sabato 22 ottobre 2005

aprileonline.info 22.10.05
Matteoli alle crociate
Aiuto arrivano i fondamentalisti!

Ormai sono molti i politici che rincorrono l'onda lunga che si sta alzando dalle stanze vaticane e che nei prossimi anni rischia di investire in pieno il nostro paese.
Ruini e Ratzinger, convinti detrattori del relativismo e delle conseguenze di un pensiero che predilige la relazione all'identità, continuano a fare proseliti. Così, dopo Marcello Pera, presidente del Senato e leader fondamentalista dopo le dichiarazioni contro il meticciato gridate dal palco di Comunione e Liberazione la scorsa estate, ecco farsi avanti un nuovo crociato da "coup de teatre": Altero Matteoli.
Il Ministro dell'Ambiente e deputato di Alleanza nazionale è stato protagonista nei giorni scorsi di un'iniziativa singolare: imporre l'affissione si un crocifisso in ognuna delle 1039 stanze del palazzo del ministero. L'iniziativa realizzata su iniziale suggerimento della Cisl – appellatasi a una ordinanza della Corte costituzionale che ha riconosciuto la legittimità dell'esposizione in pubblico del simbolo religioso - ha trovato la spinta ideologica inequivocabile del ministro: "L'apposizione, in ogni stanza del Ministero, testimonierà e confermerà la condivisione anche da parte dell'Autorità politica di insegnamenti millenari di fratellanza e tolleranza, specialmente in un momento storico nel quale i valori dello spirito vengono troppo spesso messi da parte per esaltare quelli della materialità e della competizione senza regole e l'uomo si trova ad essere bersaglio di messaggi privi di qualsivoglia contenuto spirituale e morale. Per quanto detto si è reputato che la presenza del crocifisso in ogni stanza contribuirà a lanciare un messaggio spirituale, tale da determinare lo sviluppo di una positiva coscienza individuale e collettiva e un punto di riferimento culturale di elevatissimo contenuto sociale".
Il ministro si è fatto addirittura carico della spesa per non gravare ulteriormente sul bilancio erariale.
Ma come è possibile che il ministro di uno Stato laico prenda simili iniziative? Non crediamo di ferire il sentimento e la sensibilità di nessuno dicendo che – a questo punto - sarebbe stato più giusto in uno Stato come l'Italia dove convivono popoli diversi, appendere sui muri del ministero tutti i simboli delle religioni presenti nel nostro paese: la croce, la mezzaluna, la stella di Davide, il tao, il Budda, l'aum e il lingam di Shiva induisti, eccetera.
Il voler imporre ad ogni costo è sintomatico. Nasconde la paura del confronto, del dialogo, della reciprocità tra le culture e quindi anche tra le religioni.
"Ed i servitori di Dio misericordioso sono coloro che camminano sulla terra in umiltà, e quando l'ignorante si rivolge a loro, essi dicono "Pace!" (Sura XXV, v. 63).
I valori dello spirito di cui lei parla per sostenere la sua scelta, signor ministro, sono un patrimonio dell'umanità, appartengono a tutti. Pensi, persino ai musulmani.

aprileonline.info 22.10.05
Unione, Bertinotti: Partito democratico nuocerebbe alla Sinistra

La prospettiva del partito democratico entra in conflitto con la storia politica della sinistra europea. Se il segretario del Prc, Fausto Bertinotti, sostiene di "non aver nulla da obiettare" sulla ri-nascita della lista unitaria, ben altro atteggiamento riserva all'idea di trasformarla nel partito democratico. Anzi, spiega il leader di Rifondazione a margine della direzione del partito, l'atteggiamento verso la lista dell'Ulivo è di "attenzione e rispetto. Credo invece che si ci interroghiamo sulla marcia verso il partito democratico, penso si debba ingaggiare un confronto di carattere politico".
"Penso che un approdo al partito democratico della sinistra -spiega Bertinotti- sia un elemento che indebolirebbe e nuocerebbe alla sinistra italiana, e costituirebbe una anomalia in Europa, la cui storia politica è fortemente caratterizzata dall'resistenza dei partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Basta ricordare che, neanche i più convinti sostenitori di uno spostamento al centro dei loro partiti, penso al Nuovo Centro di Schroeder o al New Labour di Blair, si proposero di tagliare la definizione di socialdemocratico e socialista". Per cui a parere di Bertinotti, "questa sarebbe una anomalia che potrebbe trovare un riferimento oltre oceano. Non casualmente il modello di leader indicato è Bill Clinton".

aprileonline.info 22.10.05
Unione, a Bologna la seconda assemblea di ''Uniti a sinistra''

Si svolgerà sabato 22 ottobre dalle ore 9,30, presso la Facoltà
di Giurisprudenza dell'Università di Bologna (via Zamboni 22), la seconda assemblea di 'Uniti a sinistra', la rete di singoli e associazioni promossa, tra gli altri da Pietro Folena (deputato ind. Prc), Antonello Falomi (senatore 'Il cantiere'), Francesco Martone (senatore ind. Prc), ed esponenti sindacali come Paolo Nerozzi (segreteria naz.le Cgil), Gianni Rinaldini (Segretario generale FIOM-CGIL), Carlo Podda (Segretario generale Funzione Pubblica-CGIL), Enrico Panini (Segretario generale FLC-CGIL, scuola
università ricerca).
L'assemblea, dal titolo "LAVORO: DIRITTI SAPERI DEMOCRAZIA" sarà incentrata sul tema della rappresentanza e del 'peso' del mondo del lavoro nella coalizione dell'Unione.
Parteciperanno esponenti del mondo della cultura lavoristica, del sindacato, della sinistra. Tra gli interventi previsti: Mario Agostinelli, Nanni Alleva, Luca Baldissara, Riccardo Be llofiore, Sergio Cusani, Francesco Garibaldo, Andrea Ricci, Massimo Roccella, Massimo Serafini, Aldo Tortorella, Gianni Rinaldini, Paolo Nerozzi, Carlo Podda, Enrico Panini, Pietro Folena, Antonello Falomi, Francesco Martone.
“La nostra iniziativa – spiega Pietro Folena – assume un significato ancora più forte nel nuovo quadro politico che si sta determinando in questi giorni. La scelta dei Ds di confluire in un indistinto partito democratico lascia orfano il mondo del lavoro. Chi rappresenterà politicamente i lavoratori e le lavoratrici italiane nel momento in cui il maggiore partito della sinistra si scioglierà? E’ urgente – conclude l’esponente di ‘Uniti a sinistra’ – porsi l’obiettivo di un nuovo soggetto della sinistra che sia in Italia il punto di riferimento per il lavoro e i movimenti pacifisti e alterglobalisti. Da Bologna
intendiamo iniziare a ragionare su questa sfida insieme a pezzi importanti del sindacato e del mondo della cultura”

aprileonline.info 22.10.05
Per il ''No'' al referendum sulla riforma costituzionale

Il coordinamento nazionale “Salviamo la Costituzione, aggiornarla non demolirla”, annuncia una grande manifestazione nazionale, prima del voto del Senato sulla controriforma della Costituzione approvata oggi in seconda lettura dalla Camera dei deputati.
Il Coordinamento, presieduto da Oscar Luigi Scalfaro, comprende, tra gli altri, i sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil, centinaia di associazioni nazionali e locali e moltissimi circoli, comitati e coordinamenti locali, oltre alle associazioni promotrici (Libertà e Giustizia, Astrid e Comitati Dossetti).

il manifesto 22.10.05
«La lista sì, il partito no»
Sinistre ds all'unisono dopo le primarie: ok al listone ma «siamo contrari» al partito democratico che punta a superare la sinistra. Idem per Bertinotti, che ammansisce le opposizioni interne
di Cosimo Rossi

Per ora il posto giusto è la sponda del fiume, tanto per la sinistra della Quercia quanto per Rifondazione comunista. Le rapide in cui schiuma il Partito democratico, del resto, sono per lo più un'agitazione interna alla convergenza parallela tra Quercia e Margherita, ambedue rimaste travolte dal voto per Prodi alle primarie. Su questo si innesta anche il proporzionale. Ragion per cui, anche a partire da valutazioni differenti, a sinistra del listone è abbastanza lecito pensare che sarà la morfologia della prossima legislatura a riaprire i giochi. La sinistra Ds, che in Prodi alle primarie ha voluto scegliere il premier anziché esprimere istanze politiche, lascia dunque passare l'«espediente tecnico» chiamandosi subito fuori dal costituendo Partito democratico. Anche perché Fassino stesso, rispondendo sul sito della Quercia a proposito della novità ripetitiva del mercato politico, delinea i soliti tempi geologici dalla consistenza inafferrabile. Sulla lista unitaria arriva comunque un sì tanto indolore quanto rapido da parte delle sinistre Ds. Il verdetto primario è servito tra l'altro a riavvicinare le anime della minoranza Ds. Fabio Mussi e Cesare Salvi firmano perciò una nota congiunta resa pubblica in avvio di un convegno a Roma su «democrazia, lavoro e welfare». In sala ci sono molti sindacalisti che militano e si mobilitano a cavallo tra movimenti-Rifondazione-sinistre diessine e non solo.
Autorizzata al lista unitaria, che per altro deve raccogliere anche le candidature delle minoranze Ds, le sinistre frenano invece la ripetitiva prospettiva del partito democratico. «Ancora una volta, come da 10 anni a questa parte, sono prevalenti gli aspetti strumentali, la confusione di idee, la contraddittorietà delle dichiarazioni, l'improbabilità degli esiti - dicono Mussi e Salvi - Un solo elemento è comune e prevalente in questo dibattito: la volontà di superare quello che viene avvertito come un problema, mentre dovrebbe essere una risorsa, e cioè la presenza e il ruolo di una grande forza politica di sinistra di ispirazione socialista. Eravamo, siamo e resteremo contrari». Un grido che trova curiosa eco in un gruppo di dalemiani sui generis - Calderola, Cabras e Barbieri - firmatari sul riformista di un'ode alla resurrezione di «un'area socialista riformista».
Il calcolo reale del correntone è che le primarie non siano state un successo per i Ds, troppo subalterni a Prodi, ma neanche per Bertinotti, troppo debole rispetto a Prodi. E che perciò nella prossima legislatura, anche con il sostegno del proporzionale che renderà più esigua la maggioranza parlamentare, si potranno riaprire i giochi di una sinistra prima di definizioni. Cioè non votata al radicalismo e nemmeno al moderatismo.
Si tratta di una lettura sensata: è infatti credibile che una volta in parlamento le forze del ricostituendo Ulivo si siedano di nuovo separate a seconda delle appartenenze. Rispetto alla partita delle primarie Bertinotti parte comunque con un vantaggio: il leader del Prc è infatti stato in corsa. Ovvero, ha «portato a casa le pelle ancora una volta», come echeggiava a via del policlinico di fronte all'alluvione primaria. Diversamente da altri, infatti, il segretario di Rifondazione ha occupato il campo, e può dunque avvantaggiarsi di aver presidiato zone altrimenti spazzate dal compromesso moderato prodiano. In altre parole: se Prodi non è il solo comunque si deve alla sfida del Prc.
Si è trattata di un sfida che le minoranze Ds era una corsa non sostenibile gratuitamente. Ma Bertinotti ne gode comunque qualche privilegio in più: compreso quello di ergersi non belligerante rispetto al nuovo listone ma senza risparmiare critiche. Il «partito democratico», che sarebbe un Ogm della storia politica italiana ed europea, «una anomalia che nuocerebbe alla sinistra» e contro la quale il Prc sferrerebbe una «battaglia politica e culturale». Una quadro in cui il segretario ricolloca anche le minoranze, critiche rispetto alla giostra primaria ma allo stesso tempo nient'affatto sorde rispetto a processi di «progetto comune» il cui assetto potrebbe prevedere tribune parlamentari.
Perché, in conclusione, è proprio alla luce delle diverse geometrie che produrrà il proporzionale che la dialettica a sinistra resta più che mai aperta ma sotterranea. Rispetto l'ipotesi che va consolidandosi di un governo espressione prevalente di un compromesso moderato tra Ds, Dl e prodismo, le sinistrea si riaccendono grazie anche alla riforma proporzionale voluta dal cavaliere che le renderà determinanti non meno dell'area centrista rutelliana. Per questo la minoranza Ds pensa di tenere aperta una prospettiva di sinistra più inclusiva di quella bertinottiana a matrice «radicale». Allo stesso tempo il leader del Prc si dispone a incunearsi nelle aporie del partito democratico per riguadagnare «sinistra» intorno a sé.

l'Unità 22.10.05
Bertinotti e l’Ulivo
«Sono non belligerante»

Non belligeranza verso la nascita dell’Ulivo, ma un no deciso al partito democratico. Bertinotti fa il punto sui rapporti nel centrosinistra dopo una direzione del Prc che l’ha visto bersaglio di critiche dalle minoranze interne sulle primarie. Per il segretario, invece, le primarie sono state «un fatto straordinario, l'irruzione della partecipazione nella vita politica». Partecipazione che va estesa dal programma, ai candidati locali, sino alle liste bloccate. Quanto alla lista unitaria Bertinotti annuncia neutralità: «Mi interessa la capacità di unità e di attrazione complessiva dell'Unione - spiega - come le diverse forze si presenteranno va guardato con attenzione ma senza interferenze».
Ma il partito democratico no: troppo americano e comunque troppo lontano dalla storia delle socialdemocrazie europee. Perplessità di fronte a un Fassino che considera paralleli socialisti - che vantano una storia di secoli - e kennediani. Al leader dei Ds Bertinotti rimprovera di aver dimenticato l’impianto socialdemocratico della Quercia, che pure aveva sottolineato al congresso. Se si insistesse su questa strada il Prc costruirebbe una sinistra alternativa.
L’area «Essere comunisti» di Grassi e Burgio imputa alle primarie il ritorno «dell'Ulivo, cioè di quel soggetto politico che abbiamo definito “una gabbia” e che avevamo dato per morto e sepolto». E del «partito democratico che andrebbe a consolidare una organizzazione bipartitica all'americana»: non resta che «riprendere con forza la strada dei contenuti e delle lotte». Critiche, ma non irriducibili. È lo stesso segretario, «positivamente sorpreso», che ne prende atto: il legittimo dissenso è superabile con «una presenza unitaria di tutte le componenti nelle scelte del piano d'azione» e «forme di maggiore coinvolgimento».

