’assunto di Prodi che la conseguenza di questa scelta sulla guerra non comprometta il rapporto con Washington. Quando Prodi dice che l’Europa deve guadagnare la sua autonomia in politica estera, dice una cosa importante: ma questo vuol dire che l’Europa, e l’Italia per la sua parte, deve chiedere l’abbandono della guerra preventiva, mettere in discussione la dottrina americana. Non può considerare l’Iraq una parentesi: l’Iraq non è che l’applicazione di una teoria, quella dell’unilateralismo e unipolarismo americano. Allora non si può essere in disaccordo sulla visione del mondo e dire che non cambia niente».
Cioè se si mette in discussione la guerra preventiva e la dottrina Bush bisogna avere il coraggio di dire che si è antiamericani?
«Certo, l’Atlantico è più largo. Questo non vuol dire che non siamo tutti uniti nella lotta al terrorismo, che è contro l’umanità. Ma l’Europa deve avere una politica di lotta al terrorismo diversa dalla visione imperialista americana. Noi dobbiamo combattere il terrorismo nei Paesi che ne sono afflitti con la lotta alla povertà, il rifiuto della guerra, e non ultimo con la soluzione del conflitto in Medio Oriente».
Invece per quanto riguarda l’Afghanistan e i Balcani Prodi non segue la linea Zapatero.
«E infatti il suo ragionamento è datato. Parla come se fossimo nel ’98 per il Kosovo e nel 2002 per l’Afghanistan».
Voi allora eravate contrari.
«E se oggi si ripete lo stesso schema, restare o ritirarsi, il nostro dissenso resta. Io però vorrei invitare Prodi a portare l’orologio sull’oggi. Prodi dovrebbe dire: cambiamo tipo di intervento, radicalmente. Perché non si può pensare che l’Onu invece di essere l’ombrello della missione a Kabul sostituisca le forze militari con forze di interposizione? Lo stesso vale per il Kosovo».
Potrà anche essere una battaglia politica dell’Unione, ma intanto la Nato vuole inviare altri 10 mila uomini a Kabul. Cioè la missione va avanti e, mentre si discute se cambiarla, sarete chiamati a dire se la sostenete o no.
«Io propongo di alzare un po’ il livello del dibattito, ci sono sei mesi per discutere il programma, non finiamo nella solita discussione provinciale in cui ognuno mette una bandierina».
Sarà provinciale, ma poi c’è il voto in Parlamento ed è o sì o no.
«Se mi si costringe, non ho difficoltà a ripetere perché sono contro quelle missioni. Se invece vogliamo riprogettare la politica estera italiana, allora...».
Tra due settimane ci sono le primarie. L’esito influenzerà il peso dei partiti nell’alleanza ?
«Il peso è stabilito dal risultato elettorale, non dalle primarie. Sulle quali voglio lanciare un allarme: i cittadini non sanno dove votare. Stiamo rischiando grosso».
Potrebbero non essere valide?
«No, però c’è il rischio di indebolirne il significato».

"Science"
Repubblica.it 7.10.05

Su "Science" una ricerca del centro di genomica di Losanna
Un frammento di Dna produce le onde delta che danno il sonno profondo
Genetica, dormire bene è una questione ereditaria
Gli esperimenti sui topi. Oltre al gene c'è bisogno dell'acido retinoico
di Elena Dusi


Un buon sonno, profondo e ristoratore, è prerogativa di chi ha il gene giusto. E quale sia questo frammento di Dna che gli insonni possono solo sognare, è scoperta di oggi. La rivista Science pubblica una ricerca del Centro integrato di genomica di Losanna secondo cui la capacità di abbandonarsi a un riposo veramente ristoratore si trasmette per via ereditaria.
Il gene in questione è capace di regolare le oscillazioni delle onde lente (dette anche onde delta), prodotte dal cervello quando è addormentato. La presenza di queste onde indica la buona qualità del sonno, tanto che l'elettroencefalogramma non riesce a rilevarle in caso di insonnie molto gravi. Le oscillazioni diminuiscono anche con l'aumentare dell'età. E in effetti è osservazione comune che qualità e quantità del sonno siano molto superiori nei bambini rispetto agli anziani. Ma la ragione per cui a parità di età alcuni individui generino onde delta con naturalezza, mentre per altri l'esperienza di un buon sonno sia tutt'altro che comune era sempre rimasta un mistero.
Gli scienziati di Losanna nei loro esperimenti sono partiti dal topo. "Ci eravamo resi conto - ha spiegato il capo èquipe Mehdi Tafti - che alcuni animali non riuscivano a dormire bene e la cattiva qualità del sonno si accompagnava a un'attività molto carente delle onde delta". Mettendo a confronto i roditori insonni con altri membri della loro specie dotati di una normale capacità di riposo, l'équipe è riuscita passo dopo passo a mettere le mani sul gene discriminante.
"Il primo risultato dei nostri studi - ha spiegato il capo équipe Mehdi Tafti - è la scoperta che la qualità del sonno viene determinata per via genetica". Il gene individuato a Losanna è il primo frammento di Dna legato al sonno normale. Finora erano state trovate solo alterazioni corrispondenti a determinate malattie. Si trattava di patologie per fortuna piuttosto rare, ma che erano in grado di compromettere gravemente la capacità di ricaricare le pile.
Le ricerche degli scienziati di Losanna non si sono arrestate qui. Non basta infatti che il gene del sonno profondo sia presente in un individuo. Occorre anche che funzioni bene, e per farlo ha bisogno di acido retinoico, un derivato della vitamina A che si trova nelle verdure gialle o arancioni (le carote sono l'esempio più famoso) e nel tuorlo dell'uovo. Che l'acido retinoico avesse un ruolo nel cervello era già noto da tempo, ma si credeva che la sua azione fosse limitata alla vista. Il ruolo benefico di questa vitamina - si era osservato anche - entrava in tilt in caso di malattie come Alzheimer, schizofrenia o Parkinson. "Tutte patologie - sottolineano i ricercatori di Losanna - in cui guarda caso viene a perdersi l'attività delle onde delta".
Scoperto che la vitamina A gioca un ruolo importante nell'ottenere un sonno profondo, i ricercatori non sono però affatto sicuri di quale sia la dose ottimale di questa sostanza. Sicuramente un eccesso è negativo quanto una carenza, se non addirittura di più. "Non sappiamo dire con esattezza quale sia la quantità giusta" allargano le braccia gli scienziati svizzeri, fedeli al motto secondo cui nella scienza ogni buona scoperta porta con sé una nuova buona domanda.

 Le Scienze 06.10.2005
Come il sonno attenua la coscienza
La perdita di consapevolezza è dovuta alla disconnessione fra le aree del cervello

Nel cervello umano, le cellule comunicano fra di loro scambiandosi segnali elettrici. Ma quando una persona cade in un sonno profondo, le regioni superiori del cervello - che durante la veglia sono caratterizzate da un incessante dialogo neurale - perdono apparentemente la propria capacità di comunicare in maniera efficace, provocando un'attenuazione della coscienza.
In un articolo pubblicato sul numero del 30 settembre della rivista "Science", un gruppo di ricercatori guidati dagli psichiatri Giulio Tononi e Marcello Massimini dell'Università del Wisconsin di Madison riferisce che la perdita di coscienza durante il sonno profondo e senza sogni sembra verificarsi quando le differenti regioni della corteccia cerebrale che mediano la percezione, il pensiero e l'azione si disconnettono a livello funzionale.
Tononi e colleghi hanno osservato la disconnessione quando alcuni brevi impulsi di elettricità, generati magneticamente, sono stati diretti verso regioni specifiche del cervello. Gli impulsi hanno stimolato una risposta elettrochimica dalle cellule bersagliate che, se il soggetto era sveglio, si è propagata attraverso il cervello viaggiando lungo network di fibre nervose fino a diverse destinazioni cerebrali. Se il soggetto si trovava in uno stato di sonno profondo, invece, la stessa risposta si è estinta rapidamente e non ha viaggiato oltre le cellule stimolate.
Quando la coscienza si attenua, dunque, "il cervello - spiega Tononi - si divide in tante piccole isolette che non parlano fra di loro". La scoperta è importante perché fornisce il primo indizio diretto su come il cervello alteri lo stato di coscienza durante il sonno.

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giovedì 6 ottobre 2005

ricevuto da Sara Sera
i preti vogliono riprendersi tutta l'Italia: intanto cominciano dagli immobili...
l'Unità 6.10.05

Regalone alla Chiesa, il Senato approva: non pagherà più l'Ici.

Si avvicina a grandi passi il “condono elettorale” del governo Berlusconi alla Chiesa. Il Senato ha detto sì all’esenzione dal pagamento dell’Ici per tutte le attività commerciali di proprietà ecclesiastica. Se il provvedimento sarà approvato anche dalla Camera, scuole private, ristoranti e ostelli non solo non dovranno più pagare la tassa comunale ma si vedranno restituire dai Comuni tutte le quote Ici versate dal 1993. Il condono ecclesiastico all’Ici infatti altro non è che una norma interpretativa (contenuta in un comma all'articolo 6 del Dl infrastrutture) di una precedente norma, per cui, come ha sottolineato in aula il diessino Morando, «deve essere riferita al passato, quindi dal 1993 ad oggi».
Il regalo alla Chiesa fatto dalla maggioranza mirando ai voti dei cattolici peserà ancora una volta sui Comuni già duramente colpiti dai tagli della Finanziaria 2006 di Tremonti. Per rendersi conto del peso economico di questo condono basta considerare quanto costerà al Comune di Roma: 5 milioni di euro in meno l'anno e, dovendo restituire le ici degli ultimi 13 anni, una scopertura di bilancio di 300 milioni di euro. Insomma, come ha sintetizzato Lanfranco Turci, capogruppo Ds in Commissione finanze, «una norma che si spiega solo nell'ottica dello scambio di favori tra la Cdl e la gerarchia cattolica, alla luce anche di quello che è successo nel corso della campagna referendaria sulla fecondazione assistita».
Durissimo l'attacco del presidente dei senatori diessini, Gavino Angius: «È un altro dei regali che la Cdl ha fatto in questi anni alla Cei, il cui impegno si segnala, anche stavolta, non solo in quanto volto alla salvezza delle anime ma anche ad affari economici, bancari e immobiliari molto terreni». Secondo Angius, si può ormai parlare di una vera e propria «questione vaticana» che investe «la salvaguardia di principi di libertà, di coesione sociale, di laicità dello stato che stanno a fondamento della democrazia e dell'unità del nostro paese». Infine Roberto Biscardini, dello Sdi, sottolinea come la norma porrà «problemi di carattere anche costituzionale» dato che «non sono messe sullo stesso piano le diverse confessioni religiose ma, soprattutto, non si pongono di fronte al fisco in condizioni di parità né i cittadini, né le imprese».
(...)

il manifesto 6.10.05
PARADISO FISCALE
La casa di Dio non paga tasse
Il senato converte un decreto estivo che abbona l'ici a tutti gli edifici di proprietà della chiesa, anche se usati a fini commerciali, educativi o di assistenza. E' l'ennesimo buco nei bilanci dei comuni che perderanno almeno 200 milioni di euro
di Sara Menafra

