venerdì 16 dicembre 2005

Liberazione, 13.12.05
Dopo il dramma di Dongzhoi, dove la polizia ha sparato sulla folla
Bertinotti, cosa ti piace della Cina? «I cinesi... »

di Simonetta Cossu

Zhengzhou [nostra inviata]
a Cina è un Paese che cammina veloce. Anzi, sarebbe meglio dire che corre. Per dare una idea di quanto corre basta dire che arrivando nella capitale della provincia di Henan, Zhengzhou, agli incroci delle strade non ci sono i semafori. Al loro posto la municipalità ha fatto mettere dei conta secondi che scandiscono il tempo che manca al verde. Questo per evitare che si perda tempo, che si sia pronti quando arriva il momento di partire.
La visita ufficiale del Prc in terra cinese ha portato la delegazione guidata da Fausto Bertinotti fuori dalla grande metropoli di Pechino.
L’ha trasportata in una Cina forse più complessa di quella che ci è apparsa al suo primo assaggio.
Due giorni nella regione di Henan, una di quelle che forse più di tutte descrive lo sviluppo modello cinese messo in moto 27 anni fa.
Henan con i suoi 100 milioni di abitanti è la provincia più popolosa della Cina. E’ una regione agricola, detta anche “La piana centrale” dove vengono coltivati 43 milioni di tonnellate di grano, uno dei beni più preziosi per una nazione con una popolazione di un miliardo e 300 milioni di persone da sfamare. E’ una regione ricca di storia, dove è possibile trovare testimonianze della grande civiltà cinese di 5000 anni fa. Su queste terre passava la via della seta, la sua capitale è uno degli snodi ferroviari più importanti del paese. E’ la Cina che meno si conosce e che si prepara più di tutte a cambiare il mondo.
Il panorama urbanistico delle città è una selva di cantieri. Grattacieli che si innalzano per 20 o più piani, nuovi edifici della pubblica amministrazione pronti ad ospitare migliaia di impiegati.
Tutti rigorosamente vuoti ma presto, dicono i rappresentanti ufficiali, si riempiranno delle migliaia di uomini e donne che stanno convergendo sulle città.
A raccontare alla delegazione del Prc (oltre al segretario ci sono Alfonso Gianni e Gennaro Migliore), cosa si muove in questa parte della Cina è Guangchun Xu, segretario del Pc cinese della provincia e membro del comitato centrale. Un personaggio influente viste le cariche. Un incontro amichevole e franco, dove due visioni si incontrano e spesso si scontrano. Xu infatti conferma che lo sviluppo economico è l’obiettivo primario, compito del governo di questo Paese è portare l’industrializzazione ovunque. La globalizzazione è il perno, e che questa porti squilibri è un dato di fatto. Il problema resta come gestirla. Ed è proprio su questi squilibri che Bertinotti insiste.
Il segretario del Prc domanda al suo ospite come intendono garantire le rappresentanze deboli di una società dove è il mercato a dettare le regole. Dove i diritti sindacali sono più un miraggio che una realtà, tema affrontato in un incontro specifico a Pechino con la Federazione dei sindacati cinesi - iperconcertativa, che respinge ogni ipotesi conflittuale che possa rallentare gli investimenti stranieri.
Alle domande Xu risponde riproponendo il tema centrale dello sviluppo «necessario ». Racconta di un processo, quello in corso, che fa registrare nella sua provincia una migrazione dalle campagne verso le città di 15 milioni di persone. Ma parla anche di un salario minimo definito per legge per gli occupati dell’industria pubblica e privata. Per la prima volta si sente parlare di un reddito di «garanzia alla vita» per chi perde il lavoro sia nel settore privato che pubblico. Un contributo che permetta di vivere ma che è basso al fine di evitare che le persone si possano sentire sicure. Ma nelle campagne? Anche in questo caso arriva una piccola novità. Xu racconta di come nella sua provincia si stia sperimentando in una zona un salario minimo anche per i contadini. «E’ solo una sperimentazione » ci tiene a precisare. Il problema, ribadisce, è la grande migrazione che dalle campagne porta migliaia di persone nei centri urbani alla ricerca di un futuro. Gente che cerca lavoro e stabilità. Per ora la risposta è dare una casa a queste persone.
Come? Costruendole, Ma questo significa trovare terreni e conseguentemente produce espropri che devono essere risarciti.
Questo può provocare proteste e il segretario del Pcc racconta di come proprio pochi giorni fa un gruppo di contadini si sia presentato alle porte del partito per protestare e della trattativa avviata. Soluzioni però non ne vengono prospettate.
Ed è proprio sui conflitti sociali che l’incontro ha un svolta interessante. Il segretario del Prc chiede al rappresentante del Pcc se ha notizie dalla provincia di Dongzhou nella Cina meridionale dove la polizia ha sparato sui manifestanti che protestavano sul risarcimento del costo della terra espropriata per costruire un impianto di energia. «Una repressione e morti che colpiscono» ha dichiarato il segretario del Prc.
Per meglio spiegare il suo interesse Bertinotti racconta di come anche in Italia in questi giorni ci sia una valle dove i cittadini sono scesi in piazza per protestare contro il progetto di portare nelle loro montagne un opera che loro ritengono inutile e dannosa.
Questa volta, a differenza di quando, pochi giorni fa, davanti alla domanda sulla pena di morte era calato un silenzio siderale, una risposta è arrivata.
Il segretario del Pcc ammette che i problemi sollevati nell’incontro riguardo agli squilibri sociali siano reali, che la grande questione che deve essere affrontata è quella degli interessi in campo. Quello collettivo e quello individuale, quello a lungo termine a confronto con quello breve, interesse delle parti o quello generale. E parlando di questo fa un esplicito riferimento al nuovo grande progetto in programma che prevede grandi canali e dighe per portare l’acqua dal sud della Cina alle province del nord. In questo caso, dice, il progetto è di interesse generale, e dovrà essere fatto.
Per quanto riguarda il caso specifico citato da Bertinotti, Xu dichiara di non conoscerlo, ma a sorpresa precisa: «Quello che vi posso dire è l’indirizzo generale del partito: bisogna che il governo locale si sieda ad un tavolo e discuta con la comunità perché deve trovare il modo di dialogare, al fine di trovare un accordo». Tuttavia, ribadisce, «Il Paese è grande, i gruppi dirigenti sono molteplici e a volte non all’altezza del compito di evitare conflitti, che, crescendo, prendono strade impreviste. In questo caso, prosegue Xu, il livello superiore del partito deve intervenire per risolvere il problema secondo la legge. Se vi sono state violazioni queste vanno punite».
Incontrando i giornalisti, Bertinotti commenta «Guanchun Xu ha parlato di un indirizzo generale del partito, volto al dialogo con i contadini quando si apre un conflitto tra loro e il governo». Tutto questo, per Bertinotti, significa che nel sistema di partito unico in Cina «non c'è una condivisione della repressione. E’ indicativo inoltre - aggiunge - che Guanchun Xu abbia parlato di questi termini davanti ad una delegazione straniera». Ma c’è qualcosa della Cina che piace a Bertinotti? Il segretario del Prc non ha esitazione: «I cinesi».




Liberazione, 13.12.05
Perché sostenere il giudice Tosti

Caro direttore, la Francia si mobilita a sostegno del giudice Luigi Tosti, condannato dal Tribunale dell’Aquila a sette mesi di prigione e ad un anno di sospensione dalle funzioni per essersi rifiutato di “giudicare” in un’aula di Tribunale in cui era appeso un simbolo religioso (vedi “Liberazione” di venerdì 18 novembre, ndr). E lo fa con un appello già sottoscritto da 555 persone. E noi cosa facciamo? Non sarebbe una bella battaglia per la libertà di pensiero?
Luciana Bordin via e-mail




Liberazione, 13.12.05
Pirati, eroi dimenticati della lotta di classe il libro
di Ermanno Gallo

Oggi i pirati arrembano gli scaffali delle librerie europee con l’impatto di battaglie oceaniche e di onde anomale. Recentemente l’editore Piemme ha tradotto di David Gardingly, Donne corsare (2005), un testo che analizza l’altra luna della corseria storica e leggendaria, dal ’700 al 1800. In Francia i testi originali, o tradotti, sui fratelli della costa non si contano più.
Bucanieri, filibustieri, pirati, emergono da chiaroscuri caraibici, albe accecanti, roghi e bottini favolosi con profili inediti, idee rivoluzionarie, regole comunitarie sorprendenti. Su uno schermo oceanico che abbraccia i continenti emersi, scorrono immagini ed epopee che a partire dal 1600, liberano gli schiavi ad Haiti, accumulano ricchezze favolose, creano roccaforti di sole e fratellanza, come la Tortuga, S. Cristoforo, Santo Domingo, Barbados, Antille e infine Barataria sul Mississipi. Come si racconta nella storia epitonomata, Dar or die “Bastides Pirates” (Aden 2005), o nei classici “omerici corsari” di M. Giard (1996), G Jaeger, (1986) e D. Pouillade, (2005) la libertà e l’egualitarismo inalberano la bandiera fantasma della corsa. Il jolly roger, rosso o nero, teschiato o abbrunito è una bandiera libertaria e rivoluzionaria che solca i mari del mondo prima di ogni rivoluzione terrestre. Uomini di ciurma, schiavi delle stive, deportati irlandesi, diggers o renters ai quali gli imperi marittimi, fra cui Spagna Inghilterra e Francia, imposero, a partire dal 1700 l’impiccagione senza processo, sono stati “free-bother” ( liberi marinai), rivoluzionari dell’oceano, antesignani dell’utopia.
Racconta il recente libro di Rediker, Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria, (Elèuthera, euro 17,00) che i capitani Kidd, Stone e Fly furono i primi leggendari corsari a subire il processo sommario riservato ai pirati senza patria né leggi. Londra, finita la guerra della regina Anna, dopo averli privati della patente di corsa (o marco) che ne autorizzava imprese illegali e scorrerie, divenne la piattaforma legale delle forche innalzate per strangolare il loro afflato di libertà contagioso e intollerabile dall’assolutismo.
Tuttavia questo movimento protorivoluzionario, fluido e vorticoso come i marosi senza frontiere, proiettò i suoi emblemi estremi sulla comune di Parigi, sull’Internazionale comunista e tra le colonne anarchiche. La rivoluzione oceanica non nacque e morì per caso.
Il merito indiscusso delle ricerche di Rediker, che fanno da sfondo ad altri libri di tendenza, consiste nel porre la guerra di corsa e la fratellanza della costa al di la’ di facili folclori, epopee stereotipate e aneddoti romantici.
Pur non dimenticando icone di “scorridori” al femminile – come Anne Bonny, Mary Read, Mary Crickett, Charlotte Berry – divenute eroine e martiri, per amore o per forza, della spietata lotta sui mari - l’autore inanella la genesi dello sfruttamento e dell’emancipazione vissuti dagli uomini di ciurma durante due secoli. La “catena di montaggio” mercantile dell’accumulazione originaria trovò negli oceani il suo nastro veicolatore di merci e ricchezze naturali, di cui i marinai asserviti erano proletari e sfruttati senza diritti. La guerra corsara, con la sua “aristocrazia” formata, tra pari, da bucanieri e filibusta, risultò la prima espressione di emancipazione proletaria nella «aritmetica politica della vita economica». Fino a quando le aquile dei grandi imperi, sconfitti i liberi albatros marini, iniziarono a controllare zone sempre più vaste di terraferma. A trasformare il monopolio di merci pregiate nel dominio del denaro. Finiti l’utopia libertaria degli oceani e i visionari “regni” corsari che sembravano inespugnabili, tornò a regnare il patibolo sui mari che non avevano padroni ma solo divinità senza nome.
Fra i molti vinti alcuni si annodarono con sprezzo il cappio da soli gridando come Davidson: ”muoriamo come uomini, non lasciamo che ci comprino come schiavi”. La guerra di corsa abbandonò gli orizzonti fluidi.
Nella metamorfosi economica e sociale perse le ali della vela e del vento. Con la mutazione del conflitto capitalistico avvenne uno scambio di elementi, e la mattanza strisciante dello sfruttamento industriale, iniziò a falciare i proletari nelle fabbriche fumose, nelle gallerie asfissianti delle miniere. La repressione e il controllo non erano più legati al pennone di un’ammiraglia. La lotta di classe usciva dal vortex dell’oceano che l’aveva originata. Ma non cambiava polarità e bandiere: l’una rossa come il sangue della rivolta; l’altra nera come il rifiuto assoluto di ogni potere.