Corriere della Sera 22.10.05
Sartori
Il discorso che il politologo ha tenuto ieri a Oviedo per il premio Principe delle Asturie La democrazia è laica o non esiste Non sempre si può diffonderla con successo: il nemico è l’integralismo religioso

Nella mia oramai lunga vita di studioso sono stato molto stravagante, ho insegnato materie diverse e mi sono occupato di tutto un po’, di argomenti molto vari. È che sono un animale curioso. Ma nella mia stravaganza la democrazia, la teoria della democrazia, è stata un filo costante. In questa solenne occasione mi sento tenuto, allora, a tornare su questo antico e mai sopito amore.
Dalla seconda guerra mondiale in poi la democrazia, la liberal-democrazia, è stata in espansione; e la caduta del regime sovietico e della sua ideologia le ha aperto nuovi spazi di conquista. Ma mentre l’economia è davvero diventata globale (nel senso che l’economia di mercato ha davvero travolto la pianificazione economica collettivistica di tipo sovietico), i sistemi politici restano divisi, nel mondo, tra democrazie e no. E questa constatazione apre l’interrogativo sulla esportabilità della democrazia (in quale misura e a quali condizioni). Si intende che questo interrogativo presuppone che la democrazia nasca nella e dalla civiltà occidentale e che le cosiddette «democrazie degli altri» siano immaginarie (così come era immaginaria e truffaldina la nozione di democrazia comunista). Ciò premesso, sul punto della esportabilità-diffusione della democrazia esistono - semplifico molto, s’intende - due teorie di fondo.
La prima teoria è economicistica: è che la democrazia è ostacolata dalla povertà e che è correlata con il benessere. Storicamente non è stato così: la liberal-democrazia come demo-protezione, e cioè come sistema di libertà e di protezione costituzionale, è nata in società poverissime; e il liberismo istituisce lo Stato limitato, il controllo del potere e la libertà da (dallo Stato); niente di più e niente di altro. Ma oggi non è più così. Oggi alla demo-protezione si aggiunge un demo-potere che richiede demo-distribuzioni (di ricchezza). E in questo contesto la tesi degli economisti arriva a essere che se produci ricchezza, alla fine produci democrazia. La tesi dei sociologi è più cauta. Nella versione classica di S. M. Lipset, «tanto più un Paese è prospero, tanto più è probabile che sostenga la democrazia». Sì, certo. È certo, cioè, che il benessere facilita la democrazia. L’incertezza, oggi, è se il benessere continuerà a crescere e se la guerra alla povertà (nel mondo) sarà davvero vinta.
Personalmente ne dubito. In meno di un secolo la popolazione mondiale si è triplicata. Oggi siamo più di sei miliardi e cresciamo ancora di 70 milioni all’anno: tutti in Paesi poveri e prevedibilmente destinati a restare tali. Dal che mi limito a ricavare, qui, che la teoria economicista non ci deve far dimenticare che la democrazia come sistema politico di demo-protezione è un bene in sé e che è pur sempre meglio essere poveri «liberi» in libertà che non poveri in schiavitù.
La seconda teoria è culturale e di «visioni del mondo». Se è vero - come è vero - che la democrazia liberale nasce dal seno della cultura occidentale e in funzione della sua laicizzazione, allora ci dobbiamo aspettare che a giro per il mondo si imbatta in resistenze, e anche reazioni di rigetto, culturali. Sì e no. La democrazia è stata esportata in Giappone con la forza delle armi, ma poi si è radicata. In India la democrazia è un lascito inglese, ma è stata pienamente adottata. Dunque, si danno esportazioni culturalmente improbabili che tuttavia sono riuscite.
Esiste però un’altra faccia della medaglia: quella della importazione (immigrazione) in Occidente di culture allogene. Qui il problema è di integrazione e la domanda è se gli asiatici, indiani, africani, arabi si integrano o no, accettano o no le istituzioni democratiche dei Paesi nei quali si accasano. Anche a questo proposito si può rispondere talvolta sì e talvolta no. Ma per essere più precisi occorre chiarire cosa si intende per integrazione. Intanto, integrazione non è assimilazione. Gli indiani, giapponesi, cinesi, trapiantati in Occidente mantengono la loro identità culturale (e in questo senso non si lasciano assimilare) e tuttavia si sono integrati nella città democratica e ne sono divenuti buoni cittadini. E in questo esito non c’è nessuna contraddizione. Perché l’integrazione necessaria e sufficiente è soltanto l’adesione ai principi etico-politici della democrazia come sistema politico. Niente di più, ma nemmeno niente di meno.
Allora, qual è l’elemento, il fattore, che rende rigida e pressoché impermeabile, una identità culturale?
A me sembra indubbio che sia il fattore religioso e più precisamente il monoteismo, la fede in un Dio unico che per ciò stesso è l’unico vero Dio. Questo monoteismo può essere neutralizzato e bloccato - come sistema di dominio teocratico - dall’insorgere di una società laica che separa la religione dalla politica. Questa separazione è avvenuta nel mondo cristiano dal 1600 in poi. Ma non è avvenuta nell’Islam, che era e resta (culturalmente) un sistema teocratico onnicomprensivo (di tutto mescolato insieme).
Dunque, volontà del popolo o volontà di Dio? Finché prevale la volontà di Dio, la democrazia non penetra né in termini di esportazione (territoriale) né in termini di interiorizzazione (ovunque il credente si trovi). E il dilemma tra volontà del popolo e volontà di Dio è, e resterà, - per rubare un titolo a Ortega y Gasset - il tema del nostro tempo.

Corriere della Sera 22.10.05
Bergman
Dal maestro svedese a Jean Vigo
L’amore è labile (lo dice Bergman)
di Paolo Mereghetti

Può succedere che un classico finisca per essere schiacciato dal peso della sua stessa fama, di essere considerato talmente grande da scoraggiarne l’approccio. E la visione. Perchè nessuno mette in dubbio la grandezza di Ingmar Bergman, ma quanti sono i cinefili che passerebbero una sera con i suoi film? Solo in caso di compiti scritti da parte del professore dell’università, forse... Invece rivedere (o, per molti, vedere) i film di Bergman può essere un’esperienza che non si dimentica. E la serie di dvd che la Bim sta pubblicando, tutti restaurati e rimasterizzati, con ricchissimi extra, è l’occasione perfetta. Dopo i primi sette titoli, in cui c’erano classici come Il settimo sigillo o Il posto delle fragole, sono appena usciti altri cinque titoli: Monica e il desiderio (1953), Sorrisi di una notte d’estate (1955), La fontana della vergine (1959), Luci d’inverno (1961) e Scene da un matrimonio (1972).
I temi sono quelli classici del primo Bergman: la labilità dell’amore, lo scontro tra ragione e passione, tra sarcasmo e fede, tra amore carnale e amore ideale, declinati spesso attraverso la forma del dramma ma anche, per Sorrisi, della commedia. Per arrivare, con Scene da un matrimonio, a una specie di summa del regista svedese sui rapporti (e i conflitti) di coppia. Ancora attualissimo e struggente. E imperdibile anche per la superba prova dei due protagonisti, Erland Josephson e Liv Ullmann.
Tutte le copie della Bergman Collection sono perfette, sia nella qualità video che in quella sonora, ma la collana si fa segnalare anche per la ricchezza degli extra, che, oltre alle puntuali introduzioni di Piera Detassis, direttrice di Ciak, permettono la visione di un secondo film di Bergman, tra i meno conosciuti, come Crisi (1945), Sete (1949) e Dopo la prova (1983). Oppure Tormento di Sjöberg (conosciuto anche come Spasimo), dove Bergman firma la sceneggiatura.
Sempre la Bim ha pubblicato anche il capolavoro maledetto di un altro grande del cinema, quell’Atalante di cui moltissimi conoscono la scena del «sogno» subacqueo per essere stata scelta da Ghezzi come sigla del suo Fuori Orario, ma che molti meno conoscono nella sua interezza. Girato nel 1934, tolto di mano al suo regista Jean Vigo, che morì nello stesso anno, tagliato, rimontato, manipolato e restaurato solo nel 1990, è uno dei più grandi e appassionati inni all’amore che il cinema abbia mai realizzato. Anche qui molti extra interessanti (di Ghezzi, Eisenschitz e Philippe) ma un inutile secondo disco con la vecchia versione tagliata.
MONICA E IL
DESIDERO (BIM)
L’ATALANTE
(BIM)


il manifesto 22.10.05
L'enigma democratico
La democrazia reale non è il potere dei più ma il potere di tutti, in cui, nell'omologazione di pensieri, sentimenti, gusti e comportamenti, la singolarità è concessa nel privato ma non nel pubblico. Un'anticipazione del saggio contenuto nel volume collettaneo «Guerra e democrazia» per manifestolibri
di Mario Tronti

Credo sia proprio venuto il momento di passare a una critica della democrazia. Questi momenti arrivano sempre, arrivano quando le condizioni oggettive del tema s'incontrano con le disposizioni soggettive di chi lo guarda, lo analizza. È maturato su questo terreno un percorso di pensiero, che mi pare arrivi oggi a cogliere la crisi di tutto un apparato pratico-concettuale. Perché quando diciamo democrazia diciamo questo: istituzione più teoria; costituzione e dottrina. E qui, su questi termini, si instaura un intreccio molto forte, un nodo anzi. Un nodo che non lega soltanto strutture politico-sociali e tradizioni forti di pensiero - quelle della democrazia sono sempre tradizioni di pensiero forti, anche se la deriva della pratica di democrazia indica oggi un terreno debole; ma si stringe anche all'interno delle une e delle altre, delle strutture pratiche e delle tradizioni di pensiero. Perché si stringono nella democrazia, nella sua storia, una pratica di dominio e nello stesso tempo un progetto di liberazione, che si presentano sempre insieme, compresenti. In alcuni periodi - periodi di crisi, di stato d'eccezione - queste due dimensioni configgono, in altri - come in questo di oggi che è uno stato fondamentalmente di normalità - si integrano. E queste due dimensioni, pratica di dominio e progetto di liberazione, non sono due facce, sono una faccia sola, bifronte, della democrazia. Una volta, appunto, si vede di più l'una, una volta si vede di più l'altra, a seconda di come il rapporto di forza tra l'alto e il basso della società s'instaura, si dimensiona, si costituisce. Credo che a questo punto il rapporto di forza sia talmente squilibrato da una parte - dalla parte avversa a noi - che non si vede più che una sola fronte. Questo è il motivo per cui la democrazia non è più il meglio del peggio, è l'unica cosa che c'è.


Tagliare il nodo
Se questo è il nodo, mentre nel passato abbiamo cercato di scioglierlo, adesso mi sembra sia venuto il momento di tagliarlo. E su questo, allora, si dimensiona la critica della democrazia, e assume un carattere molto radicale. La critica determinata della democrazia che qui avanzo ha un padre, l'operaismo, e una madre, l'autonomia del politico. Ed è una figlia femmina, perché il pensiero e la pratica della differenza hanno anticipato questa critica con la messa in questione dell'universalismo del demos, che è l'altra faccia del carattere neutro dell'individuo, e con quel «non credere di avere diritti» che non va più rivolto al singolo, ma al popolo. C'è nella democrazia una vocazione identitaria ostile alla declinazione di qualsiasi differenza, e a qualsiasi ordine della differenza. Sia il demos che il kratos sono entità uniche e univoche e non duali, non scisse e non scindibili. La democrazia, come è noto, presuppone una identità di sovrano e popolo: popolo sovrano, sovranità popolare, come dice la dottrina. A questa identità di sovrano e popolo si è risposto, nell'800 e poi soprattutto nel `900, con una sorta di spirito di scissione dato dalla società divisa in classi, che metteva il dito nella falsità ideologica di questa identità, anzi ne metteva in crisi proprio la struttura concettuale. In quella fase la stessa divisione dei poteri, dentro un apparato che tentava il grande passaggio dal liberalismo alla democrazia e poi alla coniugazione di liberalismo e democrazia, si è rivelata, appunto, una maschera, maschera di unità del potere in mano a una classe. E' da qui che bisogna ripartire per seguire, genealogicamente, il percorso di compimento della democrazia, nel passaggio dal pensiero alla storia. (...)

Parlo della democrazia reale, nello stesso senso in cui si è potuto parlare del socialismo reale. Il socialismo reale non indicava una realizzazione particolare del socialismo che lasciava aperta la possibilità di un altro socialismo, quello ideale, perché il socialismo si è talmente incarnato in quella realizzazione che ormai non c'è un recupero possibile dell'ordine simbolico che era evocato da questa parola; non è possibile staccarla dalla realtà che l'ha incarnata. Così mi pare si possa dire dei sistemi democratici contemporanei, che non vanno letti come la «falsa» democrazia di fronte a cui ci sarebbe o dovrebbe esserci una «vera» democrazia, ma come l'inveramento della forma ideale, o concettuale, di democrazia: anche in questo caso, è impossibile salvare questo concetto dalla sua effettiva realizzazione. E, al contrario di quanto si pensa oggi, non nel passato, non nelle sue teorie, ma in questa realizzazione la democrazia è diventata un'idea debole. Tant'è vero che «democrazia» è un sostantivo che abbisogna sempre di aggettivi qualificativi, infatti oggi si dice democrazia liberale, democrazia socialista, democrazia progressiva, perfino democrazia totalitaria. (...)

La democrazia ha problemi con la libertà. Se è vero che la democrazia reale si configura come liberal-democrazia, e che questa alla fine è stata la soluzione vincente, è proprio questo binomio che lega insieme libertà e democrazia che va aggredito criticamente. Si tratta di scomporre e contrapporre i due termini - libertà vs democrazia - perché tanto la democrazia è identità quanto la libertà è differenza. Allora il problema della democrazia va affrontato da due lati: una critica decostruttiva della democrazia deve accompagnarsi a una teoria costruttiva, fondativa o rifondativa della libertà, del concetto e della pratica della libertà. (...)

Mi metto nel `900, pianto i piedi in quel secolo e da lì guardo indietro e in avanti e da lì non mi muovo e non intendo muovermi. Allora su questo tema gli autori che a me tornano sono Kelsen e Schmitt, che stranamente nello stesso periodo - Kelsen nel `29 in La democrazia e Schmitt nel `28 con La dottrina della costituzione - sebbene divisi su tutto si uniscono in fondo nella critica della democrazia, o meglio nel disvelamento dell'enigma democratico. Kelsen dice: «La discordanza tra la volontà dell'individuo - punto di partenza dell'esigenza di libertà - e l'ordine statale, che si presenta all'individuo come una volontà estranea, è inevitabile. La protesta contro il dominio esercitato da uno che è simile a noi, porta nella coscienza politica a uno spostamento del soggetto del dominio che è inevitabile anche in regime democratico, vale a dire porta alla formazione della persona anonima dello stato. L'imperium parte da questa persona anonima, non dall'individuo come tale, da questa persona anonima dello stato. Le volontà delle singole personalità liberano una misteriosa volontà collettiva e una persona collettiva addirittura mistica».

Schmitt e Kelsen
Analoghe sono le considerazioni di Schmitt: «La democrazia è una forma di stato che corrisponde al principio di identità; è l'identità dei dominati e dei dominanti, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di quelli che obbediscono. E la parola identità è utile nella definizione della democrazia perché indica la completa identità del popolo omogeneo, questo popolo esistente con se stesso in quanto unità politica senza più bisogno di nessuna rappresentanza, perché appunto si autorappresenta». È su questa autorappresentazione che la democrazia diventa un concetto ideale, perché indica, dice Schmitt, «tutto ciò che è ideale, tutto ciò che è bello, tutto ciò che è simpatico. Identificata con il liberalismo, con il socialismo, con la giustizia, l'umanità, la pace, la riconciliazione dei popoli, tra i popoli». La democrazia - diceva un'altra bella frase di Schmitt - «è uno di quei complessi pericolosi di idee in cui non si possono più distinguere i concetti». Ecco, questo è l'enigma democratico.

Il punto è quindi democrazia non come forma di governo ma come forma di stato, quella cosa che si chiamava stato democratico, che ha avuto una sua evoluzione dopo l'accoppiata novecentesca di rivoluzione operaia e di grande crisi, accoppiata decisiva per la storia seguente del capitale anche così come vive oggi a livello del mondo. Attraverso lo stato sociale c'è stato una sorta di graduale processo di estinzione dello stato, non compiuto ma in questa fase a buon punto, accelerato anche dai processi della globalizzazione. L'analisi della rete del dominio mondiale conferma questo passaggio. (...)

Una tesi che mi sento di sostenere è che il capitalismo, man mano che si sviluppa, diventa sempre più e sempre meglio società borghese. La società borghese sembra un termine datato, desueto, ma secondo me ha un ritorno di estrema attualità. Proprio nel senso in cui è partita come bürgerliche Gesellschaft, ossia come società civile e società borghese nello stesso tempo. Tutta la storia recente dell'ultimo `900, dopo gli anni `70 del movimento e del femminismo, e tutta la vicenda che ne è seguita come risposta, si può leggere nella chiave di un recupero dell'egemonia capitalistica attraverso il ritorno della figura del bourgeois. Fino a che viene a cadere la distinzione-contrapposizione fra bourgeois e citoyen, perché quest'ultimo viene recuperato in quello. È l'incontro, questo sì di carattere epocale, fra homo oeconomicus e homo democraticus. Gli spiriti capitalistici hanno proprio questo soggetto che è l'animal democraticum. C'è questa figura ormai dominante, il borghese massa, che è il vero soggetto interno al rapporto sociale. Non ci sarà una vera efficace critica della democrazia senza un grande affondo antropologico, antropologia sociale ma anche antropologia individuale, anche qui nel senso del pensiero-pratica della differenza.

Immaginario neocons
E qui bisogna dare molta importanza all'immaginario e al simbolico. Molto si gioca su questo terreno, vedi come viene giocato questo terreno, il mito che ritorna - e ritorna dagli Usa verso di noi - della società dei proprietari. Viene appunto dall'America di Bush e dei neocons, da questo interessante episodio di rivoluzione conservatrice che bisogna tenere molto sotto osservazione. Del resto, la democrazia è sempre «democrazia in America»; e gli Usa hanno sempre esportato la democrazia con la guerra. Ci si meraviglia che lo facciano adesso ma lo hanno fatto sempre, anche in Europa (...)

