venerdì 13 gennaio 2006

AGI, 12.01.06
La morte? Non mi preoccupa, non ci penso: so che alla fine verra' ma a me interessa la vita e fino a che ce l'ho la adopero al meglio e voglio viverla.
E' questa l'opinione-testamento del Premio Nobel 1986 per la Medicina e direttore del Salk Institute di La Jolla in California dove ha deciso di stabilirsi permanentemente il 92enne partigiano ed ex-membro del Cln, Renato Dulbecco.
La morte come la vita, per il 'non credente' Dulbecco, fanno parte, rientrano "nella scienza che ha le sue regole: sono quelle della natura dell'uomo della biologia".
Opinione condivisa da un altro ex-partigiano, lo psichiatra Massimo Fagioli: "paura della morte? assolutamente no, non mi fa paura, sono biologico al cento per cento per cui realizzo questo ciclo biologico dell'organismo che si forma, fa la gravidanza, nasce, fa la nascita e alla nascita inizia la vita che prima non c'e' e poi appunto finisce".
Un'impostazione questa che si ritrova appieno nella cultura cinese. "Nella tradizione culturale cinese non c'e' l'aspirazione ad una vita extraterrena ne' l'attesa per la vita successiva come c'e' nella tradizione guidaico-cristiana", dice il Preside della Facolta' di Studi Orientali, Federico Masini. "I cinesi legano la fine della propria vita alla possibilita' di generare - sostiene Masini profondo conoscitore della Cina - nuove generazioni, ossia i figli". E, "nell'architettura tradizionale agricola i defunti, dopo la cremazione, venivano seppelliti in un luogo attiguo alla camera nuziale - osserva Masini - come a dimostrare concretamente la continuita' tra la te e la vita e la nascita delle nuove generazioni". Insomma, "i cinesi sono attaccati al ciclo naturale della realta' biologica: in cio' sono atei e - conclude Masini - il loro ateismo diffuso e praticato puo' essere una risposta a tante domande del mondo occidentale".
E Dulbecco, ideatore nel 1986 del progetto 'Genoma', per lo studio dei geni, una vita intera spesa nella ricerca contro il cancro, non ama l'immortalita'. "Sarebbe bello averla da giovani ma non e' possibile: siccome non sarebbe bello averla quando, da vecchi, il cervello ed il fisico non funzionano piu', non vedo a cosa possa servire per cui - conclude - e' meglio finirla come del resto da regola naturale e biologica".









Repubblica, 12.01.06
All''Auditorium di Roma "SconfinataMente": conferenze
e performance con un solo protagonista: il nostro cervello
Metamorfosi al Parco della musica
Arriva il Festival della scienza
di ELENA de STABILE


Il Parco della Musica diventa il parco della Scienza. Per una settimana, dal 16 al 22 gennaio, l'Auditorium di Roma ospita il festival "SconfinataMente". Ancora una volta la scienza si spoglia della sua mise più austera per rivolgersi a un pubblico più ampio, facendo incontrare luminari e ricercatori con ragazzi, appassionati e artisti.

L'iniziativa intende raccogliere una delle sfide del XXI secolo, la conoscenza del cervello e del suo funzionamento. Con incontri, spettacoli, laboratori interattivi e mostre, scienziati, opinionisti ed artisti dialogheranno sulle prospettive della mente, discuteranno sulle implicazioni etiche e le possibilità tecnologiche di modificare il nostro cervello, si interrogheranno su quanto la logica e linguaggio possano rivelare della nostra natura di esseri pensanti, illustreranno il rischio di intervento e manipolazione del pensiero.

"Gli anni Novanta del Novecento sono stati il decennio del cervello - spiega Vittorio Bo, direttore di Codice, che dell'evento è organizzatrice assieme al Comune di Roma e alla fondazione Musica per Roma - e le scienze cognitive hanno avuto sviluppi considerevoli sotto il profilo sperimentale e teorico. I segreti della mente umana cominciano ad emergere dall'oscurità e a stupire i ricercatori per la loro complessità. Al Festival delle Scienze di Roma si ritroveranno alcuni fra i migliori scienziati e divulgatori, pronti a descrivere gli aspetti più nuovi e controversi del loro lavoro ai confini della mente in un luogo che si aprirà al contatto con tutti, dai più giovani agli scienziati".


Tre i filoni in cui si articola il programma del festival (che nella giornata inaugurale ospita il premio Nobel Rita Levi Montalcini): divulgazione, spettacolo e interazione.

Conferenze
Tanti i temi trattati, dalle prospettive della mente (il 16 gennaio con Enrico Alleva, Roberto Cordeschi, Nino Dazzi, Fabrizio Doricchi, Sandro Nannini e Domenico Parisi), alla possibilità ed alle implicazioni etiche della modificazione tecnologica del cervello, dalla logica e il linguaggio come rivelatori della natura di esseri pensanti, al problema della coscienza da un punto di vista evolutivo. Tra gli altri appuntamenti l'incontro sull'influenza della musica sulla mente, la conferenza sulla percezione dei colori e l'indagine sulle millenarie pratiche di meditazione delle culture orientali.

Danza, teatro e cinema
L'utilizzo di metodologie scientifiche nell'atto della creazione di uno spettacolo teatrale o di danza, è il leitmotiv della sezione artistica. Da Peut-etre del portoghese Joao Paulo Pereira do Santos (dal 17 al 19 gennaio), spettacolo che esplora le possibili prospettive del corpo in movimento lungo la verticale, attraverso l'uso del palo cinese e della musica elettronica, a Le Tube c/o di Jurg Muller, performance dove l'artista giocoliere tedesco si muove con effetti visivi deformanti all'interno di un cilindro di plexiglass alto tre metri e riempito con 2000 litri d'acqua. Il 21 e 22 gennaio va in scena la forza di accelerazione: 9.81 è il titolo dello spettacolo di Eric Lecomte, frutto di una ricerca sul peso, sulla caduta, sul volo (9.81 m/s2 è l'accelerazione gravitazionale sulla terra). "Mi ritorni in mente" è invece il titolo della rassegna cinematografica, che propone documentari del National Geographic, cortometraggi, animazioni e film come "Se mi lasci ti cancello".

Mostre e laboratori
I percorsi interattivi ospitati nel foyer spiegano il funzionamento del cervello, da "Il telaio incantato" (sulle connessioni nervose) ad "Accendi il cervello", da Naso e Parnaso (sull'olfatto) a la Mente allo specchio, fino all'esposizione del robot Autoportrait del Zentrum für Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe, in grado di esplorare visivamente un soggetto mediante una telecamera, per farne poi un fedele ritratto in pochi minuti.







Liberazione, 12.01.06
Religione
Ripartiamo da Marx


Caro direttore, sono nata in una famiglia contadina, verso la metà del secolo scorso, una famiglia non molto praticante a dire il vero, ma allora sembrava "naturale" educare i bambini secondo valori cristiani, che io credo di aver assorbito dalla scuola, dalla amiche, da tutto l'ambiente intorno a me; poi col tempo ho cominciato un lungo lavoro di liberazione, andando sempre più a fondo e scoprendo che quei cosiddetti "valori" erano andati a costituire la mia identità. Tra le tappe di questo mio percorso ci sono il '68, la militanza nel Pci e nel sindacato, le lotte femministe e negli ultimi trent'anni la partecipazione ai seminari di analisi collettiva di Massimo Fagioli. E' quindi con dolore che ogni giorno vedo su "Liberazione" l'immaginetta agiografica del Cristo in prima pagina a pubblicizzare il libro di don Vitaliano, è come se il mio lavoro venisse cancellato: eppure Marx aveva parlato di "oppio dei popoli"! Allora per favore torniamo a studiare Marx, ripartiamo da lì e scopriremo che la critica della religione non può dirsi affatto esaurita ma che va continuamente sviluppata soprattutto oggi di fronte all'attacco quotidiano della chiesa agli spazi di libertà individuale e politica che in questi anni ci siamo conquistati. Credo che sia doveroso combattere le ingerenze della chiesa, ma non contrapponendole un Cristo salvatore degli umili e degli emarginati, perché così si ricondurrebbe nello stesso alveo religioso le forze della conservazione e quelle del cambiamento e della trasformazione. Con questo giochino la chiesa ha dominato per duemila anni, basti pensare a tutte le rivoluzioni fatte in nome del ripristino di un preteso cristianesimo "primitivo", quello basato sulla predicazione del Cristo: dai patarini alla rivoluzione inglese, e sappiamo come sono finiti. Ho una folla di domande nella testa, ma per seguire l'invito alla brevità, ne pongo una sola: come si fa a ricostruire la vera teoria cristiana (ammesso che Cristo sia un personaggio storico), visto che i primi scritti risalgono a sessant'anni dopo la sua morte e che Paolo di Tarso inventore del cristianesimo non lo ha mai conosciuto?
Rita De Petra, Chieti











Liberazione, 12.01.06
Il libro di Domenico Losurdo "Controstoria del liberalismo"
La religione della libertà che crea schiavismo
di André Tosel


La Controstoria del liberalismo di Domenico Losurdo (Laterza, pp. 384, euro 24,00) è un libro che dovrebbe far testo. A prima vista esso si presenta come una ritorsione polemica nei confronti del libro nero del comunismo, che i pensatori liberali hanno scritto per denunciare il totalitarismo soprattutto comunista. Ma se Losurdo si accontentasse di opporre un libro nero ad un altro libro nero, farebbe una ritorsione utile e necessaria per criticare l'agiografia liberale, ma non farebbe fare un passo avanti alla teoria e alla filosofia politica.

In realtà, la questione da lui posta è più radicale, è la questione stessa della natura del liberalismo: che cos'è il liberalismo? Con la sua solita ricchezza documentaria e con il suo consueto rigore analitico Losurdo dimostra che il principio universale del liberalismo, che ha fatto di esso "la religione moderna della libertà" (Croce dixit), fu sempre determinato e limitato da una serie di clausole d'esclusione.

La prima è riservata ai moderni lavoratori "liberi", a lungo trattati come semi-servi, come strumenti di lavoro, esclusi dalla comunità dei liberi propriamente detta e talvolta persino dalla specie umana in senso stretto. Ma l'originalità della Controstoria del liberalismo non è di portare alla luce il rimosso, la schiavitù salariale. Una seconda clausola d'esclusione del liberalismo investe le popolazioni coloniali o di origine coloniale, i neri vittime della schiavitù moderna delle piantagioni, i pellerossa giudicati incapaci di funzionare anche come forza-lavoro asservita e dunque condannati ad un genocidio più o meno aperto. Il liberalismo anglo-sassone è un universalismo imperiale che ha praticato una despecificazione di massa a livello globale. Losurdo conferma qui i migliori momenti del capolavoro di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, la seconda parte che analizza l'imperialismo e che viene stranamente dimenticata dai pensatori liberali come Hayek, Aron, Bobbio, Berlin, Dahrendorf. Losurdo può fare così di più, mostrando che l'idealizzazione arendtiana della rivoluzione americana come rivoluzione politica pura, sgravata del peso della questione sociale che avrebbe fatto sviare la rivoluzione francese, è un mito infondato.


I padri fondatori degli Usa, Washington, Jefferson, Madison sono tutti proprietari di schiavi e praticano la schiavitù nella sua forma più dura, la "chattel slavery", la schiavitù-merce su base razziale. Quando la Costituzione americana proclama "We the people", il popolo di cui qui si tratta è il popolo dei coloni che lottano contro la metropoli inglese perché "li tratta come negri": sono escluse le popolazioni interne di colore come massa da sfruttare o eliminare. Nel liberalismo la dignità di uomo è un privilegio che appartiene esclusivamente alle élite proprietarie bianche: esse non vogliono l'uguaglianza reale per tutti e si attribuiscono il monopolio della vera umanità, riproducendo così la dualità fra "noi" (i migliori e i più forti) e "loro", gli altri caratterizzati da un'"inferiorità di natura", dal basso livello di umanità, forse dalla non umanità.

Negli Stati uniti, con la fine della guerra di Secessione, l'abolizione legale della schiavitù è seguita da una politica di apartheid che dura a lungo. Tra Ottocento e Novecento si assiste, con la colonizzazione e l'imperialismo, alla radicalizzazione del liberalismo imperiale e razzista. Il Lager viene inventato dagli inglesi in Sudafrica contro i dissidenti boeri. Losurdo sostiene a ragione che la tematica liberale del popolo eletto, della missione civilizzatrice dell'Occidente liberale, del "manifest destiny" riservato allo yankee, è il presupposto del totalitarismo del XX secolo, tanto odiato e combattuto dagli altri liberali. Che cos'è il liberalismo storico, ancora una volta? E' la filosofia della moderna comunità dei liberi, che formano una democrazia dei nuovi signori, una "Herrenvolk democracy": contro di essa sono i movimenti di emancipazione a far valere i principi liberali formali che sono un'acquisizione storica irrinunciabile (libertà di pensiero e di credo religioso, diritto alla partecipazione politica, diritto ad una vita libera dal bisogno e dalla miseria, un'esistenza degna per tutti, emancipata dal dispotismo e dal privilegio). Si comprende perché il liberalismo non può essere definito come individualismo proprietario. Il liberalismo ha praticato l'espropriazione dei popoli indigeni - conquista del Far West, smembramento della Cina imperiale, rovina imposta ai contadini dell'India, appropriazione privata delle ricchezze energetiche e dei prodotti agricoli redditizi. La libera individualità etico-politico è stata negata alle moltitudini insieme al diritto di proprietà. La categoria di individualismo proprietario o possessivo non è realmente critica, esprime l'autocoscienza del liberalismo, anche se può essere letta come una confessione autocritica.