Le Scienze, 13.12.05
Grammatica innata
L'identificazione delle categorie grammaticali può emergere anche senza input esterni


esperienza continua. Tuttavia, determinare i ruoli specifici della capacità e dell'esperienza è molto difficile, visto che questi due fattori non possono essere separati sperimentalmente.
Marie Coppola ed Elissa Newport del dipartimento di scienze cognitive dell'Università di Rochester hanno sfruttato un caso naturale di privazione del linguaggio per esaminare alcuni aspetti inerenti alla struttura del linguaggio, in particolare il concetto del soggetto grammaticale. Le ricercatrici hanno studiato il sistema di gesti idiosincratici - chiamato "home sign" - di tre adulti del Nicaragua che erano cresciuti quasi privi di educazione formale e senza l'esposizione a una comunicazione strutturata, parlata o scritta che fosse.
I tre adulti hanno osservato brevi segmenti video e hanno poi descritto quello che avevano visto per mezzo dell'home sign. In quasi tutti i casi, gli individui hanno identificato in maniera appropriata un soggetto come tale, anche in situazioni molto diverse fra loro (per esempio di fronte a soggetti inanimati, a persone che sperimentavano uno stato emotivo oppure che eseguivano un'azione).

Marie Coppola, Elissa L. Newport, "Grammatical 'Subjects' in 'Home Sign': Abstract linguistic structure in adult primary gesture systems without linguistic input". Proceedings of the National Academy of Sciences (2005).

© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.




il Manifesto, 13.12.05
Società del rischio, la potenza recita a soggetto
La fortuna editoriale di Michel Foucault. Dalla critica radicale dell'esercizio del potere alla produzione della soggettività nelle società liberali. Un percorso intellettuale che ha avuto nei corsi al «Collége de France» le sue tappe decisive e che in Italia ha aperto inediti spazi di ricerca oltre l'ambito filosofico
Genesi del liberalismo Il punto di svolta nella riflessione del filosofo francese a partire dai corsi degli anni Settanta
Biopolitica e non solo Da Rovatti a Petrillo, da Revel a Mazzocca, una lettura critica della ricezione italiana di Foucault

ROBERTO CICCARELLI
Silenzio, ascolta, attorno a noi c'è il rumore sordo e prolungato di una battaglia che sostituisce la severa musica dell'analisi teorica. Così Michel Foucault concludeva bruscamente Sorvegliare e punire, il suo volume sull'istituzione carceraria, «una delle regioni nascoste del nostro sistema sociale, una delle caselle nere della nostra vita». La battaglia annunciata nel 1975 sarebbe proseguita per tutta la fine del decennio in cui il filosofo francese avrebbe condotto in silenzio uno smisurato lavoro di ricerca durante i suoi corsi al Collége de France. La contemporanea uscita per Feltrinelli de La nascita della biopolitica (tradotto da Mauro Bertani e Valeria Zini, pp. 352, € 35) e di Sicurezza, territorio e popolazione (tradotto da Paolo Napoli, pp. 400, € 40) restituisce oggi anche al pubblico italiano quel rumore che in tutti gli anni Settanta scorreva sottotraccia. Tra il 1975 e il 1983, l'anno di pubblicazione in Francia della Volontà di sapere e della Storia della sessualità, Foucault avrebbe infatti continuato a lavorare, ma senza pubblicare nulla, maturando la convinzione della necessità di spostare l'analisi dai poteri alla soggettività in quanto produzione di sé. E' indubbio che in Italia, ma anche nel resto d'Europa e negli Stati uniti, Foucault è stato un filosofo molto letto, arrivando ad avere un successo editoriale di tutto rilievo, come testimonia il fatto che gran parte delle sue opere sono state pubblicate da diverse case editrici, fino al progetto della Feltrinelli di tradurre i suoi corsi parigini. Ma della sua fortuna italiana c'è traccia anche in ambiti lontani dalla filosofia: e infatti non è raro incontrare sociologi, antropologi e criminologi che si rifanno proprio alle sue riflessioni. Da qui la necessità di interrogare alcuni studiosi che si occupano sì di Foucault, ma che seguono le molteplici linee di ricerca di questo filosofo inquieto, ma oggi fondamentale per comprendere la natura, e i limiti, delle nostre società liberali.

Il paradigma logorato

Il punto di partenza è da quel silenzio della metà degli anni Settanta denunciato da Foucault, che non era dovuto ad una improvvisa crisi teorica, ma ad una ridefinizione radicale dei paradigmi della ricerca fino ad allora adottati. Nei corsi al Collége de France Foucault capisce infatti di essersi occupato sino a quel momento solo dei poteri e non aveva invece descritto che cosa si produce dentro i poteri. Con questa presa di coscienza l'analisi del potere e quella della soggettività non andranno più l'una senza l'altra. «La frase sul rumore sordo della battaglia è stata molto commentata, ma credo sia stata in realtà poco compresa - commenta la filosofa francese Judith Revel - E' il rumore di fondo dei poteri disciplinari ed esiste nel quadro di una analitica del potere che arriva alla conclusione che non esiste un fuori dal potere. In Nascita della biopolitica e in Sicurezza, territorio e popolazione per la prima volta Foucault mette in causa questa sua affermazione e pone la possibilità che esista un fuori dalla griglia predisposta dai poteri disciplinari alla soggettività. Uno spazio, direi un limite, che è pur sempre dentro la griglia, ma che è anche fuori di essa».

Per Judith Revel questi due corsi hanno una grande importanza perché in essi Foucault «passa alla problematizzazione del tema della governamentalità, cioè dell'impossibilità di definire un fuori e quindi della necessità di pensare il processo di soggettivazione dentro un rapporto di potere». In Francia questi due corsi hanno suscitato un grande interesse, ma anche polemiche. Tra gli interpreti liberali di Foucault, infatti, e ce ne sono parecchi tra chi nella Confindustria francese studia la gestione attuariale in economia e il suo discorso sulla biopolitica viene usato strumentalmente come un'apologia del liberalismo. Foucault insomma che canta le lodi delle libertà individuali dell'individuo. Un'altra interpretazione sostiene invece che se gli anni Settanta sono stati anche per Foucault anni di militanza politica, questo impegno termina non a caso tra il `78 e il `79, quando inizia a occuparsi di etica, di estetica, cioè un ripiegamento su una dimensione individuale e quindi un fallimento della sua attività politica. Cosa può dire allora Foucault ai nuovi movimenti sociali? «In primo luogo - risponde Revel - per i movimenti radicali diviene urgente un discorso sull'etica in quanto materia politica. Questo non significa smettere di fare militanza, ma significa che la militanza deve mettersi all'altezza dei nuovi modi di produzione, caratterizzati da una dimensione relazionale, dove la produzione a molto a che vedere con la produzione di sé . Questo significa che la politica non può fare a meno di controntarsi con l'ontologia. Foucault direbbe che bisogna "lavorare" il potere dall'interno e conquistarsi nuovi spazi di libertà».

Anche per Roberto Esposito, nella cui analisi sulla biopolitica la filosofia del bios Foucault occupa una posizione centrale, i due corsi freschi di traduzione hanno una grande importanza. «Perché riflettono sul legame costitutivo tra biopolitica e sovranità, cioè tra il potere e la vita, tipico della modernità. Il regime sovrano infatti non limita la vita, ma la espande - continua il filosofo napoletano - Il potere e la vita costituiscono due facce contrapposte e complementari. Per potenziare se stesso il potere è costretto a potenziare la vita, l'oggetto su cui si scarica. Questa è la stessa dinamica tra liberalismo e libertà che Foucault osserva in Sicurezza, territorio e popolazione. Il liberalismo infatti rivendica la libertà degli individui da un lato, ma dall'altro deve limitarlo per evitare che la libertà del singolo interferisca con quella dell'altro. Nel liberalismo, dice Foucault, il potere non deve soltanto presupporre, ma anche produrre le condizioni di libertà dei soggetti cui si rivolge. Ma deve constatare che per proteggere queste libertà è anche costretto a distruggerne delle altre. La sua conclusione è esplicita: la dove c'è potere - dice Foucault - c'è resistenza e tuttavia essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere».

Governamentalità liberale

Nascita della biopolitica e Sicurezza, territorio e popolazione aprono dunque un percorso inaspettato che è quello dell'analisi della governamentalità liberale, ma anche del neoliberalismo lungo tutto il XX secolo fino a sfiorare il reaganismo che si sarebbe affermato poco più di un anno dopo negli Stati uniti. Per il filosofo Ottavio Marzocca «se si volesse trovare una differenza significativa nell'analisi del neoliberismo e del liberalismo classico in Foucault si può dire che quest'ultimo era partito dall'idea miracolistica secondo la quale la libertà di scambio potesse essere lo strumento principale per sostenere il benessere collettivo». Partendo da questa idea il liberalismo deve in seguito riscontrare che da questa idea restano fuori una serie di problemi che non trovano soluzione. «Il liberalismo si preoccupa innanzitutto dei limiti che l'azione di governo deve porsi - continua Marzocca - ma non è mai in grado di individuare stabilmente questo limite che il governo deve darsi. E quindi il limite si sposta in continuazione perché il liberalismo non trova mai il criterio attraverso il quale identificarlo e imporlo».

Con tutta la prudenza del caso si può allora dire che per Foucault la socialdemocrazia sia stata in qualche misura anticipata dal ceto borghese liberale. «Il liberalismo - sostiene Marzocca - è l'arte della limitazione del governo, ma questa limitazione non è mai determinata. Il liberalismo classico entra in crisi perché non riesce a frenare l'esigenza dell'intervento politico sulla società e sul mercato. Con il crollo di Wall Street nel `29 è dalla stessa culturale liberale che nasce l'idea del New deal e il Welfare State. Ancora una volta la socialdemocrazia sembra essere anticipata dal liberalismo».

Che la socialdemocrazia venga in qualche modo prefigurata dal liberalismo e dalla sua idea di governamentalità è una notizia. Ma quello che stupisce ancora di più nell'analisi foucaultiana in questi due corsi è un altro elemento: il rapporto tra libertà e liberalismo. «Il liberalismo presta molta attenzione alle libertà - continua Marzocca - prevalentemente a quelle economiche, giuridiche, ma anche a libertà concrete che in altri momenti appaiono in pericolo rispetto ad altre. Nel momento in cui ad esempio il liberalismo promuove la libertà di impresa accade prima o poi che tale promozione metta in pericolo la libertà di associazione sindacale ad esempio. I rischi per la libertà discendono dal fatto che è il liberalismo stesso a promuovere queste libertà». In questo contesto, sostiene Foucault, la cultura del pericolo e del rischio si presenta come una caratteristica del liberalismo. Al punto che si potrebbe dire che l'uomo liberale si trova a vivere pericolosamente. «Vivere pericolosamente è un portato necessario del liberalismo - conclude Marzocca - perché esso enfatizza l'inevitabilità del rischio. Il problema della sicurezza esiste perché non è mai risolvibile. Il pericolo è inevitabile perché è il prodotto stesso della libertà. Chi promuove la libertà si espone ai rischi che essa produce».

Per i sociologo Antonello Petrillo, i due corsi foucaultiani insistono in maniera particolare sulla matrice doppia e ambigua dello stato sociale liberale che si fonda sulla continuità paradossale tra il modello sicuritario di governo della popolazione e l'attenzione del liberalismo ai diritti. In questo scenario il ruolo nello stato non è destinato a scomparire ma invece a gestire i meccanismi della gestione dell'esclusione sociale. Ed è in questo senso che Foucault coglie «in maniera magistrale» la tensione interna del liberalismo. «Da questi corsi - continua Petrillo - viene fuori una San Francisco liberale, in attesa permanente di questo Big One nella tensione strutturale tra l'impulso interventista in termini di controllo e la tensione allo stato minimo da parte degli economisti. Oggi questa contraddizione nel quadro dell'intervento del governo sulla popolazione diventa di sconvolgente attualità e urgenza«. Perché? «Ma perché - risponde Petrillo - il modello liberale, proprio come quello socialdemocratico del governo, implodono quando si confrontano con i problemi legati ai centri di permanenza temporanei per i migranti ad esempio». In questo caso l'ossessione per la garanzia delle libertà individuali si trasforma esattamente nel suo contrario: nel sicuritarismo di una società che distrugge le libertà per proteggere quella dei garantiti, i cittadini nazionali. «Questa è la dimostrazione - aggiunge Petrillo - che il "sicuritarismo" non segni affatto una cesura delle garanzie dello stato di diritto. Questa convinzione in realtà andrebbe rivista alla luce di questi due corsi. Il liberalismo ha molto a che vedere con la riduzione delle garanzie dei diritti che sta avvenendo sotto i nostri occhi. I Cpt si inseriscono per molti versi nei confini ideologici del liberalismo che da una parte mira al controllo della popolazione e dall'altra parte cerca di ridurre il ruolo dello stato nella società».