Al contrario di quanto si sente in giro, soprattutto nell'opinione comune progressista, nego che la fase attuale veda una centralità della guerra. Mi pare che questa enfasi odierna su pace-guerra sia del tutto fuori misura. Le guerre vivono tutte ai confini dell'impero, nelle sue faglie critiche, ma l'impero al suo interno sta vivendo la sua nuova pace, non so se sarà anch'essa dei cento anni. Ed è in questa condizione di pace interna e guerra esterna che la democrazia non solo vince ma stravince. Per capire la sua potenza bisogna definire la sua base di massa. La democrazia di oggi non è il potere dei più ma è il potere di tutti. È il kratos del demos, nel senso che è il potere di tutti su ognuno. Perché è il processo appunto di omologazione, di massificazione dei pensieri, dei sentimenti, dei gusti, dei comportamenti, che si esprime in quella potenza politica che è il senso comune. Il senso comune, quando diventa di massa e s'incontra col buon senso e costruisce quest'ordine simbolico democratico, invera un po' quello che diceva Marx quando sosteneva che la teoria diventa una forza materiale quando s'impadronisce della masse: anche il senso comune diventa forza materiale quando si fa massa. E questa massa s'incardina e si riunifica non tanto intorno ai beni quanto ai valori, ed è questa forma di massa che bisogna riuscire a definire e a capire come si possa sgretolare. Perché almeno il corpo del re era doppio, perché c'era ancora sacralizzazione del potere. Ora invece, con la secolarizzazione del potere, il corpo del popolo è unico, è univoco. (...)

Vedo insomma questa sorta di biopolitica di massa, in cui la singolarità è concessa nel privato ma è negata nel pubblico. Quel comune di cui si parla oggi, quell'in-comune sembra già tutto occupato da questa sorta di autodittatura, da questa specie di tirannia su se stessi che è la forma contemporanea di quella geniale idea moderna che è stata appunto la servitù volontaria. Dopo il tramonto delle gloriose giornate della lotta di classe, non ha vinto né il grande borghese né il piccolo borghese che abbiamo sempre odiato. Ha vinto il borghese medio. La democrazia è questo: non è la tirannia della maggioranza, è la tirannia dell'uomo medio. E questo uomo medio fa massa dentro la categoria nietzschiana degli ultimi uomini . (...)

La democrazia è antirivoluzionaria perché è antipolitica. C'è un processo di spoliticizzazione e neutralizzazione che la pervade, che la spinge, che la stabilizza. E questa antipolitica della democrazia è il punto che prendo come filiazione da tutta quella fase che ho detto dell'autonomia del politico. Del resto leggo empiricamente questo dato nella conquista e nella gestione del consenso con cui poi praticamente s'identificano i sistemi politici contemporanei. Ormai li chiamo non sistemi politici ma sistemi apolitici. La società occidentale è divisa non più in classi, in quella antinomia del passato, ma in due grandi aggregazioni di consenso, di pari consistenza quantitativa: in tutti i paesi occidentali questo consenso, dagli Usa a noi, quando si fanno i conti alla fine risulta 49 a 48, o 51 a 50. Il consenso, insomma, è diviso in due, perché? Perché da un lato ci sono pulsioni borghesi reazionarie, dall'altro pulsioni borghesi progressiste. Pulsioni, cioè riflessi emotivi, immaginari simbolici, mossi tutti e governati dalle grandi comunicazioni di massa. Pulsioni reazionarie, pulsioni progressiste che hanno in comune però questo carattere medio borghese. Da un lato il conservatorismo compassionevole, dall'altro il politicamente corretto. Questi sono i due grandi blocchi, l'alternanza di governo che offrono i sistemi apolitici democratici.

Critica élitista
In questa condizione non c'è possibilità né di essere né di fare maggioranza. Bisogna attestarsi su una condizione di minoranza forte e intelligente. È da tempo che vado suggerendo, senza grande ascolto, la necessità di rivisitare la grande stagione teorica degli élitisti (...) gli unici ad aver formulato una critica della democrazia prima dei totalitarismi. E se quella critica della democrazia fosse stata tenuta in conto, forse una correzione dei sistemi democratici non avrebbe permesso l'età dei totalitarismi. Fu una critica della democrazia, quella degli élitisti, non dal punto di vista dell'assolutismo. Ecco, su questo punto la filiazione invece è dall'operaismo, e qui chiarisco questa affermazione che chiara non sembra. Pensando e ripensando, mi pare di capire che la classe operaia è stata l'ultima grande forma storica di aristocrazia sociale. Minoranza in mezzo al popolo, le sue lotte hanno cambiato il capitalismo ma non hanno cambiato il mondo, e la ragione di questo è appunto tutta da capire, ma quello che si capisce bene è come il partito operaio sia diventato poi partito di tutto il popolo e come il potere operaio, la dove c'è stato, sia diventato gestione popolare del socialismo, perdendo per questa via la carica distruttiva antagonista. E questo è stato uno, non il solo, degli elementi che hanno reso possibile la sconfitta operaia.

Concludo. Non so se la moltitudine può intendersi come un aristocrazia di massa, se fosse così questi discorsi andrebbero in qualche misura a incontrarsi e allora quest'opera di decostruzione potrebbe dare luogo a uno scatto superiore. Ma so anche che se le condizioni che abbiamo descritto permangono, il soggetto s'imbriglia dentro questa rete. Se la moltitudine rimane imbrigliata nella rete dell'attuale democrazia reale credo che non ce la farà a uscire in modo risolutivo dalla stessa rete del potere neoimperiale. Caratteristica contemporanea dell'Impero è infatti quella di essere un Impero democratico. Se non si mettono in crisi queste condizioni lo stesso soggetto non riesce efficacemente a manovrare politicamente, qui dentro, con una rete alternativa, per un'altra possibile rottura storica.

il manifesto 22.10.05
Hobsbawm e i «benefici» della diaspora
di Maria Teresa Carbone

Aottantotto anni suonati, Eric Hobsbawm continua ad affrontare con la consueta schiettezza temi difficili: argomento del suo ultimo intervento, Benefici della diaspora, pubblicato sulla «London Review of Books», è «l'impatto degli ebrei sul resto dell'umanità», un soggetto poco esplorato, nota l'anziano studioso, visto che «la maggior parte degli studi di storia ebraica preferiscono trattare dell'impatto che il mondo esterno ha avuto sugli ebrei». Secondo Hobsbawm, solo a partire dall'inizio dell'800, la presenza della cultura ebraica si impone nella società, europea prima e americana poi, come «se fosse saltato il coperchio di una pentola a pressione». Ma quello che più preme allo storico è il presente: «Il paradosso dell'era dopo il 1945 è che la più grande tragedia della storia ebraica ha avuto due effetti fra loro diversissimi. Da un lato, ha concentrato una corposa minoranza dell'intera popolazione ebraica mondiale in un solo stato-nazione, Israele... D'altro canto, nella maggior parte delle aree del mondo, il 1945 è stato seguito da un'epoca di quasi illimitata accettazione pubblica degli ebrei, dalla virtuale scomparsa dell'antisemitismo e della discriminazione che avevano segnato la mia giovinezza, e da affermazioni ebraiche mai viste prima nei campi della cultura, della scienza e degli affari pubblici. Non ci sono precedenti storici per il trionfo della Aufklärung nella diaspora del dopo-Olocausto. Eppure, ci sono quelli che vorrebbero staccarsene per rientrare nella vecchia segregazione di una ultraortodossia religiosa o nella nuova segregazione di una comunità-stato etnico-genetica. Se dovessero riuscire in questo obiettivo, penso che gli effetti non sarebbero positivi né per gli ebrei né per il mondo».

Spartiti informatici

Dalla recente scoperta di un importante manoscritto di Beethoven (lo spartito della Grosse Fuge, che il primo dicembre andrà all'asta da Sotheby's) prende spunto Edmund Morris per un intervento sul New York Times. «I manoscritti di Beethoven sono rivelatori», scrive Morris (che, dopo aver vinto nel 1980 il Pulitzer per una biografia del presidente Theodore Roosevelt, ha dedicato il suo ultimo libro proprio al compositore tedesco), perché riflettono bene quella fisicità che spingeva Beethoven a «lottare con la sua musica sulla pagina, rovesciando inchiostro, spezzando i pennini, addirittura stracciando la carta nel corso del lavoro». Una fisicità, nota però malinconicamente il saggista, che va perdendosi nella nostra epoca dominata dalla virtualità informatica: «Le parole di oggi lampeggiano alla velocità della luce, si coagulano in un limbo elettronico, appaiono sullo schermo seduttivamente perfette, ogni carattere in proporzione, ogni paragrafo ben allineato». Per questo, osserva Morris, saranno pochi i giovani che avranno voglia di osservare con i loro occhi lo spartito di Beethoven: «E perché dovrebbero? In fin dei conti, possono "avere accesso" al testo in rete. Ma senza vedere la "cosa vera", con una luce "vera" che cade sulle cancellature e sulle macchie, saranno mai in grado di percepire l'energia disperata di un Beethoven morente, imprigionato nella caverna della sua malattia?».

Evo devo revolution

L'ultima frontiera di quel territorio in continuo fermento che è oggi la biologia viene definita in inglese con un curioso neologismo, che - nota il biologo H. Allen Orr sull'ultimo numero del «New Yorker» - sembra echeggiare una banda punk: «evo devo», in cui «evo» sta per evolution e «devo» per development, sviluppo. Nella sua recensione di Endless Forms Most Beautiful, un saggio divulgativo firmato da Sean Carroll, uno dei maggiori studiosi di questa linea di ricerca, Orr scrive che la biologia evolutiva dello sviluppo (l'evo devo, appunto) parte da una tesi di fondo piuttosto semplice, che mette in relazione l'evoluzione genetica con le trasformazioni che un organismo conosce nell'arco della sua vita, da singola cellula a embrione ad adulto. In sintesi, evo devo sostiene «che le specie animali sembrano diverse non perché i loro "pezzi" strutturali sono cambiati, ma perché hanno "acceso" e/o "spento" gli stessi pezzi in diverse combinazioni». Cauto il commento di Orr che, pur riconoscendo alla evo devo «uno sguardo davvero nuovo sull'evoluzione della vita», conclude: «Forse la storia della biologia evolutiva finirà per assomigliare alla sua stessa versione della storia del regno animale: alcune innovazioni radicali all'inizio, seguite da una serie di aggiustamenti successivi».

La Stampa Tuttolibri 22.10.05
Tocqueville nobile «schiavista»: è l’altra faccia del liberalismo
di Angelo d'Orsi

CI sono, nella storia, innumerevoli eventi raccapriccianti. Il Novecento, secolo degli orrori di massa, ne offre una gamma infinita. Eppure il secolo che ci sta alle spalle, con le sue tragedie, non è giunto dal nulla. E, soprattutto, non arriva da qualcosa di "altro" da noi. Siamo noi, noi tutti, correponsabili delle catastrofi del XX secolo, e alla lunga, di quelle che le hanno precedute e predisposte. È una delle tesi che emerge da Controstoria del liberalismo, l'ultimo, originale lavoro di Domenico Losurdo, un filosofo-storico di grande lucidità, autore sempre di libri innovativi, non sempre condivisibili, ma sempre stimolanti. Alcuni degli orrori dell'età moderna furono spettacoli, come i linciaggi tra Otto e Novecento: le notizie erano pubblicate sui giornali, e le folle accorrevano, ai bambini era dato un giorno libero a scuola, ai treni si aggiungevano carrozze. Lo spettacolo non comprendeva soltanto l'uccisione, mediante impiccagione, dei malcapitati, ma sevizie mostruose come la loro castrazione, lo scuoiamento, l'arrostimento; seguiva la vendita di souvenirs, che non erano soltanto le cartoline illustrate dell'evento, ma i pezzi anatomici degli uccisi. E tutto questo, dove? Nella più grande democrazia liberale del mondo, gli Stati Uniti d'America. Il libro di Losurdo percorre e analizza il lato scuro, profondo e sovente maleodorante, del liberalismo: banalmente, l'altra sua faccia. Il titolo peraltro è ingannevole, perché in realtà si tratta sostanzialmente di un'analisi di come la società, l'ideologia e la classe politica liberale, dunque, in primo luogo quella britannica e statunitense, ma anche quella francese, abbiano praticato, tollerato, e spesso a lungo teorizzato, accanto alla libertà per i propri popoli, la schiavitù e poi la servitù per i popoli coloniali, oggetto di violenze inaudite, in un processo di de-umanizzazione che arrivava appunto agli "spettacoli" di cui sopra. Ma l'elenco degli orrori sarebbe infinito, e lo risparmio ai lettori. Losurdo percorre con erudizione e sagacia i testi di pensatori e di politici, essenzialmente tra Settecento e Ottocento, con qualche ritorno indietro o un epilogo verso il Novecento. Non è solo la schiavitù in senso proprio, quella cui guarda l'autore per mostrare il contraltare di una troppo lievigata agiografia della libertà liberale, ma altresì la moderna schiavitù salariale, quella denunciata da Marx, e in generale la condizione di fatto servile, anche senza ceppi, dei contadini, degli operai, dei poveri, degli indigenti, dei «vagabondi» - le cosiddette «classi pericolose» - alle quali grandi teorici liberali, a cominciare dal padre stesso del liberalismo, John Locke, vorrebbero impedire «l'accesso a ogni tipo di divertimento fuori della chiesa»; o alle quali si pretende (Malthus, per esempio) di impedire la procreazione, se non possono dimostrare di essere in grado di mantenere la prole. E così via in uno sterminato catalogo di vessazioni, di imposizioni, di brutalità, dalla sfera religiosa a quella sessuale, dai soffocati diritti civili e politici alla ingiustizia praticata o addirittura sancita dalla legge. La verità è che la libertà conclamata dei liberali riguarda soltanto i pochi. Ed esclude rigorosamente i neri, gli indiani (sia in senso proprio, dove i britannici commisero eccidi di massa, sia i pellerosse, oggetto da parte dei coloni di quello che è forse il più grande genocidio della storia), i tanti popoli sottomessi (si pensi agli irlandesi, vessati e sterminati dagli inglesi); ma quella libertà "liberale" esclude anche coloro che apparentemente liberi, sono in realtà legati ai ceppi di una povertà senza scampo, che viene senza tanti complimenti loro addebitata come una colpa, la prova provata della loro sotto-umanità. Insomma, se il liberalismo dà vita a una democrazia, si tratta pur sempre di una democrazia fra signori, che rivolta all'esterno o verso i «miserabili» - di cui il grande Victor Hugo tracciò un ritratto eccezionale per vivezza e per «compassione», nel senso nobile - si arresta inesorabilmente. Al punto che secondo Losurdo nella liberale Inghilterra, come negli Usa, ci troviamo davanti a delle «caste», che accanto ai liberi (i signori), e agli schiavi, vedono appunto i poveri. Negli Stati Uniti, quando i non abbienti hanno «l'aggravante» di un colore della pelle diverso dal bianco, insomma gli ex schiavi, saranno sempre oggetto di discriminazioni perdurate fino a pochi anni or sono, e i cui strascichi sono tuttora ben presenti nella società nordamericana. Quella società di cui il francese Tocqueville fu il primo vero studioso, oltre che un franco ammiratore. Ma anche il nobile Tocqueville non aveva niente da ridire sulla schiavitù, come più in generale sulla pesantissima condizione di ingiustizia in cui vivevano i popoli coloniali e le classi indigenti, a cui tutt'al più era concessa una sorta di «cittadinanza passiva». Altro che quella «uguaglianza delle condizioni» teorizzata dall'autore della Democrazia in America! Di lui ci offre ora una persuasiva, sebbene un po' indulgente, biografia intellettuale Umberto Coldagelli, già curatore di Scritti vari del normanno (per Feltrinelli e per Bollati Boringhieri). Una vita intensa, quanto breve (1805-1859), nella quale il teorico - già magistrato: in America andò, con il fedele amico Beaumont, a studiare la situazione penitenziaria - si mette alla prova prima come sociologo e politologo, andando a studiare sul campo le istituzioni democratiche, e la vita sociale e politica, gli Stati Uniti, il Canada, ma altresì il Regno Unito, per non parlare del suo paese, l'amata Francia; e poi tenta di portare in politica le proprie competenze, andando incontro a un sostanziale scacco. A se stesso pensava, oltre che ad altri illustri suoi consimili - intellettuali divenuti politici - quando, nel 1852, in un discorso affermava: «Non so… se in un paese che tra i suoi grandi pubblicisti e i suoi grandi scrittori ha contato tanti uomini di Stato eminenti, sia permesso dire che fare dei bei libri, persino sulla politica…, prepari piuttosto male al governo e alla conduzione degli affari. Mi permetto tuttavia di crederlo e di pensare che quegli scrittori eminenti che insieme si sono rivelati uomini di Stato, hanno brillato negli affari non perché erano autori illustri, ma benché lo fossero». All'epoca Tocqueville era reduce dall'esperienza di ministro degli Esteri, vesti nelle quali aveva dato ben scarsa prova; non solo per debolezza politica, ma - e qui non seguiamo l'interpretazione di Coldagelli - perché nella pratica egli rivelava l'intimo carattere conservatore della sua posizione teorica. La quale non era così distaccata e disinteressata come egli volle far credere, quando scriveva di essere nelle condizioni ideali per osservare sine ira ac studio la democrazia, non avendo pregiudizi né pro, né contra. Come ministro degli Esteri, Tocqueville avallò e sostenne con le armi francesi la repressione sanguinosa della Repubblica Romana nel 1849, con la susseguente, greve restaurazione del potere temporale di Pio IX. Anche in questo caso il liberalismo mostrava i suoi limiti.