Rimane una questione cruciale che Losurdo pone a noi e pone a se stesso: perché il liberalismo ha avuto il destino di una filosofia egemonica che ha potuto legittimare la lotta contro i diversi dispotismi e i diversi privilegi durante tutta la storia moderna? In che modo esso, malgrado la sua equivocità costitutiva, ha potuto assorbire il conservatorismo, il socialismo, il comunismo? Croce aveva posto la questione nella Storia dell'Europa nel secolo decimonono e aveva risposto con la tesi del liberalismo come religione della libertà, capace di superare la sua caduta in liberismo dei possidenti e dei potenti. Il liberalismo ha saputo occupare il centro delle discussioni e del pensiero. Losurdo lo sa e lo dice (p. 339): «Dando la prova di una straordinaria duttilità, esso (il liberalismo) ha cercato costantemente di rispondere e adattarsi alle sfide del tempo. E' vero, ben lungi dall'essere spontanea e indolore, tale trasformazione è stata in larga parte imposta dall'esterno, ad opera di movimenti politici e sociali coi quali il liberalismo si è ripetutamente e duramente scontrato. Ma, per l'appunto in ciò risiede la duttilità. Il liberalismo ha saputo apprendere dal suo antagonista (la tradizione del pensiero che, prendendo le mosse dal "radicalismo" e passando attraverso Marx, sfocia nelle rivoluzioni che in modo diverso a lui si sono richiamati), ben più di quanto il suo antagonista abbia saputo apprendere dal liberalismo».

C'è dunque molto da apprendere dal liberalismo. Losurdo non sviluppa la questione posta, ma indica una via, precisamente quella dell'altro liberalismo da lui definito come "radicale". E' il liberalismo di Diderot e di Condorcet, i quali denunciano la violenza barbara della colonizzazione che nega la libertà dei popoli per sfruttarli. E' il liberalismo di Marx, il quale mostra la barbarie della Civil Society moderna che impone il dominio di una classe o di un gruppo sociale sulle altre classi e gruppi, e che si autocelebra e si sacralizza come popolo dei signori. Rimane il fatto: la via del liberalismo radicale ha potuto imporre riforme e rivoluzioni, ma oggi è il liberalismo imperiale a liquidare le riforme incompiute e le rivoluzioni mancate. Rimane il paradosso: il liberalismo produce al tempo stesso la sua storia e la sua controstoria, promette emancipazione per tutti e realizza la de-emancipazione di molti; esso sposta in avanti il paradosso. Non ha ancora incontrato il limite della sua potenza di assimilazione. Nel libro più sistematico e più filosofico da lui scritto, Domenico Losurdo fa apparire questo limite come orizzonte e circoscrive uno spazio di lotta. Non è poco.







Liberazione, 12.01.06
Il governo conferma l'impegno sui consultori. Valpiana (Prc): «Ne mancano 900»
194, stallo di fine legislatura
di Castalda Musacchio


Prendiamo atto dell'apertura fatta dal ministro per migliorare i servizi forniti dai consultori, peccato che questa arrivi a fine legislatura». Valpiana (Prc) all'uscita dell'aula rilascia un commento caustico. Di fatto Giovanardi, il ministro per i rapporti con il parlamento, che ha replicato all'interrogazione presentata dalla deputata di Rifondazione non ha fatto altro che riferire sui fondi - peraltro in modo confuso - e sugli stanziamenti previsti per la rete dei consultori (160 miliardi nel '97 poi aumentati a 165 in relazione alle somme risultate residue dalla prima fase del programma di investimento). I nodi irrisolti restano altri: così come gli obiettivi inevasi. Il primo: la piena definitiva attuazione della 194 che prevede tanto per citare un esempio che sul territorio sia presente almeno 1 consultorio ogni ventimila abitanti. E come si può raggiungere tale obiettivo - replica ancora Valpiana - dopo anni di politiche di tagli ai servizi sociali, e ancora dopo che la stessa legge è divenuta oggetto di un attacco inveterato? A dimostrazione di ciò resta quell'inchiesta avviata dal centrodestra che continua nonostante tutto e a spron battuto la sua indagine. A cosa resta appellarsi? Qualcuno in aula nota: alla prossima legislatura. E naturalmente alle donne. Sì alle donne.
Le uniche protagoniste di questa "oscura" vicenda imposta da spot elettorali e diktat ecclesiali. E a moltiplicarsi sono gli appelli e le adesioni a sostegno delle protagoniste di questo momento politico. Sabato usciranno dal silenzio in piazza a Milano e a Roma. E a quelli del movimento di esponenti dell'associazionismo di base e di partiti dell'opposizione, ieri si sono aggiunti gli studenti dell'Uds che parteciperanno - dicono in una nota - e con convinzione in difesa della legge 194 sull'interruzione di gravidanza e l'istituzione dei Patti civili di solidarietà. E affinché si arrestino subito quegli attacchi alla laicità dello Stato.
Le richieste sono esplicite: diritti civili e autodeterminazione delle donne che si intrecciano con l'esigenza di un riconoscimento reale della valenza formativa della scuola nel creare cittadini consapevoli "armati" di strumenti adatti a difenderli quei diritti. E ancora dalla Cgil giunge un altro appello per coinvolgere le migranti in difesa di una legge nel mirino. «Anche per consentire loro di esprimere e di rendere palese la loro domanda di cura e prevenzione» sottolinea il responsabile nazionale per l'Immigrazione della Cgil, Pietro Soldini. Esigenze del resto che rispondono a quella nuova domanda di cittadinanza sociale, di servizi progettati e che debbono essere attuati per una utenza composita fatta di tanti e diversi soggetti. Scrive ancora Soldini: «Nella nostra azione di mobilitazione centrale resta il coinvolgimento, sia in termini di informazione che di partecipazione delle donne e delle lavoratrici straniere che sono le più esposte al rischio di gravidanze non desiderate e di maternità impossibili». In sostanza la 194 non va toccata. Perché? Perché funziona. E le cifre le stime come ancora quelle più recenti diffuse dall'Istituto superiore di Sanità sono lì solo per essere consultate. E per convincere anche i più riottosi. La legge sotto attacco ha ridotto il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza, ha fornito modalità contraccettive e di prevenzione e, soprattutto, ha garantito la salute delle donne e in particolare dei soggetti più deboli: le giovanissime e le migranti.
Ma questa legge non va toccata soprattutto perché - come sottolinea ancora Valpiana - è l'espressione di una conquista: della libera autodeterminazione delle donne. Tutti validi motivi per "resistere".
C'è chi ancora - come annunciato ieri dagli esponenti della "Rosa nel pugno" - è pronto a rafforzarla e ampliarla con nuove proposte di legge che per lo meno al momento resteranno disattese. Occorrerà attendere la prossima legislatura. Tra poco meno di quindici giorni Ciampi scioglierà le camere per dare il via alla campagna elettorale. E l'auspicio è che "cambi" davvero "il vento" della politica.





Corriere della Sera, 12.01.06
Il consiglio dei ricercatori: in questa fase evitare di prendere decisioni
Appena svegli cervello ubriaco per 15 minuti
Ricerca Usa. I rimedi: acqua fredda, ginnastica, caffè


ROMA - Dura dai 15 ai 30 minuti e in questa fase sarebbe molto saggio non assumere decisioni né formulare programmi. Ogni iniziativa potrebbe rivelarsi deleteria durante l’«inerzia da sonno», fenomeno che ci sorprende tutti quanti, a prescindere da sesso ed età, nei primissimi momenti della giornata ad occhi aperti. Lo hanno descritto in modo approfondito i neurologi dell’università del Colorado, con nuovi dati pubblicati sul Journal of American Medical Association . Una sorta di sbornia naturale che provoca un ottundimento della reattività mentale. Conclusione: subito dopo il risveglio il cervello è mezzo addormentato, paragonabile a quello di un ubriaco, capace solo di prestazioni mediocri. Le abilità mentali sono più basse rispetto a quelle cui potremmo attingere dopo una notte insonne. Gli effetti più severi dell’inerzia in genere si dissipano nel giro di dieci minuti, ma a volte sono rintracciabili anche a distanza di una o due ore.

«Nessuno dovrebbe dedicarsi a impegni davvero importanti per 15-30 minuti dopo la sveglia, prima di questo intervallo non si è online» suggerisce Neil Stanley. «Per la prima volta abbiamo quantificato le conseguenze della sbornia da sonno - aggiunge Kenneth Wright, coordinatore della ricerca -. Le capacità cognitive degli individui sottoposti ai test sono risultate inferiori a quelle di persone che non avevano chiuso occhio». Si occupa da anni del problema Luigi Ferini Trambi, presidente dell’Associazione italiana medicina del sonno. «L’inerzia è dovuta all’incompleta attivazione di alcune zone cerebrali, in particolare della corteccia, la parte nobile che sovrintende a pensiero e emozioni, che attraversa una fase di metabolismo intermedio. Vigilanza, attenzione e concentrazione sono al di sotto dei livelli normali, quindi sarebbe meglio aspettare che i valori si stabilizzino. La rapidità della ripresa però è soggettiva». Trucchetti per scuotersi: accendere tutte le luci, aprire le finestre, radio o tv ad alto volume.

La realtà sembra smentire in parte i neurologi. «Macchè, le migliori idee mi vengono nei 5 minuti successivi al risveglio - racconta i suoi riti Luciano De Crescenzo -. Mi infilo subito nella vasca da bagno e raccolgo le riflessioni da scrivere. Per non perderle le detto ad alta voce al registratore, visto che non posso usare carta e penna». Incerto Massimo Cacciari : «Non so se questa ricerca sia giusta. Io non ho mai riflettuto su quando il mio cervello si mette in moto la mattina. So solo che il primo pensiero è lavarmi i denti e subito dopo il caffè, molto caffè. E solo allora comincio a ragionare. Non so se sia l’effetto della caffeina o dei minuti che sono passati dal momento del risveglio». Luca Giurato , conduttore di Uno Mattina , visto gli orari, non può permettersi che il cervello resti impantanato nell’inerzia: «Da una vita mi alzo alle 5.30, balzo fuori dal letto, mi spruzzo il viso di acqua gelata, 10 minuti di ginnastica e sono ok. Le idee migliori per La notizia di Luca , lo spazio poco prima del Tg delle 8, mi vengono proprio in questi momenti. Gli ascolti vanno bene, segno che il mio sistema anti-inerzia funziona».

Come lui ha dovuto allenarsi Roberta Capua , co-conduttrice di Buona Domenica su Canale 5: «Adesso non mi ci vuole molto per carburare. Non prendo però decisioni vitali la mattina presto. E sono d’accordo con i ricercatori americani. Probabilmente è meglio evitare stress appena dopo aver aperto gli occhi, si rischiano errori». Rispetta i suoi tempi la deputata di An Daniela Santanchè : «I miei risvegli sono sereni. Mi concedo il lusso di bere il caffè a letto e restarci per un quarto d’ora, prima non sono funzionante. Al solo pensiero di dover rinunciare a questo piacere mi sento male». Il ministro Carlo Giovanardi quando deve rilasciare interviste di buon’ora, dunque concentrarsi, chiede al giornalista di svegliarlo col telefono: «Mi basta questo per sentirmi lucidissimo, tolti i primi due minuti in cui sono fuori combattimento». Il presidente di Farmindustria Sergio Dompè continua a comportarsi come da ragazzino: «Dormo fino all’ultimo secondo possibile. Sì, mi è capitato di prendere subito grandi decisioni. E chissà quante volte ho sbagliato».
Margherita De Bac





Corriere della Sera, 12.01.06
«Grave errore oscurare il valore e le funzione della famiglia legittima»
Pacs e aborto, la condanna del Papa
«La pillola abortiva, farmaco che nasconde la gravità dell'aborto» «Non legittimare forme improprie di matrimonio»


ROMA - Difesa della famiglia fondata sul matrimonio (senza attribuire «ad altre forme di unioni impropri riconoscimenti giuridici») e bocciatura della pillola abortiva Ru486, pur non nominata direttamente («evitare di introdurre farmaci che nascondano in qualche modo la gravità dell'aborto, come scelta contro la vita»).
OFFENSIVA ETICA - Papa Ratzinger lancia l'offensiva etica, in difesa della vita e della «famiglia legittima». Lo fa ricevendo in Vaticano i rappresentanti delle amministrazioni della città e della provincia di Roma e della Regione Lazio. Il Pontefice, le cui parole sono riportate dal Sir, l'agenzia promossa dai vescovi italiani, indica nello specifico quattro priorità da affrontare «nell'ambito della comunità civile, dei suoi compiti e delle sue molteplici responsabilità e relazioni».
PACS E MATRIMONIO - «Penso in particolare - dice Benedetto XVI - a quel terreno assai sensibile, e decisivo per la formazione e la felicità delle persone come per il futuro della società, che è rappresentato dalla famiglia». Duplice l'impegno: «Da una parte - è sempre il resoconto del Servizio informazione religiosa - sono quanto mai opportuni tutti quei provvedimenti che possono essere di sostegno alle giovani coppie nel formare una famiglia e alla famiglia stessa nella generazione ed educazione dei figli: al riguardo vengono subito alla mente problemi come quelli dei costi degli alloggi, degli asili-nido e delle scuole materne per i bambini più piccoli. Dall'altra parte, è un grave errore oscurare il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul matrimonio, attribuendo ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, dei quali non vi è, in realtà, alcuna effettiva esigenza sociale».
PILLOLA ABORTIVA - «Uguale attenzione ed impegno- prosegue Benedetto XVI- richiede la tutela della vita umana nascente: occorre aver cura che non manchino di concreti aiuti le gestanti che si trovano in condizioni di difficoltà ed evitare di introdurre farmaci che nascondano in qualche modo la gravità dell'aborto, come scelta contro la vita».
LA REPLICA DI ARCIGAY - Non si è fatta attendere la replica dell'Arcigay alla condanna contro i Pacs. «Non c'è nessuna contraddizione tra i diritti della famiglia tradizionale e quelli dela famiglia di fatto - sottolinea Franco Grillini, presidente onorario dell'associazione e deputato ds -. Le affermazioni del Papa sono smentite dall'esperienza degli undici Paesi europei dove queste leggi sono già in vigore». Secondo Grillini le nuove norme sulle unioni di fatto andrebbero a tutelare una fetta di circa 3-4 milioni di cittadini italiani conviventi, omosessuali o eterosessuali. Ad essere in gioco, sottolinea Grillini, sono diritti come l'accesso agli ospedali e alle carceri in cui sono ricoverati o detenuti i conviventi oppure la pensione di reversibilità. «Francamente risulta incomprensibile come tutto ciò possa essere considerato eversivo e non invece una risorsa rilevante per la nostra società e per il suo pluralismo».