Duecento o forse trecento milioni di euro tolti alle amministrazioni comunali. Teoricamente (ma non troppo) moltiplicabili per tredici, quanti sono gli anni di arretrati che la chiesa potrà chiedere indietro. E tolti proprio alle amministrazioni comunali, che già attualmente lamentano la mancanza di fondi, e che ora dovranno stringere un altro po' la corda del saio, pardon la cintura, per fare contenta la chiesa cattolica. Ieri pomeriggio il senato ha approvato la conversione in legge di un decreto legislativo che dà la possibilità alle curie di non pagare l'ici sugli immobili utilizzati «per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura» «pur svolte in forma commerciale se connesse a finalità di religione o di culto». E' la conversione di un decreto estivo scritto dai ministri nel pieno delle vacanze senza neppure prendersi la briga di tornare a Roma, come rivela l'indicazione in calce «dato a La Maddalena il 17 agosto 2005». Le disposizioni urgenti in materia di infrastrutture contenevano una serie di chicche, come ha notato il senatore dei Ds Paolo Brutti. Tra le altre, l'aumento dell'indennità assegnata al presidente del registro italiano dighe, l'uscita dell'Anas dal bilancio dello stato, un finanziamento studiato su misura per l'amministrazione di Catania perché assuma a tempo indeterminato un certo numero di lavoratori socialmente utili (lsu). E poi, appunto il famigerato articolo 6, che rischia di aprire un ulteriore buco nei già rattoppati bilanci comunali.
La prima stima parla di una cifra che va dai 200 e i 300 milioni di euro di incassi Ici in meno. Cinque milioni solo a Roma, città curiale per eccellenza. Con due varianti devastanti. La prima è che l'articolo 6 è una «norma interpretativa» della legge che ha istitutito l'Ici. Già nel primo testo (D. lgs. 504/92) le chiese erano esentate dal pagamento della tassa che grava su tutti i proprietari di immobili. Fino a ieri, però, a non pagare la tassa erano solo le attività esplicitamente a fine religioso così come vuole la legge sui beni ecclesiastici e per il sostentamento del clero cattolico (Lg. 20 maggio 1985, n. 222). «Nella pratica ogni curia autocertificava quali edifici avessero fini religiosi e quali no», dice Esterino Montino che oltre a fare il senatore è anche segretario dei Ds a Roma : «In teoria i comuni avevano il diritto di controllare se i dati dell'autocerficazione fossero corretti. Nella pratica, però, non lo faceva nessuno». Per dieci anni tutto è sembrato procedere col quieto vivere proprio del bel paese. Finché un comune piccolo, e per di più in una regione che appena due secoli fa era parte dello Stato pontificio si è tirato su a dir la sua. Il comune di Vasto, quasi due anni fa ha deciso che il vescovo, residente nella «palazzo vescovile» dovesse pagare l'ici. Infondo - debbono aver ragionato al municipio - il palazzo è la sua abitazione privata dunque dovrà pagare, come tutti. Ne è nata una causa giudiziaria che a marzo scorso è arrivata davanti alla corte di Cassazione. E pure la Suprema corte (sentenza 6316 del 23 marzo 2005) ha dato ragione alla chiesa rigettando la richiesta del comune. La curia però, accorta agli affari di stato, ha presagito il pericolo. Anche se il vescovo di Vasto ha vinto la causa, il palazzaccio ha stabilito un principio: gli immobili della chiesa che abbiano fini «commerciali o comunque di lucro», comprese quelle con fini di «assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura» dovranno pagare la famigerata tassa. E l'estate scorsa qualcuno ha convinto i ministri ospiti di Silvio a riunirsi sull'isola sarda e fare un piccolo favore alla curia.
La decisione, inizialmente non aveva convinto neppure la destra. E infatti la settimana scorsa la commissione bilancio del senato aveva persino deciso di cassare la norma per mancanza di fondi. Ma poi una telefonata - pare di palazzo Chigi - ha convinto il presidente della commissione, Antonio Azzollini di Forza Italia, a convocare una riunione d'urgenza e modificare il parere. E ieri il senato ha dato l'ok.

come gongolano i preti
La Stampa 6.10.05

La Santa Sede: lo chiedevamo da tempo
Vale per una quantità incalcolabile di beni

CITTÀ DEL VATICANO. «E’ un provvedimento importante, che riguarda un numero elevatissimo di edifici: lo avevamo richiesto da molto tempo». A dar voce alla soddisfazione della Santa Sede nel giorno del via libera del Senato all’esenzione Ici per gli immobili ad uso commerciale della Chiesa è il vescovo Francesco Saverio Salerno, segretario emerito della Segnatura Apostolica e per molti anni ai vertici del dicastero delle finanze vaticano.
Perché è così importante?
«Perché riguarda tutto ciò che è di proprietà degli enti ecclesiastici. Una quantità di beni incalcolabile, a totale beneficio della collettività. Ora l’imposta comunale non si pagherà sugli immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura anche se svolte in forma commerciale e connesse a finalità di religione o di culto».
Di quali edifici si tratta?
«Asili nido, scuole cattoliche, alberghi per i pellegrini, strutture sanitarie, mense, oratori, edifici parrocchiali. Tutti i beni ecclesiastici, cioè, che rientrano nella categoria catastale B, quella degli immobili ad uso collettivo».
E le chiese?
«Erano già esenti. Gli edifici di culto cattolici sono equiparati, nella categoria catastale E, ai beni demaniali».
In queste ore c’è persino chi rievoca la risorgimentale legge Siccardi sulla confisca dei beni ecclesiastici...
«Dimenticano di dire, però, che un secolo e mezzo fa in Italia erano di proprietà della Chiesa i due terzi degli immobili».
Si aspettava che la maggioranza esentasse la Chiesa dal pagamento dell’Ici sui propri immobili, anche nel caso sia adibiti ad uso turistico e commerciale?
«Questa presa dal Parlamento è una decisione a lungo attesa e sollecitata in Vaticano. Si riconosce finalmente l’impegno sociale della rete di attività ecclesiali che in tanti settori forniscono da sempre un apporto fondamentale».
Secondo l’opposizione, però, con l’esenzione dall’Ici degli immobili di proprietà ecclesiastica utilizzati anche per fini commerciali, il governo sottrae risorse agli enti locali davanti alle richieste delle gerarchie cattoliche...
«I beni che adesso vengono sgravati dall’Ici operano a favore di tutti, le porte delle mense dei poveri o degli ostelli sono aperte a chiunque. I centri di accoglienza degli ordini religiosi non aiutano soltanto i cattolici ma chiunque ne abbia bisogno».
Non è una tassa abbuonata?
«Sono immobili utilizzati per attività connesse a finalità religiose. Come evidenziato dalla Cei, nulla viene regalato alla Chiesa, in quanto l’esenzione dall’Ici è già definita per legge fin dal 1992. Nulla pertanto viene sottratto o scippato agli enti locali, i quali mai hanno percepito tale imposta e non vedranno pertanto diminuire per questa causa le loro entrate».
Quindi?
«L’esenzione è prevista già nella legge che istituisce l’ici. Essa prevede l’esenzione dall’imposta nel caso di immobili utilizzati in maniera esclusiva da enti non commerciali, fra cui rientrano per definizione gli enti ecclesiastici».
Perché allora era così urgente un intervento del Parlamento?
«La Corte di Cassazione, come ricordato dalla Cei, ha recentemente dato un’interpretazione restrittiva della norma, secondo la quale gli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica, pur essendo enti non commerciali, godrebbero dell’esenzione per i soli immobili utilizzati per le attività di religione o di culto, quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana».

Belzebù. Ma chi è?
La Stampa 6.10.05

IN ITALIA CINQUECENTO «CLUB VIRTUALI» ISPIRATI AL DEMONIO
In aumento i giovani plagiati dal satanismo

ROMA. In Italia è in forte aumento il satanismo, soprattutto tra i giovani, che spesso si mettono in contatto con le sette tramite internet. Secondo Telefono Antiplagio, sono circa 500 i «club virtuali» presenti in Italia. Il 57% si trova al Nord, il 25% al Centro e il 18% al Sud e sulle Isole. La Sicilia è al quarto posto nella classifica delle regioni più coinvolte. Aumenta il numero dei giovanissimi reclutati in gruppi ispirati al demonio. Si calcola addirittura che il 21% di questi abbia tra i 15 e i 17 anni, il 9% tra gli 11 e i 14 mentre il 3% tra i 6 e i 10 anni. Le modalità di «reclutamento» e assoggettamento delle vittime avviene nei modi più svariati, dall'invio di sms minatori alla somministrazione, spesso forzata, di erbe allucinogene. Tuttavia, solo un individuo plagiato su cento sporge denuncia, a fronte di oltre mille segnalazioni raccolte da Telefono Antiplagio fino al 2004. Questo il quadro che emerge da un' inchiesta condotta da Ateneonline, il quotidiano on line della Scuola di giornalismo dell'Università di Palermo. Anche per far fronte al dilagare del satanismo -secondo gli autori dell'inchiesta- Benedetto XVI ha elogiato e invitato gli esorcisti ad «andare avanti nel proprio lavoro». Nonostante sia solo il lavoro degli esorcisti ad essere legittimato dalla Chiesa, la gente preferisce rivolgersi ai maghi per avere «subito» dei benefici e delle risposte ai propri problemi.

cognitivismo, un ferrovecchio
il manifesto 6.10.05

Conflitto sull'idea di natura umana
Siamo dualisti nati: questa la tesi di Paul Bloom nel suo libro «Il bambino di Cartesio»
di Felice Cimatti