Corriere della Sera 22.10.05
Caro Pera, mito non è una brutta parola
di Emanuele Severino

Debbo subito esprimere la mia riconoscenza a Marcello Pera, che è il presidente del Senato. Nel mio articolo del 17 u.s. sul Corriere avevo richiamato Luigi Einaudi - gran liberale - che nelle Prediche inutili sosteneva che la democrazia è un «mito» (parole sue) perché la negazione di essa non è qualcosa di contraddittorio in se stesso. Nel suo non breve articolo sul Corriere del 19 ottobre, il liberale Pera, negando che la democrazia (e il Cristianesimo) sia mito, non nomina neppure una sola volta Einaudi. E neppure nomina una sola volta il sottoscritto (anche se il Corriere intitola il suo articolo «Risposta a Severino»). Riconoscente a Pera, mi dico dunque, perché egli mi colloca, innominato, insieme all'innominato Einaudi, del tutto immeritatamente sollevandomi, è ovvio, al rango di coloro che non devono essere nominati invano. Oltre che riconoscente sono molto solidale con il risentimento che Pera ha ben ragione di provare nei confronti di quei suoi insegnanti birbaccioni, che, egli scrive, gli hanno insegnato che «il criterio della non contraddittorietà» - quello cioè a cui Einaudi si riferiva - «vale solo per le verità di logica e di matematica», e dunque non, conclude Pera, per questioni come la democrazia e il Cristianesimo. Perbacco! Gli insegnanti di Benedetto XVI erano senz’altro migliori. L’attuale Pontefice sa benissimo, infatti, che tutte le grandi tesi della tradizione filosofica intendono sostenere qualcosa la cui negazione sia contraddittoria in se stessa.
Birbaccioni dunque, quegli insegnanti di Pera, che non gli hanno insegnato, ad esempio, che tutte le grandi dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio intendono affermare che Dio esiste perché la negazione di tale esistenza è qualcosa di contraddittorio in se stesso. E qui non si tratta né di logica né di matematica. L’attuale Pontefice sa invece molto bene che il Cristianesimo stesso si definisce come una «Rivelazione» la cui negazione non è qualcosa di contraddittorio in se stesso, perché se lo fosse il carattere soprannaturale della «Rivelazione» svanirebbe.
Non si può dimenticare che il Cristianesimo sta alle origini della civiltà europea, scrive Pera. D’accordo. È impossibile prescinderne, ripete. D’accordo. Aggiunge che per arrivare a questa sua conclusione «non occorre dire che il Cristianesimo è assoluto » ma «basta dire che è la religione più diffusa dell’Occidente» e che «lo ha segnato dalle origini». Abbastanza d’accordo - visto che anche il Cristianesimo cresce sul tronco del pensiero greco. Si tratta comunque di vedere se le leggi dell’Unione Europea debbano essere leggi cristiane e l’Europa diventare uno Stato teocratico. A questo problema mi riferivo nel mio articolo del 17 ottobre. Aggiungo che, riconoscendo che il Cristianesimo non è «assoluto», Pera sottoscrive in pieno la mia affermazione che il Cristianesimo «è mito» (cioè qualcosa la cui negazione non è contraddittoria in se stessa). «Mito», infatti, non è una brutta parola. Del Cristianesimo e della democrazia dicevo infatti, in quel mio articolo: «Carichi di sapienza, sì, ma miti».
Il Papa ha richiamato - ricorda Pera - che i valori fondamentali sono «inscritti nella natura stessa della persona umana» e precedono «qualsiasi giurisdizione statale». Sono quei benedetti insegnanti di Pera ad averlo convinto che il relativismo di Popper - di cui, mi sembra, Pera era sostenitore convinto quando eravamo colleghi - sia conciliabile con l’insegnamento della Chiesa intorno a quei valori - i quali, da ultimo , per la Chiesa riguardano la persona cristianamente intesa, cioè qualcosa di molto differente, osservo, dalla persona quale è difesa, secondo quanto Pera ricorda, dalla Costituzione italiana.
A meno che egli non dica - e sarebbe cosa legittima - di esser diventato cristiano. Nel Dizionario della lingua italiana il cattolicissimo Niccolò Tommaseo ricorda l’esistenza della «pera buoncristiana», distinguendo quella estiva, che «non dura», da quella «dal verno», che «dura». Auguro a Pera di essere «dal verno», perché egli mi assicura che la democrazia, quale è da lui intesa, non pensa di «togliere la pensione ai professori di filosofia teoretica». Dal verno, dal verno! Con la speranza che quest’inverno egli non abbia a cedere a qualche tentazione.

La Stampa Tuttolibri 22.10.05
La lingua ha più forma che sostanza
Ma proprio per questo cambia nel tempo e dipende dall’uso: inediti sorprendenti di Saussure, padre dello strutturalismo, oggi così «inattuale» eppure «resistente»
di Gianfranco Marrone

LA fortuna di Ferdinand de Saussure ha varcato il millennio. A suo modo. Non certo per la forza del suo pensiero ostinatamente strutturalista, a dir poco inattuale in un'epoca di rinnovati, duri sostanzialismi qual è quella attuale. Ma quanto meno per la natura e la curiosa storia degli scritti che, in un modo o nell'altro, portano il suo nome. È come se ci fosse sempre stato un paradossale scollamento fra quel che (profondamente) pensava e quel che (casualmente) firmava questo grande linguista ginevrino destinato a diventare uno degli autori - a torto o a ragione - più letti e più citati nelle scienze umane del Novecento. Da una parte l'uomo reale, che visse appartato nella città natia, lontano dai clamori e dai conflitti accademici, con le sue intuizioni forse persino troppo geniali per essere comprese a fondo. Da un'altra parte la pletora dei testi pubblicati a suo nome, che di quel pensiero sono sempre stati una frammentaria, parziale testimonianza e che proprio per questo continuano a sollecitare l'attenta analisi dei filologi e l'entusiastica elaborazione interpretativa dei teorici. La storia ha inizio a Parigi, dove il giovane Ferdinand giunse subito dopo aver terminato il dottorato a Lipsia: si racconta che alla Sorbona un illustre accademico dell'epoca gli chiese se fosse parente del grande Saussure che aveva scritto un testo fondamentale sulla "a" indoeuropea, che era, appunto, la sua tesi di dottorato, e che resterà l'unico testo da lui pubblicato in vita. E continua subito dopo la sua morte (1913), quando in piena guerra mondiale due suoi allievi, Bally e Sechehaye, fondendo gli appunti dei suoi ultimi tre corsi universitari, pubblicarono a suo nome il Corso di linguistica generale, a lungo livre de chevet di linguisti e antropologi, psicologi e psicanalisti, semiologi, filosofi, sociologi e persino matematici. Ma si trattava soltanto d'appunti, confrontati sì con alcune carte manoscritte appena ritrovate del maestro, ma in ogni caso un testo allografo, oltre che lacunoso, tanto più problematico quanto più di straordinario successo. Da qui la lunga serie delle perplessità e delle scoperte, nonché delle accuratissime verifiche (condotte da appassionati studiosi come Godel, Engler, De Mauro, Jakobson, Avalle, Parret) di tutta una serie di note manoscritte che a poco a poco venivano riscoperte in archivi privati e pubblici. Leggere Saussure significò, e per certi versi significa tuttora, confrontarsi con tutto ciò, non solo per comprensibili curiosità autoriali («l'avrà scritto lui?»), ma anche e soprattutto per voglia (o dovere) di comprendere a fondo un pensiero negativo e differenziale che mette in crisi evidenze intuitive e certezze consolidate. L'ultimo (per adesso?) atto di questa storia è del 1996: grazie a un tardivo trasloco degli eredi da casa Saussure, è stato trovato un altro fascio di fogli scritto di pugno dall'inesauribile e imprevedibile autore (titolo: «La doppia essenza del linguaggio»), che non ha mancato di suscitare sorprese e perplessità, e che è stato pubblicato con gran clamore qualche anno fa dall'editore francese Gallimard insieme ad altre note saussuriane già edite da tempo. Laterza ha proposto la traduzione italiana di questi scritti inediti, condotta con la consueta perizia filologica e acume critico da Tullio De Mauro (autore, nel '68, della celebre versione italiana annotata dal Corso, ritradotta poco dopo in Francia e da lì in numerosi altri paesi). Qual è il senso di questa operazione editoriale? Lo individua chiaramente lo stesso De Mauro nell'introduzione: seminare dubbi. Il tono dei corsi universitari confluiti nel Corso era per forza di cose didattico, e dunque finiva per essere dispensatore di certezze se non, talvolta, di affermazioni sentenziose. Questi scartafacci privati - pieni di cancellature e di riscritture, di giri di frase e di affannose ricerche del mot juste, di definizioni e di ripensamenti - sembrano invece voler prendere di petto certo saussurismo di maniera, abbattendo principi e modelli che molti considerano ormai il verbo del Maestro ginevrino. Uno per tutti: l'idea della lingua come sistema sincronico, struttura quasi algebrica fotografata staticamente bloccando il flusso temporale, viene del tutto a cadere, in nome di un rinnovato interesse per l'uso sociale linguistico dei termini (che non può non ricordare il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche). Ciò mette a sua volta in crisi la nota dialettica presunta saussuriana tra codici linguistici (langue) e parlate individuali (parole), poiché emerge lo spazio sociale e storico delle norme collettive condivise, più che da grandi «masse parlanti», da piccoli gruppi locali, cangianti nel tempo e nello spazio. Ma la socialità diffusa della discorsività non va comunque a discapito di una concezione formale della lingua: anzi la riafferma con forza. È proprio perché le lingue sono forme e non sostanze, astrazioni e non evidenze sensibili, che possono - debbono? - cambiare così spesso. Idea, appunto, oggi fortemente inattuale.

Tempo Medico 22.10.05
Quando inizia la vita?
Per la scienza sono molti i criteri per stabilirlo, ma non per il Comitato di bioetica
di Donatella Poretti - Tempo Medico n. 800

A Malta una commissione governativa, nel formulare una proposta per regolamentare la ricerca genetica e quella con le staminali, aveva preso come testo base il Donum Vitae. Nel documento della Chiesa cattolica, stilato dalla Congregazione per la dottrina della fede, si sostiene che la vita umana inizia dal momento in cui si forma lo zigote, quando i nuclei dei due gameti si sono fusi. Se appariva inquietante che una commissione governativa di uno stato laico si basasse su un testo religioso per redigere una legge in materia scientifica, la nota curiosa è giunta quando si sono levate le vibrate proteste dei vescovi maltesi. La Chiesa cattolica, infatti, avvalendosi delle scoperte scientifiche, aveva modificato il suo pensiero e perciò anche le indicazioni da dare ai legislatori.

Infatti, grazie alle ricerche scientifiche con gli embrioni, si è scoperto che dal momento della fecondazione dell'ovulo da parte dello spermatozoo alla formazione dello zigote trascorrono fino a 30-40 ore. Durante questo lasso di tempo è possibile intervenire? E' consentito congelare o studiare questa entità biologica? A questa domanda la Chiesa ha risposto di no e, contrariamente a quanto scritto nel Donum Vitae ha stabilito che la vita inizia al momento della fecondazione, allo stadio dell'ootide e non più dello zigote.

La legge italiana sulla fecondazione assistita parla di intoccabilità del concepito, termine generico senza valenza scientifica. Interpellato sulla possibilità di intervenire nello stadio dell'ootide - come suggerito dal ginecologo Carlo Flamigni e dal senatore Giuliano Amato nel tentativo di trovare un compromesso - il Comitato nazionale di bioetica ha fornito l'interpretazione più restrittiva: no a qualunque manipolazione indipendentemente dallo stadio di sviluppo della vita embrionale (Considerazioni etiche in merito all'ootide).

Esistono molti e diversi criteri su cui la comunità scientifica si basa per sostenere quando la nuova entità biologica che si forma sia assimilabile a una nuova persona e quando occorra dargli diritti e tutele massime. Se la vita è un continuum occorre tutelarla fin dalla fecondazione; se il criterio è quello dell'identità genetica bisogna partire dallo zigote, oppure bisogna far trascorrere i 7-8 giorni in cui l'embrione non può più dividersi per dare origine a due gemelli, secondo il criterio della indivisibilità. Per parlare di vita, secondo altri, il discrimine è la presenza di un utero che l'accoglie e la fa sviluppare. Per altri è invece fondamentale la comparsa del tessuto nervoso, o addirittura del sistema nervoso, fino ad arrivare al criterio della vita autonoma del feto al quinto mese.

Tutti criteri validi e basati su dati e studi scientifici. La risposta più inadeguata da parte di un Comitato di bioetica è quella di sposarne uno solo, il più restrittivo e coincidente con quello della Chiesa, negando perciò legittimità agli altri.

Liberazione 22.10.05
L'amore amico della guerra, così trionfa il maschio
di Lea Melandri

Da Freud a Bourdieu, un percorso tra filosofi e psicoanalisti sulla parentela tra eros e odio, tra desiderio di ricongiungimento con l'altro e ostilità verso ciò che minaccia dall'esterno

Che tra amore e odio, amore e morte, ci sia un legame che li fa apparire inseparabili, è una di quelle evidenze che sono rimaste per lungo tempo "invisibili", poco interrogate e di conseguenza non soggette a cambiamenti. Ciò che li accomuna, infatti, è innanzi tutto il loro carattere di "invarianti" o "permanenze": azioni che si riproducono quasi inalterate nel tempo e nello spazio, come se avessero una vita propria, fuori dalla storia. Nel Disagio della civiltà, Freud parla di una "coppia antagonista" di pulsioni originarie - Eros e Thanatos - che spingono in direzioni opposte: verso la conservazione e l'allargamento della vita, il primo, verso la distruzione e il ritorno all'inanimato, l'altro. Barbara Ehrenreich (Riti di sangue, Feltrinelli 1998) vede nella guerra un «modello di comportamento autoreplicante», dotato di un proprio dinamismo interno, un'«unità culturale» contagiosa e dotata di una forte capacità riproduttiva. Ciò che la civiltà torna a mettere in scena, in quel «rito sacrificale» cruento che è la guerra, avrebbe a che fare con il «trauma originario», il passaggio dell'uomo da preda a predatore, dalla posizione di chi è minacciato all'esercizio della violenza, sia pure in difesa del gruppo. James Hillman (Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2004) considera la guerra una «forza archetipica», una componente primordiale dell'essere, ubiquitaria e senza tempo. Astorica sarebbe anche la congiunzione con l'amore, la bellezza, la spettacolarità. In tutti e tre i casi, si conferma la tendenza diffusa a vedere in queste passioni umane il segno di una "fatale necessità".

Un'altra ipotesi è che la coppia amore e violenza abbia a che fare con tutti i dualismi che conosciamo - natura e storia, individuo e società, ecc. -, e prima di tutto con quello che ha diviso, come poli opposti e complementari, il maschile e il femminile. L'"enigma della guerra", di cui parla Einstein nel carteggio con Freud del 1932, l'"enigma del sesso" su cui va a urtare la ricerca psicanalitica, l'"enigma del dualismo" che Otto Weininger mette al centro del pensiero filosofico occidentale, e, si potrebbe aggiungere, l'"enigma della storia" di Marx, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, rivelano parentele inequivocabili, se solo si scosta il velo di misteriosità che li ha fatti precipitare in una natura immobile e sconosciuta.

La differenziazione che ha collocato su sponde opposte la donna e l'uomo, la famiglia e la civiltà, ancorandoli nel medesimo tempo a logiche d'amore, di armonioso ricongiungimento, e di ostilità, rifiuto e cancellazione del diverso, non poteva che venire dall'interno della storia, come sdoppiamento di quell'unico sesso che se ne è fatto protagonista.