Toni Negri preferisce riflettere su un altro aspetto determinante di questi due corsi. Il rapporto tra biopolitica e biopotere e sul modo in cui Foucault, alla fine degli anni Settanta, arriva ad una svolta nella sua filosofia. «Ho avuto la fortuna di seguire il corso sulla nascita della biopolitica a Parigi - esordisce Negri - L'aula del Collège de France era sempre piena e spesso non riuscivo nemmeno ad entrare. Ogni tanto si sentivano dei mozziconi di frasi che venivano dalla porta. Ma al di là dei miei ricordi di una stagione di studi e di rapporti che si sarebbe chiusa da lì a pochissimo con il mio arresto nel 1979 per il caso 7 aprile, credo che questi due corsi, e in particolare quello sulla Nascita della biopolitica, siano una specie di pompa storico-strumentale per la costruzione di alcuni concetti fondamentali sui quali ho lavorato nei decenni successivi». Di quali concetti si tratta? «Il rapporto tra la soggettività e il potere ad esempio - risponde Negri - In questo corso inizia ad emergere il discorso sulla produzione della soggettività. La costruzione del sé avviene in base ad una potenza, che è la potenza del soggetto. Quella di cui parlo è una potenza che si dà nella relazione e non certamente nella riscoperta di elementi metafisici».

La sovranità perduta

Perché allora in questo biennio '78-'79 Foucault cambia tutto? «Perché Foucault in questi corsi - risponde Negri - scopre che il soggetto si cala completamente nella dimensione della biopolitica e scopre che questa dimensione è qualcosa di diverso dalla struttura del biopotere. Qui il soggetto si costituisce attraverso un'affermazione della propria individualità talmente forte da produrre non semplicemente il proprio sé ma un'accumulazione di biopotere che a questo punto non passa più attraverso lo stato ma attraverso il mercato e la relazione sociale. Il potere non è più autonomo dalla politica e dalla soggettività. Proprio il contrario di quello che in Italia si diceva in quegli stessi anni con i teorici dell'autonomia della politica». Che cosa succedeva nel 1978 in Italia? «Siamo ad un crocicchio importantissimo - risponde Negri - perché tutti hanno ormai capito la crisi dello Stato e della sovranità. Ricordo che ci fu un numero di Aut Aut dedicato a Foucault a cui partecipai anch'io. In Italia questa idea di soggettività in quanto costruzione e trasformazione di sé viene spogliata dal pensiero debole della sua potenza costitutiva. Questo pensiero fa i salti mortali tra la teoria dell'autonomia del potere e la conflittualità sociale. Davanti al conflitto si ritrae e preferisce trovare riparo in questa idea del potere».

Dato che si parla di Aut Aut non rimane che interpellarne il direttore, Pier Aldo Rovatti, a proposito dei corsi foucaultiani, e non solo. «C'è stata una certa fatica a fare entrare Foucault in un mondo che, al tornante degli anni Settanta-Ottanta, era profondamente succube dell'ideologizzazione derivante da un linguaggio che allora era comune a sinistra». Rovatti prova a fare un bilancio della ricezione italiana di Foucault e precisa: «Quello della sinistra era un linguaggio anche intelligente che si ispirava al Marx dei Grundrisse. Foucault appariva uno scarto, un salto, ed è passato molto tempo per capirlo. In quel momento Aut Aut cercava di uscire da questo circuito ideologico e di produrre nuovi strumenti filosofici, storici, utili a ricostruire un quadro demolito dai fatti. Ricordo che facemmo un numero sulla teoria dei bisogni in cui Foucault veniva recepito. Negli anni poi abbiamo continuato a lavorare sulla sua opera. L'ultimo numero che abbiamo fatto è sul corso sul Potere psichiatrico uscito l'anno scorso anche in Italia».

C'è chi sostiene che questi corsi segnino il passaggio da un'analitica pura del potere ad un'analitica della soggettività in cui parte fondamentale del progetto foucaultiano diventa l'etica del sé. Lei è d'accordo? «Credo che sia un'interpretazione corretta, ma fino ad un certo punto - risponde Rovatti -. L'idea che ad unire questi due periodi distinti sia il concetto del governo mi sembra un'interpretazione debole. Non credo che Foucault ad un certo punto dimentichi il problema del potere a favore di un'interpretazione intersoggettiva e sociale del potere stesso. In lui da una parte c'è il potere, il politico e dall'altra c'è l'etica. Sono convinto che un intreccio esiste tra queste questioni e che non sia il governo, ma la questione della soggettività».




il Manifesto, 13.12.05
Un ordine del discorso made in Italy
Già dalla loro uscita in Francia, «Nascita della biopolitica» e «Sicurezza, territorio e popolazione» hanno riscosso un grande interesse in Italia. Già ampiamente recensiti sulle riviste (Massimiliano Guareschi sul secondo numero della rivista «Conflitti Globali», Shake, e Elettra Stimmilli sul quarto numero di «Forme di vita», DeriveApprodi ad esempio) da qualche settimana sono stati tradotti in italiano da Feltrinelli. Gli intervistati sono tutti impegnati da anni in un lavoro di scavo e di analisi nella colossale opera foucaultiana. Judith Revel è stata la curatrice dell'«Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste 1961-1970», pubblicato sempre da Feltrinelli, è autrice anche del «Vocabulaire de Foucault» pubblicato da Ellypses in Francia. Roberto Esposito, già autore di volumi come «Bios. Biopolitica e filosofia» e di «Immunitas» (entrambi pubblicati da Einaudi) svolge da anni un confronto serrato con il filosofo francese. Ottavio Marzocca, filosofo che insegna all'università di Bari, è l'autore dell'antologia «Michel Foucault. biopolitica e liberalismo» (Medusa 2001) e uno dei curatori del «Lessico sulla biopolitica» che verrà pubblicato dal Manifestolibri il prossimo febbraio. Antonello Petrillo, sociologo, insegna al Suor Orsola Benincasa di Napoli, partecipa al volume collettaneo «Michel Foucault, un lavoro disperso e mutevole», a cura di Ciro Pizzo e Ciro Tarantino, in uscita per l'editore napoletano Elio Sellino il prossimo gennaio. Da molti anni Toni Negri conduce con Foucault un confronto che è confluito anche nei suoi volumi, scritti con Michael Hardt, «Impero» e «Moltitudine» (Rizzoli). Pier Aldo Rovatti, direttore della rivista «Aut Aut» e filosofo all'università di Trieste, è stato anche il curatore del volume collettaneo «Effetto Foucault», pubblicato a metà degli anni Ottanta sempre da Feltrinelli, che ha rilanciato il dibattito sul filosofo francese. L'integralità del dibattito riportato in questo articolo lo potete trovare sul sito: www.centroriformastato.it . Ro. Ci.
Liberazione, 15.12.05
Ecco l’America incivile e violenta
di Piero Sansonetti

Pongo una domanda un po’ provocatoria. Secondo voi, il peggior uomo politico italiano (ognuno scelga il suo: Berlusconi, Fini, Castelli, Calderoli, Gasparri, Cuffaro…) se fosse stato posto di fronte al dilemma, semplicissimo per ciascuno di noi, se graziare Tookie Williams o spedirlo sulla forca, cosa avrebbe fatto? Lo avrebbe fatto ammazzare, di lì a dodici ore, per convinzione, per sete di giustizia o di vendetta, per calcolo politico, per sadismo, per conformismo? Io credo di no: l’avrebbe graziato. Perché? Perché, mi chiedo, su temi così importanti - che riguardano il concetto che si ha della vita, del bene, del male, della vendetta, del perdono, della giustizia, della rivalsa - la peggior destra italiana è di gran lunga superiore alla destra liberale americana della quale il governatore Arnold Schwarzenegger è uno dei più brillanti esponenti?
Ho una sola risposta. Paradossale ma credo inoppugnabile. C’è una questione di civiltà. Gli Stati Uniti sono un paese giovane, con radici “corte” e un livello ancora molto irregolare di civilizzazione. Ci sono campi nei quali la civiltà americana è molto avanzata: la libertà di stampa e di espressione, i diritti civili di una parte della popolazione (i bianchi economicamente ben sistemati), il funzionamento dei servizi e della pubblica amministrazione, eccetera. In altri campi siamo appena fuori dal medioevo. Il senso comune, la cultura dominante negli Stati Uniti, ad esempio, coltiva un’idea sul diritto alla vita, sull’amministrazione della giustizia, sulla legittimità della violenza e persino sulla sacralità e intoccabilità dell’individuo, che sta molti secoli più indietro rispetto allo spirito pubblico europeo.
Ieri, in un bell’articolo pubblicato su questo giornale, il mio amico Piero Bernocchi, diceva più o meno così: sono antiamericano e rivendico il mio antiamericanismo, perché non ce l’ho con il governo degli Stati Uniti, o col loro presidente, o coi ministri, i poliziotti, i boia: ce l’ho con la nazione Stati Uniti, perché questa nazione è in grado di esprimere solo valori di sopraffazione e di morte, aspirazioni imperialiste, pulsioni autoritarie, violente, nazionaliste.
Conosco Piero Bernocchi da quando eravamo ragazzi, e da allora - diciamo la verità, con affetto - lo ho sempre considerato un estremista e un “gruppettaro”… Anche stavolta è così. Una condanna dell’America, in quanto America - quasi fosse l’impero del male - è infondata, sbagliata, priva di ragioni. Però Bernocchi, con la consueta franchezza e irruenza, pone alcuni problemi che sono veri, seri. Il primo sta in questa domanda: perché nell’analisi storica, o politica, o persino culturale e letteraria sugli Stati Uniti, omettiamo sempre di considerare il fatto che quel paese è diventato grande sulla base di uno sterminio, di un genocidio paragonabile solo a quello eseguito da Hitler sugli ebrei, e che questo genocidio ha portato alla cancellazione totale dalla storia di un popolo gagliardo, raffinato e fiero, che era il popolo padrone di quel continente (è l’unico caso nella vicenda umana, credo, nel quale un genocidio produce la scomparsa totale di una intera popolazione di milioni di individui)?

E ancora, che questo paese ha costruito le basi della sua superpotenza economica su un sistema di produzione originario basato sulla schiavitù, e che gli schiavi erano il frutto di azioni di rapina, di sequestro, poi di deportazione feroce dall’Africa? E perché omettiamo di dire che il sistema di giustizia americano in parte - ma solo in parte - è copiato da quello britannico, ma ancora oggi è fortemente condizionato da una idea di giustizia che nell’ottocento - anni dopo Beccaria - era fondato sul processo di piazza e sul linciaggio?
Cosa c’è di più obbrobrioso - si chiedeva Bernocchi - che costruire un’intera epopea di film (e anche di racconti letterari) sull’esaltazione di un genocidio, cioè del massacro dei “pellerossa”, come è avvenuto a Holliwood con la produzione di un fenomeno cinematografico e letterario che ha dilagato con straordinario successo in tutto il mondo, ha influenzato la fantasia della nostra giovinezza, ha diffuso valori (il coraggio, la forza, la violenza, la freddezza nel colpire), ha fatto da battistrada al grande cinema moderno? C’è qualcuno che sa rispondere in modo decente a questa domanda?
Badate che la glaciale spietatezza di Arnold Schwarzenegger, che in piena tranquillità ha mandato a morte il cinquantenne scrittore, poeta ed ex gangster Tookie William, non è un’eccezione. E’ così, sta nelle cose: la stragrande maggioranza degli americani non ha un’idea diversa di giustizia. Decine di associazioni, anche di giovani, hanno organizzato manifestazioni l’altra sera per gridare la propria rabbia: urlavano “friggetelo, friggete Tookie…”. E del resto, non è agghiacciante il candore con il quale, pochi giorni fa, George Bush si è presentato alla tv per dire che la guerra andava bene e che aveva ammazzato 30 mila iracheni?
Torno alla domanda iniziale: ve lo immaginate il perfido Berlusconi, o persino Storace, andare in Parlamento e dire: tutto bene, ragazzi, ne ho fatti fuori trentamila, vado avanti così…
Oggi, giustamente, in Italia ci stiamo battendo per l’amnistia. Abbiamo troppa gente in prigione, troppi poveracci. Circa 60.000, uno ogni mille italiani. E’ uno scandalo ed è inumano. Sapete quanti sono i carcerati negli Stati Uniti? Due milioni e mezzo, uno ogni cento americani. E tra i giovani neri di età compresa fra i 19 e i 45 anni, quelli che sono, o sono stati, o andranno in prigione, sono uno su tre. Non vi sembra che si possa parlare di Stato autoritario? E’ una forzatura polemica? No. Abbiamo sempre condannato Castro per le sue violazioni di diritti umani. Giustamente. Però a Cuba, nel 2004, non ci sono state esecuzioni. Negli Usa 58. Le statistiche dicono che se si leva la Cina (che è una specie di infame catena di montaggio di fucilazioni), nella classifica degli Stati assassini, ai primi posti ci sono l’Iran (con 168 esecuzioni) poi la Corea del Nord con una settantina, e poi gli Usa, appunto con 58.
Perché non ammettere che questo paese - che pure ha al suo interno delle cose meravigliose, ha il suo popolo afro-americano con grandissime tradizioni, ha la musica, ha la letteratura, ha grandi punte di eccellenza nello studio della scienza, della filosofia, della politologia, ha una formidabile macchina economica, ha dato i natali, o l’asilo, a giganti del pensiero, dell’arte come, per dire, Luois Armstrong, Einstein, John Brown, Marc Twain, MalcolmX, e tantissimi altri - non è ancora un paese pienamente civile?
E’ importante ammetterlo, per una sola semplicissima ragione: perché la tendenza della cultura politica europea è quella che dice: uniformaci agli Usa. No, per carità. Sarebbe un imbarbarimento del mondo.