La cosiddetta rivoluzione cognitiva nasce con un obiettivo molto chiaro, naturalizzare la mente, quella entità che ancora all'inizio degli anni cinquanta in Italia veniva chiamata spirito. La mente è ciò che ci caratterizza biologicamente, e cioè la capacità di parlare, di pensare, di valutare moralmente una azione, di creare e apprezzare un'opera d'arte, di emozionarci leggendo una poesia. Cartesio riteneva che mentre il corpo si poteva studiare scientificamente, non valesse lo stesso per la mente. Il corpo, infatti, è una entità materiale, che quindi si può analizzare, pesare, misurare; sono queste le attività che, proprio da Cartesio, riteniamo che caratterizzino la ricerca scientifica. Lo stesso non si può fare, per Cartesio, con la mente. Prendiamo la capacità di parlare, ad esempio. Qualunque parlante è in grado di produrre, in modo creativo, un enunciato che non è mai stato pronunciato prima. Non c'è alcun nesso causale fra la situazione in cui ci si trova e quello che possiamo dire di quella situazione; ma senza nessi causali non c'è scienza. Il linguaggio, la mente, non è studiabile con i mezzi con i quali procede la scienza: la mente non si pesa, come non si può misurare un significato. Cartesio, materialista convinto, fissa questa impossibilità nella famigerata distinzione fra due sostanze, quella materiale - la cosiddetta res extensa - e quella delle entità non materiali, come appunto la mente umana, la res cogitans. Questo è il dualismo. La scienza cognitiva nasce, come progetto di ricerca scientifico, più o meno negli anni cinquanta, con l'obiettivo di superare il dualismo, cioè di reintrodurre la mente nella res extensa. Questo significa naturalizzare la mente, descriverla mediante le categorie e i metodi con i quali si descrivono i fenomeni naturali.
Bene, è passato più di mezzo secolo, dunque ci si può chiedere se l'obiettivo sia stato raggiunto. Una risposta la troviamo nel libro dello psicologo cognitivo Paul Bloom che è stato appena tradotto in italiano, Il bambino di Cartesio. La psicologia evolutiva spiega che cosa ci rende umani (Il Saggiatore, 2005): «possiamo spiegare molte caratteristiche che ci rendono umani riconoscendo che siamo cartesiani nati: ci riesce infatti spontaneo pensare in chiave dualistica». Si tratta di una risposta sorprendente: la scienza cognitiva è risolutamente materialista, e monista, c'è solo la res extensa, non esiste nulla come la res cogitans, quindi Cartesio aveva torto, la mente è una entità naturale: «la comunità scientifica - scrive Bloom - concorda nel considerare errata la tesi cartesiana». La «scienza moderna», continua implacabile, «ci ha rivelato che il sé conscio ha origine da una struttura fisica, il cervello, e che non possediamo un'anima immateriale». Tutto risolto, allora? No, come abbiamo visto, perché si scopre, poi, che nonostante quello che ci dice la «scienza moderna» siamo, soprattutto i bambini, «dualisti nati». E che significa essere «dualisti nati»? Che ad un bambino viene assolutamente spontaneo trattare un viso umano in modo diverso, sorridendo, ad esempio, da come tratta un frigorifero, cioè una semplice cosa. Il volto lo trattiamo come se sapessimo, in modo innato, che è molto diverso da un oggetto materiale, perché è la manifestazione visibile di una mente. Ma come la mettiamo con la «scienza moderna»? La scienza ci dice che «non possediamo un'anima immateriale», eppure ci aspettiamo che quest'anima ci sia; nessuno ci deve insegnare la storia dell'anima, il catechismo non serve, perché siamo appunto, almeno così sostiene Bloom, «dualisti nati».
È un groviglio. La scienza cognitiva è monista, il dualismo è falso, però siamo naturalmente, biologicamente, dualisti. La natura è solo una, la natura è monista, però la nostra natura, quella che tanto sta a cuore (è proprio il caso di dirlo) al cognitivista, è invece, e dispettosamente, dualista. Secondo Bloom questo inspiegabile e irritante dualismo originario dell'animale umano è alla base della religione, che rientrerebbe fra i «prodotti secondari di una mente che si è evoluta per pensare il mondo in termini di anime e corpi». Ora, a parte il fatto che non è detto che ci sia un nesso necessario fra credenza nell'anima e religione, e che esistono, e sono esistite, culture e tradizioni che non credono affatto nell'esistenza dell'anima (Bloom dà troppo spesso la fastidiosa sensazione di assumere che il modo di vivere, e pensare, dello statunitense medio benestante rappresenti il modo di pensare dell'intera umanità; ma questo è un problema ricorrente delle scienze cognitive), la vera questione sta in questo radicale, irriducibile contrasto fra il monismo delle scienze cognitive e il dualismo naturale degli esseri umani.
Il problema è, appunto, radicale, e colpisce al cuore (ancora) il progetto teorico delle scienze cognitive. Questo progetto vuole essere naturalistico, e per esserlo in modo compiuto e rigoroso intende fare piazza pulita di ogni dualismo, di ogni traccia di res cogitans, di ogni superstizione spiritualistica. Bene, ampio progetto, come qualcuno disse una volta. Il problema è che l'oggetto specifico delle scienze cognitive, la mente umana, è naturalmente dualistica, come ammette con un entusiasmo forse eccessivo lo scienziato cognitivo Paul Bloom: «gli scienziati cognitivi ritengono che sentimenti, ricordi e coscienza siano frutto di processi fisici. Il senso comune ci dice invece che la nostra vita mentale dipende da un'anima immateriale, intuizione da cui ha origine l'idea molto rassicurante che l'anima possa sopravvivere alla distruzione del corpo e del cervello». Ora, questo significa che la mente naturalmente dualistica dello scienziato cognitivista (ce lo dice lo stesso scienziato) vuole fare a meno della sua specifica caratteristica naturale. C'è qualcosa che non torna. Qui sono in conflitto, evidentemente, due diverse idee di natura; in un senso natura vuol dire materia, nell'altro vuol dire ciò che è spontaneo, che non si ha bisogno di apprendere, ciò che è innato. Se la mente umana è naturalmente dualistica, non si capisce perché questa stessa mente dovrebbe rinunciare a ciò che la rende umana (alla sua natura, appunto). Il progetto cognitivista non mira tanto a fare piazza pulita dell'anima (arriva buona ultima, in questo), ma del suo stesso oggetto di ricerca, della mente umana. Per il perfetto cognitivista, infatti, «le nostre intuizioni sul sé sono erronee»; la mente, appunto, non c'è. Ma allora, in che senso il cognitivista studierebbe la mente umana e i processi cognitivi, se tutto quello che sa dirci è che questi stessi processi, in realtà, come tali non esistono? In che senso è cognitiva una scienza che dice che il proprio oggetto di ricerca, la cognizione, non esiste? In che senso è una scienza quella scienza della mente che ha come obiettivo negare l'esistenza di ciò che studia? A chi dobbiamo dare ascolto, al «senso comune» per il quale la mente esiste, e con la mente esiste anche la nostra minacciata umanità, oppure allo scienziato cognitivo per il quale tutto ciò in cui crediamo, e che rende la nostra vita degna d'essere vissuta, non è che una apparenza e una illusione?

una segnalazione di Carmine Russo
Repubblica Salute 6.10.05
Una risata vi guarirà, elogio dell'umorismo
Stili difensivi. Quando l'Io sfida la sofferenza e non si rassegna
di David Meghnagi *

Scrive Freud: "L'umorismo ha non solo un che di liberatorio, come il motto di spirito e la comicità, ma anche un che di grandioso e nobilitante: e questi tratti non sono rintracciabili negli altri due modi (...) La grandiosità risiede nell'affermazione vittoriosa dell'invulnerabilità dell'Io. L'Io rifiuta di lasciarsi affliggere dalle ragioni della realtà, di lasciarsi costringere alla sofferenza (...) L'umorismo non è rassegnato, anzi esprime un sentimento di sfida, e costituisce non solo il trionfo dell'Io ma anche quello del principio di piacere, che riesce in questo caso ad affermarsi a dispetto delle reali avversità". All'origine del motto Freud aveva postulato un pensiero preconscio abbandonato per un momento all'elaborazione inconscia; l'arguzia sarebbe quindi il contributo che l'inconscio fornisce alla comicità. Analogamente l'umorismo sarebbe il contributo alla comicità dovuto all'intervento del Super-Io. Fuori da questo ambito, afferma Freud il Super-io è un padrone rigoroso ed è anche questo uno dei motivi per cui il piacere umoristico non raggiunge mai l'intensità del piacere nato dalla comicità o dal motto di spirito. Lo scherzo generato dall'umorismo "non è neppure la cosa essenziale, non ha che il valore di un assaggio. La cosa principale è l'intenzione a cui l'umorismo serve (...)". Il brano scritto nel 1927 è un invito a riconsiderare la problematica del Super-Io e dei meccanismi che l'Io mette in gioco per affrontare e gestire le situazioni più angosciose. Un contributo per un approccio integrato che tenga conto della dimensione psicologica anche nei reparti ospedalieri.
Sulla scia di queste osservazioni e sulla base degli studi sui meccanismi di difesa dell'Io, Fenichel e A. Winterstein hanno legato il fenomeno dell'umorismo al superamento di episodi di tipo maniaco depressivo. Il Manuale dei Disturbi Mentali (Dsm IV- Tr) pone l'umorismo, tra gli "stili difensivi" che concorrono ad affrontare "in modo ottimale la gestione dei fattori stressanti".
Il piacere ricavato della parola e dall'assurdo è giocato su un'area a metà tra il linguaggio della veglia e il linguaggio del sogno e deriva da una doppia confusione, risultato momentaneo di un'unificazione degli opposti e di un loro superamento, superamento della scissione che esiste nel pensiero, negli affetti e nella realtà. Un nuovo motto, scrive Freud "è quasi un avvenimento di interesse generale e passa da una bocca all'altra come la notizia della più recente vittoria". Il riso per il motto, rimanda alla nascita imprevedibile di Isacco, che significa appunto risata, da Sara sterile. Poiché Sara ha riso (zahaqà) ascoltando la voce dell'angelo, il figlio si chiamo Isacco.
Nella mente esiste una possibilità di sostituire la logica del processo primario con quello terziario, la sterilità con la fecondità, l'invidia con la creatività. Al vittimismo e all'odio l'umorismo più riuscito contrappone una logica terza. Al pari dell'arte, l'umorismo offre una via di uscita alle tensioni della vita e contribuisce a potenziare le risposte immunitarie dell'organismo, al punto che i medici più sensibili lo hanno introdotto accanto alla comicità e al motto di spirito, nella prassi terapeutica dei loro reparti. Ridere aiuta a guarire prima.
* Prof. Psicologia clinica Roma 3, membro Ipa
(Società psicoanalitica)