Quando si definiscono le figure del maschile e del femminile, si può pensare che la donna, nel suo essere reale, sia già sparita dall'orizzonte, che sia già avvenuta quella riduzione al medesimo che ha permesso all'uomo di proiettare su di lei aspetti contrastanti della sua umanità: minaccioso deve essergli parso il corpo con cui è stato tutt'uno, in un rapporto mai estinto di dipendenza e attrazione, salvifica la possibilità di farne il custode di tutti i valori che non riusciva a trovare in se stesso e nei suoi simili. Sul luogo che è rimasto a rappresentare il "modello di ogni felicità" - la madre, l'origine, l'infanzia - convergono nostalgia e violenza dominatrice, idealizzazione e svilimento, bisogno di appartenenza e di fuga.

Se l'amore ha conservato così a lungo il suo carattere di "anelito originario", sogno di "comunione" con un altro essere, riconoscibile nell'innamoramento, ma anche nell'Ideale che ogni volta trasforma una pluralità di individui in un'organismo unico e omogeneo (nazione, etnia, classe, ecc.) - «l'essenza dell'Eros», dice Freud, «è di fare di più d'uno uno»-, è anche perché la comunità storica degli uomini si è lasciata a fianco, separata, sottomessa ma pur sempre disponibile, la sua infanzia: una donna destinata a restargli per sempre madre, una casa, una famiglia, un luogo di appartenenza intima. Ma è proprio questo aspetto fusionale dell'amore, che arriva a spingersi fin dentro le faticose costruzioni della società, a muovere sentimenti contraddittori, di amore e odio.

Pierre Bourdieu (Il dominio maschile, Feltrinelli 1998) si chiede se l'amore sia una sorta di «tregua miracolosa», uno stato di comunione che non esclude il riconoscimento reciproco, la sola eccezione alla legge del dominio maschile, una messa tra parentesi della violenza simbolica, «o la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile, di tale violenza». Forse la distruttività è già dentro la diade amorosa, quell'unità sociale elementare che da millenni rivaleggia con la vita pubblica. Sàndor Ferenczi (Thalassa, Cortina 1993) vede nel coito una sorta di agguerrita reinfetazione, «la felice vittoria sul trauma della nascita», «una festa commemorativa che celebra la liberazione da una situazione difficile». Le immagini guerresche non sono solo metafore. Il privilegio del ritorno al corpo materno sarebbe l'esito di una lotta tra i sessi che vede il trionfo del maschio, del suo modello di sessualità penetrativa e generativa, per cui alla donna non resta che subire l'atto sessuale e ripiegare su piaceri compensatori: l'allattamento, il parto, l'identificazione con l'uomo "vittorioso".

Ma dove le contraddizioni legate alla persistenza del modello originario dell'amore appaiono più evidenti, è nell'analisi che Freud fa del «disagio» della civiltà. Dopo aver tentato di idealizzare la coppia madre-figlio come «esente da ambivalenze», Freud è costretto a riconoscere che «l'uomo non è una creatura mansueta»: «Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo». Se Eros appare inizialmente come il fondamento di sempre più ampie aggregazioni umane, dall'altro è impossibile non accorgersi che esso entra presto in conflitto con la civiltà. Una volta che è riuscito a «fare di più d'uno uno», a costruire unioni ideali, l'amore non vuole andare oltre, e ogni esterno gli appare minaccioso o superfluo: «La coppia degli amanti basta a se stessa». Famiglia e vita pubblica, non solo non si pongono su una linea di continuità, ma finiscono per rappresentare l'una per l'altra un pericolo: «La civiltà si comporta verso la sessualità come una stirpe o uno strato di popolazione che ne abbia sottomesso un altro per sfruttarlo, e che vive perciò nel timore costante dell'insurrezione».

La raccolta in un gruppo chiuso, omogeneo, è strettamente imparentata con la separazione da tutto ciò che dal di fuori sembra ostacolarla. Niente come la figura di un nemico serve a stringere aggregazioni forti e compatte. «L'essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone un'altra». Sotto questo profilo, che vede insieme apparentemente indistricabili amore e odio, conservazione e distruzione, si può leggere anche la nascita della comunità storica degli uomini, il bisogno del sesso dominatore di darsi una genealogia in proprio, una discendenza di padre in figlio, cancellando quell'origine "eterogenea" che lo lega al corpo della donna. Prima, o insieme alle "pulizie etniche", l'umanità ha conosciuto una "pulizia sessuale", l'espulsione del primo "diverso" che ogni vivente incontra nascendo e con cui è stato, sia pure per un breve tragitto, in una stato di assorbimento o di indistinzione. Ma nella spinta ad ingrandire la sua famiglia sociale, era inevitabile che l'uomo conoscesse altri movimenti analoghi, di accomunamento e chiusura, inclusione e settarizzazione. I legami che lo hanno visto nel privato come marito, padre, figlio, amante, si trasferiscono, a volte con accresciuta intensità, nelle sue relazioni pubbliche, in particolare là dove la vita del gruppo appare più minacciata. «L'intensità dell'amore di guerra - scrive Hillman - nasce dal crollo di tutti gli altri… la disperazione di una vita vissuta insieme comprime tutto l'amore umano in questi pochi con cui faccio la ronda, oltre a mangiarci, pisciarci, dormirci insieme».

Là dove si costituisce una comunità/persona, quasi fosse un'unità organica, in guerra ma anche nei nazionalismi, nelle costruzioni identitarie, negli arroccamenti etnici, nell'assolutizzazione delle differenze, si può ipotizzare che si riattualizzi, come replica cieca o come ripresa aperta a nuove soluzioni, l'unione originaria con la madre, un modello d'amore immaginario, esclusivo, che vede l'apertura e la diversità come un pericolo. Nel libro curato da Maria Bacchi e Melita Richter, Le guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo (Rubbettino 2203), il legame tra differenziazione dei sessi e pulizia etnica, costruzioni di genere e nazionalismi, è al centro di un interrogativo ricorrente e della elaborazione originale che ne hanno fatto le associazioni femministe, in modo particolare le Donne in nero di Belgrado, strette tra l'attivismo e la solidarietà richiesti dalle ferite della guerra, e il bisogno di capire perché, a parte una stretta minoranza, le donne abbiano dato il loro appoggio a un'ideologia così dichiaratamente patriarcale e guerriera.

Il nazionalismo, scrive Tanja Rener, fa leva sulla comunità e sul sentimento, sulle categorie premoderne della terra, del sangue, della famiglia. Le donne, relegate da sempre in queste zone di frontiera della storia, ma pronte a riemergere in ogni crisi o mutamento della civiltà, vengono sollecitate a riprendersi antiche prerogative, quelle che le hanno viste come custodi della casa, della prole, ma anche dei valori più alti della comunità: madri di eroi e baluardo delle virtù della nazione.

Negate sempre e comunque come individui, tuttavia, osserva Rener, mentre lo stato socialista le aveva considerate solo come "soggetti sociali" svantaggiati, da proteggere ed emancipare, i nuovi stati nazionali le riportano a quella "differenza specifica" che è stata contraddittoriamente il loro asservimento e la loro esaltazione immaginaria. «Le metafore nazionaliste della famiglia parlano di uomini come figli, padri e amanti della casa, patria, nazione… regressione, ritorno al seno materno del figlio che nella "fratellanza fra le nazioni" aveva perduto la vera madre». Se la nazione è un'idea tutta maschile, e la sua nascita è coincisa con il dominio di una comunità "omogenea", in quanto fondata su una genealogia patriarcale, è innegabile, tuttavia, che il richiamo alla patria come "coesione organica", rimanda al corpo materno e a quella irripetibile "fusione" di cui resta, amato e temuto, protagonista.

La coscienza che ha sottratto a una millenaria naturalizzazione il rapporto tra i sessi, oggi può tentare di riportare alla storia - e cioè alla cultura e alla politica - altri enigmatici indicibili annodamenti, primo fra tutti quello che imbrigliando vita e morte, amore e violenza, ha impedito finora una messa in discussione radicale dell'uno e dell'altra, e quindi la presa di distanza dall'immaginario che li sostiene. Anche se ancora lontana, comincia a profilarsi la fine di una parentela (dialettica?) rovinosa.

Liberazione 22.10.05
Italia Stato etico come l'Iran?
Lidia Menapace

Papa Benedetto XVI comincia a fare un po' paura. Ero convinta che fosse un reazionario, però colto e moderno, invece no, colto è, ma se va di questo passo presto ci metterà in guardia da quel razionalista di ferro che rispondeva al nome di Tommaso d'Aquino.

Avevo pensato una battutaccia, quando ricevette la Fallaci, battutaccia che mi ero tenuta per me e pochi intimi. Avevo detto che non sapevo Ratzinger fosse esorcista, eppure non potevo immaginare un solo motivo per ricevere la Fallaci se non per esorcizzarla dai suoi dèmoni. Non era una battuta: Ratzinger preoccupato - giustamente - dal vigoreggiare del satanismo, si mette in gara, iscrive giovani preti a corsi per esorcisti, schiera la magia bianca contro la magia nera.

Non basta: riscopre il giusnaturalismo e va dicendo che tutti i diritti e anche l'autorità vengono da Dio direttamente: insomma torna a prima della Rivoluzione francese dal punto di vista politico e Pera gli corre entusiasticamente appresso. Orbene, sul papa non c'è che da registrare ciò che dice, e se la veda lui col suo padron di casa, del quale è vicario. Ma da Pera si pretenderebbe che conosca la Costituzione italiana almeno quanto un ragazzino di terza media. E invece non sa che al secondo articolo è detto chiaramente che la repubblica italiana non è uno Stato etico, però nemmeno uno stato confessionale: lo Stato non fonda il diritto ma lo riconosce. E' una risposta alla dottrina fascista dello Stato etico contenuta nella formula che ci facevano imparare a scuola: "Niente contro lo Stato, niente fuori dello Stato, niente sopra lo Stato".

E stiamo attenti alle richieste del papa che adesso vuole che Dio non sia messo fuori dalla vita pubblica e quindi sia citato come radice e riferimento politico. Qui siamo fuori dalla Costituzione e per avere un modello costituzionale che piaccia a Benedetto XVI, bisognerebbe fargli omaggio della costituzione iraniana che mette la legge coranica a fondamento dello Stato, infatti chiamato repubblica islamica. Inoltre negli Stati islamici o comunque teocratici (anche Israele) il potere di legiferare non è limitato dal testo costituzionale, costituito sopra le leggi e al limite sottoposto al vaglio di una corte costituzionale, per la retta intepretazione, no: lì la legge è sottoposta a un consiglio di religiosi. Come dire: la Corte costituzionale sia sostituita dalla Cei: forse era la mira di Ruini quando disse che i Pacs sono incostituzionali.

So che il papa, semmai si interessasse di me o Pera se per caso leggesse qualcosa, direbbero che questo è laicismo, mentre è a malapena equilibratissima posizione democratico-costituzionale ed espressione di quella laicità che i credenti dovrebbero dimostrare di possedere perché a loro pertiene. E bisogna ricordare che il laicismo è comunque una risposta al clericalismo: se la chiesa non diventa clericale nessuno diventa laicista; se si mostra clericale, allora un po' di anticlericalismo, giusto per divertirsi, come quello di Gene Gnocchi, o un vero confronto razionale fuori dei denti (e poco importa che venga poi chiamato laicismo) diventa assolutamente necessario, altrimenti ci si ritroverà a dover consegnare a Pasqua l'immaginetta di prova che si è fatta la comunione, come capitava a tutti i dipendenti pubblici nel lodato Impero austroungarico. Che si chiamava Sacro romano impero.

Liberazione 22.10.05
Prc, in direzione, dopo la relazione del segretario, si fa il punto sulla domenica elettorale
La costituente per l'alternativa e le primarie sul programma
di Stefano Bocconetti

Sala Libertini, dove si riunisce la direzione di Rifondazione. Si discute dell'«evento», come lo chiama Bertinotti. Si discute di come e quanto abbiano cambiato quelle quattro milioni di persone che sono andate a votare domenica scorsa. Ma cos'è accaduto davvero con le primarie? Il segretario, nella sua relazione, ha usato un'espressione che farà da leit motiv a tutti i ragionamenti, a tutte le proposte: «l'irruzione della partecipazione». Partecipazione popolare vera, della gente, delle associazioni. Che ha una spiegazione lontana, «la propensione della sinistra italiana a fare leva sul consenso attivo» delle persone. Ma questa è storia. Oggi la domanda di partecipazione interviene nelle vicende politiche immediate. Sul «qui ed ora», come si dice. E rivela il rifiuto forte, viscerale del sistema che chiamiamo berlusconismo. Ma c'è anche qualcosa di più. Qualcosa che ha a che fare con la crisi della politica: quei quattro milioni di votanti e di elettrici hanno delineato insomma «un metodo», si sono riappropriati di una discussione che fino a ieri sembrava restare nell'alveo dei partiti.

Ma tutto questo, come si coniuga col plebiscito a Prodi? A parte che molti interventi - Elettra Deiana e Giovanni Russo Spena, per citarne due - contestano questa definizione, visto che comunque in queste primarie c'è stato un forte scontro dialettico, il dibattito una spiegazione l'ha suggerita. Questa: il popolo delle opposizioni ha votato il candidato che, volontariamente, ha scelto di mantenere un profilo unitario. Che ha scelto di diventare il simbolo dell'unità per mandar via il governo Berlusconi.

Ma assieme al voto per Prodi, le primarie hanno rivelato anche la presenza, la forza della sinistra dello schieramento. Bertinotti dice che gli sembra davvero ancora «incredibile» che 630 mila persone abbiano votato per lui, l'abbiano indicato come leader della coalizione. Ma questo ora conta poco. Di più conta quell'«arcipelago», quel vastissimo arcipelago fatto di singoli e movimenti, che si sono mobilitati per sostenere la sua candidatura. Un «arcipelago» che ha accompagnato Bertinotti nel suo viaggio elettorale, una vera e propria «inchiesta» nel paese reale. Un patrimonio che non può essere disperso.

Ed ecco, allora, la proposta: far nascere, nel giro di poco tempo, una costituente. La costituente della sinistra d'alternativa. Che cominci a disegnare una mappa dei conflitti, delle battaglie che si svolgono in tutto il paese. Battaglie, lotte spesso isolate. Di più: spesso lasciate da sole.

Sinistra d'alternativa, dunque. Ma oggi, in queste ore, c'è la questione del programma dell'Unione. E qui, la relazione anticipa una critica che verrà riproposta dalle minoranze: «Sarebbe un errore dire che l'esito delle primarie possa pregiudicare la battaglia per il programma. Sarebbe lo stesso errore di chi ha sottovalutato il voto per il candidato».

E allora, come fare? Come spostare a sinistra il programma di un'Unione, il cui leader il giorno dopo il voto, se n'è uscito con affermazioni «unilaterali» sull'importanza della direttiva Bolkestain? Anche qui, l'idea chiave è la stessa: «Far irrompere la partecipazione anche dentro la discussione, lo scontro sul programma». Tenendo presente che esiste un doppio vincolo, «un abbraccio reciproco». Prodi s'è affermato come leader riformista ma s'è anche affermato come interprete del bisogno d'unità. E quindi il vincolo verso l'Unione vale per Rifondazione ma vale anche per Prodi verso il Prc.

Far pesare la partecipazione nel percorso che porterà al programma. Fin dove? Bertinotti immagina uno schema per il quale ci sia il grosso delle proposte condivise, altrimenti non avrebbe senso un'alleanza. Ma su alcuni punti, dove la mediazione e la discussione non permettessero di arrivare ad un'intesa, si potrebbe pensare ad una forma di consultazione. Tipo primarie. Col voto, insomma. Un compito che neanche Bertinotti spaccia per «facile». Nessuno, insomma, se ne nasconde le difficoltà ma anche le opportunità.