Liberazione, 11.01.06
L'asimmetria della libertà femminile rispetto al patriarcato
Perché saremo in piazza sabato a Milano
di Imma Barbarossa


La prima parola e l'ultima: abbiamo scelto di intitolare la nostra partecipazione alla manifestazione del 14 gennaio a Milano, promosso dall'Assemblea "Usciamo dal silenzio", con uno slogan antico che titolava un appello con cui tante migliaia di donne rispondevano a chi - anche nella sinistra - tentava di porre sottotutela la libertà femminile: sottotutela del patriarcato, dello stato, delle alleanze di partiti, di una politica intesa come bilancino delle compatibilità, come una "ragionevolezza" che da sempre chiama le donne a responsabilità e interessi "generali" che altro non sono se non patteggiamenti tra fratelli e sodali di genere maschile.
A chi ricorda - e ci ricorda - che è assurdo che dopo tanti di anni di lotte le donne debbano ancora impegnarsi ("mobilitarsi") a difendere la legge sull'aborto, già verificata da un referendum popolare, vorrei ricordare che tutte le questioni che riguardano le donne non sono mai acquisite una volta per sempre, che il patriarcato - come il capitalismo - si ristruttura e si modifica, ma è sempre in agguato. E che la libertà femminile è davvero asimmetrica rispetto all'ordine patriarcale; asimmetrica e per certi versi irriducibile, perché comporta una radicale modifica degli assetti sociali, politici, culturali, simbolici. E d'altronde qui non si tratta davvero soltanto di aborto e nemmeno di una questione di donne.
Si tratta innanzitutto di difendere l'autodeterminazione, la libertà di orientamento sessuale, il diritto di scegliere forme e modalità di relazioni affettive, sessuali, interpersonali. E questo riguarda perciò le relazioni tra i sessi, gli uomini e le donne etero e omosessuali, i/le transgender.

E questa è la ragione per cui la "piazza" di Milano dialogherà e si intreccerà con la "piazza" di Roma dedicata ai Pacs. Ma si tratta anche di affermare parole forti che provino a bloccare le ipocrite invadenze delle gerarchie cattoliche, il fondamentalismo inaccettabile di Benedetto XVI e della sua corte. A bloccarle tra le donne, cosa che già avviene, a bloccarle tra gli uomini anche di sinistra, a bloccarle in un senso comune allargato. A bloccarle tra i giovani e le giovani, che, pur non avendo memoria diretta delle lotte femministe "antiche", hanno - mi pare - un grande senso di sé e della loro libertà individuale e collettiva.
Le compagne e i compagni di Rifondazione comunista saranno presenti a Roma e a Milano con grande convinzione, nella certezza che - come si diceva una volta - non passeranno.
Ma occorre fare oggi qualche passo in più: occorre decostruire culturalmente e simbolicamente il potere del sacro, il potere temporale del sacro, che nella crisi della politica tende ad occupare gli spazi dell'etica pubblica e ancor più nella crisi dell'egemonia maschile tende a presentarsi come un potente surrogato ai fini antichi di legiferare sul corpo delle donne e di normarne (assoggettarne) i comportamenti.
Si tratta di una decostruzione che non può ridursi a rivendicazioni e parole d'ordine, ma domanda ricerca, pratica, approfondimento. Ed è una ricerca davvero utile a tutte e a tutti. Possiamo oggi davvero riprendere tutti i nostri fili e tutte le nostre relazioni.




Liberazione, 11.01.06
Milano, grande attesa per la manifestazione:"Usciamo dal silenzio!". Pullman, treni e incontri, rinasce una forza collettiva. Filo diretto con i "tutti in Pacs" di Roma
Il 14 gennaio le donne ritornano al futuro
di Claudio Jampaglia


Difficile dire quante, ma di sicuro saranno tante sabato pomeriggio a Milano, dalla stazione Centrale a piazza del Duomo, "per la libertà femminile, origine di tutte le libertà e misura della democrazia e per la difesa della legge 194 e della laicità dello Stato, contro l'intimidazione e la colpevolizzazione delle donne". Senza troppi amarcord, con in testa il messaggio in bottiglia lanciato alla fine di novembre da Assunta Sarlo e fatto proprio da migliaia di donne in poco più di un mese: "Usciamo dal silenzio! ". é venuto il tempo di guardarsi in faccia e riconoscersi compagne di pensieri comuni, per riprendere il filo di quel ragionare su di sé e vincere l'estraneità di tanta politica. Un tempo da prendersi o riprendersi per sé, tra lavoro e spesa, lezioni e affanni quotidiani.
Dalle 1500 il 29 novembre alla Camera del lavoro di Milano e in centinaia in decine di città, si sono mosse le donne (e basta, senza aggettivi), via internet e con un tam-tam nei luoghi della vita, dello scambio, dell'aggregazione che promette una partecipazione da movimento. Sessanta pullman da 36 città, treni da Bologna, Roma, Genova, voli da Bari e dalla Sicilia, il bollettino dell'organizzazione è in costante aggiornamento (grazie al lavoro e alla determinazione di Susanna Camusso e Cristina Pecchioli della Cgil Lombardia): L'invito ora è a "mandare 10 sms e mail alle amiche, amici e conoscenti", "a mettere il volantino nelle caselle della posta del palazzo", "ad appenderlo al bar, dal fornaio" (persino al super), "a coinvolgere figlie e loro amiche". Ci sono ancora venti incontri sparsi sul territorio nazionale per informarsi e pochi posti su pullman e treni (elenchi e info su www.usciamodalsilenzio.org).
Sul palco saranno tutte accolte da Ottavia Piccolo, con Cristina Gramellini di Arci-Lesbica a testimoniare l'unione con la manifestazione "Tutti in Pacs" in svolgimento contemporaneo a Roma (con uno collegamento in diretta tra i due palchi offerto da RadioPopolare), Karina Scorzelli Vergara mediatrice culturale cilena a raccontare le donne migranti, Fiorella Mattio lavoratrice atipica spiegare perché la "precarietà è il contraccettivo del futuro". E poi ancora le letture di Anna Boniauto, Maddalena Crippa, Debora Villa, Carmen Covitto e l'assolo maschile di Paolo Hendel. Scelte chiare, diritti civili e libera scelta per tutti e tutte.
Sembra proprio una ripartenza, perché se è vero che le donne sono uscite dal silenzio solo nelle emergenze, come spiega Lea Meandri, "questa volta la stura ce l'ha data qualcosa di più dell'attacco alla legge 194, un'indignazione e una rabbia più generale perché sono sempre altri a parlare e decidere per noi. Medici, politici, scienziati, filosofi, preti ci dicono come essere, quando e se fare i figli o l'amore. Non si tratta solo dell'abitudine a spiare le donne fin dentro all'utero o dell'eterna colpevolizzazione per i figli che non si hanno, quelli che si fanno (magari femmine), per il piacere per se stesse o ancora del diritto di scelta sull'aborto, si tratta della negazione della progettualità delle donne come tali. E allora si riprende la parola, in maniera plateale e rumorosa, in piazza, nella polis, nel pubblico contrapposto al privato, come negli anni '70. é rinata una forza collettiva". Aderisce tutta la sinistra dall'Arci alla Fiom, le donne Ds e del Pdci, le Giovani comuniste e il Forum donne di Rifondazione (che con Giovanna Capelli rivendica i risultati all'interno del Prc sui temi della sessualità come della procreazione assistita) e ci saranno di sicuro anche radicali, verdi, riformisti e tutti quelli che credono nella laicità e che la questione di genere in politica non sia solo un problema di servizi alla famiglia.
Finora, in prima fila, in questo movimento milanese sono state le sindacaliste, le giuriste di Medicina democratica, le operatrici dei consultori, le giornaliste. Un mondo di professionalità stufe del recinto della loro competenza per poi ritrovarsi a vivere in una società che arretra e giudica le libertà di ciascuna, mentre manifesti, pubblicità e star-system grondano merce a forma di culi e tette. Vista la partecipazione ai primi incontri, l'incognita potrebbe essere rappresentata dalle più giovani, figlie e sorelle, anche se alcuni dati positivi non mancano, assemblee nelle università sulla 194 affollate come non sembrava più possibile (racconta la ricercatrice Eleonora Cirant), incontri nei licei in autogestione che sfociano in confronti sulla sessualità e i rapporti di genere. Linguaggi diretti e poco codificati, scarso apporto di ideologia e molta voglia di andare al sodo, segnali di un voglia di ripartire, senza rivangare troppo i bei tempi delle lotte che furono. Perché qui da lottare ce n'è molto, non solo per resistere agli attacchi alla 194 o affermare i diritti delle coppie e famiglie di fatto (omo, etero o come ciascuno crede), ma perché sembra davvero di camminare in mondi separati: la vita da una parte, politica e morale dall'altra.







La Stampa, 11.01.06
Siamo poco altruisti Colpa degli scimpanzé
UNA SERIE DI TEST SUGLI ATTI DI GENEROSITA’: LA MORALITA’ NON E’ SPONTANEA «L’UOMO COME I PRIMATI PUNTA A INVESTIRE SULLA PROPRIA IMMAGINE SOCIALE»


ANNO 2005: la distanza che ci separa dai nostri cugini scimpanzè sembrava sempre più esigua. La mappatura del loro genoma aveva documentato una similitudine di circa il 98% dei geni. Ma adesso una nuova ricerca americana, pubblicata su «Nature», sembra far aumentare nuovamente il distacco, anche se stavolta la distanza è su base «morale» più che genetica. Gli scimpanzè, secondo Joan Silck, antropologa dell’università della California, sembrano infatti avere grandi lacune per quanto riguarda l'altruismo. Nel tentativo di capire se gli scimpanzè fossero in grado di atti di generosità i ricercatori hanno sottoposto gli animali a un test. A uno scimpanzè veniva data la possibilità di ottenere del cibo, tirando due corde in una gabbia. Se lo scimpanzè ne tirava una, riceveva una ricompensa. Se tirava l'altra, riceveva lo stesso premio, ma in più donava una ricompensa simile a un altro scimpanzè. Lo scimpanzè, così, doveva scegliere tra la corda «egoista» e la corda «altruista». Un comportamento altruistico non avrebbe perciò comportato alcuno sforzo e lo scimpanzè «generoso» non avrebbe avuto alcun motivo per non accontentare anche il suo vicino di gabbia. E invece dai risultati sembra proprio che gli scimpanzè non avessero alcuna intenzione di essere gentili. Infatti, la scelta delle due corde avveniva in maniera perfettamente casuale, mostrando come per questi animali l'unico interesse fosse quello di ottenere la ricompensa per loro stessi, senza curarsi dei vicini. A sottolineare la scarsa propensione per il prossimo c’è il fatto che le coppie di scimpanzè del test erano composte da individui che facevano parte dello stesso gruppo da oltre 15 anni. Tuttavia resta un dubbio: giudicare solo dai risultati ottenuti in cattività è sempre un rischio. Infatti in natura le scimmie, anche se non donano il sangue e non creano fondi per aiutare le vittime dei cataclismi naturali, mostrano una serie infinita di comportamenti sicuramente cooperativi e, in alcuni casi, perfino altruistici, comportamenti che costano a chi li fa e che creano un vantaggio a chi li riceve. Per esempio, quando i cercopitechi vedono un predatore, lanciano altissime grida di allarme, spingendo alla fuga i compagni, ma allo stesso tempo rischiando di attirare l'attenzione del predatore. I cebi e gli stessi scimpanzè, poi, non di rado dividono il cibo e le femmine di entelli spesso trasportano i cuccioli di altre femmine. Ma perché lo fanno? Teoricamente la selezione naturale favorisce i comportamenti che aumentano la possibilità di tramandare i propri geni e in questa ottica l'altruismo sembrerebbe un controsenso. E infatti lo è, tranne che per due casi. Il primo caso è quello che riguarda l'altruismo diretto verso i parenti. Se ci si comporta altruisticamente verso un parente, si aiuta qualcuno che ha gli stessi geni. Più il legame di parentela è stretto e più si è pronti a «donare». A questo proposito è celebre la frase che esclamò lo scienziato J.B.S. Haldane dopo aver fatto una serie di calcoli: «Sono pronto a donare la mia vita per salvare due fratelli oppure otto cugini!». Il secondo caso è quello in cui si verifica un «altruismo reciproco»: come dicono gli inglesi, «You scratch my back, I'll scratch yours» («Tu gratti la mia schiena e allora io gratterò la tua»). Le teorie della reciprocità, favorendo i parenti, possono essere anche applicate per spiegare come si sia potuto evolvere l'altruismo nella nostra specie. Ma non in tutti i casi. Infatti, come possiamo spiegare in termini evolutivi la beneficenza? Quante possibilità ci sono che Mario Rossi, il quale ha donato parte del suo stipendio per le vittime dello tsunami, riceva in futuro il medesimo favore da parte del beneficiato thailandese o indiano? In questo caso la teoria della reciprocità (e a maggior ragione quella dell'altruismo verso i parenti) non è sufficiente. E’ un controsenso evolutivo e per spiegarlo le teorie sono molte, ma quella più convincente (o più divertente) è di uno zoologo inglese, Matt Ridley. Lo studioso parte dal punto opposto e si chiede il motivo per cui alcuni di noi sono vendicativi. Secondo lui, le persone vendicative attuano un comportamento apparentemente inutile e «costoso», ma che permette loro di crearsi una fama temibile, di individui da non ostacolare. E il miglior modo di avere fama di vendicativi è quello di esserlo. Per questo si è evoluta l'attitudine alla vendetta, comportamento costoso ma vantaggioso. Per Ridley la spiegazione dell'altruismo è la stessa. Perciò, se è vero che la generosità è un atto che richiede impegno, è anche vero che è l'unico modo per acquistare la reputazione di persone altruiste. Si tratta di una caratteristica di grande presa sull'opinione altrui e che spiega che i nostri atti di «bontà» altro non siano che un investimento a lungo termine sulla nostra «immagine». La distanza tra noi e gli scimpanzè si è così di nuovo ridotta. Non siamo poi così diversi: in entrambi l'altruismo sembra avere solide basi su quello che si potrebbe chiamare un sano ed evolutivamente stabile «egoismo».
Monica Mazzotto