mercoledì 5 ottobre 2005

sinistra
l'Unità 5.9.05
Bertinotti:
sconfiggeremo la precarietà del lavoro


RECORD DI DOMANDE per la chat con il leader di Rifondazione. Convinto che «la precarietà è la malattia sociale di oggi». E che «la Legge 30 va abrogata». Vincesse l’Unione, nessun pericolo di stabilità per il nuovo governo: «Non siamo nel ’96, i movimenti e i conflitti sono coprotagonisti. Questa è tutta un’altra storia»
Perché le fasce più deboli appaiono a volte più sensibili ai messaggi della destra? (Andrea Albergati)
«È certamente vero che l'ascesa di Berlusconi, un'operazione politica e culturale con cui metteva insieme liberismo e populismo, riuscì ad attrarre a sé anche consensi popolari. Anche perché nel precedente ciclo di governo dei centrosinistra, in Italia come nel mondo, si produssero non poche disillusioni. Ma io credo che quella stagione sia finita: le politiche economiche e sociali del governo Berlusconi hanno colpito in particolare gli interessi del mondo del lavoro».
Amnistia per i reati sociali a partire da Genova 2001; chiusura dei cpt; abolizione della legge 30. Pensa che un governo di centrosinistra potrà comprendere questi tre punti? (Claudio, Padova)
«Gli obiettivi che tu indichi fanno parte di queste domande di cambiamento e riguardano questioni fondamentali, quali quelle di ricostruire legittimità al conflitto sociale oggi colpito dal ricorso a numerosissimi provvedimenti giudiziari per reati di opinione o persino per l'accusa di avere intralciato l'azione del governo. La chiusura dei Cpt è una misura necessaria di tutela dei diritti dei migranti a non essere privati nel nostro paese di elementari diritti di cittadinanza e qualche volta persino di diritti umani».
La mia speranza è che la sinistra possa anche abbattere questa odiosa precarietà per noi giovani... (Ale, Bologna)
«Ecco, tu poni quella che a me sembra la più grande questione sociale dei nostri giorni. La precarietà è la più grave malattia sociale del nostro paese. Essa è la conseguenza organica delle politiche neoliberiste. La legge 30 è il principale strumento con cui è stata realizzata questa vera e propria devastazione. Per questo penso che bisogna abrogarla e scrivere sul programma dell'Unione che la sua Italia sarà un Paese deprecarizzato».
Il centrosinistra riuscirà a governare, se vincerà, fino al 2011 o assisteremo allo stesso scenario del governo Prodi? (Paolo, Roma)
«Caro Paolo, credo che il compito dell'Unione sia cacciare se possibile fin da subito il governo Berlusconi, vincere le elezioni e avviare un nuovo corso per realizzare il programma che ci saremo dati insieme. Questa sfida sarà vinta se il programma dell'Unione sarà davvero riformatore, cioè se cambierà nel profondo la realtà del Paese, se saprà dare una risposta alle grandi speranze che abbiamo suscitato. Diversamente dal primo governo Prodi, che nacque da una vittoria elettorale su un patto di desistenza, senza che ci fosse un programma comune, questa volta il programma comune lo costruiremo e spero con la partecipazione dei movimenti, delle associazioni, dei sindacati. In ogni caso, siccome penso che questa questione torni frequentemente, vorrei confermarti che io penso che la vittoria di Berlusconi non fu determinata dalla caduta di Prodi (ad esso seguirono ben due governi di centrosinistra). Ma dalla crisi che in tutto il mondo, a partire dall'America di Clinton, ha investito le politiche dei governi di centrosinistra. Quella che ci accingiamo a scrivere è per tutti un'altra storia».
Alle primarie arrivare alle spalle di Prodi lo porterà alla vicepresidenza? (Michele, Scicli-Ragusa)
«Quale che sia il risultato, qualora arrivassi dietro a Prodi, non sarebbe in discussione né la vicepresidenza, né alcun incarico di governo. Come nel campionato del mondo, la maglia iridata la veste uno solo dei concorrenti».
Non sarebbe ora di ricomporre le fratture a sinistra con il Pdc?(Antonio Cimino)
«Penso che la costruzione di una forte sinistra di alternativa sia un compito al quale valga la pena di lavorare in Europa e in Italia. Un passo importante in questa direzione è stata la costruzione del partito della Sinistra europea che terrà il suo prossimo congresso ad Atene alla fine del mese di ottobre (il Pdc non ha aderito). Uno dei punti qualificanti è stata la battaglia contro il trattato costituzionale europeo, cioè contro questa Europa dei mercati e delle banche. La rottura con lo stalinismo, la scelta di costruire la rifondazione sull'esperienza dei movimenti, la scelta della non violenza come l'idea di aggiornare il tema della trasformazione della società capitalistica, sulla partecipazione invece che sulla presa del potere, sono per noi conquiste irrinunciabili nella costruzione di una sinistra di alternativa. Per questo ci affidiamo ad un processo aperto e rifiutiamo le scorciatoie organizzativistiche delle fusioni tra partiti esistenti che finirebbero con l'essere semplicemente la somma dei ceti politici esistenti».
Saranno davvero presenti nel programma dell'Unione i Pacs? E leggi contro il proibizionismo? (Alice, Udine)
«Sì, penso che debbano essere presenti e che possano esserlo nel programma dell'Unione leggi antiproibizioniste e sui diritti delle persone e delle coppie di fatto. In particolare penso che i Pacs siano l'unico possibile denominatore comune in questa materia dell'Unione in questa fase. Personalmente condivido le rivendicazioni avanzate dalle associazioni dei gay, delle lesbiche e dei transessuali, penso come loro che la tutela della possibilità di ognuna e di ognuno di vivere in una società di convivenza e di rispetto reciproco la propria affettività e la propria sessualità costituisca un elemento di ricchezza per tutti. Penso anche che sia legittima una ricerca e una discussione sulla possibilità che unioni assumano la forma giuridica del matrimonio. Non vedo quale contestazione possa essere mossa a questa proposta sul terreno autonomo della laicità dello Stato. Altro è il campo dei valori fondati su motivazioni religiose, che non solo meritano rispetto ma che pure considero una presenza arricchente nella società. Ma non vedo come possano influenzare le scelte del legislatore».
Disposto a dare battaglia contro l'ingerenza della chiesa nella vita dei cittadini? (Nicolai Caiazza, Amsterdam)
«Penso anche che in Italia non esista la ragione di una divisione tra laici e cattolici. Molte delle pagine che hanno fatto migliore questo paese, dalla costruzione repubblicana all'unità sindacale alle battaglie sul divorzio e sull'aborto, sono passate per questo incontro e questo dialogo. Continuo a pensare persino che avesse ragione Togliatti a considerare "una sofferta coscienza religiosa un arricchimento della prospettiva socialista". Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con una pretesa come quella che si è manifestata nelle gerarchie ecclesiastiche a partire dal cardinal Ruini di dettare da una cattedra esterna alla Repubblica ciò che è costituzionale e ciò che non lo è sulla base di valori mutuati da un credo religioso».
È veramente possibile espellere la violenza dalla storia? (Leonardo)
«Rispondo da ultimo a quella che mi sembra la domanda più difficile e impegnativa. È del tutto evidente che l'interrogativo investe domande ultime, filosofiche e su questo terreno non mi sento in grado di rispondere. Quello che so è che la storia oggi, qui ed ora ci pone in un certo senso allo stesso aut aut che Rosa Luxemburg indicò nella formula "socialismo o barbarie". Oggi la barbarie è sotto i nostri occhi. Basterebbe a disvelarcela New Orleans. La spirale guerra-terrorismo è insieme la manifestazione estrema della globalizzazione capitalistica e della sua crisi e ciò che mette a rischio l'umanità. Per combattere la guerra e il terrorismo non c'è altro terreno che quello della pace. Dal ritiro delle truppe dall'Iraq alla capacità di prospettare un ruolo di pace per l'Europa, a una politica di disarmo, tutto ciò è quello che la politica può e deve fare per spezzare la spirale. Sappiamo che non c'è pace senza giustizia, ma abbiamo anche imparato che non c'è giustizia senza pace. E allora non si può più pensare di combattere l'avversario con i suoi stessi mezzi».

sinistra
Corriere della Sera 5.10.05
Il leader di Rifondazione: i moralizzatori fanno danni, Travaglio mi dà l’orticaria
Bertinotti: difendo il diritto ai salotti tv

di Angela Frenda

Fausto Bertinotti si scaglia contro «il giustizialismo a tutti i costi»: «Non coincide con la mia cultura garantista». E sui salotti tv aggiunge: «Io ci vado in televisione. Che male c’è? Sono forte della mia storia politica e non temo contaminazioni». Il leader di Rifondazione, con un gesto fulmineo da attore consumato, durante un’assemblea sindacale dei dipendenti dei Beni culturali, ha spiegato: «Marco Travaglio? Solo a sentire il suo nome mi viene l’orticaria. I moralisti danneggiano la sinistra».
Il leader del Prc: quando sento parlare Travaglio mi viene l’orticaria Bertinotti: no ai moralisti Fanno male alla sinistra «Io contaminato dai salotti? Ho idee forti»
«Non amo il giustizialismo a tutti i costi. La rincorsa ai pm. Non coincide con la mia cultura garantista». E ancora, sui salotti: «Io ci vado, in tv. Ma che male c’è? Sono forte della mia storia politica. Non temo contaminazioni». Roma, Sala delle conferenze di Palazzo Massimo. Fausto Bertinotti ieri mattina partecipa a un’assemblea sindacale convocata dai dipendenti dei Beni Culturali. Uno dei suoi tanti impegni nel tour per le primarie. Il leader di Rifondazione comunista propone di creare «un ministero per i Beni Comuni, sul tipo delle partecipazioni statali», e di «sottrarre al mercato beni come l’acqua, l’ambiente e i beni culturali». Poi, però, a margine, le domande dei dipendenti lo spingono ad affrontare anche i temi posti dalle ultime polemiche. Come ad esempio il rapporto tra la sinistra e la televisione; ma anche la sempre più stretta relazione tra cultura e partiti. Tutte questioni che in qualche modo sono venute fuori anche al convegno organizzato da MicroMega , sabato scorso, nell’Aula Magna dell’Università Roma Tre.
IL GARANTISMO - Fausto Bertinotti non ama le polemiche. E non condivide quelle fatte da Marco Travaglio, che pure ha ragionato al convegno sulla correttezza di alcuni comportamenti dei politici. «Come persona è distante da me, dal mio modo di ragionare. Insomma, non condivido il suo metodo di polemizzare con le persone. Forse perché non amo, in genere, quando ci si muove in un contesto di giustizialismo. In questo modo ci si mette su un percorso molto lontano dalla mia cultura garantista». Perché per il leader di Rifondazione la verità è che «ogni volta che qualcuno si autoinveste del ruolo di censore, di moralizzatore, rischia di fare più danni di chi poi si vuole condannare». Infine, risponde scherzosamente alla domanda che una dipendente gli fa a bruciapelo: «Ma lei cosa pensa di Travaglio?». Il leader di Prc fa un gesto da attore consumato: si alza il polsino della camicia, scosta la manica della giacca di tweed, e poi, grattandosi l’avambraccio, spiega: «No, ecco, non nominatemelo. Perché a sentire il suo nome mi viene l’orticaria».
INFORMAZIONE E CULTURA - Ma ci può essere informazione e cultura lontano dai partiti, gli hanno chiesto poco dopo alcuni dipendenti dei Beni Culturali? Bertinotti non ha avuto dubbi: «No, è impossibile - ha replicato secco -. Non esiste una cultura lontana dai partiti. In Francia e in Inghilterra non è così, ad esempio. Basta vedere i film o la televisione di questi Paesi, per rendersene conto: sono ricchi di ideologia politica». Bocciata, dal leader prc, anche la tendenza trasformista, che secondo alcuni in questo momento starebbe prendendo piede all’interno dell’Unione con i repentini cambi di casacca: «Non la approvo, è chiaro».
I SALOTTI - Sulle polemiche che hanno toccato Bruno Vespa e Anna La Rosa, Bertinotti si è già espresso nei giorni scorsi sia in riunioni pubbliche sia con alcuni compagni di partito. Lui, di quei salotti televisivi, è un aficionado . Non ne ha mai fatto mistero. Tanto che qualcuno, in passato, gli ha contestato un presenzialismo eccessivo. Ma lui ha sempre deciso di non fare a meno della televisione. O dei giornali. Perché il suo ragionamento è molto semplice, ed è riassumibile più o meno così: «Chi è di sinistra, chi ha dei valori, non può essere contaminato. Mi rimproverano di frequentare i salotti tv, di apparire troppo sui rotocalchi? Ma io posso fare queste cose proprio perché non temo la contaminazione. Mi sento forte delle mie idee, del mio impegno politico, dalla mia storia di trent’anni di lotte sindacali in difesa dei lavoratori. E dunque posso andare ovunque, senza per questo sentirmi meno di sinistra».