I compiti, dunque, sono così delineati: battaglia sul programma e contemporaneamente avviare la costruzione della sinistra d'alternativa. Due obbiettivi che non sono in contraddizione fra di loro, proprio perché il rischio maggiore che vede Bertinotti è quello del neocentrismo. Lui dirà che «la grande coalizione tedesca» ha messo fine alla logica dell'alternanza, imposta dai potentati che volevano scegliere fra due schieramenti simili fra di loro. Oggi, il neoliberismo sembra puntare con decisione alla riaggregazione di un grande centro. Ipotesi che bussa anche alla porta del nostro paese. Per ora, però, non ha trovato una fessura in cui entrare, ma il rischio c'è, ed è forte. E lo si batte solo attrezzando una forte sinistra d'alternativa. Sinistra che sia in grado anche di combattere una battaglia politica e culturale contro il nascente partito democratico, quel rassemblement moderato verso cui sembrano tendere diesse e Margherita. Ma tutto ciò non ha nulla a che fare con l'aggregazione dei due partiti in una lista unitaria per le elezioni del 2006. «Sul progetto di una lista simil-Ulivo dovremo avere un atteggiamento di non belligeranza. Ci interessa che la coalizione abbia unità e capacità di attrarre l'elettorato. Come si realizza è cosa da guardare con attenzione e rispetto». Ma tra non belligeranza sul simil-Ulivo e non neutralità, non c'è contraddizione? La risposta: «Sono rimasto impressionato da quanto ha scritto Fassino sul Corriere quando sostiene che non si debba scegliere tra essere socialisti o kennedyani. A parte la simmetria tra i due concetti, colpisce la totale cancellazione della dimensione europea. Saremmo l'unico paese nel vecchio continente ad avere un partito che si chiama democratico, mentre gli altri si chiamano tutti socialdemocratici. In questo modo il termine sinistra verrebbe del tutto abbandonato». Ed è un problema che riguarda tutti, Prc compreso.

Resta da dire della parte parte della relazione che Bertinotti ha dedicato alla vita interna del partito, al rapporto con le minoranze. Per constatare che «le primarie hanno accresciuto le distanze. Ci sono episodi significativi che manifestano un rischio di estraneità», di reciproca incomunicabilità all'interno del partito. La soluzione? E' sempre lì: nella scelta che deve essere condivisa di far leva sulla partecipazione per gli appuntamenti che sono davanti alla sinistra.

Una lettura che non convince tutti. Salvatore Cannavò, uno dei primi a parlare, esponente della «sinistra critica» (quella che si chiamava la IV mozione). Nega che le componenti siano state indifferenti alla battaglia sulle primarie, racconta fatti e aneddoti che testimoniano quanto tutto il partito si sia sentito chiamato in causa. Tutto il partito, lui stesso s'è sentito impegnato. Sulle primarie, verso le quali, pure, nutriva molti dubbi. Nessuno sottavaluta - dice - la forza e l'importanza della partecipazione, soprattutto se si esprime con quei numeri. Ma è sull'analisi del risultato che non è d'accordo: per lui, se l'obiettivo era fare «un'incursione» fra le fila del centrosinistra per spostarne a sinistra l'asse, non si può dire «missione compiuta». Perché oggi l'area riformista è più forte, addirittura autosufficiente.

E che si riparte da una posizione più difficile, più arretrata lo dirà anche Alberto Burgio, esponente della seconda mozione. Secondo il quale le difficoltà sono cresciute proprio perché si è scelto un terreno, le primarie, che non poteva modificare i rapporti a favore della sinistra. Ma Burgio dice di più. E rivela di avere molte perplessità sull'indicazione per le «primarie di programma». Avverte, insomma, il rischio che alcune proposte chiave possano essere sconfitte. Con un partito che nel frattempo s'è legato con vincoli troppo forti all'Unione.

E ancora. L'esponente di un'altra minoranza, Marco Ferrando, di Progetto comunista, ha spiegato che per lui il problema non è lo strumento, le primarie. Per lui la questione è che questa consultazione s'è svolta all'interno del progetto politico del centrosinistra. Il risultato è stato che dopo il più forte movimento sociale degli ultimi trent'anni, ne è uscito vincente Prodi. L'esponente del mondo imprenditoriale e bancario che si è trovato sempre «dall'altra parte della barricata in questi anni». E non c'è alternativa, allora, alla rottura del patto con l'Ulivo.

In Rifondazione si discute così. Molti replicano: Caprilli all'assemblea proporrà una semplicissima domanda: «Ma dove saremo se non avessimo accettato la sfida delle primarie?»; altri, come Alfonso Gianni replicheranno che «è vero che hanno votato due banchieri ma è anche vero che hanno votato decine di migliaia di bancari. Magari gli stessi che 5 anni fa fecero vincere la destra».

Si discute così ma tutti - a cominciare dal segretario - diranno che i toni stavolta sono stati pacati. Civili.

E che soprattutto c'è un impegno unitario a costruire, nel sociale, le condizioni per l'alternativa. Con un'unica raccomandazione. Quella che farà di nuovo Bertinotti nelle conclusioni: «Smettiamolo di provare ad interpretare quel che accade con schemi antichi. Non dobbiamo aver paura di misurarci con ciò che è spurio». Ieri le primarie, domani la battaglia sul programma, dopodomani con quel che accadrà.


Liberazione 22.10.05
Sinistra Ds in coro: «Partito dei moderati? Mai»
Le tre minoranze della Quercia ritrovano l'unità d'azione. Mussi: «Non c'è spazio per una formazione unica»
di Frida Nacinovich

Una notizia: il ramoscello di Ulivo è tornato sui manifesti della Margherita. Francesco Rutelli presenta orgoglioso il simbolo con cui il partito correrà al Senato. C'è una margherita grande grande e un ulivo piccolo piccolo. In natura le cose non vanno proprio così. Pazienza. Carlo Leoni della sinistra Ds tira un sospiro di sollievo: «Il Partito democratico della Camera? Non penso si possa fare». La discussione è aperta, il dibattito non è chiuso, lo spettro del Partito democratico si aggira per l'Unione.

Giornata intensa per le minoranze della Quercia, che s'incontrano e si confrontano. Unite? Non proprio, almeno non ancora. Sicuramente si può parlare di unità d'intenti. Un'altra notizia: Fabio Mussi e Cesare Salvi parlano con una sola voce, in coro. «La sinistra non si deve dissolvere in un soggetto moderato, deve battersi per il rafforzamento di una grande forza politica di ispirazione socialista». I due leader delle minoranze della Quercia ("Correntone" e "sinistra Ds") temono che il ritorno in campo della lista unitaria - che per loro deve avere solo la valenza di una soluzione tecnica imposta dall'arrivo della nuova legge elettorale - e i discorsi sul Partito democratico, fatti da Rutelli e da Veltroni, portino al tentativo di cancellare la presenza dei Ds. Affermazioni incontestabili. «In questi giorni nel centrosinistra - osservano Mussi e Salvi in una dichiarazione congiunta - non si sta discutendo del programma dell'Unione ma ancora una volta, come da dieci anni a questa parte, della progettazione di nuovi partiti politici». Da dieci anni a questa parte. La via del riformismo, si sa, è lunga e lastricata di cattive intenzioni.

Ds, che fare? «L'unità del partito è importante, tanto più nell'imminenza di elezioni decisive», premettono Mussi & Salvi. «Ma l'unità - avvertono - si fonda sul riconoscimento che convivono oggi nei Ds due differenti progetti politici, che qualunque decisione che vada oltre i deliberati congressuali richiederebbe un nuovo congresso». Un altro congresso per passare dal triciclo (Ds, Dl e Sdi) al tandem (Ds, Dl senza Sdi)? Mesi e mesi per discutere, analizzare, sviscerare il matrimonio con la Margherita? Assemblee di sezione e di federazione, vertici locali e regionali e poi un nuovo appuntamento nazionale? Insomma ricominciare da capo. Mussi non ci pensa proprio: «Sì ad una forte alleanza politica con i partner del centrosinistra, no ad un partito unico». Fine di una giornata di convegno su democrazia, lavoro e welfare, appuntamento che vede fianco a fianco le tre componenti della minoranza Ds.

C'è posta per te, segretario Fassino. Non arriva da una delle inviate di Maria De Filippi. Il mittente è la sinistra del partito. «Le primarie non sono fatte per dare forza ad un candidato, ma per scegliere». Mussi accusa il leader diessino di usare le primarie solo a fini «di facciata. Perché in Sicilia dove il candidato deve essere scelto davvero non le vogliono fare».

Democrazia interna ai partiti, diritti del lavoro messi in discussione, mantenimento dello stato sociale. Le diverse anime della sinistra Ds si ritrovano in un hotel di Roma per portare avanti una battaglia politica con l'annessa, possibile prospettiva, di dar vita ad un'unica opposizione interna. Che non è una fusione. All'ultimo congresso di Roma le minoranze della Quercia si sono presentante in ordine sparso dietro le mozioni di Cesare Salvi, Fabio Mussi e della componente degli ambientalisti. E ora? Ora chissà. Sicuramente il Partito democratico può attendere, di questo sono tutti sicuri. Anche fuori dall'hotel. Il dibattito è comunque aperto, la discussione è destinata a continuare. Sia nei Ds che nella Margherita. I tempi della politica possono essere lunghi. E allora appuntamento al botteghino di via Nazionale, lunedì prossimo, per un'ennesima frizzante direzione Ds.

venerdì 21 ottobre 2005

Corriere della Sera 21.10.05
Cinquecento scienziati contro il Dalai Lama «Meditare non serve»
di Ennio Caretto

Il Dalai Lama è al centro di una disputa che ha spaccato in due la scienza americana. La causa: la sua tesi che imparando a meditare intensamente il cervello può generare «sentimenti positivi» come l’amore per il prossimo. Il Dalai Lama è stato invitato a parlarne il mese venturo a Washington, alla riunione della Società neuroscientifica, ma 554 studiosi hanno chiesto che il suo discorso venga annullato. «Daremmo spazio a una personalità che avanza rivendicazioni infondate e comprometteremmo il rigore e l’obiettività scientifici», hanno scritto. Roventi le polemiche: i sostenitori del Dalai Lama accusano i contestatori di «manovre politiche». Alcuni di loro, dice Richard Davidson, della Università Wisconsin Madison, sono cinesi o discendenti di cinesi, e non hanno perdonato al Dalai Lama, la sua opposizione alla Cina dopo l’invasione del Tibet. «E’ un fatto che la contemplazione buddista influisce sull’umore dell’individuo e gli dà un senso di pace», ha proseguito Davidson. «Non vedo perché non dovremmo approfondirlo». E’ lo stesso parere dell’attore Richard Gere, un seguace del Dalai Lama. Secondo il New York Times , è stato Davidson a portare avanti la tesi del Dalai Lama. Il ricercatore ha condotto un esperimento con 25 tecnici e ha scoperto che in fase di meditazione registravano un aumento dell’attività del lato anteriore sinistro del cervello la cosiddetta regione della felicità. In un altro esperimento, Davidson ha accertato che 8 monaci «in stato di contemplazione» producevano più onde gamma di 8 studenti universitari. Le onde gamma sono associate al sistema emotivo umano.
Due dei 554, Yi Raho, un professore della Northwestern University di Chicago, e Nancy Hayes, una docente della Johnson Medical School del New Jersey, hanno criticato gli esperimenti. «Quei monaci avevano da 12 a 45 anni in più degli studenti - ha rilevato Raho - e forse hanno capacità mistiche, il confronto non regge». Ha ammonito la Hayes: «Ci addentriamo su un terreno spirituale sconosciuto, e rischiamo di perdere credibilità». La Società neuro scientifica non ha ancora risposto ai 554, ed è possibile che li ignori e il Dalai Lama riesca a fare il suo intervento. Davidson afferma che «doti come l’altruismo, l’affetto e così via possano essere acquisite o rafforzate» e che sarebbe un grave errore non promuovere la meditazione e la contemplazione. I critici ribattono che uno scienziato non può fare il ricercatore e l’apostolo al tempo stesso.

aprileonline 21.10.05
Cina, primi passi verso la democrazia ?
Esteri. Quale significato attribuire al libro bianco pubblicato dal Pcc sulla “democrazia politica”. Tra le priorità ci sono istruzione e sanità
di Sandro De Toni

Svolta democratica o riaffermazione del primato politico del Partito comunista in Cina? Gli osservatori internazionali si interrogano sul significato da attribuire al libro bianco pubblicato il 19 ottobre dal Pcc sulla “democrazia politica”. Probabilmente il documento, di ben 70 pagine, pubblicato a tre anni dalla presa del potere da parte di Hu Jintao, va letto come un timido passo verso la concessione di alcuni, limitati diritti democratici. Un compromesso tra le varie anime del partito condito con la prudenza e il pragmatismo che caratterizza la dirigenza cinese negli ultimi decenni.
Si auspicano miglioramenti nel sistema di governo del paese, a cominciare dal sistema giudiziario, ma non si fa alcun cenno in tutta la corposa relazione a una riforma elettorale di carattere generale. In compenso, viene ribadito a più riprese il ruolo dirigente del Partito comunista.
“La direzione da parte del Pcc è la garanzia fondamentale affinché il popolo rimanga padrone del paese e sia governato dalla legge”, si legge nel libro bianco intitolato “La costruzione della democrazia politica in Cina”. Si sottolinea che -opportunamente peraltro - “la democrazia in un Paese è in generale un affare interno e non può essere imposta da forze esterne”. La democrazia ideale per la Cina non deve imitare il modello occidentale (“ci opponiamo all’appello anarchico di una democrazia per tutti”), ma perseguire “le teorie democratiche del marxismo” e “una democrazia popolare sotto la direzione del partito comunista”.
Apparentemente nulla di nuovo, ma in realtà alcuni accenni al processo di democratizzazione del partito (l’abolizione del sistema per le elezioni interne del metodo “un posto - un candidato”), agli errori del passato (Rivoluzione culturale e non solo), all’estensione in alcune città delle elezioni per le municipalità attuate finora solo nei villaggi, a miglioramenti nel sistema giudiziario, ai diritti dei lavoratori e a quelli religiosi, sembrano configurare un passo significativo verso una democratizzazione della società cinese. D’altronde essa rappresenta una scelta quasi obbligata per l’attuale leadership del paese di fronte alla crescita delle tensioni sociali, degli scioperi e delle rivolte contadine, una conflittualità oggi ben superiore a quella che dette vita nel 1989 all’occupazione di Piazza Tienanmen. Che, ricordiamo avvenne in contemporanea con la visita di Gorbaciov, esempio da non emulare agli occhi dei dirigenti cinesi, pena la frammentazione dello Stato e la fine del ruolo egemone del Partito. Si procederà dunque a piccole tappe.
Finora la democratizzazione in Cina procede in realtà in maniera del tutto contraddittoria. Si accelera l’adozione di norme di diritto civile ispirate al diritto romano, anche al fine di regolare il mercato e l’attività economica, ma si continuano a registrare arresti arbitrari, perfino di cybernauti (62 reporter on line arrestati nel 2005), soprusi di funzionari, corruzione a tutti i livelli dell’Amministrazione, nonché la proibizione di sindacati indipendenti e la repressione delle manifestazioni di protesta, come recentemente nella Città di Chongquing (vedi Aprileonline del 13 ottobre scorso) oppure come nel villaggio di Taishi, nel Guandong, in rivolta contro amministratori corrotti (l’8 ottobre la polizia ha picchiato e ridotto in fin di vita il rappresentante della comunità, Lu Banglie, dopo avere a più riprese aggredito gli abitanti del villaggio nei mesi scorsi).
La pubblicazione di questo “libro bianco” segue l’approvazione da parte del plenum del Pcc che si è riunito dall’8 all’11 ottobre, delle linee guida per la redazione dell’11° piano economico quinquennale (2006-2010) che mettono l’accento più che sulla “crescita”, sulla “riduzione delle differenze tra ricchi e poveri”, tra regioni costiere sviluppate e quelle interne, e in generale le aree agricole dove vivono 700-800 milioni di cinesi. Il concetto è quello dello “sviluppo armonioso”.
Tra le priorità l’istruzione e la sanità. La protezione sociale è, infatti, essenzialmente comunale e presente soprattutto nelle grandi città, mentre è praticamente inesistente nelle campagne. La filosofia diventa quella della “ripartizione dei benefici della crescita nel popolo”, e questo implica “una tassazione più elevata per le aree ricche”. Ma siamo ancora allo stadio del dibattito politico. Il vero problema per l’attuazione di queste misure – secondo, ad esempio, l’opinione dell’esperto dell’Istituto Brookings di Washington, Huang Jing – è quello di evitare che esse siano snaturate dalle autorità locali.
In ogni caso, qualcosa si sta muovendo. Il modello di capitalismo asiatico applicato su larga scala in Cina negli ultimi 25 anni sta infatti cozzando contro i costi sociali (e ambientali) del suo “successo”. I nuovi dirigenti sembrano intenzionati a mettere progressivamente in piedi un sistema di welfare inteso come strumento necessario per l’ulteriore sviluppo della società cinese. Il processo di democratizzazione, in quest’ottica, avrebbe dunque un retroterra non solo economico (liberale) ma anche sociale e potrebbe cosi camminare su gambe più solide.