Liberazione, 11.01.06
Se la lotta tra la scimmia di Darwin e la Bibbia attraversa l’Atlantico
Un numero speciale del “Nouvel Observateur” lancia l’allarme sull’offensiva creazionista che dopo la sfida posta alla democrazia americana è partita all’attacco della società europea
di Guido Caldiron


Hazel Motes, il protagonista di La saggezza nel sangue (Wise blood), il romanzo che segnò il debutto, a soli ventidue anni, di Flannery O’Connor, si improvvisa predicatore di un culto altrettanto improvvisato, quello della «Chiesa della Verità senza Gesù Cristo Crocifisso». La scrittrice, che era nata a Savannah in Georgia nel 1925, raccontava in quel libro pubblicato negli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta, e tradotto da Garzanti nel 1985, una tipica storia di quei “folli di Dio” che popolavano - e in parte popolano ancora oggi - l’immaginario e la società dell’America protestante e “sudista”. «La religione del Sud è una religione fatta da sé, qualcosa che come cattolica trovo penosa e commovente e cupamente comica - scriveva O’Connor a un amico nel 1959, prima di precisare - E’ piena di un orgoglio inconscio che conduce la gente a ogni genere di definizione religiosa ridicola.
Non hanno niente per correggere le loro eresie pratiche e così le elaborano drammaticamente. Se questo per me fosse soltanto comico non varrebbe niente, ma io accetto le loro stesse dottrine fondamentali del peccato e della Redenzione e del Giudizio».
Le parole quasi imbarazzate che Flannery O’Connor, la cui matrice cattolica è sempre stata al centro di racconti e romanzi che hanno descritto a tinte cupe e grottesche la vita del sud degli Usa, dedicava mezzo secolo fa ai personaggi e al clima che le avevano ispirato La saggezza nel sangue, potrebbero essere state pronunciate anche negli ultimi mesi. Mai come ora, infatti, la pressione dei movimenti religiosi protestanti, segnati da un’aperta vocazione fondamentalista, si è fatta sentire nella società statunitense. E questo non solo negli stati meridionali.
Come ha rilevato Sébastien Fath, lo storico francese delle religioni ricercatore del Cnrs di Parigi che a questo tema ha dedicato due volumi usciti di recente anche nel nostro paese - Dio benedica l’America, Carocci (pp. 235, euro 16, 90) e In God We Trust, Lindau (pp. 270, euro 24, 00) - l’America appare oggi come «una nazione con l’anima di una Chiesa». In particolare, sottolinea Fath, «molti osservatori rimangono perplessi davanti alla palese religiosità del presidente Bush e alla retorica manichea della sua amministrazione.
Anche nel suo stesso paese, dove a volte è chiamato “l’ayatollah americano”.
Vi si deve ravvisare una profonda rottura della storia statunitense, una crisi millenaristica passeggera o sono semplici effetti tribunizi?». Un quesito centrale dato che, come aggiunge lo stesso Fath «il presidente G. W. Bush ha inaugurato il XXI secolo con accenti messianici tanto vigorosi quanto sconcertanti». Ad essere cambiato non è soltanto il rapporto di milioni di cittadini americani con la religione, quanto e soprattutto ciò che si potrebbe definire come l’uso pubblico e politico del “fatto religioso”. L’America dei mille culti, quasi lo specchio di Dio del melting-pot costitutivo dell’identità del paese, si è svegliata nell’era Bush - specie nel dopo 11 settembre - in preda a una sorta di isteria religiosa alimentata in larga misura dal potente circuito del fondamentalismo cristiano che è approdato perfino all’establishment del paese. Si tratta, ovviamente, dell’approdo recente di un processo di lungo corso che attraversa l’intera storia americana e che ha trovato espressioni pubbliche sempre più significative perlomeno nell’ultimo quarto di secolo. Già nel 1983, ad esempio, Furio Colombo notava nel suo Il Dio d’America (Mondadori) come all’inizio degli anni Ottanta tutti e tre i candidati alla Casa Bianca - Jimmy Carter, Ronald Reagan e John Anderson – si fossero dichiarati come «fervidamente cristiani». In particolare, spiegava Colombo, Reagan aveva partecipato a un’assemblea di pastori evangelici e fondamentalisti a Dallas e aveva fatto alcune dichiarazioni giudicate “solenni” dalla platea.
In una di queste si era ad esempio dichiarato apertamente «creazionista». E Colombo, nel dare conto dell’evento, precisava: «“Creazionista” nel codice del nuovo cristianesimo americano è qualcuno che crede alla Bibbia in modo letterale anche a costo di ripudiare la scienza. E l’offerta di approvazione e sostegno all’assemblea fondamentalista significa sposare posizioni di vero e proprio integralismo cristiano. L’assemblea di Dallas proponeva infatti la fine della separazione tra chiesa e stato, la sottomissione di ogni legge civile ai precetti morali derivati dalla particolare interpretazione biblica proposta dal gruppo».
Proprio il cosiddetto “creazionismo” rappresenta oggi la punta più avanzata e minacciosa del nuovo schieramento religioso integralista negli Stati Uniti. Ed è a partire da un altro evento, ancora più lontano nella storia del paese rispetto a quello raccontato da Furio Colombo, che il creazionismo si è imposto all’attenzione generale.
Si tratta del processo che si svolse a Dayton nel Tennessee a partire dal luglio del 1925.
«Imputato era il giovane insegnante di biologia John Thomas Scopes - spiega l’americanista Roberto Giammanco nel suo L’immaginario al potere (Pellicani Editore) – Chiamato a fare una supplenza nella classe del direttore della scuola pubblica di Dayton, Scopes si era servito, per le spiegazioni, di un testo che faceva riferimento alle teorie evoluzioniste ». Teorie che una legge dello stesso Tennessee aveva messo al bando. Così, conclude Giammanco, «prima ancora che si aprissero le porte della stanzuccia in cui si riuniva il consiglio comunale, l’unica a Dayton che poteva vagamente rassomigliare a un’aula di tribunale, il significato del processo era già chiaro. Era lo scontro tra la Bibbia e la Scimmia di Darwin».
La contrapposizione, da parte del fondamentalismo cristiano, del principio della creazione a quello dell’evoluzione attraversa l’intero Novecento americano, talvolta con l’accento del “disegno intelligente” - sorta di tentativo di spiegare in termini religiosi anche le scoperte scientifiche.
E’ di questo che si parla in modo quasi ossessivo negli Stati Uniti: se ne discute nei talkshow, del resto spesso animati anche da noti predicatori televisivi, ma anche nelle aule dei tribunali di diversi stati dove le posizioni dei creazionisti sono diventate, o si apprestano a diventare, legge.
Il senso della sfida lanciata alle istituzioni laiche - si tratti della scuola, delle possibilità di una libera ricerca scientifica, perfino della legislazione di uno Stato - da parte del fondamentalismo religioso è oggi sotto gli occhi di tutti.
Si tratta del volto più evidente di quella contro-rivoluzione culturale che la destra americana ha lanciato contro le pur timide conquiste della stagione della lotta per i diritti civili degli afroamericani, del pacifismo e dei movimenti democratici e espressione delle minoranze del paese.
Ma questa sfida, come indica un numero speciale del settimanale francese Nouvel Observateur, in edicola in questi giorni con il titolo di “La Bible contre Darwin”, non si svolge soltanto sull’altro lato dell’Atlantico ma comincia a emergere anche in Europa. Al punto che decine e decine tra intellettuali e scienziati hanno deciso di lanciare, anche attraverso la rivista, un “Appello alla vigilanza”, “Contro il neocrazionismo e le intrusioni spiritualiste nella scienza”.
L’accento posto sulla situazione statunitense, come sottolinea nella monografia del Nouvel Observateur il filosofo Dominique Lecourt, non riguarda soltanto i limiti che questa crociata integralista vorrebbe porre alla scienza e al suo studio, ma anche il progetto di società che l’offensiva già annuncia. E’ lo «spettro di una teocrazia» quello che i nuovi rapporti di forza tra religione, scienza e politica, che i fondamentalisti vorrebbero imporre, annunciano per gli Stati Uniti. E, secondo le loro intenzioni, anche per l’Europa.






Liberazione, 11.01.06
Appello per la scienza e la libertà
Pubblichiamo l’“Appello alla vigilanza, contro il neocreazionismo e le intrusioni spiritualiste nella scienza”,firmato da numerosi studiosi ed intellettuali francesi, e pubblicato da un numero speciale del settimanale francese Nouvel Observateur, in edicola in questi giorni con il titolo “La Bible contre Darwin”.


Appello alla vigilanza contro il neocreazionismo e le ingerenze spiritualiste in fatto di scienze. Vigilanza di fronte al ritorno di pseudo-scienze, vigilanza di fronte a nuove forme di creazionismo, vigilanza di fronte alle verità annessioniste delle religioni nei confronti delle scienze, vigilanza di fronte agli attacchi, nelle scienze e nell’insegnamento, alla legge del 1905 (Francia) e al 1° emendamento (Stati Uniti).
Da alcuni anni si assiste a un ritorno in forza del creazionismo, in forme meno ingenue e quindi meno facilmente avvertibili che in passato. Si tratta del “disegno intelligente (“Intelligent Design” o Id), una tesi metafisica secondo cui la complessità del mondo non può derivare dai soli meccanismi naturali, per cui deve esistere una forza naturale che organizza il mondo, vale a dire un dio. Il termine “dio”, tuttavia, non compare mai nei testi dell’Id.
Il neo-creazionismo, sedicente scientifico, nasconde tanto più facilmente le sue reali intenzioni in quanto i suoi principali propagandisti trovano sostegni poderosi presso alcuni industriali e scimmiottano il mondo scientifico in cui cercano di infiltrarsi.
Negli Stati uniti spuntano continue richieste di vedere i programmi scolastici adeguarsi in parte al verbo rivelato. In Francia, malgrado il luogo comune secondo cui il nostro paese sarebbe “immune” da simili sciocchezze, è dato osservare sintomi sempre più rilevanti della confusione tra discorso scientifico e discorso proselitistico.
Di fronte alla forza del movimento dell’Intelligent Design (potenze finanziarie e potenze istituzionali) è finito il tempo dell’indifferenza o del motteggio. Noi facciamo appello alla vigilanza di fronte all’insidioso recupero del divino nel lavoro scientifico, il cui approccio non può compiacersi di una simile intrusione.

Tra le tante adesioni arrivate segnaliamo quelle di Frank Cézilly, Elisabeth Pacherie, Georges Chapouthier, Marie-Christine Maurel, Hélène Langevin-Joliot, Fréderic Laudet, François Athane, Juan Rodriguez, Michel Paty, Jérôme Segal, Charles Wolfe, Christian Magnan, Alain Policar; Jean-Pierre Garcia, Maxence Revault d’Allonnes, Bruno Courcelle, François Pépin, Elliott Sober, Patrick Tort, Jean-Michel Berthelot, Simon Tillier, Pascal Ludwig, Bruno Chanet, Jean-Paul Delahaye, Guillaume Lecointre, Joëlle Proust, Clotilde Policar, Jacques Pouyssegur, Georges N. Cohen, Mario Bunge, Marie-Lise Chanin, Maurice Godelier, Edouard Machery, Anouk Barberousse, Roger Balian, Yvon Quiniou, Jean-Baptiste Leblond.