Liberazione, 15.12.05
Il 18 assemblee in molte città. Parte l’inchiesta sull’aborto
Mobilitazione delle donne contro l’attacco alla 194

di Angela Azzaro

Dice che la 194 non si tocca. Che il governo non ha nessuna intenzione di cambiare la normativa sull’interruzione volontaria di gravidanza. Ma poi fa terrorismo psicologico e attacca senza tentennamenti la 194. Il ministro della Salute, Francesco Storace, ha dato il via alla cosiddetta indagine conoscitiva sull’interruzione di gravidanza portando avanti la sua offensiva contro le donne. «Dal 1978 a oggi in Italia non sono nati, per aborto, 4 milioni e 350 mila bambini» ha detto davanti alla commissione Affari sociali della Camera e ha informato che fin da ieri pomeriggio avrebbe inviato alle Regioni una proposta di protocollo con i nuovi questionari per la raccolta di dati e informazioni sulle attività di prevenzione. Una vera schedatura. Una vera e propria intimidazione.
Ma le donne non stanno a guardare. Escono con decisione dal silenzio come recita lo slogan che è stato lanciato dalla Camera di lavoro di Milano il 29 novembre scorso, durante un’assemblea affollatissima.
Il segnale di protesta espresso in quell’occasione è diventato un’onda di mobilitazione che sta coinvolgendo tutta l’Italia, dal Nord al Sud, alle isole. Molte le iniziative, con due tappe centrali. Domenica, 18 dicembre, assemblee nelle più grandi città italiane in vista della manifestazione nazionale che si farà a Milano il 14 gennaio. Si discuterà di come arrivarci e, soprattutto, con quali contenuti. Un’occasione importante. Unica. Le donne vanno in piazza e chiedono agli uomini di farlo perché pensano che la situazione sia molto grave. La legge 194 è già di fatto, in molti casi, svuotata di senso. I consultori sono presi di mira. L’embrione è diventato soggetto di diritto. E’ uno scontro di civiltà che vede le donne come obiettivo privilegiato di un patriarcato che non è mai morto. In Italia. In Europa. A Est come a Ovest. E’ un patriarcato molto crudele, invasivo, che non si ferma davanti a niente.
L’attacco all’autodeterminazione femminile è il segno, emblematico, di quale rapporto si voglia instaurare tra lo Stato (l’idea che si ha dello Stato) e i corpi delle individue e degli individui: corpi ridotti a mere funzioni di una legge che li dovrebbe, vorrebbe sovrastare nelle scelte più intime.
Le donne si riprendono la parola pubblica per contrastare questo progetto, per chiedere per tutte e tutti che l’Italia torni a essere un paese laico. E’ un progetto di civiltà che passa, come già è stato detto nelle varie riunioni delle settimane scorse, attraverso la problematizzazione del rapporto tra i sessi, attraverso la messa in discussione della (etero) sessualità. Lo ha scritto su queste pagine Lea Melandri: lo ha fatto in maniera chiara. Netta anche rispetto alle ambiguità di chi nel centrosinistra pensa che l’attacco alla legge 194 vada contrastato con politiche di aiuto alla maternità (vedi Turco o Bindi). Niente di più sbagliato. Niente di più lontano dalla radicalità che esprimono le donne, molte femministe, che si mobilitano: la loro protesta passa attraverso un’idea diversa di libertàe responsabilità femminile, attraverso un’idea diversa di società.
Domenica gli occhi saranno puntati in primo luogo su Milano, dove (ore 21, Camera del lavoro) si deciderà anche il percorso del corteo nazionale che partirà alle 14, e su Roma dove l’appuntamento è alla Casa internazionale delle donne (alle 15). E poi ancora Bologna, Firenze, L’Aquila, Genova. In molte città le riunioni ci sono state o sono previste in questi giorni. Altre ancora si terranno subito dopo il 18. La partecipazione è un altro elemento di novità. Le giovani ci sono. Vanno alle assemblee, invitano le donne più impegnate nelle loro scuole occupate. Nelle università. Il silenzio è superato con una parola che è diventata in questi decenni sempre più incisiva, ricca di esperienze, espressione di culture diverse. Il 14 gennaio è l’occasione non solo per resistere, ma anche per fare un salto in avanti. Ci sarebbe, per paradosso, da ringraziare la destra e il Vaticano, se a causa della loro offensiva non ci fosse anche la sofferenza o il disagio di molte.

Domenica 18
•Milano, Camera del lavoro, ore 21, 00
•Roma, Casa internazionale delle donne, ore 15
•Bologna, Camera del lavoro, ore 10
•tutti gli altri appuntamenti sul sito www.usciamodalsilenzio.org





Liberazione, 15.12.05

L’iraniana premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, ospite di un convegno organizzato da Telefono rosa
«Le donne sono portatrici sane della cultura patriarcale»

di Laura Eduati

Nei Paesi islamici le donne sono obbligate a portare il velo, e ne sono scontente. In Europa sono obbligate a non portare il velo, e sono scontente. Perché non lasciamo le donne libere di fare ciò che vogliono?». Shirin Ebadi è minuta ma le sue parole si fanno sentire. Ebadi è la prima donna iraniana, e musulmana, a meritare il Nobel per la pace, nel 2003.
Prima della rivoluzione di Khomeini del 1979 era una delle poche donne giudice in Iran. «Poi decisero che le donne non potevano giudicare un uomo. Dissero che era la shar’a, la legge islamica, a prevederlo. Mi offrirono il posto da segretaria nel mio tribunale. Rifiutai. Ho preferito lottare con le donne del mio Paese. Tredici anni dopo il regime ammise che, è vero, la shar’a permette alle donne di giudicare i maschi. Abbiamo lottato e abbiamo vinto. Allora vedete che non è una questione di religione ma di cultura patriarcale?».
Ebadi non è una femminista radicale. «Mi piace paragonare la cultura patriarcale all’emofilia: le donne ne sono portatrici sane e passano la malattia ai loro figli maschi ». Interviene Sophie Salamata Sedgho Sema, dell’organizzazione Voix de femmes: «Anche in Burkina Faso sono le donne le più fiere sostenitrici delle mutilazioni genitali. Da quando il parlamento, a maggioranza maschile, ha vietato l’escissione, le prigioni straboccano di donne». Sophie Salamata è un’insegnante di scienze nelle scuole superiori.
Ha deciso che nelle sue ore di lezione insegna alle alunne anche «a rispettare se stesse» e a spiegare le terribili conseguenze delle mutilazioni genitali femminili: quelle fisiche, come le emorragie, il tetano, la morte. E quelle psicologiche: difficoltà nei rapporti sessuali e nelle relazioni con gli uomini. Grazie al divieto, le donne escisse nel suo Paese sono diminuite, dall’85% al 65%.
«Oggi dobbiamo affrontare le mutilazioni eseguite nella clandestinità, su bambine che vanno dai zero ai sette anni. La difficoltà? Sta nello sconfiggere un problema che è nella testa delle persone, che pensano che una donna dai genitali integri non possa sposarsi».
Shirin Ebadi e Sophie Salamata si sono incontrate ieri ad un convegno di Telefono Rosa patrocinato dal Comune di Roma. Il titolo: “Le donne, un filo che unisce mondi e culture diverse”.
Con differenze “insospettabili” tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo: l’Italia ha una rappresentanza di donne, nelle istituzioni, minore rispetto al Burkina Faso; in Iran il fenomeno dell’asportazione della clitoride non esiste, ma nei tribunali iraniani la testimonianza di un uomo pesa come quella di due donne e l’assicurazione risarcisce una cliente femmina la metà di quanto risarcisce un cliente maschio. Khomeini lanciò una fatwa a favore dei mezzi contraccettivi e dell’aborto, per contenere il boom demografico - l’Iran è passato nei primi anni ’80 da 30 milioni di abitanti ai 70 attuali - mentre in Italia «i teo-con», accusa Daniela Colombo dell’Aidos, «cioè gli stessi fondamentalisti cristiani che in America sono riusciti ad eleggere Bush, colpiscono la legge sull’aborto». Un disegno, un complotto, insiste Colombo, che va dagli Stati Uniti all’Europa Maria Pia Garavaglia, vicesindaco di Roma, Monica Cirinnà, vicepresidente del consiglio comunale, e Gabriella Moscatelli, responsabile del Telefono Rosa, difendono i consultori («non sono i luoghi dell’aborto»), lamentano la scarsa coscienza politica delle ragazze italiane - specialmente se confrontate con il diffuso attivismo dei Paesi musulmani - («in che cosa abbiamo sbagliato nel trasmettere le nostre lotte?») ma invitano alla difesa della 194 («la commissione parlamentare in realtà salta le istituzioni, perché gli strumenti per verificare l’andamento delle interruzioni di gravidanza già c’era»).
Ebadi oggi fa l’avvocato e la docente universitaria a Teheran, e sintetizza: «I diritti delle donne sono l’indice rivelatore della democrazia di un Paese». Lei, che per recarsi in Svezia e ricevere il premio Nobel ha dovuto farsi firmare un’autorizzazione dal marito, lo sa bene. L’Iran di oggi, dice, è un Paese duro con le sue donne. «Le sue leggi discriminatorie, in contrasto con la civiltà millenaria della Persia, ammettono la poligamia maschile e il ripudio della moglie senza alcuna ragione. L’età minima per essere giudicati per un reato è 9 anni per le bambine e 15 per i ragazzi. L’Iran è un luogo dove uccidere il proprio figlio è meno grave che uccidere un bambino qualunque». Ma l’Islam non c’entra proprio nulla con queste leggi, aggiunge. Come non c’entra con le mutilazioni genitali. «Ogni uomo prepotente è stato cresciuto da una donna. E’ la cultura patriarcale la bestia da combattere».
Ebadi trasuda ottimismo. La sua esperienza di lotta, che come ultima vittoria annovera una legge più equa sull’affidamento dei figli alle madri iraniane, è positiva. A chi le chiede se la recente elezione del conservatore Ahmadinejad, che minaccia Israele e nega l’Olocausto, cambierà le cose, lei non ha dubbi: «Le donne iraniane non retrocederanno di un passo». Sì, ma gli attacchi a Israele? «L’Iran non lo farà. Comunque tutti i Paesi devono rispettare l’Onu». Cioè anche Israele.
Sorridente la ascolta Rebecca Lolosoli, che in Kenya ha fondato un villaggio dove accoglie le donne in difficoltà, ripudiate dai mariti, violentate e allontanate dalla famiglia. Il villaggio si chiama Umoja (“unità”) e si autofinanzia con il lavoro delle abitanti. Dalla Sicilia chiama Rita Borsellino, candidata alle regionali per l’Unione e presidente onoraria di “Libera”, l’associazione antimafia di don Ciotti che si dedica ai beni confiscati alle cosche. La Sicilia ha la palma nera per la rappresentanza femminile nelle istituzioni, l’augurio è che Borsellino «diventi la terza presidente di regione».