un autorevole esempio di "pensiero" cattolico
Avvenire, editoriale del 5.10.05

Il relativismo può diventare dogmatismo
di Giancarlo Ricci

Da quando Joseph Ratzinger, ancor prima di varcare il soglio pontificio, ha additato il rischio di una "dittatura del relativismo", ben presto la parola relativismo ha suscitato, in diversi laicisti, una sorta di "permalosità" fino a diventare il discrimine con cui misurare le proprie e le altrui appartenenze, l'altezza degli steccati, la distanza o la vicinanza tra "fides" e "ratio". Su tale dibattito è intervenuto il libro di Giulio Giorello, «Di nessuna chiesa. La libertà del laico». Animato da un laico (ma non laicistico) spirito panflettistico, il percorso dell'autore compie un curioso sperimento: pone il relativismo e la laicità di fronte allo specchio. Le implicazioni sono innumerevoli, di grande interesse e non senza paradossi: se il relativismo talvolta (ma non sempre) risulta l'esito di un pensiero laico e probabilistico come dimostra la storia della scienza, la laicità, a sua volta, non è così relativistica come può sembrare perché rivendicando una libertà assoluta si confronta con l'«insofferenza per ogni confine». La vera questione, per l'autore, è la contrapposizione tra fallibilismo e infallibilismo, «tra una verità che non pretende di salvare neanche se stessa e una verità che promette salvezza a chiunque vi si sottometta». In definitiva, secondo Giorello il vero laico è colui che denuncia e combatte ogni «presunzione di infallibilità». Infatti «è il progetto che gli altri hanno su di noi di salvezza eterna a costituire il problema». L'impressione, a questo punto, è che i pungenti strali di Giorello abbiano dimenticato quella forma di assolutismo che, mai quanto oggi, spadroneggia e che si chiama scientismo. A colpi di infallibilismo si fa strada nell'immaginario collettivo, si avvale della grancassa mediatica, possiede solide spalle finanziarie grazie ad anonime multinazionali. Il trucco consiste nel promettere di dominare la natura per il bene di tutti. L'uragano Katarina lo ha appena dimostrato. Grazie alle più avanzate tecnologie, sapevamo tutto. Eppure la vera devastazione è stata, in un certo senso, l'assenza di etica. Sì, il dogmatismo dello scientismo è peggio della superstizione: pur di promettere la salvezza ci convince nei fatti che siamo tutti superstiti. Ecco il nodo cruciale: il rapporto tra scienza ed etica. Rapporto che non può essere relativistico e forse neppure fallibilista. Perché se "fallisce" questo rapporto, se si indebolisce fino a sparire, davvero si spalanca quella terra di nessuno e di tutti dove qualsiasi cosa è possibile. Sarebbe il trionfo di quello che una volta si chiamava edonismo o egocentrismo: ci sono io, faccio ciò che voglio, tollero qualsiasi cosa. Se ci sono differenze tra me e gli altri significa che sono gli altri ad essere differenti da me. Peggio per loro. Penso sia questa «la dittatura del relativismo» e penso che un relativismo eretto a sistema non sia relativistico ma costituisca una indifferenziata e perversa figura di assolutismo.

questo è il massimo che possiamo sperare dai Ds sulla questione cattolica?
l'Unità 5.10.05
Tentazione Manichea
Sul dialogo fede-ragione
di Alfredo Reichlin

Parto dalla preoccupazione (spero infondata) che di polemica in polemica si arrivi a rimettere in discussione quella conquista storica che è stata la pacificazione tra coscienza civile e coscienza religiosa. Parlo di quella cosa che ha reso possibile una lotta comune per la costruzione della Repubblica e che ha dato agli italiani uno Stato laico, democratico, pluralista. Sento acutamente la necessità di reagire.
E penso che la cosa più utile che può fare una persona come me (figlio della sinistra storica e non credente) è riflettere sulle responsabilità che pesano anche sulla mia parte. Perché questo io penso. Che la necessità di rispondere alle iniziate politiche del cardinal Ruini non deve impedirci di prendere atto che è cambiato il tempo in cui viviamo, un tempo che Habermas ha definito «post-secolare» intendendo con ciò il fatto che, dopo una lunga stagione in cui il fattore religioso (almeno in Occidente) era stato relegato nella vita privata, torna a occupare lo spazio pubblico. E la ragione è dopotutto molto semplice. Nasce dal bisogno perfino angoscioso di trovare risposte a quelle domande di senso e di identità che le vecchie ideologie e le vecchie idee di progresso novecentesche non possono dare più e che questa democrazia moderna, ridotta ormai a un sottosistema del mercato e svuotata di ogni capacità di guida (anche per l'evidente squilibrio tra il cosmopolitismo dell'economia e il localismo della politica) non pensa nemmeno di dover dare.
Le conseguenze sono di grande portata. Tra queste il fatto che al di là di certi trionfalismi assistiamo a un travaglio molto profondo che attraversa anche il mondo cattolico. Mi limito a questo accenno per dire che vedo dietro certe arroganze molti timori. E io mi chiedo se certi cardinali si rendono conto di quale pericolo rappresenta per la Chiesa la tentazione manichea. La fede contro il relativismo. Dove per relativismo si intende il grande pensiero moderno, da Cartesio all'illuminismo, il quale viene confuso con il nichilismo e con la negazione di ogni verità e ogni valore. Cioè con qualcosa che è il contrario della sua sostanza che è stata quella di dare alla ragione umana un fondamento che non pretenda di sottrarsi al divenire del mondo. Si può criticare questo pensiero ma è difficile negare che esso ha posto la coscienza umana di fronte a nuove responsabilità, più alte, rispetto alla precettistica delle filosofie medievali.
Fede contro relativismo, fede contro ragione. E, in fondo, fede contro fede, col risultato che basandosi ogni fede su una verità assoluta, le verità assolute non possono convivere tra loro. Ed è proprio su questa base che si sta formando una nuova destra. Gli «atei devoti» che fanno leva sulle paure della gente per proclamare la necessità di una (oltretutto impossibile) società chiusa: una sorta di «fortezza bianca» che innalza il vessillo delle crociate contro gli infedeli. La Chiesa si rende conto del fatto che questa posizione degli «atei devoti» che tende a servirsi della religione come strumento per una crociata contro il diverso, la spinge in un vicolo cieco? Perciò io sento il bisogno di una discussione seria. Che però non si limiti ai rapporti tra Stato e Chiesa, tra laici e cattolici, credenti e non credenti, ma affronti il fatto che, a questo punto, si configurano due opposte concezioni del mondo e delle società. Da un lato una società chiusa, dall'altro la ricerca faticosa di una nuova società mondiale, aperta, che si fa carico delle nuove domande poste dalla globalizzazione, dai problemi perfino esistenziali posti dalle nuove scienze, dalle ondate sconvolgenti dell'immigrazione, dai rischi per l'ecosistema.
Ciò che a me interessa è la parte che dobbiamo fare noi. Vengo da una sinistra che ha considerato fondamentale il dialogo con il mondo cattolico. Se non sbagliavamo come pensiamo oggi di rompere questa afasia? Io parto da Gramsci. Dalla sua domanda se il vecchio laicismo «fosse ancora in grado di soddisfare i bisogni intellettuali del popolo». Ne deduceva la necessità di «creare un nuovo umanismo adatto ai bisogni del mondo moderno in contrapposizione alla cultura attuale: astratta, meschina, troppo individualista ed egoista». Ne è passato di tempo da allora e sarebbe l'ora che i nipotini di Gramsci si domandassero se il compito loro non sia, dopotutto, quello di mettere in campo un pensiero diverso da quella potente ideologia cosiddetta liberista che non solo distrugge il legame sociale e proclama l'individuo come unico soggetto storico ma fa del mercato non un misuratore dell'efficienza ma il decisore pressoché assoluto del destino di ogni essere vivente, ricco o povero, bianco o nero.
Questo è il problema. Ed è questo che «bandisce Dio dalla società». Ma attenzione. Il Novecento è finito. E la risposta noi non possiamo trovarla nella elaborazione di una nuova ideologia e di un nuovo sincretismo quanto in uno sforzo di ridefinizione del terreno storico-politico e quindi dei conflitti, delle contraddizioni, dei rischi e dei dilemmi reali su cui le forze del progresso e quelle della conservazione si affrontano e concretamente si nominano (al di là delle parole). Forse, non si è ragionato abbastanza intorno alla fondamentale discontinuità che caratterizza il nostro tempo rispetto a tutta la storia passata. La novità non sta solo nella potenza sconvolgente di una rivoluzione scientifica e tecnologica che ha rivoluzionato i processi produttivi. L'avvento di questa si intreccia con l'altra grande novità che vede l'emergere di una condizione nuova di interdipendenza che collega tutto il pianeta in un reticolo sempre più stretto di «feed back» e di interconnessioni. E insieme a questo e a fronte di questo, nel fatto che si manifesta una drammatica incapacità della politica a governare quella «unità del mondo» che è sempre più nella realtà delle cose. Di qui il fatto che le domande ultime, e quindi le religioni, fanno il loro ingresso nello spazio pubblico.
Pensiamo solo agli effetti catastrofici che può avere - se lasciato in queste condizioni - un mondo fatto di quasi 200 Stati, molti dei quali sono semi-feudali, altri sono nelle mani di avventurieri senza scrupoli, altri ancora privi di un minimo di capacità di autogoverno. Con le conseguenze che vediamo: balcanizzazione, genocidi di intere etnie, caos politico ed economico. Ecco perché dobbiamo cominciare a chiederci se non abbiamo bisogno di mettere in campo una idea meno formale e meno chiusa della democrazia. Io credo che sia questo il compito della sinistra dopo il Novecento, cioè dopo il secolo dell'emancipazione del lavoro. Operare per estendere il campo della libertà umana. Una libertà intesa sempre più come padronanza si sé e delle proprie capacità, come espressione, quindi, di quell'immenso potenziale di capacità, bisogni, idee, diritti, sogni che sta nel mondo: nel vecchio come nel nuovo mondo. È un fatto che siamo entrati nell'epoca che segna la fine dell'uomo giuridico a cui le leggi del suo paese concedono diritti, identità, protezione. E se di questo si tratta, cioè della fine dell'uomo protetto dai confini del suo Stato e delle leggi del suo territorio, allora diventa non una utopia ma una necessità assillante la fondazione di una nuova democrazia post-nazionale e quindi l'affermazione di nuovi diritti. Del resto, non è questo, (l'affermazione di nuovi diritti umani) ciò che fecero duemila anni i discepoli di Cristo?
Questa è davvero una grande ragione di dialogo ed incontro. È l'idea che può fondare una nuova alleanza con il mondo cattolico. È l'alleanza per una democrazia meno astratta, ingiusta, formale priva di valori etici in un mondo come questo in cui, data la potenza della scienza e dei mezzi distruttivi disponibili si rivelano sempre più necessarie forme nuove di convivenza, di socialità, di integrazione politica e culturale a livello mondiale. Giacchè in questa terra che, osservata dai satelliti ci appare così piccola e fragile, una specie, la nostra, è diventata tanto numerosa e tanto potente da costituire una minaccia per la sopravvivenza della vita sul pianeta. Sta qui la base per una nuova alleanza tra fede e ragione? Se è così i laici devono sapere che la condizione è che la laicità non sia una sorta di religione dello Stato che vive come ingerenza ogni intervento (giusto o sbagliato che sia) del clero sui problemi morali ma uno spazio di libera espressione garantita a tutti e a tutte le confessioni.
Dunque, io laico, non cerco sintesi ideologiche. E neppure chiedo ad altri in nome di un nuovo progetto politico per il governo del mondo la rinuncia a quella fede che trascende la condizione umana e crede che il regno di Dio non si trovi su questa terra. Penso però alla straordinaria importanza che avrebbe l'apertura di un nuovo dialogo tra la sinistra e quelle forze le quali sentono che è tempo di rivivere la rivoluzione cristiana come ricerca, come cammino, come spinta alla pace tra gli uomini e alla convivenza tra loro e quindi come qualcosa di natura incompatibile con l'integrismo. Perché, dice il cardinal Martini, «esiste anche un relativismo cristiano che consiste nel leggere tutte le cose relative al momento in cui tutta la storia sarà palesemente giudicata». Per cui, dice il cardinale, «abbiamo tutti un immenso bisogno di imparare a vivere insieme come diversi, rispettandoci, non distruggendoci a vicenda, non ghettizzandoci, non disprezzandoci e neanche soltanto tollerandoci, perché sarebbe troppo poco la tolleranza, ma neanche direi - egli aggiunge - tentando subito la conversione». E a proposito di questo complesso rapporto tra storia, fede e ragione vorrei concludere ricordando una pagina molto bella del vescovo Paglia il quale sostiene che fede e ragione sono chiamate a ritrovare la loro forza non per contrapporsi ma per una nuova alleanza di fronte alla crisi profonda in cui versa l'intero pianeta.
Adesso, come ai tempi della bomba atomica, abbiamo bisogno di più ragione e di più fede per aiutare il mondo a salvarsi dai conflitti che lo distruggono. Questo è il punto. Siamo chiamati, dice don Paglia, a individuare quel terreno comune sul quale fondare oggi la convivenza. Ed è in questo senso, egli aggiunge che noi siamo «relativi» gli uni agli altri.