Liberazione, 11.01.06
Lavoro
E’ solo una parte dell’esistenza


Cara “Liberazione”, ho sentito le recenti polemiche sull’invito lanciato da una nota scrittrice alle casalinghe affinché ritornino a lavorare fuori casa.
Personalmente ho un’opinione del tutto diversa della mia casa e del tempo che ci trascorro. Quest’estate, per una brutta vicenda di mobbing, ho dovuto passare cinque mesi a riposo; dopo una vita tumultuosa in una corsa frenetica per la “carriera” ho dovuto passare 150 lunghissimi giorni tra le mura della mia abitazione. E lì, in questa parentesi di vita, ho riconquistato il tempo; lì ho ritrovato dentro e fuori di me il tempo per riflettere, per leggere, per pensare; il tempo per immaginare un mondo che non c’è, ma che nei nostri sogni esiste davvero, come dice il Comandante Marcos. A casa, insomma, non “ci si limita” ad allevare bambini.
Oggi sono tornata felicemente a lavorare, ma con una nuova importante consapevolezza: il lavoro (qualunque tipo di lavoro, per uomini o donne) va relativizzato. E’ solo una parte dell’esistenza.
Ilenia Filippetti Perugia








Liberazione, 10.01.06
Il segretario di Rifondazione incontra i giornalisti e i lavoratori di “Liberazione”. Un confronto a tutto campo: dai compromessi possibili nelle politiche del probabile governo Prodi alla critica del Wto, da cosa si intende per laicità alla battaglia delle donne
Bertinotti propone un patto-sfida ai riformisti: facciamo i conti con la crisi di questo capitalismo
di Stefano Bocconetti


S’è fatto tutto più complicato, maledettamente più difficile. Naturalmente a cominciare dal caso Unipol. In pillole: è «stato giusto », giustissimo sollevare fin da luglio - come ha fatto Rifondazione - il cuore del problema. Cioè la fine dell’autonomia della politica rispetto all’economia, rispetto alle battaglie che si stanno conducendo per ridisegnare gli equilibri economico- finanziari. E’ stato giusto sollecitare la discussione su questo tema, «non si poteva restare acritici».
La difficoltà nasce quando qualcuno tenta di cambiare la gerarchia dei problemi del paese. Come se alle elezioni
ci si dovesse pronunciare solo sul caso Unipol. La difficoltà nasce dal fatto che se non si poteva tacere sull’irresponsabile posizione dei vertici diesse, è anche vero che quei vertici oggi sono «sotto attacco». E allora, come se ne esce?
Ieri Fausto Bertinotti era nella redazione di “Liberazione”, qui, in queste stanze.
Per un confronto, per una discussione coi giornalisti e i lavoratori del giornale, un po’ su tutto: dai compromessi possibili nelle politiche del probabile governo Prodi alle battaglie contro il Wto, da cosa si intende per laicità a che aspetto dovrà assumere la forma partito.
Fino alla battaglia delle donne. Tutto, insomma, da Rutelli a Lula. E qui, in questa occasione, il segretario di Rifondazione ha tirato fuori una proposta. Che potrebbe far uscire la situazione dalle secche in cui si trova.
A lui, a Rifondazione, interessa ridefinire il rapporto fra politica e ed economia.
Ma qui dentro, a Bertinotti interessa soprattutto riaprire una discussione per provare a ridefinire i rapporti fra sinistra ed economia.
Si rivolge allora - mettendoci un po’ d’enfasi in queste parole - «ai compagni dei diesse». Si rivolge a loro, per aprire una grande discussione unitaria. Una discussione senza rete, aperta, ma che abbia se non un obiettivo, almeno una finalità: provare a capire di cosa si parla quando si dice «crisi del capitalismo». Lì, a questo appuntamento, Rifondazione vuole andarci libera da qualsiasi schematismo. Ci andrà però con una sua visione, con una sua lettura, naturalmente.
Che parte da un dato. Questo: che i processi corruttivi, le degenerazioni non sono un incidente di percorso. Non sono «una patologia imprevedibile».
Sono fenomeni connaturati a questa fase della crisi del capitalismo, sono connaturati al prevalere della rendita sull’impresa produttiva.
Per essere chiari (e Bertinotti lo ha detto rispondendo ad una giornalista che sosteneva la tesi contraria): non è vero che sempre e comunque il mercato porti corruzione. Non sempre è stato così, di casi se ne potrebbero fare a decine, esistono tanti esempi di tentativi seri di regolazione.
Ma oggi è diverso. Oggi la corruzione è parte integrante del sistema, di questo sistema in crisi. Per capire: l’evasione fiscale, i veri e propri paradisi fiscali - non in qualche isola sperduta dei Caraibi ma qui, nel pieno dell’Europa - non sono una distorsione in qualche misura modificabile: «Sono un elemento costitutivo del meccanismo della rendita».
Questa è l’idea di Rifondazione. Non è l’unica analisi in campo. C’è anche quella, che sembra prevalente fra i riformisti, secondo la quale la rendita, la rendita finanziaria è “governabile”, secondo la quale invece di cambiare il capitalismo si possono sostituire i personaggi egemoni nel capitalimo. Secondo la quale le storture si possono correggere. Se ne può discutere, senza rinunciare a nulla ma disposti alla ricerca, all’approfondimento. E «questa discussione, se fatta unitariamente, eviterebbe anche il rischio, paventato da qualcuno, per cui un dibattito franco finirebbe per favorire l’avversario». Discussione libera, allora. Che punti a rimotivare - così ha detto il segretario del Prc - la diversità della sinistra. Che “non è un tratto distintivo delle persone”. Ma nasce dalla collocazione nella società, dagli interessi che ci si propone di rappresentare.
Non sarà facile, si diceva. Esattamente come non sarà facile, per Rifondazione, all’indomani del risultato elettorale. Se, come tutti si augurano, l’Unione supererà il centrodestra.
Qualcuno nel dibattito aveva introdotto l’argomento proponendo un paragone storico. Quello con la stagione del primo centrosinistra, negli anni ‘60. Stagione segnata da successi, sconfitte, luci ed ombre ma che sicuramente ha segnato una delle poche novità politiche nella sessantenale storia repubblicana. Ma lì -si è detto - le forze politiche avevano chiaro su quale blocco sociale si poggiavano per avviare una stagione di riforme. Ora tutto sembra più indistinto. Appunto: tutto più difficile. Ed è su questo punto, che Bertinotti raccoglie l’assist. Allora, all’inizio degli anni ’60, anche se coesistevano nel centrosinistra molte strategie diverse (da quella di chi voleva semplicemente inglobare un pezzo della sinistra per dividere le forze politiche che si rifacevano al movimento operaio a quella di chi vedeva l’ingresso dei rappresentanti dei lavoratori al governo come uno degli strumenti per spostare in avanti gli equilibri della democrazia), c’era una situazione internazionale che consentiva quelle forzature. Oggi è diverso. E’ assai diverso.
Oggi c’è quello che il segretario di Rifondazione definisce un «terremoto continuo». In campo economico, ma anche in quello sociale.
E in quello politico. Dove nessuno è in grado di proporsi al governo potendo contare su un consenso stabile. E, allora, in questa situazione, “vince” solo chi è in grado aggregare. Di tirar fuori proposte politiche e sociali in grado di unire, di creare una barriera alle spinte centrifughe.
un po’ quello che, dice ancora Bertinotti, sta facendo Rifondazione in Italia, nell’Unione.
Che non esaurisce affatto, però, il ruolo del Prc. Perché contemporaneamente alla necessaria battaglia per mandare a casa il governo delle destre, la sinistra d’alternativa deve essere in grado di proporre qualcosa che vada oltre al programma concordato.
Qualcosa che prefiguri un modello di società, di Europa possibile, che magari non sarà per oggi, non sarà per domani ma per dopodomani sì. Ecco da cosa nasce l’idea della sezione italiana della Sinistra europea.
Ma pure qui, la stessa domanda: impresa facile? Sono stati in molti in redazione a notare, più che nelle parole nei toni di Bertinotti, una certa preoccupazione. «E’ inutile girare attorno al problema – dice – Noi faremo quello che è nello nostre possibilità ma molto dipenderà da ciò che avviene fuori di noi». In Germania, per cominciare. «Se si consolida la tendenza moderata espressa dalla Merkel tutto si farà terribilemnte complicato.
Ma sono fiducioso che anche lì le lotte sociali, la sinistra d’alternativa possano rompere la gabbia”.
E in Italia? Anche qui, preoccupazione. Forse anche qualcosa di più. Bertinotti butta lì una frase sulle difficoltà che sta incontrando il lavoro di scrittura del programma dell’Unione.
Dice d’essere «fortemente preoccupato». Ma come? In gran parte delle commissioni si era riusciti a scrivere testi ampiamente condivisi? Si erano fatti passi in avanti notevoli su tante questioni spinose? Si era deciso addirittura di riscrivere la premessa sulla parte economica? E ora che accade? Si è tornati indietro?
A queste domande il leader di Rifondazione ha preferito non rispondere. Ma s’è limitato a ripetere d’essere «preoccupato». Di più, magari, se ne saprà nelle prossime ore.
Ma a ben vedere tutto ciò riguarda ancora la polemica politica quotidiana. Le ambizioni di Rifondazione sembrano puntare molto più in là. E resta un problema: il ruolo di questo giornale. Anche qui, per capire: che tipo di quotidiano si dovrà fare quando magari ci saranno esponenti di Rifondazione al governo? Sarà un giornale acquiescente? Tollerfante? Su questo si sono trovati tutti d’accordo. Dal direttore Sansonetti, secondo il quale Liberazione non potrà mai «stare al governo. Un giornale, un giornale come il nostro, sarà sempre all’opposizione».
Idea, progetto, in fondo accettata da Bertinotti. Quando dice che non solo Liberazione ma l’intera Rifondazione dovrà essere capace di «restare autonoma» dai governi. Dovrà essere capace di schierarsi sempre e comunque dalla parte degli ultimi. Dalla parte del blocco sociale che vuole rappresentare. Anche se questa parola è diventata davvero ormai inutilizzabile. Perché non dà conto delle complessità, dei tanti bisogni, individuali e collettivi, di chi comunque si sente stretto dentro questo sistema. Ma questo è tutto un altro discorso. Da affrontare magari in un’altra assemblea.







Liberazione, 10.01.06
Il Papa: «Rischio scontro di civiltà».
Dimezzare le spese per le armi
Ratzinger parla agli ambasciatori della «menzogna» alla base della «legge del più forte». Ma cita l’Iraq solo per il terrorismo. «Metà delle spese per armamenti basterebbe a sfamare lo sterminato esercito dei poveri»
di Fulvio Fania