Corriere della Sera 21.10.05
Nelle fotografie di Hitler l’arte perduta
Nel ’43 fece censire le opere minacciate dalla guerra: 60 mila scatti. Da oggi su Internet

L’ordine partì da Hitler in persona. Era la primavera del 1943. Il führer diede l’incarico al ministro della Propaganda, Joseph Goebbels: un team di universitari, fotografi, storici e chimici - comandò - avrebbe fatto una sorta di censimento d’arte nelle chiese, nei palazzi e nei monasteri dell’Europa occupata dai nazisti. Non un inventario tout court degli oggetti d’arte ma una raccolta di immagini di tutti gli affreschi che, artisticamente o storicamente, avessero una qualche importanza. Non è chiaro quanti fotografi furono impiegati nell’operazione, gli storici dicono fra i 50 e i 150. Catalogarono più di 60 mila immagini (diapositive) e in un’Europa che loro stessi avevano ridotto in bianco e nero con la guerra, i nazisti usarono per la prima volta un sistema che consentiva fotografie a colori, di buona qualità. Tutti quegli scatti (almeno quelli finora digitalizzati) da oggi sono visibili online, all’indirizzo www.zi.fotothek.org . Sulla piazza infinita del Web si affacciano come finestre luminose i colori di tesori perduti per sempre sotto le bombe degli Alleati. Era proprio questo che Adolf Hitler temeva: che i bombardamenti potessero distruggere chiese ed edifici storici nel cuore del vecchio continente e, a modo suo, ha salvato quantomeno la memoria dei loro interni. Almeno il 60% degli affreschi immortalati dai fotografi del führer finirono sbriciolati da una pioggia di bombe anglo-americane che gli stessi nazisti sapevano di non poter più evitare, soprattutto dopo la disfatta tedesca di Stalingrado nell’inverno ’42-’43.
In tutti questi anni le immagini degli affreschi sono state custodite fra l’Istituto centrale di storia dell’arte di Monaco e l’Archivio fotografico di Marburg. Sono fotografie scattate in Germania (da Dresda a Francoforte, da Monaco a Berlino) ma anche in Austria, in Russia, in Polonia e nella Repubblica Ceca.
Fra gli affreschi che gli anziani berlinesi ricordano e che da oggi rinascono con l’archivio dei nazisti, c’è La guerra , di Friedrich Geselschap, artista del XIX secolo. Adornava una delle sale più belle della Zeughaus, edificio raso al suolo dagli Alleati. Fu l’italiano Luca Antonio Colombo, invece, a dipingere la Fanfara degli angeli del Thurn und Taxis Palace, a Francoforte. Il palazzo diventerà un hotel di lusso e gli architetti stanno già studiando come ripristinare il lavoro del pittore partendo dalle foto digitali ora disponibili. Anche i lavori di Franz Karl Palko nella Hofkirche di Dresda potrebbero essere recuperati. «Il problema è che i colori, con il tempo si sono un po’ deteriorati» spiega Stefan Klingen, dell’Istituto centrale della storia dell’arte di Monaco. «In ogni caso, anche con i colori un po’ sbiaditi, questo resta un patrimonio preziosissimo, anche per la memoria storica dei luoghi. Come mai le pubblichiamo proprio ora? Perché dopo sessant’anni i tempi erano maturi, tutto qui».
Sono tanto maturi, i tempi, da consentire anche deduzioni sulla psicologia di Hitler. Quando il führer ordinò le fotografie sapeva bene che la guerra era perduta, come lo sapevano i suoi fotografi, ciascuno dei quali si guardò bene dall’esprimere impressioni e sentimenti di sconfitta, pena la morte. Nessuno sa dire per quanto tempo il team segreto governato da Goebbels archiviò fotografie. Di certo quello diventò un lavoro vero e proprio, per molti mesi. Il ministero della Propaganda pagò fatture ai fotografi fino al marzo del ’45.

aprileonline 21.10.05
L'intelligenza armata di Bush
Stati Uniti. Il Pentagono in collaborazione Stanford University lancia i primi robot militari. L'arte di fare la guerra senza gli uomini
di Stefano Rizzo

Prologo. Una bomba che scoppia su una strada polverosa, un veicolo militare salta per aria e prende fuoco. Voce fuori campo che recita le statistiche secondo le quali quasi la metà dei 2000 soldati americani fin qui caduti in Iraq sono morti a causa di bombe piazzate sulla strada o di granate lanciate contro i loro veicoli. L’esercito ha provato in tutti i modi a risolvere il “problema”: rinforzando la parte inferiore degli humvee (che essendo più bassi e larghi sono più vulnerabili delle vecchie jeep), applicando dei congegni elettronici per bloccare i segnali elettrici che fanno detonare le bombe. Ma niente, appena trovata la soluzione, quei diavoli di Al-Qaeda scoprivano il rimedio: comandi a raggi infrarossi, bombe direzionali, esplosivi più potenti -- e i soldati continuano a morire.
Allora, non sapendo più che pesci prendere, i generali si sono rivolti al Darpa (Defense Advanced Research project Agency), il braccio tecnologico del Pentagono, quelli che, per intenderci, negli anni ’70 avevano sviluppato Arpanet, il predecessore di Internet, e successivamente l’aereo senza pilota Predator e l’aereo invisibile Stealth: gente intelligente, “scienziati pazzi” che inventano sempre nuove diavolerie, un po’ come nei film di James Bond. E quelli del Darpa hanno avuto un’idea: se non puoi impedire che i veicoli vengano colpiti, la soluzione è di togliere gli uomini dai veicoli.
Stacco sul deserto del Nevada all’alba. E’ il giorno (8 ottobre) della seconda edizione della “Grand Challenge”, la grande sfida. La folla è assiepata dietro le transenne mentre 23 strani veicoli, tra cui un camion militare, una volkswagen touareg, un paio di humvee, diversi Suv, scaldano i motori rombando sul piazzale. Di strano, oltre all’apparenza, hanno che ciascuno sulla fiancata porta il suo nome: Stanley, Alice, Spider , Highlander, Sandstorm. A un segnale convenuto, uno dopo l’altro, i mezzi si mettono in moto sollevando nuvole di polvere e, dopo poco, sono scomparsi all’orizzonte.
Immediatamente si alzano in volo due elicotteri per sorvegliarli dall’alto, mentre i camion dell’assistenza seguono i concorrenti. Dopo poche miglia già due veicoli finiscono in un fosso, le loro ruote girano a vuoto nell’aria, finché da un camion qualcuno pone fine allo strazio; qualche tempo dopo un Suv dalle ruote gigantesche si schianta contro un muro e continua a sbattere contro la barriera di cemento nel tentativo di superarla; un altro si sfracella cadendo da un ponte e altri due, quando è già il tramonto e la corsa sta per finire, precipitano in un crepaccio.
Dopo sette ore di “corsa”, alla media di 30 chilometri l’ora su piste sterrate, attraverso torrenti in secca e passi montani, a tagliare il traguardo sono stati soltanto in due, il vincitore Stanley ed un altro. Grande esultanza, nonostante i 21 caduti lungo il percorso e premiazione della squadra vincente con un assegno di due milioni di dollari.
Epilogo. Avrete capito di cosa si trattava. A bordo di quei veicoli non c’era nessuno, ma non erano macchinette telecomandate. Erano dei robot dotati di complesse apparecchiature elettroniche e di potentissimi computer in grado di prendere i milioni di decisioni al secondo necessarie a fare qualcosa di così relativamente semplice (per un essere umano) come guidare una macchina. La maggior parte non c’è riuscita, ma Stanley sì.
Il progetto era finanziato dal Pentagono e da Darpa in collaborazione con varie università, tra cui la Stanford university, che ha creato Stanley nel suo laboratorio di intelligenza artificiale. I veicoli avevano ricevuto “istruzioni” soltanto sulla destinazione e si orientavano con i satelliti a posizionamento globale; i camion che li seguivano potevano intervenire solo per bloccare il mezzo nel caso che fosse impazzito e mettesse in pericolo qualcuno.
Sembra, ma per incompetenza manifesta non siamo in grado di giudicare, che la svolta rispetto alla corsa di un anno fa, quando tutti i mezzi andarono distrutti, è consistita nell’applicazione di un nuovo e rivoluzionario software, che imita le modalità di scelta probabilistica del cervello umano (rispetto a quella deterministica dei calcolatori). E’ naturale che la comunità scientifica fosse molto eccitata di fronte ad un evento definito senza precedenti. Qualcuno l’ha addirittura paragonato al primo volo aereo dei fratelli Wright preconizzando una nuova era di robot intelligenti in grado di spostarsi senza l’intervento umano, come nei film di fantascienza.
Non sappiamo se queste promesse verranno mantenute. Osserviamo soltanto che appena un mese prima di questo “trionfo della scienza” alcune centinaia di persone sono morte perché delle cose a basso contenuto tecnologico come le pompe e le dighe si erano rotte. Osserviamo anche che di fronte ad un’eventuale epidemia influenzale gli Stati Uniti, per incuria del governo, sono privi di vaccini, e che i pacemaker difettosi della Guidant Corporation hanno provocato decine di morti prima di essere ritirati dal mercato.
Ma i progressi della scienza non si discutono. Ed è sicuramente un grande progresso potere fare la guerra senza gli uomini. Non bastava che il rapporto tra i morti buoni e quelli cattivi fosse di 1 a 30 (secondo stime al ribasso). Bisognava che fosse di 0 all’infinito. Così, finalmente, quando i robot entreranno in funzione a morire saranno soltanto i nemici.

Il Tempo 19.10.05
GLI ATEI, fin dai tempi più antichi, non hanno mai avuto buona stampa
di Diego Gabutti

Agl'increduli non si fanno sconti: tutte le religioni, comprese quelle più aperte e tolleranti, hanno sempre detestato l'ateismo in tutte le sue forme, come racconta Michel Onfray, un ateo entusiasta, nel suo «Trattato di ateologia», Fazi Editore, 200 pagine, 14 euro, un libro per palati forti. Ateo, spiega Onfray, è un termine che è rimasto a lungo nel vago e che soltanto di recente, nel Settecento e nell'Ottocento, ha acquistato il suo attuale significato. Prima di passare a indicare, come oggi, chi nega Dio o gli dèi, ha indicato chi segue un altro Dio e altri dèi, o anche soltanto chi ha un'idea eterodossa, eretica e dissidente, del Dio e degli dèi dominanti. Furono alcuni filosofi illuministi, prima della rivoluzione francese, a trasformare quello che all'origine non era che un'ingiuria teologica, un po' come dare del ladro all'avversario politico, in una precisa rivendicazione filosofica. Cominciò Jean Meslier, un prete miscredente, che nel 1729 scrisse e pubblicò un libro intitolato Mémoire de pensées et sentiments de Jean Meslier ou démonstrations claires et évidentes de la Vanité e de la Fausseté de toutes les Divinités et de toutes les Religions du Monde. Seguirono, negli anni successivi, le opere del barone Paul Heinrich Dietrich d'Holbach, autore del Sistema della natura, un materialista radicale che del moderno ateismo fu, nel Settecento, il principale portabandiera: «La natura, voi dite, è del tutto inesplicabile senza un Dio. In altri termini, per spiegare ciò che capite ben poco, avete bisogno di una causa che non capite affatto». Nell'Ottocento furono gli hegeliani di sinistra, da Ludwig Feuerbach a Karl Marx, a raccogliere dai materialisti francesi la bandiera dell'ateismo, che poi tramandarono a Nietzche, il cui nichilismo era una forma d'ateismo estremo. Lettore attento di Dostoevskij, come attestano i suoi taccuini di lavoro, Nietzsche era affascinato dall'ateismo dei personaggi di Dostoevskij (mentre Dostoevskij, che li aveva messi al mondo, ne era invece filosoficamente disgustato). Fu uno strano caso di contaminazione culturale. Come se al cinema, guardando Guerre stellari, uno spettatore tifasse per Darth Veder contro Luke Skywalker e la Principessa Leila. Michel Onfray, ex insegnante di liceo, «ha fondato nel 2002 l'Università popolare di Caen, che dispensa corsi di filosofia a centinaia di persone d'ogni età e ceto sociale», recita la terza di copertina del Trattato di ateologia. Ateo fondamentalista, impegnatissimo a sinistra, Onfray è l'ultimo degl'illuministi militanti e il suo libro, più che un trattato d'ateologia, come afferma il titolo, è una chiamata alle armi, e quasi un catechismo. Onfray, come i preti di cui denuncia il dogmatismo e le chimere, cerca discepoli. Mentre setaccia la storia della filosofia, cercando per l'ateismo degli antenati nobili, finisce per scrivere un libro che somiglia, nella sua lingua invecchiata da pamphlet e nei suoi furori un po' astratti da filosofo neolibertino, ai libelli settecenteschi che mette in catalogo, ma solo come la caricatura, o una fotografia ingiallita, somiglia al suo modello. Non racconta la storia dell'ateismo nè la grandezza dei suoi propositi. Non ne sposa, in realtà, neppure la causa. Indossa una parrucca incipriata da filosofo illuminista, affonda il naso nella tabacchiera e gli fa il verso. Elenca minuziosamente, con voce ispirata, le contraddizioni e le aporie del pensiero religioso e poi le smonta punto per punto, come un hegeliano di sinistra nel 1848. Onfray identifica l'ateismo con la ragione, com'è giusto, ma la sua è la Ragione maiuscola e stereotipata di chi s'ispira a qualche vecchio libro e cerca d'imitarne lo stile, come se la ragione conoscesse una sola lingua: il gergo elegante ma ormai polveroso del libello settecentesco. Oggi la ragione non ha più bisogno di maiuscole: la sua autorità, per quanto contestata dai demagoghi, si fonda su duecento anni di scoperte scientifiche, cioè sul divenire stesso del mondo. Ridurla, come fa Onfray, all'esatto contrario del messaggio religioso, negandole così ogni altro scopo, significa non prenderla sul serio.

dalle Agenzie del 21.10.05:
alla direzione del Prc Fausto Bertinotti ha detto:

Apcom
UNIONE/ BERTINOTTI: NON SAREMO NEUTRALI...
"Fassino in contraddizione con sua relazione al congresso Ds"

Roma, 21 ott. (Apcom) - Il panorama politico, secondo Bertinotti, è "in una fase terremotata", nel senso che, prevede il segretario del Prc, "tra cinque anni la geografia dei partiti sarà molto diversa e si andrà verso il classico perché la fase post-moderna dei partiti leggeri è alla fine. Si ritornerà ad una politica classica con i nomi che hanno caratterizzato i grandi corsi delle forze politiche neutre". Secondo il segretario del Prc, se "adesso l'avversario è Berlusconi", tra un po' di anni lo sarà un agglomerato "centrista, vista la spinta neocentrista attuale".
Per spiegare la diversità di vedute rispetto al progetto di partito democratico, Bertinotti fa riferimento all'articolo del Corriere della Sera di ieri sulla posizione del segretario dei Ds Piero Fassino. "Fassino - sottolinea Bertinotti - dice che il partito democratico deve essere socialista e kennediano. Io faccio notare la asimmetria dei due termini, perché il socialismo indica la storia di un secolo, con una teoria politica alle spalle. Ciò che si riferisce a Kennedy è uno scampolo dentro una storia del partito democratico con una fisionomia interessante, ma contraddittoria e non in grado di fondare una cultura politica. E poi - continua Bertinotti - Fassino entra in contraddizione con la sua relazione all'ultimo congresso dei Ds: lui stesso accettò che fosse definita una relazione socialdemocratica".
Secondo Bertinotti, parlare di partito democratico senza definirlo anche socialista vuol dire ridurre la tematica del lavoro ad un ambito "settoriale e meritevole della stessa azione che si deve al capitale. Verrebbe abrogata la radice di classe interpretativa che invece resta il caposaldo della cultura di sinistra europea". In questo senso, la formazione di un partito democratico, secondo il segretario del Prc, "indebolirebbe la sinistra italiana e costituirebbe una anomalia in Europa, continente fortemente caratterizzato da partiti socialisti. Neanche Schroeder, quando parlava del nuovo centro, e nemmeno Blair, quando ha fondato il New Labour, si proposero di togliere l'aggettivo socialista dalla formazione che stavano costruendo".