AprileOnLine, 15.12.05
Il battesimo della lobby vaticana
Santa sede. Dall'Azione cattolica alle Acli. Dai Focolarini alla Comunità di Sant'Egidio. E' nata ''Rete in Opera'', per mettere in pratica tutte le indicazioni politiche del cardinale Ruini

Paolo Giorgi

Il "partito di Dio", lo chiama con una sintesi efficace il vaticanista di "Repubblica" Marco Politi. Il laicato cattolico conservatore, con la benedizione di Ruini e del Papa stesso, rilancia la sua sfida alla politica e alla società italiana, risponde indirettamente alle critiche su un "silenzio" del laico, oppresso dal peso mastodontico della gerarchia curiale, e si associa, di fatto, in un'unica, influente, tentacolare entità politica.
E' un fenomeno nato da pochi anni, ed esploso nel 2005, l'anno del referendum, l'anno in cui sono cadute le barriere e gli indugi. C'è anzitutto il coordinamento "Rete in Opera", nato all'inizio di quest'anno, che comprende l'Acli, la Compagnia delle Opere, l'Azione Cattolica, i Focolarini, Sant'Egidio, settori della Cisl, della Coldiretti, e via dicendo. Sotto l'eloquente slogan di "prendiamo il largo", titolo del manifesto costitutivo, la Rete si presenta come "un laboratorio di riflessione e formazione, di convergenza attorno a specifici progetti ed obiettivi, di ricerca di posizioni comuni relativamente a questioni pubbliche di grande rilevanza e di promozione di conseguenti iniziative dell'associazionismo cattolico" (art. 3 dello Statuto). In pratica, un grande "Think tank", e insieme movimento di pressione (una lobby, direbbero senza pruderie gli americani), e poi un utile strumento per dettare la linea da seguire alle centinaia di migliaia di iscritti laici delle diverse associazioni che aderiscono.
Nei suoi documenti, abbondano le riflessioni sulla democrazia: citazioni di Maritain, il primo teologo che tentò di coniugare democrazia e cattolicesimo, ma anche distinguo: con la sola forza dei numeri, si chiede in uno dei seminari preparatori Padre Francesco Compagnoni, Rettore della Pontificia Università S. Tommaso, si possono accettare anche il matrimonio gay? O la ricerca sulle cellule staminali? Occorre, sottolinea il prelato, dare indicazioni ai fedeli su questi temi "perché anche i cristiani - eccome - assorbono i trends sociali relativisti, e quindi nel dialogo non sanno orientarsi fino in fondo". Un'ideologia ambigua, confermata in qualche modo dalla compresenza nella Rete di associazioni giudicate "conservatrici" (come l'Azione Cattolica) e altre ritenute "progressiste" (basti pensare a Sant'Egidio). Democrazia sì, in pratica, ma cedimento sui valori no. Al punto di lanciarsi, a mo' di falange armata dell'episcopato italiano, in battaglie politiche senza esclusione di colpi, in grado di sfruttare tutti i trucchi del parlamentarismo più vetusto, a partire dall'astensione.
Per questo il 7 dicembre scorso Ruini ha rimesso in piedi la sua creatura prediletta, quella "Scienza e Vita" che aveva contribuito, con i 300 comitati messi in piedi i tutta Italia, alla vittoria nel referendum sulla fecondazione assistita (ottenuta, come tutti sanno, grazie all'astensione). Si era sciolto dopo quella vittoria, ora ritorna più bellicoso che mai: nello Statuto si legge che l'obiettivo principale è "promuovere e difendere il diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale, come fondamento di tutti i diritti umani e quindi della democrazia". In pratica, l'agenda politica è già scritta: volontari nei consultori, monitoraggio sulla legge 40, battaglia senza quartiere alla pillola ru480, all'eutanasia, alla ricerca con le staminali. Con la compiacenza di una classe politica di destra quasi tutta aggrappata come un naufrago alla scialuppa vaticana, ultima speranza prima del prevedibile uragano di aprile. "Rete in Opera" e "Scienza e Vita": il nuovo "vento di sintonia cooperativa" che soffia sul laicato cattolico, come lo ha definito il presidente di Azione Cattolica Luigi Alici durante la presentazione di una mostra (ironia della sorte) sul Concilio, soffia più forte che mai, per indicare la via, i principi cardine da cui è impossibile discostarsi.
Il prossimo gennaio a Napoli Rete in Opera presenterà il suo programma, un'"Agenda sociale" stilata da tutte le associazioni aderenti. Ma dietro a queste grandi manovre si cela una verità anche amara per il mondo del laicato cattolico: questa sbandierata autonomia è pura finzione. Non c'è un solo punto all'ordine del giorno del "Partito di Dio" che non sia indicato dal Vaticano, non sia avallato dalla gerarchia ecclesiastica, e non costituisca precisamente l'obiettivo strategico della Chiesa di Roma. Il grande movimento laicale sorto durante e dopo il Concilio, soprattutto a Firenze, a Bologna, a Venezia, non aveva niente a che vedere con la situazione attuale. Si confrontava apertamente, promuoveva seminari sul Vangelo, sull'applicabilità della Parola nel mondo di oggi, sulle istanze sociali, culturali, anche sessuali, del XX secolo. Oggi, nel XXI, non c'è più traccia di tutto questo. La scuola di studi storici di Bologna, nata proprio per perpetuare e divulgare gli insegnamenti conciliari, è stata completamente emarginata, e la monumentale "Storia del Concilio" promossa dal suo fondatore Giuseppe Alberigo dichiarata superata e antiquata da Ruini stesso, che ha favorito una versione storica più compiacente (e certamente più riduttiva rispetto allo scontro che divampò tra la vecchia chiesa tridentina e le nuove istanze roncalliane e montiniane, che ebbero la meglio) di quell'evento decisivo e dimenticato. Perché "quei" laici, quarant'anni fa, sostenevano con forza che il Cristianesimo non è una dottrina, ma una fede. Non una battaglia politica, ma una testimonianza anzitutto personale. E la Chiesa, la comunità degli uguali che mangiano insieme e si lavano i piedi a vicenda, non poteva certo essere una monarchia.
Ma oggi è il tempo del nuovo laicato, quello integrista, moralizzatore, obbediente. Più Fazio che La Pira. E certo più utile a questa gerarchia vaticana di milioni di preti coraggiosi.




ANSA, 15.12.05
Genitore omosex per 100 mila bimbi
Lo rivela indagine di Arcigay e Istituto Superiore Sanita'


Papa' gay, mamma lesbica: e' boom di bebe' tra gli omosessuali italiani ultraquarantenni, stando a un'indagine statistica condotta da Arcigay.Il 20,5% delle lesbiche e il 17,7% dei gay italiani over 40 infatti, secondo la ricerca, hanno almeno un figlio. L'indagine, la piu' estesa mai condotta in Italia su omosessuali e bisessuali, ha coinvolto negli ultimi mesi 10 mila persone, di cui 6.774 si autodefiniscono omosessuali o hanno avuto rapporti sessuali recenti con persone dello stesso sesso.




Corriere della Sera, 15.12.05
La variazione è stata approvata dalla commissione Lavoro del Senato
Il «sordomuto» diventa «sordo preverbale»
Il vecchio termine scompare da oggi da tutte le leggi e dai documenti ufficiali rimpiazzato dal nuovo

ROMA - Da oggi scompare da tutte le leggi e documenti ufficiali il termine «sordomuto». Lo rende noto il sottosegretario al welfare Grazia Sestini, riferendo l'approvazione della nuova terminologia in commissione lavoro, in sede deliberante al Senato. Il termine «sordomuto» lascia il posto al termine «sordo preverbale».
Sestini ha espresso soddisfazione per il provvedimento. «Si tratta infatti - ha detto - di una modifica attesa dalle associazioni delle persone affette da questa tipologia di disabilità e si tratta pertanto di un ulteriore passo avanti compiuto dal nostro Paese verso una sempre migliore tutela e verso la completa e sostanziale equiparazione di tutti i cittadini. La sostituzione del termine "sordomuto" con il termine "sordo preverbale" opera in tutte le disposizioni legislative vigenti».




Repubblica.it, 15.12.05
Ricerca dell'università di Amsterdam: per l'83% esprime questo
sentimento, al 9% la superiorità, al 6% la paura, 2% di collera
Un software decifra la Gioconda
"Quello è un sorriso di gioia"
Un software decifra la Gioconda. "Quello è un sorriso di gioia"


PARIGI - Il celebre e misterioso sorriso della Gioconda ha diviso - e molto probabilmente continuerà a farlo esperti d'arte e studiosi. Come interpretarlo? L'accordo sembra impossibile, ma almeno adesso c'è una posizione scientifica da registrare e dalla quale - pur trattadosi di arte - non si può prescindere. Secondo i ricercatori dell'università di Amsterdam - che hanno utilizzato un software creato dall'università stessa e da alcuni ricercatori dell'università dell' Illinois (Usa), quel sorriso esprime all' 83% la gioia, al 9% il senso di superiorità, al 6% la paura e al 2% la collera.
Il programma per computer che ha permesso questo risultato sull'enigmatico capolavoro di Leonardo da Vinci è stato messo a punto per decifrare gli stati d'animo delle persone: il suo scopo è infatti quello di analizzare i principali tratti del viso e metterli in relazione con sei emozioni di base. E in un futuro prossimo, come scrive il settimanale scientifico inglese New Scientist, che ha pubblicato i risultati di questa ricerca, potrebbe essere utilizzato per mettere a punto dei sistemi sofisticati di sorveglianza.

mercoledì 14 dicembre 2005

Liberazione, 14.12.05
Continua il viaggio ufficiale di Rifondazione nel paese asiatico. Visita guidata alla Yutong officina che produce 20mila pullman l’anno.
L’analisi di Bertinotti: «E’ un modello che prevede salari bassi e relazioni industriali simili al sistema tedesco, nella totale assenza di conflitti»
Cina, nella fabbrica-dormitorio dove il sindacato lo fa il padrone