Americano apparentemente soddisfatto, israeliano un po’ deluso, almeno sulle prime. Il discorso del Papa agli ambasciatori per il nuovo anno, il primo di Ratzinger nella Sala Regia di fronte ai 174 rappresentanti di tutto il mondo, provoca entusiasmo ostentato da parte del diplomatico statunitense Francis Rooney e lascia invece un po’ d’amaro in bocca all’esponente dello stato ebraico Hoded Ben Hur che si aspettava una «condanna forte del presidente iraniano Ahmadinejad», a suo parere «l’unica attuale minaccia a livello planetario». In serata però l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, un uomo che ha lavorato mesi per ricucire lo strappo dell’estate scorsa tra il suo governo e il Vaticano, ridimensiona drasticamente il caso. Nessuna critica, anzi pieno apprezzamento.
D’altra parte il Papa ha citato due volte la Terra Santa affermando: «Lo Stato di Israele deve poter sussistere pacificamente in conformità alle norme del diritto internazionale» e «il popolo palestinese deve poter sviluppare serenamente le proprie istituzioni democratiche». Forse quel riferimento implicito alle risoluzioni internazionali che nel passato condannarono Tel Aviv non farà piacere a Israele, ma se c’è un punto sul quale il recente messaggio di Benedetto XVI per la giornata cattolica della pace aveva impressionato le cancellerie era proprio l’evidente condanna dell’Iran, pur senza farne il nome, per la volontà di dotarsi di armi nucleari e per quei governanti che istigano all’odio verso altre nazioni.
Il discorso agli ambasciatori ha ben altri risvolti. Rischio dello scontro di civiltà, innanzi tutto: papa Ratzinger fa risuonare la terribile prospettiva.
L’ultimo scorcio del pontificato di Wojtyla era stato speso a mettere in guardia dai teorici della guerra inevitabile tra gli stati del Bene e quelli del Male portando allo scoperto tutte le inconfessabili ragioni degli incendiari di entrambe le sponde e condannando la spirale di violenza tra attentati e rappresaglie armate. Ora il suo successore dà ragione a chi «ravvisa » il pericolo di uno «scontro delle civiltà», reso più acuto - afferma il pontefice - dal «terrorismo organizzato che si estende ormai a livello planetario».
Ratzinger teme un conflitto con il fondamentalismo islamico, il «fanatismo» come l’aveva già definito nel suo messaggio per la pace. Al pari di Giovanni Paolo II respinge chi invoca Dio per giustificare la violenza ma, diversamente da lui, attribuisce maggiore importanza alle «motivazioni culturali, religiose ed ideologiche» del terrorismo piuttosto che a quelle politiche e sociali.
Balza inoltre in primo piano il tema della libertà religiosa per i cristiani in diversi paesi arabi e asiatici. Il Vaticano non sorvola più sull’argomento.
«Purtroppo – osserva Bendetto XVI - in alcuni stati, anche tra quelli che possono vantare tradizioni culturali plurisecolari, la libertà religiosa è gravemente violata in particolare nei confronti delle minoranze».
Ovviamente anche Ratzinger si schiera contro il pericolo del conflitto tra Occidente e Islam ma è l’impianto del suo discorso a rivelare, malgrado la netta presa di posizione contro la corsa agli armamenti, un cambiamento di rotta nella diplomazia vaticana. Del resto la correzione era cominciata da tempo, già sotto Giovanni Paolo II, dopo il grande gelo tra Oltretevere e Washington sulla guerra in Iraq, e ha coinciso con il ricambio del “ministro degli esteri” della Santa Sede, dal francese Tauran all’italiano Lajolo.
Il nuovo ambasciatore statunitense, Francis Rooney, dopo aver ascoltato Benedetto XVI, lo giudica addirittura «meraviglioso». Il colmo è che nel testo papale l’esponente Usa potrebbe trovare frasi molto scomode per il suo governo, come il richiamo ad una «maggiore generosità dei paesi prosperi» visto che - ricorda il Papa - «meno della metà delle somme spese globalmente per gli armamenti» basterebbe a salvare dalla fame «lo sterminato esercito dei poveri». Ma a dispetto del pudore, di Guantanamo e delle torture in Iraq, Rooney dice di «apprezzare moltissimo» il grande rilievo dato dal Papa alle questioni dei diritti umani e della dignità dell’uomo.
In realtà il motivo di soddisfazione per la Casa Bianca è altrove: Benedetto XVI parla infatti dell’Iraq come di un paese «in questi anni quotidianamente funestato da sanguinosi atti terroristici» tralasciando la concreta vicenda irachena, in cui la prima protagonista è stata indubbiamente la guerra a Saddam scatenata con la pretestuosa accusa delle armi di distruzione di massa.
Anche sotto questo profilo l’ambasciatore americano potrebbe leggere nelle parole di Benedetto XVI cose da farlo arrossire. Ratzinger infatti ribadisce che al fondo di ogni guerra c’è sempre la menzogna mentre «chi è impegnato per la verità non può che rifiutare la legge del più forte». Il Papa si riferisce ai «sistemi politici del passato, ma non solo del passato» che hanno «strumentalizzato l’uomo». Anche rivolgendosi agli ambasciatori il teologo Ratzinger sostiene che è la ricerca della verità la chiave di volta di un mondo pacificato. Verità stavolta è scritta con la lettera minuscola, dunque non è strettamente di fede ma verità dell’uomo.
Benedetto XVI previene le obiezioni: non è scontato che la ricerca della verità conduca a guerre di religione.
Nel passato, è vero, ne sono scoppiate e la Chiesa cattolica «non ha esitato a chiedere perdono» per «le gravi colpe dei suoi membri», però secondo Ratzinger lo scontro delle fedi si è sempre accompagnato a «cause concomitanti». «La ricerca della verità - afferma - riesce a individuare le diversità» e «i limiti da non oltrepassare» per la coesistenza tra culture diverse.
E’ accaduto – osserva ancora il Papa - nell’antichità tra giudaismo e ellenismo, può dunque accadere nella nostra epoca di veloci scambi e comunicazioni purché si «tolga ogni ostacolo all’accesso all’informazione».
E’ la seconda parte del discorso agli ambasciatori a rivelare gli aspetti più universalistici, i primi sui quali il nuovo Papa sembra spostare l’attenzione dall’Europa e dall’Occidente al sud del mondo: l’Africa, il Darfur, la necessità che «tutte le parti in conflitto riconoscano i propri errori e si aprano al perdono», il «sangue versato che non grida vendetta ma pace», E soprattutto la fame, l’emigrazione, i profughi, il traffico di persone, l’emergenza umanitaria di popolazioni costrette «sotto le soglie della povertà» mentre si sprecano enormi risorse per le armi. Un appello al disarmo che restituisce sollievo al pacifismo cattolico e laico e in particolare al volontariato.
Sergio Marelli, presidente della Focsiv e Roberto Della Seta, leader di Legambiente sono i primi a sottolinearne l’importanza.









Liberazione, 10.01.06
Esce una nuova ristampa negli Stati Uniti del manuale che ha formato una generazione di donne e che ha permesso a donne diverse di parlarsi, e soprattutto di parlare apertamente di sessualità, piacere, omosessualità
“Noi e il nostro corpo” trentacinque anni dopo è ancora un evento
di Monica Lanfranco


Difficilmente le donne colte, persino le intellettuali più raffinate, si azzardano a indicare con immediata certezza un solo libro definendolo ‘fondamentale’ per la loro vita e per il percorso esistenziale del proprio genere. Questa reticenza all’assoluto, e alla singola scelta, è un forte e intelligente antidoto all’inevitabile torto perpetrato ai danni della molteplicità che la cultura patriarcale ci impone, sin dai primi anni di scuola, e ancor prima persino nei racconti di fiabe.
I libri, i testi di riferimento in ogni cultura che formano il viaggio nella conoscenza degli esseri umani, sono nella stragrande maggioranza scritti da uomini; quasi mai sono frutto di una ricerca collettiva, e quasi sempre le donne si trovano o al margine della narrazione e comunque in situazioni di forte stereotipizzazione (solo madri, solo mogli, solo vittime).
Invito a riflettere su questo perché sono fermamente convita che accanto alle condizioni materiali siano anche, e soprattutto, gli esempi che incontriamo nel racconto e nella descrizioni dei modelli ai quali ispirarsi, (quindi prioritariamente attraverso il testo scritto), a determinare il corso degli eventi delle vite individuali e delle scelte collettive in tema di libertà o di schiavitù (simbolica e concreta) degli uomini e delle donne.
Ancora oggi, pure con l’avanzare rapidissimo di modi di comunicare tutti irrimediabilmente connessi con la tirannia dell’immagine, il libro è un oggetto che conta, nella trasmissione del sapere.
E allora ecco un libro, che in questi giorni vede la sua ristampa a trent’anni dalla prima edizione, che mi sento di definire tra i ‘fondamentali’ per il cambiamento di visione del femminile: Noi e il nostro corpo, uscito in Italia nel 1974 per Feltrinelli e oggi rivisitato e aggiornato dalle stesse donne del collettivo femminista di Boston che nel 1971 ebbero l’idea originale di fare un manuale teorico e pratico a tutto tondo sull’essere donne.
In originale il titolo fu Our bodies,Ourselves: vorrei sottolineare questi plurali. Perché i corpi dei quali si parla nel libro sono molti, non come nella traduzione italiana uno solo.
Noi e il nostro corpo è un esempio raro, e prezioso, di strumento senza tempo che le generazioni si possono tramandare; l’ingannevole foto seriosa della prima edizione italiana, in cui su sfondo nero due giovani donne che non si guardano osservano in direzioni diverse con piglio quasi preoccupato un orizzonte sconosciuto, non rende giustizia al contenuto energetico, sorprendente, anticipatore e di strepitosa attualità del libro.
Allora le donne del collettivo così raccontavano, nell’introduzione, la linea guida del manuale: «Immaginate una donna che cerchi di fare un lavoro e di avere un rapporto paritetico e soddisfacente con altre persone, ma intanto si sente fisicamente debole, perché non ha mai tentato di essere forte; esaurisce tutta la sua energia cercando di cambiare faccia, figura, capelli, odore cercando di uniformarsi a qualche modello ideale, stabilito dalle riviste, dai film, dalla televisione; si sente disorientata e si vergogna del sangue mestruale che ogni mese fluisce da qualche recesso del suo corpo; sente i processi interni al suo corpo come un mistero che viene a galla solo come fastidio; non capisce o non le piace il sesso e concentra le sue energie sessuali in romantiche fantasie senza scopo, stravolgendo e facendo cattivo uso della sua potenziale energia perché è stata educata a negarla. Se impariamo a capire, ad accettare, a essere responsabili della nostra identità fisica possiamo liberarci da alcune di queste preoccupazioni e possiamo cominciare a fare uso delle nostre energie disinibite.
L’immagine che abbiamo di noi stesse avrà una base più solida, saremo migliori come amiche e come amanti, come persone: avremo più fiducia in noi, più autonomia, più forza, saremo più complete».
Accorgersi del proprio corpo, liberare le sue energie, sentirsi, senza vergogna, felici e piene nell’essere donne: il testo non solo snodava e dipanava i due slogan del movimento delle donne degli albori rimasti più impressi nella memoria, Io sono mia e Donna è bello, ma anticipava anche quella che sarebbe stata la ricerca rivoluzionaria di quel movimento sulla dignità e pienezza di ogni fase della vita femminile.
Infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità e vecchiaia sono esaminate e valorizzate per infondere coraggio e legittimità ad esistere, descrivendo le donne come un mosaico in divenire che nulla ha a che fare con gli stereotipi del commercio e delle religioni.
Solo alcuni anni dopo pensatrici femministe come Adrenne Rich, Betty Friedan e Germaine Greer scriveranno su questi aspetti testi memorabili, ma il seme fu gettato dal manuale del collettivo di Boston. Di più: Noi e il nostro corpo è stato il tramite che ha permesso a donne diverse di parlarsi, e soprattutto di parlare apertamente di sessualità, piacere, omosessualità: con la scusa del manuale, e solo perché di manuale si trattava, argomenti tabù e parole impronunciabili come vagina, orgasmo, mestruazioni hanno potuto varcare la soglia di case private e istituzioni che altrimenti avrebbero vietato il loro ingresso. Ricordo ancora l’angoscia della sorella dodicenne di un mio amico che si rivolse a me, allora universitaria, per sapere qualcosa sulle spaventose emorragie che la affliggevano: a casa sua madre non le aveva mai parlato, e io e lei, manuale aperto sul tappeto, a divorare il capitolo da pagina 23 a 41. Senza Noi e il nostro corpo di certo non sarei stata capace di aiutarla.
Ancora oggi, senza dubbio, il libro potrà avvicinare e aiutare altre donne, altre generazioni, nella impervia e straordinaria avventura della propria esistenza femminile.






Le Scienze, 09.01.06
La percezione del volto è modulata dall’orientamento sessuale
Particolarmente sensibili si sono rivelati il talamo e la corteccia orbitofrontale


Di tutte le capacità visive dell’uomo, quella che riguarda il riconoscimento dei volti è una delle più sviluppate. Studi condotti con tecniche di visualizzazione cerebrale hanno mostrato il coinvolgimento, oltre che della corteccia visiva, anche dell’amigdala e dell’insula, dove sono elaborate le espressioni facciali, e della corteccia prefrontale. Il riconoscimento appare infatti modulato da molti fattori cognitivi: dalla familiarità, all’attenzione, dalla memoria agli stati emotivi. Inoltre, la comunicazione sociale richiede un’accurata “lettura facciale” delle intenzioni dell’altro individuo, soprattutto quando può essere in vista l’identificazione di un possibile partner sessuale.
Proprio questo è stato l’aspetto attentamente considerato da una ricerca condotta da Felicitas Kranz e Alumit Ishai dell’Università di Zurigo, e appena pubblicata su Current Biology.
Le due ricercatrici hanno così scoperto che - per quanto la grande maggioranza dei circuiti cerebrali sia attivata sempre in modo uguale - il genere della persona osservata determina una differenza nelle reazioni sviluppate nel talamo e nella corteccia orbitofrontale, collegata alle proprie preferenze sessuali. In quelle aree, donne eterosessuali e uomini omosessuali esibiscono una più marcata reattività all’osservazione di visi maschili, mentre lo stesso effetto è provocato da facce femminili negli uomini eterosessuali e nelle donne omosessuali.
© 1999 - 2006 Le Scienze S.p.A.