ricevuto da Sara Sera
questione cattolica
l'Unità 5.10.05
Aborto, anatema dei Vescovi: è peccato votare chi è a favore

La crociata delle gerarchie ecclesiastiche continua e ora viene direttamente preso di mira il mondo politico e l’atteggiamento riguardo alla legge sull’aborto. Il Sinodo dei Vescovi invita praticamente gli elettori a non votare i politici che non osteggiano l’interruzione volontaria di gravidanza. A introdurre il tema nel sinodo convocato martedì in Vaticano è uno dei più autorevoli esponenti dei dicasteri vaticani sotto il pontificato di Ratzinger, monsignor. William Joseph Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, oltre che arcivescovo emerito di San Francisco.
Affrontando, durante l'ora delle discussioni libere, il rapporto tra eucaristia e morale, Levada ha toccato una delle questioni che hanno suscitato forti contrasti negli Stati Uniti, dove la Chiesa sostiene - lo ha ricordato lo stesso Levada - che «è peccato votare i candidati politici che ammettono leggi a favore dell'aborto». Chi vota questi candidati, in sostanza, non può avvicinarsi ai sacramenti, in particolare all'eucaristia, se non dopo aver reso confessione del proprio «peccato».
Nel suo intervento al Sinodo, il successore di Joseph Ratzinger quale custode della dottrina cattolica, ha rilevato però che tale argomento «ha creato divisioni nell'opinione pubblica e nella Chiesa americane durante il periodo elettorale» ed «è stato giudicato da molti come un'interferenza della Chiesa nella vita politica». Per questo, il prefetto dell'ex Sant'Uffizio ha detto di ritenere «opportuni un approfondimento e un confronto sull'argomento, ascoltando anche le esperienze delle Chiese di altri paesi».
La questione era già contenuta nel documento preparatorio di questa 11° Assemblea generale del Sinodo, l'Instrumentum Laboris, dove al paragrafo 73, sempre in tema di rapporto tra eucaristia e vita morale, si evidenziava che «alcuni ricevono la comunione pur negando gli insegnamenti della Chiesa o dando pubblicamente supporto a scelte immorali, come l'aborto, senza pensare che stanno commettendo atti di grave disonestà personale e causando scandalo».
«Del resto - aggiungeva l'Instrumentum Laboris -, esistono cattolici che non comprendono perché sia peccato sostenere politicamente un candidato apertamente favorevole all'aborto o ad altri atti gravi contro la vita, la giustizia e la pace. Da tale attitudine risulta, tra l'altro, che è in crisi il senso di appartenenza alla Chiesa e che non è chiara la distinzione tra peccato veniale e mortale».
Questa presa di posizione, che certo rincuorerà in America la feroce antiabortista Harriet Miers, candidata in questi giorni da Bush alla Corte Suprema tra roventi critiche, entra in aperto contrasto con quanto dettato dall’Unione europea proprio sulla difesa delle donne da ogni violazione dei loro diritti in nome della religione, di qualsiasi religione». Questo è quanto afferma un rapporto approvato proprio martedì dall'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa che ha discusso e votato una relazione della popolare svizzera Rosmarie Zapfl-Helbling, secondo la quale i «diritti delle donne sono spesso limitati o ignorati in nome della religione». Il documento europeo impegna, pertanto, i 46 stati membri del Consiglio a «proteggere le donne contro le violazioni dei loro diritti in nome della religione ed a promuovere ed applicare completamente l'uguaglianza tra i sessi». Inoltre i governi sono invitati a «non accettare alcun relativismo culturale o religioso in materia di diritti fondamentali delle donne». La religione «continua a svolgere un ruolo importante nella vita di numerose donne europee», siano «credenti o meno» la maggior parte di esse «sono condizionate in una maniera o nell'altra dalla posizione delle differenti religioni nei riguardi delle donne, direttamente o tramite la loro influenza tradizionale sulla società o sullo stato», premette il rapporto, precisando che «tale influenza è raramente inoffensiva».
Tutte le donne che vivono nei paesi europei «hanno diritto all'uguaglianza ed alla dignità in ciascun settore della vita», sostiene ancora il rapporto approvato a larga maggioranza dall'assemblea, che ha respinto diversi emendamenti, parte dei quali presentati da rappresentanti italiani e polacchi.
«La libertà religiosa non può essere accettata quale pretesto per giustificare violazioni dei diritti delle donne, sia flagranti sia nascoste, legali od illegali, praticate con o senza il consenso teorico delle vittime, le donne», rileva la relazione, che prende anche posizione affinchè sia garantita «la separazione necessaria tra chiesa e stato, affinchè le donne non siano sottomesse a delle politiche ed a leggi ispirate dalla religione», per esempio per quanto concerne la famiglia, il divorzio e quelle contro l'aborto».
Il rapporto condanna inoltre l'imposizione di «codici religiosi» in tema di abbigliamento e chiede che il libero accesso alla contraccezione «non sia proibito dalla famiglia o dalla comunità».
«La libertà di religione è fondamentale per la protezione dei diritti fondamentali, ivi compreso i diritti delle donne» ha detto Asma Jahangir, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione o di credo, intervenuta nel dibattito.
Il Consiglio d'Europa, nella sessione di martedì, ha discusso anche un rapporto sull'istruzione e la religione ed ha ascoltato un intervento di Ekmeleddin Ihsanoglu, segretario generale della Conferenza islamica, il quale ha, tra l'altro, fortemente negato che nel Corano ci sia un qualsiasi riferimento alla violenza evocata da certe frange che oggi predicano il terrorismo ed alla lapidazione delle donne adultere, avvertendo, dopo aver fatto una ricostruzione di quanto sostenuto dal Profeta, che «questo non è l'Islam». Ma è ormai evidente che il problema non riguarda soltanto l’Islam

ricevuto da Tonino Scrimenti
complicità diessine
L'Espresso in edicola

FONDAZIONE MPS - CHE LIBERAL QUEI ROSSI
di Paolo Forcellini

Chi ha pagato il conto della kermesse senese della Fondazione Liberal in cui il forzista Ferdinando Adornato ha consegnato il premio intitolato alla sua medesima creatura prima al portavoce papale Joaquin Navarro-Valls e poi al cardinale Camillo Ruini? Una risposta, piuttosto sorprendente, considerando la tempesta mediatica scatenata contro il centro-sinistra per i fischi rifondaroli al capo dei vescovi italiani, si può trovare nel bilancio della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, l'ente che controlla e governa la storica banca toscana.
Il territorio senese, come è noto, figura fra i più 'rossi' d'Italia, al punto che sono diessini tutti e tre i grandi decisori della Fondazione Mps: il presidente Giuseppe Mussari, il sindaco Maurizio Cenni e il numero uno della Provincia, Fabio Ceccherini. Grazie ai copiosi dividendi che ogni anno incassa dal Monte, la Fondazione ha il compito principale di finanziare progetti scientifici e culturali e, insieme, di sostenere quelle attività di assistenza sociale per le quali il governo di Roma taglia anno dopo anno i fondi.
Nell'ambito di questi doveri, nell'ultimo bilancio due contributi per complessivi 130 mila euro sono stati versati proprio alla Fondazione Liberal di Adornato, al fine di realizzare "quattro meeting internazionali", nonché all'associazione sorella Club Karl Popper, nota come organizzatrice di conferenze sull'imperdibile tema 'Milano: da Carlo Cattaneo a Mediaset'. Per Ruini si può dire che "le convergenze fra laici e cattolici" auspicate prima delle contestazioni siano, almeno a Siena, decisamente a buon punto.

questione cattolica
il manifesto 5.10.05
«Donne vittime delle religioni»
La risoluzione approvata dal Consiglio d'Europa. L'Italia s'indigna
di Marina Forti

STRASBURGO. Poteva essere semplice routine: l'assemblea dei parlamentari del Consiglio d'Europa discute e approva una relazione già discussa in una commissione di lavoro sul tema «donne e religione». E l'ha approvata, alla fine: ma solo dopo aver affrontato un fuoco di fila di emendamenti presentati da parlamentari per lo più italiani e polacchi. Il fatto è che sotto un titolo così generico, la relazione parla del ruolo della religione nella vita degli europei (delle europee), e di separazione tra chiesa e stato. Premette, ad esempio, che le diverse fedi hanno una forte influenza sulla vita delle donne, ma «questa influenza di rado è benigna», perché «i diritti delle donne sono spesso limitati o violati in nome della religione». Apriti cielo. «Hanno preso motivo dagli atteggiamenti della religione musulmana verso la donna per generalizzare, a tutte le religioni», dice il senatore italiano Giuseppe Gaburro, Udc. Gaburro si sente offeso dall'idea che la religione cristiana sia considerata un'eventuale fonte di discriminazione: «Giovanni Paolo II è stato leader nel riconoscere il ruolo positivo dei movimenti femminili» (altri suoi colleghi, leghisti, hanno più sbrigativamente detto che bastava sostituire alla parola religione la parola «islam»). E dire che la relazione oggetto di battaglia è stata voluta da una cattolica, la signora Rosmarie Zapfl-Helbling, deputata svizzera del Partito Popolare europeo che presiede la commissione per le pari opportunità e sembra stupita da tanto putiferio: «Al Consiglio d'Europa ci occupiamo di tutto ciò che mina e ostacola i diritti umani», ci dice, e non ci sarà mica bisogno di puntualizzare per l'ennesima volta che i diritti delle donne sono parte indivisibile dei diritti umani.
La relazione (che come tutti gli atti dell'assamblea del Consiglio d'Europa ha il valore di semplice raccomandazione) chiede ai governi di «proteggere le donne da violazioni dei diritti umani fondate o attribuite alla religione e opporsi alla violazione dei diritti umani delle donne giustificati dal relativismo culturale o religioso ovunque avvengano». «Su problemi morali di fondo, la chiesa ha il dovere di intervenire - insiste Gaburro. Questo va di pari passo con l' aver negato le redici cristiane dell'Europa. Qui si confonde la laicità con il laicismo, che è la pregiudiziale contro la chiesa». L'episodio, commenta la senatrice italiana Tana de Zulueta, è indicativo di un'offensiva politica più italiana che europea: «E' un fatto unico: in Italia vediamo la rivendicazione da parte della chiesa di spazi politici non mediati, un'interferenza senza pari. Pensa che in Spagna i Pac erano passati addirittura con Aznar...».