Apcom
UNIONE/ BERTINOTTI: NON SAREMO NEUTRALI VERSO PARTITO DEMOCRATICO
Saremo non belligeranti verso lista simil-Ulivo

Roma, 21 ott. (Apcom) - La linea di Rifondazione Comunista è di "non belligeranza verso una lista simil-Ulivo, ma di non neutralità verso l'idea di Partito Democratico". Così Fausto Bertinotti ha illustrato l'impostazione del partito nei confronti del "campo riformista" dell'Unione, nella relazione alla direzione nazionale del Prc.
"Non dobbiamo confliggere affatto con una lista del simil-Ulivo - dice Bertinotti riferendosi al progetto di lista unitaria di Ds e Margherita per le prossime politiche - ma nei confronti dell'idea di Partito Democratico la nostra scelta è di non neutralità". Secondo Bertinotti non si può "cancellare la dimensione europea" dall'idea di un partito democratico, "attribuendo la leadership a Clinton ed escludendo le storie dei partiti socialisti europei. Sarebbe l'unico a chiamarsi democratico tra tutti i partiti che si oppongono alle destre".
"Persino i teorici del blairismo - sostiene il segretario del Prc - affermano che l'idea presente in Italia di dare al centrosinistra una connotazione democratica è un sciocchezza, in tutta Europa la connotazione dei partiti opposti alle destre è social-democratica".
Al progetto di partito democratico Bertinotti pensa di opporre "una battaglia politico-culturale a sinistra, senza fare i maestri di scuola - spiega - perché non abbiamo né i numeri né la riconosciuta autorevolezza. Questa battaglia deve essere basata sulla costruzione di una sinistra di alternativa per intervenire contro l'esito di un partito democratico che, ammettiamo, non è per nulla indolore o scontato".
Quanto alla scelta di "singole forze dell'Unione di darsi altre forme di unità", come può essere la lista unitaria Ds-Dl per le politiche, "dobbiamo lavorare con grande spirito unitario evitando elementi che ci vedano belligeranti", sottolinea Bertinotti.

Apcom
UNIONE/ BERTINOTTI:PATTO DI NON BELLIGERANZA TRA LISTE COALIZIONE
Preoccupato da lista Ulivo? No, non è un partito

Roma, 21 ott. (Apcom) - Rispetto all'assetto delle liste delle forze politiche dell'Unione per le prossime elezioni politiche, Fausto Bertinotti invita ad un "atteggiamento di reciproca non belligeranza per accompagnare positivamente le scelte della coalizione". Parlando ai giornalisti al quartiere generale del Prc, Bertinotti esplicita il pensiero espresso anche nella relazione alla direzione nazionale del partito.
"Mi interessa la capacità di unità e di attrazione complessiva dell'Unione - spiega - il come le diverse forze si presenteranno alle elezioni va guardato con attenzione ma senza interferenze: va bene se il campo riformista presenta una lista 'simil-Ulivo', va bene se altre forze danno vita ad una lista arcobaleno".
"Nulla quaestio", dunque, rispetto alla lista unitaria di Ds e Margherita, sottolinea Bertinotti, che però annuncia una "battaglia politico-culturale" rispetto al progetto di Partito Democratico, pensato dalla Quercia e dai Dl. Preoccupato che le formazioni che si presenteranno in una lista unitaria riformista possano costituire un 'partito di maggioranza relativa forte' nell'Unione? "No - risponde il segretario del Prc - questa è una lista e non un partito. E non è neanche sicuro che diventi un gruppo parlamentare".

Apcom
ELEZIONI/ BERTINOTTI: PARTITI APRANO LISTE ANCHE A NON ISCRITTI
Usare su candidature il modello partecipazione delle primarie

Roma, 21 ott. (Apcom) - "Nel caso dovessimo andare alle elezioni politiche con la nuova legge elettorale e quindi con un meccanismo che prevede che i partiti decidano le candidature, una parte di queste candidature sia il risultato di una ricerca tra i soggetti esterni vicini ai partiti in modo da formare una rappresentanza parlamentare fatta anche da non iscritti". E' l'idea di Fausto Bertinotti per il suo partito della Rifondazione comunista e che il segretario del Prc si augura sia comune anche agli altri partiti di centrosinistra.
Parlando con i giornalisti in una pausa della direzione del Prc, Bertinotti esorta a "investire nella partecipazione democratica anche sui programmi, sulla scelta delle leadership dei governi locali e sulla formazione delle liste, come è avvenuto per le primarie del centrosinistra".

Adnkronos
UNIONE: BERTINOTTI, ESTENDIAMO LE PRIMARIE A PROGRAMMA E CANDIDATI 2006

Roma, 21 ott. - (Adnkronos) - Estendere le primarie per la scelta delle candidature ai vari livelli istituzionali, allargandole fino al programma dell'Unione per il 2006. Sull'onda della grande partecipazione alle consultazioni organizzate dal centrosinistra, il segretario del Prc, Fausto Bertinotti, propone di utilizzarle anche per altri temi.

Adnkronos
UNIONE: BERTINOTTI, PARTITO DEMOCRATICO NUOCEREBBE ALLA SINISTRA
UN ERRORE DIVENTARE CLINTONIANI DIMENTICANDO DI ESSERE SOCIALISTI

Roma, 21 ott. (Adnkronos) - La prospettiva del partito democratico entra in conflitto con la storia politica della sinistra europea. Se il segretario del Prc, Fausto Bertinotti, sostiene di ''non aver nulla da obiettare'' sulla ri-nascita della lista unitaria, ben altro atteggiamento riserva all'idea di trasformarla nel partito democratico. Anzi, spiega il leader di Rifondazione a margine della direzione del partito, l'atteggiamento verso la lista dell'Ulivo e' di ''attenzione e rispetto. Credo invece che si ci interroghiamo sulla marcia verso il partito democratico, penso si debba ingaggiare un confronto di carattere politico''.

Apcom
PRIMARIE/ BERTINOTTI A MINORANZE PRC: ACUITA DISTANZA TRA DI NOI
Legittimo dissenso, ma necessaria unità in scelte di lavoro

Roma, 21 ott. (Apcom) - Pur riconoscendo "la legittimità del dissenso" interno al partito, Fausto Bertinotti, usa toni molto duri nella sua replica agli attacchi sferrati dalle minoranze interne al Prc, all'indomani delle primarie. "Queste primarie - riconosce Bertinotti nella relazione alla Direzione nazionale del Prc - hanno accresciuto le distanze nel partito e hanno irrigidito il dissenso delle minoranze. Lo si era visto anche al congresso, ma nella pratica politica la manifestazione di un dissenso di queste proporzioni ha un peso maggiore".
Bertinotti non imputa ad intere federazioni del Prc gestite dalle minoranze una mancanza di impegno nella campagna elettorale per le primarie, ma punta il dito contro singoli esponenti di minoranza (pur non citandoli) che, a dire della maggioranza del partito, non avrebbero partecipato attivamente nel sostegno alla sua candidatura per la consultazione del 16 ottobre.
"La sottrazione all'impegno non ha riguardato il partito nel suo insieme, propongo una lettura separata", precisa il segretario del Prc. "Ma temo - aggiunge - che dobbiamo mettere all'ordine del giorno il rischio di una reciproca incomunicabilità ed estraneità".
A questo punto, Bertinotti propone alle minoranze una "rettifica nei comportamenti", vale a dire "una presenza unitaria nelle scelte di lavoro che vengono decise". Questo, secondo Bertinotti, "sarà tanto più efficace tanto più il partito sarà in grado di capitalizzare la rete di contatti costruita con le primarie e dare vita ad un progetto di sinistra di alternativa come priorità nel dopo primarie".
Si tratta, per Bertinotti, di "costruire un piano di lavoro del partito che riparta dai movimenti" e che inneschi la battaglia "contro la Finanziaria, per il contratto dei metalmeccanici, per il referendum contro la devolution, e per l'opposizione alla legge elettorale".
E, a proposito di legge elettorale, Bertinotti si toglie l'ultimo sassolino dalla scarpa: "Non capisco - attacca, rivolto alle minoranze - come non si veda che, se avessimo scelto un'altra politica, si sarebbe prodotta una devastazione tra noi e il popolo della sinistra, ci sarebbe stata se ci fossimo messi a dialogare di proporzionale con il governo".

Il Tempo 21.10.05
I numeri del disagio giovanile

Sono due milioni i giovani compresi nella fascia d'età fra i 15 e i 30 anni che hanno disturbi dell'umore, di ansia e di personalità: lo rende noto Maria Burani Procaccini, presidente della Commissione parlamentare per l'infanzia, che invita a «non generalizzare la drammatica vicenda dell'Esquilino». «Il 55% della popolazione complessiva italiana presenta o ha presentato nel corso della vita disturbi mentali» afferma la deputata, riferendo alcuni dati forniti in passato da Giovan Battista Cassano, docente all'Università di Pisa, «considerato uno dei più grandi psichiatri del mondo». «Secondo questi dati - prosegue Burani - lo stesso concetto di normalità diventa alquanto aleatorio e risultano pericolose le generalizzazioni che legano imprescindibilmente la violenza omicida ai disturbi mentali».

La Provincia 21.10.05
Cercando la morale nel cervello
Un ramo delle neuroscienze si dedica all'indagine delle basi biologiche delle nostre scelte etiche
Anche l'amore romantico è diventato così un oggetto di studio su basi essenzialmente fisiche
di Elena Salvaterra


Un tram impazzito sta investendo cinque persone, se il tram non cambia direzione esse moriranno di sicuro. Il solo mezzo per salvare queste persone è quello di attivare una leva che devia il tram su un altro binario, in questo modo tuttavia perisce un'altra persona: una sola invece di cinque. Che cosa fare? Inutile arrovellarsi alla ricerca di una risposta logica. L'opzione se sacrificare una vita umana per metterne in salvo cinque o non sacrificarne affatto lasciando che sia il caso a decidere della sorte dei malcapitati è un dilemma etico. Una questione per filosofi morali, teologi, giuristi e, da alcuni anni, neuroscienziati. È infatti con l'avvento delle neuroscienze e in particolare con lo sviluppo di strumenti di indagine innovativi per lo studio del funzionamento e del metabolismo del cervello - le tecniche di neurovisualizzazione in primo luogo - che vengono gettate le basi per lo sviluppo di un nuovo ambito di conoscenza del pensiero e dell'agire morale: la neuroetica. Così chiamata per la prima volta da Adina Roskies, del Massacchusets Institute of Technology, in un breve saggio pubblicato su Neuron (2002), la neuroetica studia le basi e i processi neurali implicati nella rappresentazione dei valori morali, nella elaborazione del pensiero etico, nella traduzione in concreto delle idee e del meditare morale. Come per le neruoscienze in generale anche per la neuroetica l'area cerebrale interessata non è soltanto quella della cognizione - cognitive domain - ma quella ulteriore della affettività - affective domain - lo spazio in cui risiedono e entrano in gioco i sentimenti primari, qualificabili in termini di automatismi emotivi (la paura, ad esempio) e i sentimenti secondari, frutto di una più o meno complessa elaborazione cognitiva (l'amore, ad esempio). Tornando all'interrogativo di apertura di questo articolo, le tecniche di neurovisualizzazione correnti come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), permettono di visualizzare le regioni cerebrali che si attivano nel momento in cui ci si trova ad affrontare dilemmi etici del tipo di quello descritto sopra. Altri strumenti consentono di verificare che cosa accade dal punto di vista neurobiologico nel momento in cui si prospetta l'assunzione di una scelta etica complessa come quella di decidere quali e quante vite risparmiare. L'oggetto di studio della neuroetica peraltro non è circoscritto all'ambito delle scelte morali complesse. Tra i temi esaminati dalla neuroscienza dell'etica possono essere ricordati l'amore romantico, i trattamenti farmacologici per il miglioramento della memoria o dell'attenzione fino alla modificazione della personalità. «Le basi neurali dell'amore romantico», infatti, non è la versione aggiornata della fortunata collana Armony, ma il titolo di un articolo scientifico pubblicato da un gruppo di ricercatori dell'University College of London sulla rivista NeuroReport (The neural basis of romantic love, 2000). Secondo quanto descritto nell'articolo, quando sono mostrate a dei volontari foto di amici e conoscenti, è possibile osservare con la risonanza magnetica funzionale (fMRI) l'attivazione di alcune precise regioni cerebrali, a condizione che le foto mostrino il volto dell'amato/a. Le regioni interessate da questa particolare attività sono l'insula e la corteccia del cingolo anteriore, strutture rispettivamente associate al trattamento degli stimoli visivi e alle risposte emotive. Inaspettatamente poco partecipe l'amigdala, un altro importante centro per il trattamento delle emozioni. Altro oggetto di studio della neuroetica è quello dei trattamenti farmacologici per il miglioramento della memoria o dell'attenzione. Il tema è delicato e si presta ad aprire scenari inquietanti. Se infatti la legittimità etica della neurofarmacologia non entra in discussione nel momento in cui i trattamenti farmacologici sono volti a compensare disturbi cognitivi legati all'invecchiamento, a eventi traumatici, a patologie di natura neurologica o psichiatrica, i confini dell'eticità degli interventi farmacologici sul cervello umano si fanno più sfumati nel momento in cui tali interventi sono volti a ottimizzare le facoltà intellettive di soggetti sani: studenti desiderosi di alzare la media dei voti, professionisti che vogliono alzare la qualità delle prestazioni professionali. Per comprendere appieno la portata del rischio legato all'impiego di trattamenti neurofarmacologici fuori dalla situazioni di deficit cognitivo, occorre spostare l'attenzione sugli effetti che tali farmaci hanno sulla fisiologia delle funzioni sulle quali vanno ad agire (la memoria, ad esempio). I neurofarmaci agiscono sui meccanismi della plasticità sinaptica, il processo mediante il quale la struttura e il funzionamento delle sinapsi - le vie di collegamento fra i neuroni - si rimodellano sottilmente sotto l'effetto dell'esperienza, influenzando in questo modo l'efficienza e la specificità dei circuiti neurali. La plasticità delle sinapsi non è limitata ai sistemi neurali che sottendono le prestazioni cognitive. Essa si manifesta anche nei circuiti di neuroni implicati nel trattamento delle emozioni. È, in altre parole, uno dei principali elementi che conferiscono ad ogni essere umano la propria unicità, attraverso una instancabile riplasmazione di idee, sogni, comportamenti, emozioni, vissuti che l'individuo esperisce dentro di sé e nell'interazione con l'ambiente circostante. Lo scenario al quale possono aprire intrusioni nella struttura e nel funzionamento della plasticità sinaptica come di altri processi cerebrali è magistralmente descritto in Frankenstein: il moderno Prometeo di Mary Shelley. Con una differenza significativa rispetto ai quesiti di apertura dell'articolo: il livello dell'analisi non è più quello della neuroetica ma, con un'espressione altisonante, della meta-neuroetica.

Bollettino Università e Ricerca 21.10.05
Università di Padova
L'orgia estetica. La donna, una questione di corpo

Donne come calchi di cartelloni pubblicitari. Stereotipate controfigure di modelle, attrici e reginette di bellezza. Corpi non più da vivere ma da plasmare, perfezionare, esibire. Il conseguimento di quella bellezza dettata e imposta dalla moda e veicolata in maniera capillare, martellante, invadente dai media sembra essere l'unica via che ha la donna per non essere out in una società che ha fatto dell'apparire un dio e dell'invecchiare una cosa di cui si deve fare a meno, una società che ha fatto - come giustamente sostiene la scrittrice marocchima Fatima Mernissi - della taglia 42 il chador occidentale.
Il Convegno L'orgia estetica. Il corpo femminile tra armonia ed esasperazione, che si terrà a Palazzo del Bo il 25 ottobre 2005, vuole essere un momento di riflessione sui risvolti psicologici, sociologici e culturali dei mutamenti che sono dettati da un'esasperazione, appunto, dell'idea di apparire rispetto a quella di essere; vuole far riflettere sui falsi bisogni creati dai media che vorrebbero a tutti i costi una donna sempre bella, giovane, provocante, seducente. Il corpo insomma si trova a essere solo fattezza, involucro visibile, scisso sempre più dal proprio tessuto interiore, dalla propria identità.
L'orgia estetica mette insieme professionalità diverse che determinano diversi approcci al fenomeno. Tra i relatori: Michela Facchetti, responsabile Marketing Make up Parfum Christian Dior; Marina Giuliani, direttore generale Hachette Rusconi Pubblicità; Raffaella Failla, psicologa e psicoterapeuta; Andrea Pfister, disegnatore di scarpe; Caterina Limentani Virdis, docente univ. di Padova Corso in Cultura e tecnologia della moda; Gabriella Imeratori, giornalista e scrittrice.
Il Convegno, organizzato dalla professoressa Saveria Chemotti, delegata del Rettore per le problematiche di genere e le pari opportunità, si terrà a Palazzo del Bo (Padova, via VIII febbraio, 2) il 25 ottobre 2005 nell'Archivio Antico (mattina ore 9.00) e nell'Aula Nievo (pomeriggio ore 15.30).