Le Scienze, 03.01.06
Gli antidepressivi non aumentano il rischio di suicidio
Lo afferma una ricerca del National Institute of Mental Health


Nelle settimane successive all'inizio di una cura a base di farmaci antidepressivi, in generale il rischio di suicidio decresce. Lo afferma uno studio condotto dal Group Health Cooperative del Center for Health Studies, emanazione del National Institute of Mental Health, apparso questo mese su The American Journal of Psychiatry. La diminuzione interesserebbe in modo più marcato gli antidepressivi più recenti rispetto a quelli precedenti. Questi risultati contraddicono l'avvertimento emanato dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense, che tempo fa aveva segnalato la possibilità di un aumento dei comportamenti suicidari nel corso di trattamento con i nuovi antidepressivi.
Lo studio - che è il primo ad aver confrontato il rischio di suicidio prima del trattamento con quello successivo al trattamento basandosi su un numero elevato di pazienti - ha preso in esame oltre 65.000 persone alle quali erano stati prescritti antidepressivi fra il 1992 e il 2003. Secondo i ricercatori il numero di tentati suicidi da parte di adulti crolla del 60 per cento entro il primo mese dall'inizio della terapia, per declinare ulteriormente nei cinque mesi successivi. La ricerca conferma peraltro che il tasso di suicidio è decisamente più elevato fra gli adolescenti che non fra gli adulti: fra i primi si contano infatti 314 tentativi per 100.000 contro i 78 degli altri.
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AGI, 30.12.05
(su Riccardo Lombardi)


Cosa mi ha insegnato la vita? Ad essere onesto innanzitutto. Poi, anche quando non si raggiungono gli scopi, magari qualche volta perché male scelti, ciò che si è fatto non è stato inutile e serve nella ininterrotta fatica del provare e riprovare. Tutto sommato, ho appreso, nella mia ormai lunga vita, che nei momenti difficili ci si ritrova tra gente che non sa rinunciare a battersi per ideali concreti. Insomma, non rassegnarsi mai all’esistente”. Così scriveva il politico bambino, l’acomunista ingenuo, il teorico del socialismo rivoluzionario imperniato sulle riforme di strutture, Riccardo Lombardi al suo amico Saverio nel 1978. “Era un politico bambino e i bambini, si sa, non conoscono cautele ed opportunismi, non conoscono tangenti”, dice Gabriella Artois, la segretaria di Lombardi dal 1° aprile 1970 al 12 settembre 1984, mostrando la lettera a Saverio. “Si, papà era un ingenuo, come un bambino: dava fiducia a tutti quelli che lo cercavano e anche se si rendeva conto dei limiti delle persone, le lasciava libere di fare”, aggiunge il figlio Claudio, ingegnere come Riccardo e militante dei ’social-forum’. “Non era religioso e credente ne’ un mistico nonostante l’educazione avuta dalla madre Maria che era una cattolica osservante - continua il figlio - a Marx poi preferiva Dante di cui conosceva a memoria la Divina Commedia, sul tavolo vedevo spesso I demoni di Dostojevskji o le poesie di Carducci e Foscolo, non amava, detestava la psicoanalisi e Freud”. Nato a Regalbuto (Enna) il 16 agosto 1901, Lombardi e’ morto a 83 anni a Roma il 18 settembre 1984, senza funerali religiosi. “Si e’ fatto infatti cremare - racconta la Artois – gli sono stata vicina sino all’ultimo, gli ho chiuso gli occhi: soffriva di insufficienza polmonare, la malattia polmonare che provocata 54 anni prima dalle percosse dei fascisti con sacchi di sabbia lo ha accompagnato per tutta la vita”. A 18 anni Lombardi, ultimati gli studi liceali, lascia la madre ed il paese natale e se ne va a Milano, si iscrive al Politecnico e si laurea in ingegneria. “Ricordo con molta nostalgia quando mi raccontava la sua clandestinità; quando appena nominato Prefetto di Milano aveva firmato il mandato d’arresto per Pirelli e altri industriali che avevano collaborato col fascismo - prosegue la Artois - quando mi diceva che nella vita si fidava più di una donna che di un uomo; quando indossava quei suoi orribili vestiti, più volte bucati dalla cenere del sigaro; quando scoppiava a ridere e sembrava un bambino”. Antifascita e antinazistra intransigente, Lombardi coniò il termine ‘acomunista’, ne’ filo ne’ anti-comunista. “Stiamo chiusi due, tre giorni, discutiamo su un progetto, diceva sempre al Pci, confrontiamoci - continua la Artois – non perdeva mai di vista l’obiettivo di costruire una società socialista, democratica e laica”. E tra i dirigenti del Pci, Lombardi di chi aveva stima e feeling? “Soprattutto di Pietro Ingrao, di cui apprezzava la limpidezza umana e l’onesta’ intellettuale, poi - risponde il figlio - di Trentin e Rossanda con i quali amava discutere anche da posizioni diverse e divergenti, leggeva molto Lotta Continua: viceversa era molto polemico, fino allo scontro, con Togliatti e Berlinguer”. E gli scontri tra Lombardi e il Pci di Togliatti vanno dal patto di “non aggressione” Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939 tra l’Urss di Stalin e la Germania di Hitler, al ruolo “guida” dell’Urss; dalla svolta di Salerno dell’aprile 1944, al referendum Repubblica o Monarchia, alla votazione dell’art.7 della Costituzione.“Il Pci con sapiente preparazione circondata da riserbo che non poteva ingannare nessuno ha deciso di - disse Lombardi nella seduta, 8 marzo 1947, della Costituente - votare l’art.7 del progetto di Costituzione e aggiungendo così i voti compatti del suo gruppo parlamentare a quelli delle destre e della Dc ha permesso l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione repubblicana: Togliatti ha detto con lodevole freddezza che in tal modo il Pci non faceva altro che seguire la linea politica che si era imposta”. E, senza l’amarezza del fidanzato deluso, Lombardi invitava le forze socialiste e laiche a “dare alle sinistre una direzione socialista se le sinistre non vogliono morire o meglio vogliono nascere”. Il percorso politico di Lombardi inizia con i cattolici di sinistra prosegue con ‘Giustizia e Liberta” di Carlo Rosselli, approda al Partito d’Azione per confluire poi nel Psi di Pietro Nenni con cui polemizzo’ prima sull’accordo con il Pci, il noto
Fronte Popolare del 1948 e poi sul centro-sinistra quando la Dc impose all’alleanza un carattere non riformista. “Riccardo era tutt’altro che burbero e utopista, non aveva un metodo di lavoro - chiarisce la Artois - mi diceva sempre di non prendere impegni a lunga scadenza perchè non era certo di che cosa sarebbe successo qualche giorno dopo: viveva il presente pur se con un occhio attento al futuro”. Autodidatta, Lombardi imparò l’inglese per documentarsi sempre: leggeva l’Econimist e scovava ovunque economisti. Nel 1984 scrisse ad un compagno socialista: “io non possiedo un archivio, ho lasciato disperdere tutto quello che via via ho avuto occasione di dire o scrivere, non ho neppure collezionato i riferimenti giornalistici sicche’ alle volte quando qualcuno, e ciò avviene spesso, mi ricorda qualche opinione espressa molti anni fa, mi accade di non ricordarmene”. L’acomunista ingenuo non lo sapeva, “ma da ben 14 anni - rivela la Artois - tenevo un archivio e lui stupito si divertì all’idea che le cose potessero interessare qualcuno e mi disse che una lunga abitudine all’azione politica clandestina gli aveva conservato uno zelo ad eliminare ogni documento”. E l’archivio curato dalla Artois sta ora alla Fondazione “Filippo Turati” di Firenze. Qual’è stato il momento più bello vissuto con Lombardi? ”Senz’altro il giorno dopo l’intervento chirurgico agli occhi, quando vide nuovamente i colori - rivela la Artois – accendeva i fiammiferi e guardando la fiamma mi faceva notare che c’era pure il colore rosso, il suo colore preferito”. E l’ultima volta con Riccardo? “Negli Uffici della direzione del partito, pochi giorni prima che morisse, stava male e camminava con molta fatica”, conclude la Artois con un po’ d’amarezza: Lombardi era diventato ingombrante per tutti, non solo per Bettino Craxi. “Ingombrante lo fu dall’inizio - conclude il figlio - non era catalogabile in uno schema: la passione irrefrenabile per la ricerca, i rapporti umani, il nuovo lo portava lontano dal potere che lo respingeva sempre ma lui non si rassegnava mai all’esistente”.

martedì 10 gennaio 2006

AGI, 29.12.05
Oggi in Italia
Servizio speciale realizzato per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri

La scienza ha le sue regole, ma sono le regole della natura e dell'uomo, non della Chiesa: l'embrione e' un piccolo numero di cellule indifferenziate, privo di attivita' cerebrali indispensabili a interagire con l'ambiente e pensare.
E' questa l'opinione del 92enne Premio Nobel per la Medicina e direttore del Salk Institute For Biological Studies di La Jolla in California dove si trasferira' definitivamente Renato Dulbecco che d'accordo con l'altro Premio Nobel per la Medicina Rita Levi Montalcini, smentisce la credenza religiosa, "ma non scientifica: embrione uguale inizio della vita umana".
Opinione condivisa anche da uno psichiatra, Massimo Fagioli, per il quale, "il feto non solo non e' vita ma non ha neppure la possibilita' di vivere; fino alla 24esima settimana di gravidanza quando si forma la retina dell'occhio ed emerge la possibilita' di reazione alla luce: poi alla nascita con la luce puo' iniziare il pensiero umano e la vita umana". E da Luigi Lombardi Vallauri, docente di filosofia del diritto all'Universita' di Firenze, "la vita, per la Chiesa, sta diventando quella della cellula zigote e del nascituro a breve: vista l'impossibilita' di far concorrenza al diritto internazionale e statale, alla Chiesa non restano che l'embrione, il sesso e l'eutanasia per erogare sensi di colpa e promesse di redenzione".
La scienza dunque secondo il 'non credente' Dulbecco "ha le le sue regole ma sono regole della natura e dell'uomo e non della Chiesa: come scienziato quando sono in laboratorio penso solo che sto lavorando per la scienza, non per l'uomo. Ma se mi dicono che il mio contributo e' rivolto al bene dell'umanita' non posso che esser felice". Questo significa rifiutare l'intangibilita' o la sacralita' dell'embrione. "Mettiamoci davanti a un piccolo numero di cellule che viene chiamato embrione - e' la tesi di Dulbecco, una vita spesa a far ricerca sul cancro - potergli prelevare una cellula per sapere se e' affetto da malattie gravi mi sembra un grande progresso medico molto utile per l'uomo: proibirlo e' un insulto alla medicina".
Insomma, per Dulbecco, "scientificamente un limite ragionevole ed accettabile sono i 14 giorni, ossia le prime due settimane dalla fecondazione". Ma l'embrione in se' non e' ne' persona umana ne' inizio della vita umana.




Liberazione, 08.01.06
Lettera aperta a Massimo D’Alema
Come può la sinistra vivere dentro il capitalismo?
di Rina Gagliardi


Caro Massimo,
leggendo il tuo lungo Forum all’Unità, mi è venuta, di continuo, la voglia di interloquire direttamente con te e con le cose che dici. Perciò ti scrivo questa “lettera”.
Non è certo, la mia, una pretesa di “parità” di ruolo politico, è una libertà che mi prendo a partire da una vecchia amicizia, nata nel mezzo di “anni formidabili” e nutrita, a tutt’oggi, da stima e solidarietà, a dispetto della distanza delle nostre rispettive posizioni politiche. Leggendo la tua intervista, dicevo, apprezzando il tono razionale e determinato che la caratterizza, annotandone, per altro, alcuni passaggi non del tutto chiari, mi sono venuti molti e contraddittori pensieri. Il primo dei quali lo formulo così: Massimo, hai ragione, ma in realtà hai torto. Un ossimoro che va spiegato.
In effetti, il leit-motiv della tua intervista ha un fondamento: è in atto «un’operazione che mira a disgregare la maggiore forza del centrosinistra», i Ds. E’ in corso, cioè, una campagna di delegittimazione politica e demonizzazione morale del maggior partito italiano, orchestrata da “poteri forti”, densa di strumentalizzazioni anche bieche, alimentata da grandi e piccoli giornali con tutti i mezzi - compresa la pratica barbarica della pubblicazione di intercettazioni telefoniche prive di ogni rilievo penale.
Aggiungiamo che, in un clima che “autorizza” - sembrerebbe - all’uso di tutti i mezzi, “à la guerre comme à la guerre”, anche la tua persona è diventata un bersaglio privilegiato di attacchi davvero ignobili – e che, in sostanza, c’è materia non solo di riflessioni, ma di preoccupazioni per il futuro.
Compreso il passaggio a cui alludi: una competizione elettorale come quella che rischia di essere alle porte, traboccante di veleni e scoop, rischia moltissimo di contribuire, non poco, al qualunquismo, alla sfiducia di massa, al “sono tutti eguali”.
D’altronde, una destra già quasi sconfitta su che cosa può puntare se non su un improvviso disincanto di massa, su quella crisi della politica che può non risparmiare nessuno? La nostra gente - il popolo di sinistra - rischia di uscire da questa storia più che altro “disorientata”, come si diceva una volta. Non è che noi di Rifondazione non vediamo bene questo pericolo: contrariamente a quel che dice Peppino Caldarola, tutto abbiamo fatto, facciamo e faremo fuorché speculare su queste storie nella speranza (per altro illusoria) di una manciata di voti in più, rubati al partito cugino (o fratello, fai tu). Fin qui, hai ragione, o hai comunque molte ragioni. Dov’è, invece, quel che non convince?
Come spesso accade, il problema è la diagnosi - l’analisi. Perché qualcuno sta cercando di mettere in mezzo la Quercia? E perché qualcun altro, magari gli stessi, vorrebbero volentieri sbarazzarsi della tua presenza protagonistica sulla scena italiana? Tu dici: perché i Ds incarnano, più di qualunque altra forza, “l’autonomia della politica”. Ovvero, la capacità della politica di governare e dirigere i processi reali - dell’economia prima di tutto - senza soggezioni o subalternità ai poteri costituiti.
In un altro passaggio, dici, più o meno, che il “peccato originale” diessino è stato il tentativo di intervenire contro i più prestigiosi poteri del capitalismo italiano - la Fiat - e aiutare, appoggiare, sostenere la nascita di nuovi poteri “indipendenti” - la famosa Opa di Colaninno, per intenderci.
Ora, qui emerge la portata strategica della questione, e del nostro dissenso di fondo: aver accarezzato l’illusione che, per ritrovare un ruolo politico primario, per ricostruire un sistema di alleanze sociali largo e robusto, per ritornare ad esercitare sulla società italiana una vera e rinnovata egemonia, la strada giusta per la sinistra fosse quella di “appoggiarsi” su un pezzo di capitalismo – quello avventuroso, o all’apparenza
in ascesa. Qui, è vero, la questione morale non c’entra nulla: c’entra invece, fino in fondo, l’idea di politica, l’idea di sinistra.
Quell’opzione, ribadita in tutti gli ultimi congressi Ds, che la sinistra del duemila, per esser tale, altro non debba che “governare la modernizzazione”, cioè il capitalismo nell’era della globalizzazione – magari individuando in qualche pezzo della neo-borghesia nazionale un antidoto efficace ai guai della concorrenza e del mercato mondiale. Perdonami se ti dico che questo passaggio politico - proprio questo - mi ricorda da vicino il tentativo di Bettino Craxi: so che, giustamente, non hai mai demonizzato l’ex-leader socialista, ma l’hai valutato per quello che è realmente stato, il “revisionista” più osè della politica italiana, e del suo filone “riformista”.
Anche Craxi, intendo dire, dopo aver coniato (o fatto coniare da Martelli), lo slogan “governare il cambiamento”, si pose il problema di tenere botta ai poteri forti, come la Fiat, che non lo amava, e pensò di contare su forze nuove - tipo il “made in Italy”. Anche Craxi entrò in rotta
di collisione totale con il Corriere della Sera. E anche Craxi diventò oggetto di una campagna
negativa ad alta intensità, alla quale rispondeva per lo più con la sindrome del complotto - ma anche rivendicando il carattere generalizzato e diffuso di alcune pratiche, quel “lo fanno tutti”, che un leader politico non dovrebbe mai dire.
Non è che una suggestione, un’analogia: è chiarissimo, ai miei occhi, sia quanto tu sei diverso da Bettino, sia quanto i Ds, il corpo attivo del partito, siano lontani dal craxismo. Per fortuna. Resta però che l’illusione di “migliorare” il capitalismo da dentro, accettandone la logica di fondo e puntando tutto sul suo possibile, auspicabile, “necessario” riequilibrio interno, è, secondo me, un’illusione pericolosa – non perdi solo l’anima, perdi la partita strategica. Dentro tutta la vicenda Unipol-Bnl non c’è proprio, al fondo, questa stessa illusione? Nulla a che fare, dal mio punto di vista, sul terreno giudiziario, che è sempre bene lasciare alla magistratura. Molto a che fare, però, sul terreno morale - chiamalo strategico, se è più chiaro - su che cosa è, può e deve essere oggi il movimento cooperativo. In breve: poiché il capitalismo non è neutro, come ben sai, e poiché
esso è invece il regno dell’antipolitica (nel senso preciso che le sue leggi proprie di funzionamento sono la produzione di plusvalore, il profitto, l’arricchimento anche personale e cozzano per natura con l’idea stessa di “limite”), l’autonomia della politica, e della sinistra, come fanno a conciliarsi con l’internità al capitalismo, o alla modernizzazione, che tu rivendichi?
E alla fin fine, se entri nel gioco, “in partibus infidelium”, come fai, a trasformare (anche tu!) in una specie di complotto quella che a me pare, piuttosto, la “normale” pratica dello scontro dei poteri, usi ad ammazzare i parvenus o usi, ad ogni buon conto, a preservarsi, a rafforzarsi, a stipulare patti, accordi, alleanze con chi più li aggrada?
Oggi, questi poteri vogliono un’Italia normalizzata: senza più alcun genere di sinistra.
Forse vogliono perfino rilanciare lo sviluppo - quello produttivo che, mi pare, anche tu torni a privilegiare su quello finanziario e speculativo – ma alla condizione di un riassetto del sistema politico nel quale, sì, la “damnatio memoriae” pesa, e come: D’Alema sarà certo diverso, diversissimo, da Bertinotti, ma resta pur sempre il terminale attivo di un’altra storia - di grandi speranze collettive.
Caro Massimo, mi rendo conto che qui il discorso rischia di diventare ideologico e di sfiorare le ragioni per cui tu sei (quasi) il massimo leader dei Ds e io una militante di Rifondazione. Ma sei davvero così sicuro che, dal punto di vista strategico, i Ds non hanno proprio nessuna colpa? Che la strada imboccata - a partire da quella maledetta “svolta” di quasi vent’anni fa - sia stata una scelta così felice? Oggi, siamo arrivati, forse, al tempo delle decisioni “definitive”.
Consentimi di citare ancora Bettino Craxi, che fece proprio il vecchio adagio: “primum vivere, deinde philosophare”. Io penso che sì, sarebbe bene che i Ds vivessero, senza farsi assorbire da un Partito democratico qualsiasi - mi pare che, in questo Forum, mazzoli con una certa durezza annessionismi rutelliani e freddezze prodiane.
Ma potrebbe, il tuo partito, pensar di vivere, se non a sinistra?