Machiavelli
Corriere della Sera 5.10.05

Dal dialogo di Machiavelli col passato un giorno nacque l’arte della politica
di Luciano Canfora

Difficile trovare nella letteratura un testo autobiografico più drammatico della lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori, quella con cui gli annuncia di aver terminato la stesura del Principe (10 dicembre del 1513). È la autobiografia di uno sconfitto non di un vinto: che ha scelto di proseguire la sua battaglia con altri mezzi: cioè mettendo in circolazione la summa della sua riflessione sul potere. Ecco la sua giornata: «Mangiato che ho, ritorno nell’osteria; quivi è l’oste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, due fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dì, giuocando a cricca, a tricche-trach, e per dove nascono mille contese ed infiniti dispetti di parole iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano». La scena di abbrutimento non potrebbe essere più efficace. E quel che più conta è la lucida amarezza con cui Machiavelli vede se stesso in tale condizione e legge l’abbrutimento come sfida alla fortuna («questa malignità di questa mia sorta»): «sendo contento mi calpesti, per vedere se la se ne vergognassi». Parole tante volte citate, nelle quali è racchiuso il convincimento incrollabile dell’autore secondo cui non è possibile accettare che la «fortuna» sia padrona di tutto l’agire umano. Lo dice solennemente nel notissimo capitolo XXV del Principe : «Perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi». Ma, «venuta la sera», la scena cambia. Machiavelli si spoglia «della veste cotidiana, piena di fango e di loto», indossa panni «reali e curiali» ed entra, leggendo e meditando gli antichi autori, «nelle antique corti delli antiqui uomini». E qui per un’intera, straordinaria, pagina mantiene viva la finzione quasi onirica della visita sua quotidiana ai grandi del passato. Essi lo «ricevono amorevolmente», «io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono». Questo dialogo è per lui totalizzante: in quelle ore di lettura di quegli antichi - scrive - «dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro».
Il Principe è nato così: dall’«avere inteso» ciò che è racchiuso in quei libri, e dall’aver dialogato con essi. Il fattore decisivo è stata la lettura delle opere storico-politiche antiche e la scrittura che ne è risultata è il frutto di quel dialogo, efficacemente messo in scena nella lettera. Naturalmente noi ci rendiamo conto che il dialogo con loro ha prodotto un pensiero nuovo ma che comunque scaturisce dalla materia e dalla riflessione sugli antichi. Non si tratta di subalterno culto del passato o di soggiogamento classicistico, si tratta della convinzione radicata che in quell’età remota ci fosse un accumulo di esperienze e di pensieri che aspetta ancora di essere sfruttato fino in fondo.
L’uso dell’antico modello diventa talvolta immedesimazione piena («tutto mi trasferisco in loro» aveva scritto al Vettori). Nel libro primo dei Discorsi (capitolo 2) si assiste ad un fenomeno che banalmente si può dire «plagio», ma ovviamente non lo è. Nel descrivere «di quante spezie sono le repubbliche» il suo dire trapassa, senza che il lettore sia avvertito, nelle parole di Polibio (libro VI, a lui noto da una traduzione latina). Quelle pagine lo hanno impressionato perché descrivono lo sfociare di un modello politico in un altro: che è il suo tema (e il suo cruccio). Ma è la sostanza che ne cava che è nuova: «nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede». Va ben oltre la morfologia atemporale di Polibio. Anche Lambii, il più versatile umanista francese del tardo Cinquecento, adottò questa tecnica, quando immise nella sua prefazione a Cornelio Nipote pagine di Diodoro e Cicerone come prosa sua: ma era un omaggio, non più di questo.
In questa pur così feconda procedura che potremmo definire di «assimilazione-superamento» manca la necessaria presa di distanze dagli antichi. In Guicciardini quella presa di distanze c’è. Ed è questo che lo rende più moderno, più vicino a noi. Essa è espressa, in modo esemplare, in un pensiero (Ricordi , 143), che va a colpire direttamente la fonte stessa del «dialogo con gli antichi»: le loro opere di storia. Esse - scrive Guicciardini - «hanno lasciato di scrivere molte cose che a tempo loro erano note, presupponendole come note». Perciò - osserva - «nelle istorie dei Romani, dei Greci e di tutti gli altri si desidera la notizia ». E ne fornisce una lista sommaria: «l’autorità e diversità de’ magistrati», «i modi della milizia», «la grandezza della città». Guicciardini ha intuito che è la carenza di questi elementi che ci fa perdere la nozione della differenza tra noi e gli antichi. Carenza che spinge alla identificazione , e che induce a pensare attraverso di loro: sì che soltanto attraverso tale lente deformante si giunge a pensieri nuovi. Al contrario, la conoscenza di quei dati materiali (per esempio la «grandezza delle città» che significa in particolare conoscenza dell’antica demografia) può far capire - ad esempio - che tra il «governo popolare» degli antichi greci ed il nostro c’è incommensurabilità; e che dunque ogni discorso sulla politica dei moderni fatto manovrando i modelli antichi è falso. Nell’opera di liberazione dal «vincolo degli archetipi» la riflessione guicciardiniana occupa un posto importante. Segna davvero un nuovo avvio.
Il limite entro cui si contenne Machiavelli fu - in ultima analisi - un freno. Esso è simboleggiato dal celebre «sogno» che Paolo Giovio ed altri sostengono abbia fatto Machiavelli pochi giorni prima di morire (giugno 1527). Vide da un lato una folla di cenciosi e dall’altra un gruppo di persone di nobile portamento (Platone, Plutarco, Tacito) le quali «discutevano di repubbliche». I primi - gli fu spiegato - erano quelli che i Vangeli prevedono destinati al regno dei cieli, i secondi all’inferno perché la loro dottrina «inimica est Dei». E a quel punto lui disse: preferisco di stare con questi.

neurologi e pediatri
Yahoo! Salute 5.10.05
Cervelletto, molto più che un coordinatore dei movimenti
Di Paola Mariano, Il Pensiero Scientifico Editore

Un ruolo molto più importante per il cervelletto è emerso in una serie di studi che hanno valso negli ultimi mesi molte pubblicazioni allo stesso team di ricerca del Children’s Hospital di Boston, l’ultima delle quali sul numero di Ottobre della rivista Pediatrics. Gli esperti hanno studiato un gruppo di bimbi nati prematuri trovando che quelli con lesioni del cervelletto hanno un’ampia gamma di ritardi nello sviluppo. Inoltre, ha riferito la coordinatrice dei lavori Catherine Limperopoulos, è emerso che se c’è un danno o un ritardo di sviluppo del cervelletto, ciò si riflette sullo sviluppo del cervello e viceversa, per cui la crescita corretta delle due strutture è intimamente interconnessa. Gli esperti hanno usato la risonanza magnetica funzionale per immagini (MRI) per osservare 74 neonati pretermine. Hanno visto in particolare che se c’è un danno al cervelletto il cervello non riesce a crescere fino a dimensioni normali. Quando il danno è limitato a una sola metà del cervelletto è solo un emisfero cerebrale (quello opposto) a mostrare disturbi della crescita. Gli esperti hanno visto che ciò è vero pure al contrario. “Sembra quindi esserci un importante legame tra lo sviluppo di cervello e cervelletto", ha dichiarato la Limperopoulos. " Via via stiamo accumulando evidenze che le due strutture modulano reciprocamente la propria crescita e il proprio sviluppo”, ha aggiunto l’esperta. Poiché la stessa Limperopoulos lo scorso Marzo ha pubblicato uno studio sempre su Pediatrics in cui dimostrava che il cervelletto cresce per lo più, e lo fa in modo rapido, solo nell’ultima fase della gestazione, le nascite premature arrestano di frequente questo importante intervallo di sviluppo producendo quindi, a giudicare dagli ultimissimi risultati, dei danni molto più ingenti del previsto. "Finora – ha detto la Limperopoulos – i dottori hanno sottovalutato ciò dicendo: ’Magari suo figlio sarà solo un po’ goffo nei movimenti, niente di più’; la nostra ricerca invece dà la consapevolezza che problemi di sviluppo del cervelletto non sono affatto da considerare benigni”. I bambini con questi problemi al cervelletto, invece, verosimilmente manifesteranno deficit che vanno oltre quelli motori, ma potrebbero interessare le capacità di comunicazione, socializzazione, nella ricezione del linguaggio, solo per fare qualche esempio. Limperopoulos con la sua équipe sta continuando a monitorare la crescita di bimbi nati con lesioni al cervelletto; questi bimbi nel tempo saranno sottoposti a una serie di test per misurarne le capacità motorie, cognitive, linguistiche, sociali e molto altro.

Fonte: Limperopulos C et al. Impaired trophic interactions between the cerebellum and the cerebrum among preterm infants. Pediatrics 2005;116(4):844-850.

neofascisti
La Stampa 5.10.05
Il caso. Crescono i movimenti che combattono «la femminilizzazione della società»
All’armi siam machisti. Uomini sul piede di guerra
Uniti contro «il nazi-femminismo del terzo Millennio»

Il modello tradizionale di maschio è sicuramente in crisi, ma il partito del neo-machismo organizzato potrebbe essere alle porte. C’è un universo molto variegato di movimenti d’opinione, gruppi o aggregazioni spontanee che stanno concretamente operando in tutta Italia. Vorrebbero ristabilire la dignità maschile vilipesa e creare le condizioni culturali per contrastare, con valori virili, una società, a loro parere, irrimediabilmente femminilizzata. Fanno dibattiti, cercano spazio nei media e soprattutto scrivono lettere. Sono spesso la spina nel fianco di pubblicitari o giornalisti (soprattutto se donne) che nel loro lavoro abbiano, a parer loro, discriminato o ridicolizzato il sesso maschile. Una deriva abbastanza rozza di questo pensiero si esprime attraverso «Maschio 100%», certamente il più ruspante dei movimenti maschilisti. La sede operativa è a Pescara, ma il loro leader carismatico e indiscusso è il siciliano Salvatore Marino. Afferma di battersi contro potere nazi-femminista, ambirebbe alla «riqualificazione della figura del maschio contro la donna arrogante del terzo millennio».
I suoi toni sono spesso volgari e di chiaro insulto al genere femminile, fatte salve le femmine al cento per cento. Queste ultime sono le adepte. Esse dimostrano la loro femminilità, esuberante anche nelle carni, lasciandosi docilmente palpare da Marino durante i suoi exploit televisivi Sono veri numeri di teatro dell’assurdo di cui si conserva ampia documentazione nel sito http://www.maschio100x100.com/. La «Lega Sud Ausonia» nel 2004 aveva lanciato Marino con lo slogan «un Presidente maschio alla Provincia di Pescara», l’avventura politica fallì, ma lui ancora imperversa. Dalla sua tribuna televisiva, assieme ad altri maschi e femmine al cento per cento, si produce in una rassegna stampa televisiva attingendo dalle cronache quotidiane episodi in cui donne vengono assassinate da mariti e compagni. Altre volte si esibisce in un vilipendio della mimosa, strofinandosela sui genitali e infine bruciandola davanti alle telecamere.
Di tutt’ altro stile è il movimento d’opinione «Uomini 3000» (http://www.uomini3000.it). Da statuto ripudia ogni forma, anche indiretta, di «denigrazione, di offesa e di svalutazione del valore etico, estetico ed intellettuale del genere femminile». Fondato a Belluno da cinque anni sostiene comunque che esista un attacco diretto alla mascolinità (male-bashing) che interessa almeno due generazioni. Gli Uomini3000 vorrebbero creare le condizioni per una controcultura maschile attraverso la «decostruzione» della storiografia femminista. Secondo loro occorre demolire «la criminalizzazione diretta ed indiretta del genere maschile- la domesticazione e la mansuetizzazione degli uomini-l’evirazione psicologica e chimica delle nuove generazioni». L’ ideologia femminista avrebbe «speculato sulla cavalleria maschile» descrivendo le donne come vittime di una «storia di orrori, violenze, di sfruttamento e di stupri». Quindi un potere che si alimenta creando sensi di colpa ad ogni maschio.
A Brescia ha sede operativa «Maschi selvatici», movimento orientato su una linea ancor più mistico-eroica. Si riuniscono in montagna, nei boschi e comunque cercano un contatto con la natura selvatica. Il fallo è il loro principale simbolo di riferimento, nel loro ricco sito web http://www.maschiselvatici.it/maschi/indice.htm lo celebrano in una galleria fotografica fatta di falliformi rocce votive e divinità iperdotate. Per i maschi selvatici i valori metafisici, che nel passato venivano simboleggiati attraverso la rappresentazione dell’appendice virile, sarebbero oggi minacciati da: «I poveri Mefistofele della tecnologia chimica che pensano di poterne sostituire la funzione con delle sintesi in laboratorio». La donna dovrebbe quindi riacquistare la propria funzione di fattrice da cui si è allontanata. Nella loro mitologia della contemporaneità, la femmina oggi incarna il nemico cosmico, la «Grande Madre» che alimenta la società dei consumi e la propagazione dell’ istinto. Tra i maestri Bataille, Mishima, Junger e Pound, ma nei loro documenti fanno continuo riferimento all’opera dello psicoterapeuta Claudio Risè, da anni autore di saggi sul mondo maschile, che spesso partecipa anche ai loro incontri.