di Simonetta Cossu

Zhengzhou [nostra inviata]
Negli incontri con i rappresentanti del governo e del partito comunista cinese ti senti ripetere sempre tre parole: Armonia, Sviluppo, Industrializzazione. Sono la chiave della riforma che Deng Xiaoping lanciò 27 anni fa e su cui fa perno il “socialismo cinese”. Tre semplici regole su cui punta la Cina per governare la globalizzazione.
A starli a sentire mentre snocciolano i loro dati del Pil e del commercio estero pensi che forse questi loro obbiettivi non siano totalmente irraggiungibili. Ma quando si passa dalle parole alla realtà il significato di quei termini si perde.
La visita in Cina della delegazione del Prc porta Fausto Bertinotti ancora una volta in fabbrica. Stavolta non entra da sindacalista, né da politico ma quasi da studioso per cercare di capire e vedere cosa succede in un processo di sviluppo che pare inarrestabile. La fabbrica Yutong appare linda e pulita.
Ad accogliere il piccolo drappello di italiani si presenta un vice presidente, anzi come sta scritto sul bigliettino da visita che consegna, un vice manager. Forse anche la parola inglese fa parte del nuovo processo di modernizzazione del Paese. La fabbrica produce pullman. Quelli grossi che circolano nelle città di tutto il mondo. Il nostro tour in fabbrica avviene proprio su un modello ancora tutto impacchettato ed incelofanato probabilmente già destinato ad un acquirente.
Stando ai dati la fabbrica è tra le primi produttrici in Cina, quest’anno ha sfornato 18mila pullman, ma per il prossimo già si annuncia un nuovo record di 20 mila. Oltre alla grandi capacità produttive, la Yutong copre nove aree di mercato cinesi e conta ben 30 punti vendita. Senza contare l’export, quasi tutto verso paesi in via di sviluppo tra questi Cuba, Cile e altre trenta nazioni. Queste le cifre. Ma chi produce? Stando alla hostess che ci accompagna ci sono in tutto 3mila operai impiegati. Un numero che appare un po’ esiguo, ma il drappello italiano per il momento soprassiede. Poi la gentile accompagnatrice spiega che all’interno della fabbrica naturalmente si trova anche un dormitorio. Un dormitorio? Sì, per gli operai.
Fausto Bertinotti di fabbrica ne ha vista molta. Così prende in mano la situazione da “sindacalista” incalzando il restio vice manager con domande precise. Quanti sono gli operai a tempo inderteminato? Quanti a contratto? Quanti fanno parte dell’amministrazione? Alla fine la verità viene a galla. Gli operai addetti alla produzione sono 4mila, di questi 2mila a contratto fisso, altri 2mila a tempo determinato con contratti di un anno. Nei picchi di produzione sono previsti assunzioni “fluttuanti”, a breve termine insomma. Il dormitorio è a disposizione degli operai single, quelli senza famiglia, sia fissi che a tempo indeterminato. Casa e lavoro, per chi non può permettersela. Ma anche un facile sistema di controllo e di coptazione.
L’orario è fisso, sette ore e mezza, senza turni notturni. Il salario è all’incirca di 2mila euro all’anno, il che significa 166 euro al mese. Parranno pochi agli occidentali ma per la Cina sono paghe alte, in pratica il doppio del pil pro capite.
E poi c’è la produzione. L’accompagnatrice porta la delegazione italiana nella zona di assemblaggio finale. Dove i pulman vengono rifiniti prima della consegna. Ma i pullman non sono costruiti alla Yutong. Infatti l’azienda cinese lavora su ordinazioni. Il cliente può scegliere il tipo di telaio, il motore, gli accessori tutti su un catalogo.
Sta poi all’azienda ordinare i pezzi e poi assemblarli. L’unica cosa che si produce è il rivestimento. La parte sicuramente più semplice da fabbricare, dopo l’assemblaggio.
La visita avviene mentre gli operai sono a mensa, si intravedono nel viale dell’officina mentre in fila aspettano il loro turno. Sono giovani, tutti vestiti in tuta e guardano con curiosità questi occidentali che si aggirano per la loro fabbrica.
Bertinotti chiede: «E il sindacato? » Il vice manager sorride e dice di essere anche il presidente del sindacato. Ma al consiglio di amministrazione c’è un rappresentante degli operai? Sì, si premunisce il manager. E’ un operaio eletto dagli altri. Ma non si riesce a saperne di più. Trenta minuti in una fabbrica cinese, non bastano. Molta cortesia ma porte chiuse su cosa veramente accade all’interno. In serata la delegazione del Prc, che oltre a Fausto Bertinotti comprende Gennaro Migliore e Alfonso Gianni, commenta la visita. «E’ una azienda di assemblaggio. Non è un “just in time” al solo fine di eliminare lo stoccaggio come esiste nei grandi produttori, è un Just in time estremo perché dipende dal committente.
Un sistema di produzione che risponde direttamente alla domanda » dice Fausto Bertinotti. «Ci troviamo di fronte a salari cinesi e a relazioni industriali rimodellate sul sistema tedesco, con una totale assenza di conflitti. Le retribuzioni invece rappresentano, almeno per la Cina, un tentativo di dare vita ad una aristocrazia operaia. Se un operaio - prosegue il segretario del Prc - guadagna quanto un laureato impiegato nel pubblico impiego nella capitale mi pare di poter dire che siamo di fronte ad una operazione che attraverso la remunerazione mette in atto un processo di cooptazione della parte più esposta e più coinvolta nel processo di evoluzione industriale dentro al sistema». Un modello di fabbrica modernamente a-conflittuale.
Se l’Europa e l’Italia vorranno competere dovranno decidere come e cosa produrre, modificando i loro assetti economici, altrimenti la partita appare ormai persa. Intanto l’Armonia cinese a noi appare molto lontana.



Liberazione, 14.12.05
In una sua canzone Fabrizio De Andrè cantava di quando “l’amore non era adulto, e ti lasciavo graffi sui seni”
Quei morsi sulla ragazza, inferti dai maschi in attesa

di Monica Lanfranco

Non è la prima volta, e non certo l’ultima, che si viene a conoscenza di un fatto di violenza sessuale e si inorridisce, cala addosso e dentro un cupo senso di frustrazione, di orrore, di impotenza e tristezza. Ti senti sola, anche se stai ascoltando la radio o la tv, o leggi il giornale in casa tua, al riparo, al caldo, per fortuna. Eppure, questa volta, c’è qualcosa in più che ti ferma il respiro; questa cosa l’hai già sentita, c’è un senso di allarme simile solo a quando, anni fa, si seppe dei fatti del Circeo. Izzo, Ghira, Rosaria Lopez. La prima, scioccante trasmissione tv del processo, Tina Lagostena Bassi, allora l’avvocata delle donne, incredula e battagliera mentre ascolta le madri dei violentatori che difendono i loro figli e accusano le puttanelle. La notizia della violenza di gruppo di venti anni dopo, quella degli adolescenti di Lanciano, oltre alla cronaca dello stupro, parla di quei morsi, inferti dai ragazzi in attesa che quello che stava dentro al corpo della loro coetanea finisse la penetrazione, in attesa che arrivasse il loro momento.
Per riempire lo spazio in vista del turno successivo, per avere il pezzo di carne che loro spetta, come i non dominanti in un branco affamato che sbocconcella, sbrana la vittima. Rispettando le gerarchie. Il pasto, dunque: ferino e se volete feroce, ma secondo la legge di natura istintuale per i carnivori l’unico modo di nutrirsi, procacciare il sostentamento a sé e ai cuccioli. Terribile, ma non si tratta di cattiveria, si tratta di sopravvivenza. Qui, rispetto al Circeo, due degli stupratori sono più giovani, sono ragazzi rom, più giovane è la vittima; la narrazione dell’impresa non passa solo di bocca in bocca ma è in internet appena qualche ora dopo l’aggressione, tutto il mondo può leggerla nei dettagli, la si condivide, compresi i morsi, tutto diventa interconnesso. Si ri-stupra, virtualmente, quasi a reiterare quel brivido, quella emozione. E tra i dettagli descritti ci sono, appunto, i morsi. In una sua canzone, struggente e appassionata, Fabrizio De Andrè cantava di quando “l’amore non era adulto, e ti lasciavo graffi sui seni”.
Che il sesso non sia solo carezze e tenerezza è noto, è giusto, è bello: infinite e soggettive sono le variazioni e le sensazioni che reciprocamente sono scambiate dai corpi nella passione. Ma qui, accanto alla ferocia tutta umana e solo umana dello stupro, (perché le bestie non stuprano, né mentono, né rubano, giova ricordarlo sempre, quando si fanno paragoni) c’è l’aggiunta concreta della ferinità che unisce alla violenza carnale quella della oggettivazione del corpo violato che diventa, anche, pasto.
Qui il corpo della femmina è il luogo del soddisfacimento di più pulsioni: il possesso, il piacere sessuale e, seppure a livello simbolico limitatamente al livido, il nutrimento antropofago. Che è successo nella mente di quei ragazzi? Quasi certamente le loro condizioni di vita sono più dure di quelle della maggioranza dei loro amici, ma basta questo a decifrare il loro atto violento? Sono mostri, eccezioni impazzite nelle moltitudine equilibrata degli adolescenti di oggi?
Con che parole, immagini, fantasia e rappresentazioni simboliche stanno crescendo i nostri figli e le nostre figlie rispetto alla sessualità, all’amore, alle relazioni, con l’invasione ormai assodata di tronisti, veline, pezzi di carne disponibile, che nulla ha più a che fare con la bellezza e la gratuità del dono di sé, del libero scambio di piacere, del gioco amoroso che arricchisce e fa crescere e dispone alla condivisione della vita? Che adulti avremo al fianco, quando saremo vecchie e vecchi noi che siamo vissute ponendo, senza ancora oggi avere risposte chiare né nel sociale né nel privato, il conflitto tra i generi come centrale in politica come nella vita privata? Il mio figlio più grande ha ormai quindici anni. Lo osservo, cerco di capire qualcosa in più rispetto a quello che ci diciamo, che sento dire da lui su questi argomenti. So che ogni persona ha i suoi lati d’ombra, mi auguro non di oscurità fitta; fa male ammetterlo, ma a volte ho paura. Come adesso. Mentre leggo di questo stupro non posso evitare di pensare che quei ragazzi hanno l’età di mio figlio; sono nostri figli, se ancora ha un senso pensare alla generazione che stiamo crescendo non solo come a un concetto anagrafico e statistico, ma come ad una nostra responsabilità, individuale e collettiva.
Una minaccia al mio genere sto allevando? Un potenziale pericolo per una giovane donna? Lo guardo, mi sento sola, vorrei uno spazio pubblico per discutere, con altre donne e uomini che sentono il peso e l’importanza della funzione politica della genitorialità consapevole.
La politica è lontana da qui. E quei morsi li sento addosso, troppo vicini.



Liberazione, 14.12.05
Al via l’indagine conoscitiva sulla 194 voluta fortemente dall’Udc. Valpiana
(Prc): dalla Cdl nessun intento conoscitivo solo propaganda elettorale


Aborto, oggi l’audizione di Storace nizierà con l’audizione del ministro della Salute Francesco Storace, in programma per oggi, l’indagine conoscitiva della commissione Affari sociali della Camera sull’applicazione della legge sull’aborto. Ancora nulla di stabilito sul prosieguo dei lavori, vale a dire sulle date delle sedute successive e sugli altri soggetti da ascoltare, considerando che l’indagine dovrà concludersi entro il 31 gennaio. Oltre a quella di Storace, sono state anche decise le audizioni del ministro della Giustizia, Roberto Castelli; di rappresentanti della conferenza delle Regioni e delle strutture sanitarie dove si pratica l'interruzione volontaria di gravidanza; di associazioni di medici e operatori dei consultori; dell’Associazione medici cattolici italiani; della confederazione italiana consultori familiari; del Movimento per la Vita, dell’Aied; dell'associazione Luca Coscioni e dell’Unione centri educazione matrimoniale e prematrimoniale. Ma proprio la calendarizzazione delle audizioni è stato l’oggetto di un vero e proprio scontro politico tra le forze di maggioranza e opposizione per un’indagine che suona solo e ancora come una mera propaganda eletto- I rale, voluta - senza il consenso delle opposizioni - e fortemente solo dagli ex dc. Ieri doveva essere appunto predisposto l’elenco delle associazioni da audire per l’indagine. E quello proposto dalle opposizioni - nota Tiziana Valpiana (Prc) - «non ha davvero alcun intento ostruzionistico, vuole essere - continua - un vero contributo informativo di tutti coloro che da anni lavorano su questo tema e hanno conoscenza dei reali problemi che ogni donna deve affrontare». Ma evidentemente la maggioranza non la pensa così se nelle sue intenzioni vi era solo il fatto di inserire quelle associazioni volute fortemente e solo dalla maggioranza in particolare di quella schierata sulle forti posizioni “ecclesiali” sostenute dai paladini della causa vaticana. «Purtroppo – commenta ancora la deputata Prc - gli esponenti della Casa delle libertà non hanno alcuna idea di come in questi anni di
come sia stata applicata, in ogni sua parte, la legge 194, e continuano a stupirsi del vasto numero di operatori che sono stati esecutivi sul territorio e che dovrebbero essere le fonti principali di una indagine seria. Il movimento femminista - spiega Valpiana - si occupa da trent’anni della salute riproduttiva delle donne, ed ha contribuito a costruire un percorso di conoscenza e prevenzione.
Respingere la richiesta di audire queste donne, dopo aver chiesto a gran voce l’istituzione di una commissione che non era necessaria, è un chiaro sintomo di mancanza di responsabilità».
Del resto proprio la mancata intenzione da parte della maggioranza di ascoltare le tante associazioni e i tanti operatori che da anni si occupano della materia non ne è che un sintomo evidente.
Vale a dire - conclude - che proprio la conoscenza, lo scopo principale dell’indagine conoscitiva, «non corrisponde evidentemente al fine ultimo della Casa delle libertà che sta solo cercando di avviare una campagna elettorale ». E sulla pelle delle donne.
CM




Repubblica.it, 14.12.05
Scoperta per caso in Guatemala. Una volta decifrati, i disegni ci diranno come quella civiltà vedeva la creazione dell'universo
Ecco la 'Cappella Sistina' dei Maya, svelerà i misteri di quel popolo

di LUIGI BIGNAMI

MILANO - E' la 'Cappella Sistina' dei Maya. Lì è scritta, molto probabilmente, la storia della nascita del "mondo" e la storia dei primi Re Maya. L'eccezionale scoperta è stata realizzata - vicino a San Bartolo, in Guatemala - da William Saturno, un archeologo che lavora per la National Geographic Society. Il dipinto è venuto alla luce quando l'archeologo ha scrostato un muro che nascondeva da oltre 2.000 anni quel tesoro.