psicoterapeuti
TG.COM 5.10.05
Sei depresso? Scavati la fossa!
Mosca, così uno psicoterapeuta cura i pazienti

Toccare il fondo per risalire. E' questa in soldoni la curiosa terapia di uno psicoterapeuta russo, secondo cui per guarire da depressioni cosmiche, attitudini al suicidio e terribili fobie, basta scavarsi la fossa e restare sotto terra una decine di ore. Un rimedio che Vladimir Yevtushkin, questo il nome dello psichiatra, sperimenta con successo da oltre tre anni: sono 200 i pazienti che grazie a lui sono guariti, anzi risorti.
Yevtushkin risiede a San Pietroburgo ma quando "esercita" a Mosca porta i suoi pazienti in un posto segreto alla periferia della metropoli, ai bordi di un bel bosco di betulle, dove si incomincia con il faticoso scavo delle fosse. Le donne hanno diritto ad una pala, gli uomini invece devono farsi la buca a mani nude o usando al massimo un bastone. A detta dello psicoterapeuta la fossa è un importante indizio di personalità: chi la vuole larga e profonda, nella vita tende alla piena soddisfazione di tutti i desideri mentre quella stretta e scomoda riflette la psicologia di chi con l'esistenza ha un rapporto sofferto, contorto, improntato a laceranti insicurezze.
Una volta pronta la tomba (in genere dopo sette-otto ore di lavoro), il paziente ci prende posto. E' a questo punto che entra in scena lo psicoterapeuta che si toglie il camice per vestire i panni del becchino: sistema in superficie assi di pino o di quercia e li ricopre poi di terra. "Il momento più terribile - confida al quotidiano Rossiskaia Gazeta Yevgheni, reduce da due tentati suicidi dopo che la fidanzata lo ha piantato - è quando senti le zolle di terra che cadono sulle assi di legno. Hai l'impressione che il mondo va avanti ma senza di te. Pensi che tutto continua normalmente mentre tu rimarrai per sempre laggiù".
Dopo l'angoscia iniziale i pazienti sono spesso invasi da una strana calma e perdono rapidamente la nozione del tempo: odono attorno a sé i ruscelli sotterranei, il rumore degli animali, il silenzio della natura. "Sotto terra - dice Yevtushkin - si rimane soli davanti ai propri problemi, alle proprie paure. Laggiù si pensa meglio".
La "guarigione-resurrezione" avviene in linea di massima dodici ore dopo la sepoltura, possibilmente non in pieno giorno onde evitare che la luce accechi e frastorni. I "redivivi" sono molto rasserenati quando escono dalla totale oscurità della tomba. Il costo del trattamento va dai 50 ai 200 dollari: non molto per provare l'ebrezza di tornare a vivere.

la ricerca della felicità
Corriere della Sera 5.10.05
Da millenni filosofi e teologi tentano invano di carpirne ...
di Maria Teresa Veneziani

Da millenni filosofi e teologi tentano invano di carpirne la formula. La novità è che oggi a farsi interpreti della felicità ci provano gli economisti. Hanno scelto Milano, capitale della finanza, per presentare la loro «ricetta» agli italiani, che secondo una ricerca del Censis condotta su 40 Paesi, compresi Cina e Filippine, sono i più infelici del mondo. «Sulla felicità, verso una nuova teoria del benessere» è il tema del dibattito (vedi riquadro) con Richard Layard, Stefano Zamagni e Salvatore Natoli, autore di libri come «La felicità. Saggio di teoria degli affetti», pronto a spiegare perché anche i ricchi piangono. «La felicità è completamente gratuita. E’ uno stato di grazia e quindi è donato. Dal caso, dalla predisposizione, o come dice Carlo Emilio Gadda dalle congiunzioni e dalle corrispondenze», spiega il professore. «Non siamo tanto noi a conquistare la felicità, è lei semmai ad agguantarci». Ma che cosa è la felicità?
«Le definizioni sono sempre troppo strette per le esperienze vitali. Direi che è il senso della propria illimitata espansione. Quando si è felici ci si sente padroni del mondo. Ma questo è solo uno dei due aspetti».
L’altro?
«E’ la conquista del tempo. Felicità, come diceva Aristotele, è qualcosa che riguarda la vita intera. Ecco perché c’è una connessione molto stretta tra felicità e virtù. Infatti, virtù deriva dal greco areté , da cui il latino ars , ossia arte. Se la virtù è l’arte di vivere, la felicità è la capacità di cogliere le opportunità che ogni momento possiede. Ma per fare questo ci vuole fiuto, competenza».
Ci sta dicendo che un buon carattere conta più della fortuna?
«C’è una formula bellissima di Eraclito che dice tutto: "Il carattere per l’uomo è il suo destino". Carattere, in greco è ethos , ha a che fare con l’etica ovvero con la capacità di governare bene la propria vita».
Come si coltiva il desiderio?
«Bisogna diventare come campi magnetici, saper accogliere. Io uso la parola innocenza. Solo chi ha la curiosità di conoscere predispone il corpo e la mente affinché le cose accadano. Chi è virtuoso attrae felicità molto più di chi cerca momenti artificiali e invece trova ossessioni, come la droga».
Qual è l’errore degli infelici?
«Credono di trovare la gioia in un determinato posto o in una certa cosa. Invece la felicità si trova nelle relazioni. Ma per liberare i rapporti bisogna avere gli occhi aperti. Spesso siamo infelici perché non sappiamo accogliere il mondo, pretendiamo di ridurlo a noi stessi».
I cattolici sono convinti che la felicità venga dopo. Lei non è d’accordo.
«No, essendo la felicità la capacità di trovare sintonia con le situazioni... Per paradosso ci può essere anche nel dolore».
E’ vero allora che chi è infelice in amore in fondo è felice...
«In effetti, l’opposto nella felicità non è il dolore ma la noia. Nell’amore più che infelicità c’è struggimento. E’ dato dalla paura di perdere l’altro. Dunque la felicità può essere conquistata se l’amore si trasforma in amicizia. E non è perdita di pathos. La vera fedeltà è quella dell’amicizia, non quella della passione».
E i solitari?
«Sono sempre infelici. Lo diceva Aristotele: è impossibile essere felici senza amici».
Anche in coppia si può essere molto tristi...
«La coppia è apertura, se si è infelici vuol dire che la relazione non funziona».
Veniamo ai soldi.
«Gli economisti dicono quello che i filosofi hanno capito da tempo: i soldi non fanno la felicità. Però bisogna evitare il luogo comune "che i poveri sono felici". I poveri non riescono a espandere se stessi. Un ragazzo che non può andare a scuola ha la propria intelligenza limitata».
Qual è la ricetta degli economisti moderni?
«Hanno capito che la felicità non consiste nel reddito, ma nel liberare opportunità per i soggetti. Si sta sviluppando nell’economia un’attenzione alla cultura immateriale, che è una propensione fondamentale per provare piacere. Uno ricchissimo che compra un disegno di Leonardo e non ne capisce il segno anche se lo espone sopra il letto non se lo potrà mai godere».

la ricerca della felicità
Quotidiano.net 5.10.05
abitudini d'oltreoceano
Sesso e cibo
Giovani americane senza tabù

Los Angeles - Addio tabù e sensi di colpa: alle giovani americane piace assaporare i piaceri della vita, dal sesso al cibo, molto più delle passate generazioni.
Jean Twenge, psicologa dell'Università di San Diego, ha condotto una ricerca sulla vita sessuale dei giovani americani e delle generazioni precedenti, analizzando in particolare i cambiamenti nelle abitudini delle giovani donne.
Dal 1943 al 1999, l'età del primo rapporto si è abbassata da 19 a 15 anni. Non solo, ma la percentuale di donne che hanno una vita attiva è passata dal 13 per cento nel 1943 al 47 per cento.
Rispetto alle generazioni del 'Baby boom' (nati negli anni '50 e '60) e alla 'Generazione X' (nati negli anni '80 e '90), le donne della 'Generation Me' - così la studiosa chiama la generazione di edonisti nati dopo gli anni '70 - hanno una vita sessuale più attiva e variegata ma con meno partner, per paura di contrarre l'Aids.
E anche le pratiche sessuali, come il sesso orale, sono molto più diffuse e accettate: c'è un altro aspetto del cambiamento generale delle abitudini sessuali rivolte non più al matrimonio e alla riproduzione ma al piacere'.
Riguardo al cibo, i dati non sono confortanti. Secondo il Centro nazionale per le statistiche sulla salute il 65 per cento degli americani sopra i 20 anni è sovrappeso o obeso.

la ricerca della felicità
Reuters 5.10.05

Ue, la "fiorentina" può tornare in tavola

BRUXELLES (Reuters) - L'Unione europea ha dato il via libera al ritorno sulle tavole delle bistecche con l'osso, compresa la "fiorentina", togliendo dunque il divieto posto in essere quattro anni fa sui timori del morbo della mucca pazza. Lo hanno riferito funzionari della Commissione.
Le vendite di carne con l'osso di animali di età superiore ai 12 mesi sono state vietate nel 2001 in molti Paesi europei, mettendo di fatto fuori legge le grosse bistecche.
Il comitato veterinario dell'Ue a Bruxelles ha ora innalzato il limite d'età a 24 mesi, e di conseguenza consente il ripristino delle vendite nelle macellerie entro la fine dell'anno.
La notizia è stata accolta con "viva soddisfazione" dalla Confederazione italiana agricoltori, che sottolinea come gli allevamenti italiani siano comunque sani.
"L'unico neo è che la decisione odierna riguarda solo i manzi fino a 24 mesi, mentre le organizzazioni agricole e zootecniche italiane hanno chiesto un innalzamento almeno fino a 30 mesi", spiega la Cia in una nota, aggiungendo che "la fiorentina dà vita ad un fatturato di oltre 200 milioni di euro, circa il 5% del totale complessivo della carne bovina italiana".