"Il dipinto copre la parete ovest di una stanza attaccata a una piccola piramide. Le raffigurazioni sono così ben conservate che sembrano essere state disegnate ieri", ha spiegato Saturno. I colori dell'affresco infatti, sono ancora ben conservati nelle loro tonalità primitive. La storia che i disegni raccontano, quando verranno completamente decifrati, spiegheranno come i Maya vedevano la "creazione" dell'universo a loro conosciuto.

L'affresco è stato realizzato nel 100 prima di Cristo, forse da un'unica persona, ma dopo qualche decennio venne misteriosamente ricoperto perché la stanza venne adibita a deposito o a qualcosa del genere. Secondo gli esperti del National Geographic questi affreschi risultano essere i più antichi "murales" dei Maya così ben conservati. Prima d'oggi nessuno sapeva che questa popolazione dell'America Meridionale fosse in grado di avere una così elevata capacità artistica.

La scoperta di questa stanza ha il sapore del romanzo. Saturno, infatti, la identificò per caso nel 2001 quando si rifugiò per riposare in quello che sembrava un antro. Capì di trovarsi all'interno di una camera artificiale e lentamente la riportò alla luce fin quando scoprì che la copertura del muro della parete ovest non era quella primitiva. Dopo averla scrostata è venuto alla luce l'eccezionale dipinto. Che va letto come se fosse un libro. Su di esso appaiono quattro figure, che sono poi la stessa persona che rappresenta il figlio del dio dei raccolti. Saturno li ha così spiegati: "La prima divinità sta nell'acqua e sacrifica un pesce, a indicare la nascita degli oceani. Il secondo sta sulla terraferma e sacrifica un cervo, a indicare la nascita delle terre emerse. Il terzo sta nell'aria ad simboleggiare la nascita dei cieli e il quarto in un campo di fiori ed indica la formazione del Paradiso".

Tuttavia molti degli scritti che si vedono sono ancora da decifrare perché la scrittura è molto antica e diversa da quella che si conosceva finora. Il periodo classico infatti, va dal 250 dopo cristo al 1.000 dopo Cristo. Prima del 250 le conoscenze sono ancora oggi, molto scarse.

A coronare questa eccezionale scoperta c'è anche quella della più antica tomba di un Re Maya. Secondo la datazione essa dovrebbe risalire al 150 Prima di Cristo. La piccola piramide lì vicino è stata anch'essa esplorata e sono venute alla luce ceramiche e ossa di un uomo con alcuni monili di giada, simbolo della regalità Maya.




il Manifesto, 14.12.05
Anticipazione da un inedito di Otto Gross

Nel testo qui anticipato una esemplificazione del pensiero di Otto Gross, secondo il quale la causa dei disagi psichici va ricercata in un ordinamento sociale fondato sull'introiezione, fin dalla prima infanzia, di modelli aberranti. E i pochi che resistono, evitando di adattarsi, pagano il prezzo di un permanente conflitto interiore che si traduce in sofferenza psichica
Il testo di Otto Gross titolato Sul simbolismo della distruzione, che qui anticipiamo parzialmente, fa parte del volume Scritti di metapsicologia, curato da Michele Ranchetti, che uscirà il 15 dicembre nella nuova collana di dieci tomi, appena varata dalla Bollati Boringhieri con il titolo Sigmund Freud. Testi e Contesti, ideata dallo stesso Ranchetti. Il progetto è quello di presentare in una nuova traduzione una scelta di scritti di Freud, corredati da materiali che aiutino a inquadrarne la gestazione nel contesto di quanto, contemporaneamente, andava elaborando il movimento psicoanalitico. Il volume Scritti di metapsicologia - che si è avvalso del contributo di un gruppo di ricerca raccolto intorno al curatore - riporta, oltre a una serie significativa di scritti freudiani degli anni 1911-1917, un testo inedito del 1931, estratti da vari carteggi (con Jung, con Pfister, con Ferenczi, con Salomé, con Groddek e con Abraham) ampi stralci delle discussioni della Società Psicoanalitica di Vienna registrate nei verbali delle sedute, e una serie di scritti psicoanalitici di autori tra cui Otto Rank, Wilhelm Stekel, Sandor Ferenczi, Sabina Spielrein, Wilhelm Reich, strettamente correlati ai temi trattati da Freud. Di particolare interesse la prospettiva offerta da Gross nel testo riportato in questa pagina, che in stretto legame sia con l'orientamento mitologico di Otto Rank che con le tesi di Sabina Spielrein sulla centralità della «distruzione» nei processi della vita psichica e organica, discute le tesi di Freud sulla sessualità infantile. In questo e altri suoi scritti, Otto Gross indaga sul radicamento dei comportamenti psicologici individuali nell'ordinamento sociale, guardando tanto alle questioni sollevate dalla antropologia quanto alle prospettive etiche, o più precisamente politiche, ovvero all'efficacia pratica della critica sociale.

In un breve intervento che comparirà nello stesso volume Gross ricorda come alla sua prospettiva rivoluzionaria, secondo cui la scoperta del «principio psicoanalitico» richiedeva «l'apertura della prospettiva dell'inconscio sul problema complessivo della cultura e sull'imperativo del futuro», Freud avesse opposto una visione riduttiva: «siamo medici e medici vogliamo restare». Sia Gross che Sabina Spielrein anticipano dunque, negli anni 1911-1914, temi che saranno recepite da Freud - all'epoca fortemente critico verso qualsiasi deriva mitologica come anche sociologica della psicoanalisi - solo alcuni anni dopo.



il Manifesto, 14.12.05
Il simbolismo della distruzione
OTTO GROSS

Introduco le considerazioni che seguono con tre casi concreti, avvertendo che essi devono servire soltanto come esemplificazione e non come materiale dimostrativo tratto dall'analisi. 1) Il dottor Neumann del manicomio slesiano di Troppau mi racconta questo caso: una bambina di 6 anni mentre gioca viene improvvisamente buttata per terra da un bambino più grande con uno spintone inaspettato da dietro. La bambina cade su un ginocchio e accusa una ferita superficiale, di poco conto. In seguito le rimane una contrattura del muscolo estensore all'articolazione del ginocchio battuto, che si dimostra chiaramente psicogena e viene risolta attraverso la suggestione.

In questo caso non è stato possibile intraprendere una indagine psicoanalitica. Ma il caso è di così classica semplicità, la costruzione della malattia così evidente e così ovvia per l'esperto, che una discussione più puntuale può aver luogo qui unicamente per ragioni di esposizione.

Se ora richiamiamo i fatti psicologici che Freud ha descritto come «teorie infantili» del coito e della nascita, che attualmente qualsiasi analista considererebbe valide al di là di ogni dubbio, il significato interiore del quadro clinico e dello scopo della malattia si dà da sé. La dottrina freudiana delle «teorie sessuali infantili» afferma che nella rappresentazione dei bambini i rapporti sessuali si riflettono abitualmente nell'immagine di una violenza di qualche tipo compiuta sempre dall'uomo nei confronti della donna, nell'immagine di un atto sadico connotato come di consueto, e che la nascita e la gravidanza si proiettano nella vita rappresentativa infantile sotto forma di malattia, intervento chirurgico, ferita o morte. Il dato di questa simbologia infantile è stato documentato mitologicamente da Otto Rank in modo assai determinato, principalmente a partire dai motivi delle fiabe. (...)

Il caso che ho raccontato contiene la trasposizione immediata di questa concezione infantile della sessualità in un evento di vita. Un bambino mentre gioca butta per terra una bambina, per scherzo, per un impulso immediato. Il bambino agisce in quanto è determinato dall'inconscio, compie un atto sessuale alla sua maniera, così come il suo inconscio comprende la sessualità. E quello che lui fa viene accolto, secondo la stessa disposizione e nello stesso senso, dall'inconscio della bambina, che reagisce all'atto sessuale simbolico con una gravidanza simbolica.

Che la manifestazione patologica della bambina possa davvero essere considerata soltanto un simbolo della gravidanza deriva da un principio che dobbiamo trattare come un assioma psicoanalitico: ogni fenomeno - sintomo o sogno - che muove dall'inconscio deve significare la realizzazione di un motivo simbolico di desiderio, direi quasi di un tropismo. La concezione deterministica di fondo non ci permette di credere ad azioni psichiche prive di causalità, prive di senso, o anche non sufficientemente fondate.

Nel caso descritto il tropismo sessuale è trasposto nella vita in maniera infantile; con la confusione infantile sull'essenza della sessualità e con la sicurezza e la purezza infantile del desiderio sessuale. Resta un problema capire come mai si produca il disconoscimento infantile delle modalità dei fatti sessuali e generativi, e perché questo disconoscimento assuma regolarmente proprio il simbolismo della violenza e della malattia, cioè perché qui si debbano formare regolarmente i simbolismi della «distruzione» nel senso in cui lo intende Sabina Spielrein nel suo studio titolato La distruzione come causa del divenire.

2. Un medico mi racconta il seguente sogno: «Una femmina di animale, all'inizio è una cagna. Distesa per terra, su un fianco, ha vicino a sé un cucciolo appena nato. Io la accarezzo, le parlo e le dico che deve farmi giocare con il suo cucciolo e che io al suo cucciolo non farei alcun male, ma lei è un po' diffidente nei miei confronti. Più avanti l'animale è una scrofa. Accanto si trova una donna; potrebbe essere mia madre, e mi dice qualcosa di questo genere: che all'animale, per alleviargli il dolore, è stato inferto un taglio di distensione. Percepisco oscuramente che è stata ipotizzata un'infezione, si sarà trattato probabilmente di una lussazione inveterata, che è stato commesso un errore, una brutale negligenza, e ne provo orrore. Allora cerco la ferita: è una lesione orribile nella piega dell'inguine, dalla quale si intravede la testa del femore; la ferita non è fasciata, sembra come incisa e squarciata. Fa l'impressione di un animale macellato».

Di questo sogno è stato possibile svolgere un'analisi abbastanza approfondita. Il momento essenziale del sogno, l'espressione del motivo della nascita mediante un simbolismo di distruzione, si manifesta però in modo assolutamente chiaro - con una forza dimostrativa del tutto particolare, perché il motivo della nascita viene formulato qui una volta in modo del tutto scoperto, a partire dalla cognizione che l'adulto ha della realtà, (nell'immagine onirica della femmina di animale con un cucciolo appena nato) e una volta in modo `regressivo', nel simbolismo infantile (l'immagine onirica dell'animale ferito) - in modo del tutto evidente prima nella forma diretta e dopo in quella simbolica. Il carattere infantile del simbolismo di distruzione relativo alle circostanze della nascita viene dissimulato solo in modo superficiale, attraverso l'eleborazione secondaria in immagini tratte dall'esperienza medica.

In quest'ultimo caso restano problematici ancora due elementi: l'essenza del motivo pulsionale del desiderio e il significato del simbolismo animale, cioè della raffigurazione del principio «donna» attraverso i simboli «cagna» e «scrofa». La spiegazione è data da una seconda immagine onirica, che si è data più tardi e separatamente nel corso della stessa notte: l'immagine onirica di una situazione omosessuale. L'indagine psicoanalitica fornisce la soluzione di entrambi i problemi nell'idea spontanea immediata e del tutto inattesa per lo stesso sognatore: «Dal momento che le donne sono così simili alle cagne e alle scrofe da partorire dei bambini, io desidererei essere omosessuale».

Come motivo tropistico centrale della prima parte del sogno si dava dunque una fantasia di delitto sessuale, che andava ricondotta all'ancoraggio dell'inconscio al simbolismo infantile della distruzione per le faccende sessuali e generative. È lo stesso meccanismo del passaggio sessuale dall'inconscio dell'uno all'inconscio dell'altro, l'azione reciproca da una persona all'altra delle forme di inconsapevolezza infantile della sessualità, che qui funge da presupposto nei motivi onirici e che nel caso precedentemente descritto era stato trasposto nella vita. Il fatto che alla pulsione sessuale nella sua forma d'espressione sadica si opponga un fortissimo rifiuto interiore spiega la chiara successione, precedentemente rilevata, di raffigurazione onirica diretta e indiretta dello stesso motivo: il tropismo sessuale nella sua forma simbolizzata sadicamente si afferma con più difficoltà e dunque più tardi rispetto alla sua forma diretta, rettificata e conforme alla realtà. L'autentico desiderio onirico, secondo questo risultato, andrebbe tradotto esattamente: «Preferirei essere omossessuale anziché vivere nella eterosessualità gravata da fantasie di distruzione». In questa formulazione finale la precedente idea spontanea associativa, che inizialmente doveva sembrare un brutale paradosso, si dimostra espressione immediata del profondo conflitto tra il complessivo atteggiamento etico e le forme pulsionali deformate della sessualità che agiscono nell'inconscio.

3. Nel romanzo Kameraden! di Franz Jung una donna riassume l'essenza del suo soffrire di se stessa con queste parole: «Odio tutte le donne. Vorrei essere un uomo ed essere omosessuale». Sono in grado di aggiungere che queste parole, come più in generale la storia della nevrosi contenuta in questo capolavoro di realismo psicologico, sono state riprese direttamente dalla vita.

La dichiarazione di cui parliamo adesso ci porta direttamente al grande problema che Alfred Adler ha posto con il concetto di «protesta virile». Possiamo accennarvi riportando le parole con cui Birstein esprime il principio fondamentale del pensiero di Adler: «Come triste conseguenza del pregiudizio sociale concernente la superiorità dell'elemento maschile, si instaura la seguente contrapposizione schematica e sentimentale: da una parte ciò che è inferiore, il femminile, la debolezza, ciò che sta `sotto'; dall'altra parte ciò che ha valore, il maschile, la forza, ciò che sta `sopra'». Come conseguenza di questo atteggiamento sentimentale che domina inconsciamente si produce nella donna questa rappresentazione finale: «Protesta virile - il desiderio di essere un uomo».

In sé e per sé il fatto che una donna desideri essere un uomo va indubbiamente spiegato a partire dal «pregiudizio sociale della superiorità dell'elemento maschile» - parleremo più tardi di questo fatto di basilare importanza. Ma le parole della donna nel romanzo di Jung a cui facciamo riferimento contengono anche un secondo desiderio, che presuppone meccanismi più complicati e che non può essere spiegato soltanto con la «tendenza alla salvaguardia» nel senso di Adler, cioè dunque con «l'autodifesa della personalità, ovvero l'opposizione all'ingresso del sentimento di inferiorità nella coscienza». L'elemento problematico si trova nella seconda parte della frase: «Vorrei essere un uomo ed essere omosessuale».

È fuor di dubbio che questo secondo desiderio non può essere spiegato con il sentimento di inferiorità della donna per la sua femminilità e con la tendenza a sovracompensare questo sentimento di inferiorità. Da quella tensione puramente egoistica all'affermazione del proprio Io a qualsiasi prezzo, che Adler e la sua scuola ritengono essere l'unico principio efficace della genesi di tutte le manifestazioni del subconscio, in una donna nascerebbe probabilmente soltanto il desiderio di essere un uomo secondo il concetto tradizionale della «virilità», cioè un violentatore di donne.

La motivazione più complicata diventa comprensibile se confrontiamo l'ultimo esempio con il sogno raccontato in precedenza. Comune a entrambi, cioè all'uomo del primo caso e alla donna del secondo, è il desiderio di essere un uomo omosessuale. Alla base di questo desiderio comune deve ovviamente esserci una motivazione comune, possibile allo stesso modo per l'uomo e per la donna. E questo motivo nel caso della donna non è espresso, mentre nel caso del sogno maschile emerge chiaramente come risultato dell'analisi, e può essere ricondotto senza impaccio alla costruzione psicologica dell'ultimo caso. Abbiamo già ricapitolato la formula di questo motivo: è il desiderio di liberarsi dalla eterosessualità gravata nell'inconscio di materiale infantile, cioè di liberarsi dai tropismi del simbolismo di distruzione che gravano l'eterosessualità.

Ora vediamo quanto è emerso dai tre casi e cosa potremmo concludere. Alla base c'è ogni volta - in parte dimostrabile analiticamente, in parte deducibile in maniera univoca - l'ancoraggio dell'inconscio alla formulazione del simbolismo di distruzione per le rappresentazioni della sessualità e della nascita, dove compare come principio essenzale la violenza dell'uomo sulla donna e le cui conseguenze compaiono sotto forma di malattia e sofferenza. Nel primo caso, il caso dei bambini, la sessualità si traspone nella vita in questa forma: nell'età infantile la vitalità del desiderio immediato prevale sulla forza delle inibizioni. Negli altri due casi, che riguardano persone adulte, prevale l'inibizione: in questi due casi si manifesta come desiderio dell'inconscio l'avversione ai tropismi di distruzione. In questi due casi, nell'uomo come nella donna, siamo giunti alla ricostruzione del desiderio di non volere aver niente a che fare, da un punto di vista sessuale, con la donna, perché la sessualità con la donna significa una violenza sulla donna. E questo motivo di desiderio è, secondo la sua natura psicologica, qualcosa di etico.

La letteratura psicoanalitica ci ha reso familiare l'importanza della motivazione morale come componente dei conflitti interiori. Stekel ha chiarito che le motivazioni morali e religiose hanno l'effetto di suscitare i conflitti e Marcinowski ha spiegato con chiarezza insuperabile il carattere dei conflitti interiori che generano la malattia come conseguenza della contraddizione insolubile tra la natura umana e gli attuali giudizi sul valore morale. Ma la tendenza etica di fondo di cui si parla qui non ha niente a che vedere con i giudizi morali di valore, sui quali Marcinowski afferma: «La morale è il terrore di fronte ai demoni vendicatori», mentre io stesso li ho chiamati «la somma di tutte le suggestioni esterne che chiamiamo educazione». Si tratta piuttosto di un istinto primordiale, congenito, conforme alla natura degli uomini, diretto nello stesso tempo alla conservazione della propria individualità e al rapporto erotico-etico con l'individualità degli altri, la cui essenza può essere descritta con questa formulazione concreta: la tendenza a non farsi violentare e a non violentare gli altri.
(traduzione di Alessandro Cecchi)




il Manifesto, 14.12.05
BIOGRAFIA DELL'AUTORE

Otto Gross (1877-1920) era uno psichiatra e psicoanalista austriaco, figlio di Hans Gross, noto professore di criminologia all'Università di Graz. A partire dal 1902 venne più volte ricoverato al Burghölzli di Zurigo per cure disintossicanti da cocaina e morfina, che aveva iniziato ad assumere durante un viaggio in Sudamerica. Conobbe Freud intorno al 1904 e su suo consiglio nel 1908 intraprese una analisi con Jung, ma senza successo. Di simpatie anarchiche prima e di fede comunista poi, visse tra Monaco e Ascona, a stretto contatto con scrittori e artisti espressionisti tra i quali Franz Werfel e Karl Otten, e con anarchici e politici radicali tra cui Erich Mühsam. Nel 1903 sposò Frieda Schloffer, ma si mantenne programmaticamente poligamo: Else Jaffé, Frieda Weekley, Regina Ullmann, Marianne Kuh furono alcune delle sue compagne. Nel 1911 il padre lo fece arrestare e chiudere forzatamente in una struttura psichiatrica austriaca, finché una campagna stampa avviata dai suoi amici non gli guadagnò la liberazione: diventò psichiatra nella stessa struttura che lo aveva internato. Varie sue pubblicazioni uscirono su riviste scientifiche del movimento psicoanalitico, mentre delle progettate riviste che intendevano coniugare psicoanalisi e rivoluzione (una anche con Franz Kafka) si realizzò solo «Die freie Strasse», alla quale Gross lavorò con lo scrittore Franz Jung. Dal 1913 visse a Berlino, esercitando una forte influenza sugli artisti Dada. Nel 1914 si sottopose a un nuovo trattamento analitico con Stekel, ma nel frattempo era divenuto lui stesso un analista molto capace. Nel 1917 tuttavia, una ricaduta gli fece subire di nuovo l'internamento in una clinica psichiatrica. Nel febbraio 1920 venne ritrovato semicongelato e affamato in una strada di Berlino: pochi giorni dopo morì di polmonite.





il Manifesto, 14.12.05
A Siena la scena della nascita

«Nascere a Siena. Il parto e l'assistenza alla nascita dal Medioevo all'Età moderna» esporrà al museo del complesso Santa Maria della Scala, in quello che era l'antico ospedale della città, strumenti medici, incisioni a stampa, antichi biberon, modelli anatomici, opere d'arte, per testimoniare i modi di partorire, di essere assistite durante il parto, di curare i neonati. La mostra si inaugurerà questo venerdì e rimarrà aperta fino al 19 febbraio.




Corriere della Sera, 14.12.05
«Il Governo non modificherà la legge 194»
Storace: dal '78 a oggi 4 milioni di aborti
«Necessaria una politica nazionale di prevenzione». «Se ne sarebbero potuti risparmiare almeno 400mila»


ROMA - «Negli ultimi 26 anni, sono nati in Italia 14,5 milioni di bambini, ma nello stesso periodo ci sono stati 4 milioni 350 mila aborti. E’ un dato davvero sconcertante«. E’ quanto dichiara il ministro della Salute Francesco Storace, durante la commissione affari sociali. «Dal 78 a oggi - ha detto Storace, c’è stata una riduzione degli aborti di oltre il 40 percento e il motivo di certo non è il calo demografico. Questo però non può essere un alibi a non fare prevenzione, necessaria a livello nazionale». Storace ha, inoltre, sottolineato come per fare prevenzione sia fondamentale il ruolo delle Regioni, che devono fornire al Ministero i dati conoscitivi. «Pensate - ha detto Storace - quanti bambini sarebbero nati se fosse stata attuata una politica di prevenzione. Almeno 400 mila bambini in più».
LEGGE 194 - «Il Governo non intende modificare la legge 194 sull'aborto» ha sottolineato il ministro della Salute, che però ha voluto «fare chiarezza per sgombrare il campo da qualsiasi attribuzioni fatta all'Esecutivo», su una eventuale modifica della legge.




La Stampa, 14.12.05
Innamorati e stressati. Lo dice l’Ngf

MOLTO clamore e curiosità ha suscitato la notizia che il «nerve growth factor» (Ngf, fattore neurotrofico di crescita dei nervi, scoperto e caratterizzato nel 1952 da Rita Levi Montalcini, che per questo lavoro ha ricevuto il premio Nobel per la medicina) sia anche coinvolto in fenomeni così "umani" come l’innamoramento romantico. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Pavia coordinato da Pierluigi Politi ha infatti pubblicato su «Psycho-neuro-endocrinology» (rivista culturalmente intrepida che già nel 1998 dedicò un intero fascicolo alla "neurobiologia dell’amore") l’osservazione che durante le prime fasi "romantiche" dell’innamoramento il livello di Ngf nel sangue sale rapidamente. Altre tre neurotrofine (proteine attive sui neuroni) restano invece immutate: l’Ngf, insomma, ancora una volta sembra svolgere un ruolo regolativo specifico su particolari comportamenti sociali. Già nel 1983, osservammo, con Rita Levi Montalcini, come topi maschi adulti che si spartivano il territorio rilasciassero in pochi minuti notevoli quantità di Ngf nel loro plasma sanguigno. Pochi anni dopo dimostrammo che proprio i roditori più stressati e ansiosi, cioè i "subordinati", sfidati da minacciosi "dominanti", ne rilasciavano quantità elevatissime. Nel 1994 dimostrammo che anche i giovani paracadutisti della Brigata Folgore di Pisa, quando - terminato un duro addestramento - veniva loro comunicato che la mattina dopo si sarebbero per la prima volta lanciati nel cielo da un aereo, rilasciavano notevoli quantità di Ngf nel sangue. E questo ben prima dell’esperienza "stressante" del salto nel vuoto: l’Ngf dunque accompagna la preparazione biologica a un evento stressante, che poi orchestra con altri ormoni e neurotrasmettitori. Negli anni successivi, molti laboratori oltre ai nostri del Cnr e dell’Istituto Superiore di Sanità hanno confermato questo ruolo dell’Ngf come regolatore dello stress sociale e dell’ansia ad esso associata, fenomeni non dissimili dalla fase di eccitato e titubante piacere che si prova nelle prime fasi dell’innamoramento. I livelli di Ngf in circolazione nel sangue vanno incontro a significativi cambiamenti in seguito a particolari comportamenti. L’Ngf aumenta in donne che partoriscono, in particolari sindromi schizofreniche, dopo trattamenti con psicofarmaci, nell’astinenza da droghe o da sigarette e, infine, a causa delle difficoltà esistenziali di gestire un parente stretto con grave handicap mentale. In conclusione, l’Ngf è una molecola che accompagna e regola, adattando il corpo, molti insospettabili aspetti della nostra complicata vita sociale. [TSCOPY](*)Istituto di neurobiologia e medicina molecolare (Cnr/Ebri) e Istituto Superiore di Sanità

Luigi Aloe e Enrico Alleva