Avvenimenti, 10.01.06
I PASSI LEGGERI DI UNA DONNA
Un linguaggio nuovo per raccontare l'eros nel libro di Paolo Izzo
di Stefano Mecenate


"Donatella, mio amore. Ecco il delirio, il desiderio, tre che voglio in ogni attimo che ci separa e che ci unisce, candida, dea, puttana. Musa, bambina, donna, trasformazione di quest'uomo; ispiratrice delle più sconce voglie e dei più alti osanna». Scrive Paolo Izzo nel suo romanzo Il dentro del suono (Ibiskos editrice, 130 pagine, 15 euro). Donatella e Matteo? Una storia d'amore? Certo, ma non solo: caleidoscopiche emozioni si susseguono in questi brevi e intensi capitoli del romanzo di Izzo, cadenzati da un'ossessiva e suggestiva sequenza di "quando" che ne costituiscono significativamente i titoli. "Quando" come momento temporale, come ideale riferimento al ricordo e alla razionalità contestualizzando quella ridda di sensazioni e di esperienze che maturano tra i due, ma anche inquietante segno di una ininterrotta serie di opportunità e possibilità, di casualità "causali" che generano la quotidianità e il destino, che avvolgono le emozioni e da esse si fanno guidare. Un linguaggio moderno mai scontato, incisivo e pregnante, per una storia di oggi che pure sembra avere il respiro che ha l'epos.
Donatella e Matteo, non per caso: loro ce la possono fare, apparentemente così diversi e in realtà così complementari, a comprendere il valore della bellezza e della felicità oltre l'aspetto più superficiale, al di là del prevedibile, negli stereotipi della vita di coppia, dei canoni di moda e di tendenza. Bellezza e felicità come un'alchimia, come raggiungimento di uno stato di grazia dove si compie la totalità delle percezioni e delle sensazioni, dove due sono davvero uno. Per questo mette così paura, per questo, pur bramandola, la si sfugge come se fosse condanna irreversibile e inevitabile per chi già la possiede dentro di sé. Per questo Donatella e Matteo ne possono essere davvero fruitori, perché ne possiedono la chiave e perché i codici armonici sono per loro inconsciamente noti.
Izzo domina la scrittura con fermezza, piega la parola ai suoi intenti, ne sovrasta la tentazione estetizzante o la facile retorica manieristica; in quelle brevi pagine che costituiscono questo romanzo, guarda con determinazione all'essenza di questi personaggi e alla coralità che li circonda, elemento determinante per non incorrere in solipsistiche autocelebrazioni, ottenendo il risultato di dar vita ad una storia da leggere d'un fiato per poi riprenderla di nuovo, con il piacere di tuffarsi dentro emozioni così forti da sembrare irreali e così vere da far riflettere chi, per paura o timidezza, sa solo vivere ai margini della vita.





Avvenimenti, 10.01.06
Mi manda il Vaticano
Francesco Rutelli, l'antizapatero: una proposta di legge perché l'Italia,
unica in Europa, investa solo sulle cellule staminali adulte
di Simona Maggiorelli


Non promette molto di buono la fusione di Ds e Margherita in partito unico. Di certo, non sul fronte della libertà di ricerca e dei diritti delle donne. Il primo parto del nuovo organismo politico a due teste c'è già: è la proposta di legge per il finanziamento della ricerca sulle cellule staminali adulte presentata da Francesco Rutelli e firmata da esponenti di primo piano della Margherita, (da Castagnetti a Fioroni, a Bianchi) e dei Ds, con l'aggiunta dell'Udeur. E con la benedizione del ministro Buttiglione. Che ha commentato: «Mi auguro che la proposta di Rutelli significhi anche un impegno, suo e della Margherita, a sostegno della posizione del governo Berlusconi che al Parlamento europeo si batte perché la ricerca sulle staminali embrionali non venga sostenuta». Una solitaria battaglia in cui l'Italia si è già guadagnata una non molto onorevole medaglia, quando il viceministro per la ricerca, Guido Possa, unico fra sedici colleghi europei, votò per bloccare i finanziamenti alla ricerca. Ora, Rutelli, non solo si pone in questa scia, con una proposta di legge che mette al bando la ricerca sulle embrionali (più rigidamente di quanto già fa la legge 40), ma come presidente di Dl dà mandato a una commissione di bioetica guidata dal cattolico Adriano Ossicini per futuri interventi su genoma, consenso informato e trapianti da animali. «Abbiamo chiesto alla commissione - ha detto Rutelli - che ci aiuti a preparare il terreno perché le grandi sfide della scienza del XXI secolo vengano governate in anticipo dalla politica»; specificando anche che si trattava di «onorare un impegno preso ai tempi del referendum sulla fecondazione».
Così, facendo spallucce ai pareri della comunità scientifica internazionale e infischiandosene di aver imboccato la strada politicamente opposta a quella dei governi Blair e Zapatero, Francesco Rutelli propone per la prossima legislatura una norma che mette al bando anche la ricerca sulle linee staminali embrionali importate dall'estero (cosa che la legge 40 non fa), stanziando un unico blocco di 16 milioni di euro per la ricerca sulle staminali adulte e per un'informazione ai cittadini che riguardi esclusivamente questo settore.
Nel frattempo, invece, in Inghilterra, in Belgio e in altri paesi all'avanguardia nella ricerca s'investe sempre più in ricerca sulle staminali embrionali e si apre sempre di più il campo della clonazione terapeutica. La regione autonoma dell'Andalusia si è aggiunta a questo gruppo la settimana scorsa, anticipando la discussione del governo spagnolo in programma a febbraio. È stata la stessa ministra della Sanità andalusa, Maria Jesus Montero, che Avvenimenti aveva incontrato a Bruxelles, ad annunciare lo stanziamento di fondi per la clonazione terapeutica: tecnica di trasferimento nucleare che permette di costruire in laboratorio tessuti geneticamente compatibili a quelli del malato, evitando i rischi di rigetto legati ai trapianti. E mentre il deputato diellino e i suoi alleati di centrosinistra sembrano voler fare a gara con il governo Berlusconi nel tradurre in legge i precetti della Chiesa, il primo ministro spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero si sta ponendo il problema opposto, ovvero come rendere i risultati della scienza più accessibili ai cittadini e, in particolare, alle donne. È notizia di poco prima di Natale la riforma della legge sulla procreazione assistita attuata dal suo governo. La norma promulgata già con molto anticipo nel 1988 e rivista nel 2003, era - a dire il vero - già buona, aperta, liberale. Specie se confrontata con il nodo di assurdi divieti e contraddizioni che fanno la nostra legge 40. Ma il governo Zapatero ha voluto allargare ancor più l'area dei diritti: ora in Spagna tutte le maggiorenni, a prescindere dal loro stato civile, potranno accedere a queste tecniche, se lo vorranno. Ma c'è di più. Sul modello di quanto già accade in Inghilterra, la nuova legge spagnola autorizza la diagnosi preimpianto per selezionare embrioni sani e geneticamente compatibili con eventuali fratellini o sorelline malate. Un passo importante nella lotta contro malattie genetiche ancora incurabili. E nulla a che vedere, del resto, con la clonazione riproduttiva che in Spagna, come nel resto dell'Unione europea, è proibita. La stampa cattolica impropriamente ha parlato di "bambini farmaco", alimentando paure e, insieme - fatto che ci sembra particolarmente grave - attaccando la nascita e l'identità di questi neonati uguali a tutti gli altri, benché nati in provetta.
In Spagna come in Italia, insomma, l'attacco della conferenza episcopale è stato molto violento. Ma, diversamente che nel nostro paese, integralmente laica è stata la risposta del governo Zapatero, che preoccupandosi più della salute dei cittadini che della salvaguardia di precetti religiosi, ha già messo in conto la possibilità di aggiornare ulteriormente la legge, procedendo di pari passo con i progressi della ricerca. «In un Stato come il nostro, non ancora laico, perché concordatario - commenta il docente di Bioetica Demetrio Neri -, purtroppo, siamo ancora molto lontani da tutto questo». Docente all'Università di Messina e, spesso, voce critica all'interno del Comitato nazionale di bioetica diretto da Francesco D'Agostino, Neri è stato la settimana scorsa uno degli animatori della tavola rotonda sulla proposta di legge Rutelli organizzata via audio- video dall'associazione Luca Coscioni e dalla Rosa nel Pugno. Un'assemblea telematica di scienziati, politici, giornalisti, che è stata il primo segno pubblico forte di protesta riguardo a quelli che potrebbero diventare contenuti del programma del futuro partito democratico, in materia di ricerca. «Inutile», «antiscientifica», «strumentale», «pericolosa», sono gli aggettivi più ricorrenti durante la discussione sui punti caldi del progetto Rutelli, che puntando tutto sulle staminali adulte, propone la creazione di tre nuovi centri nazionali per la raccolta e il trattamento dei materiali biologici. «Non considerando - dice Elena Cattaneo, ordinario di farmacologia all'Università di Milano e una delle massime esperte italiane di cellule staminali - che di strutture simili in Italia ne esistono già e non c'è nessun bisogno di affrettarsi a creare ennesime banche di staminali adulte, quando questa non sembra essere la strada di ricerca più feconda di risultati». Doppioni, fondi per la creazione di inutili centri e istituzioni che fanno il vantaggio solo di chi le governa. Il pensiero corre alla cosiddetta "casa del ghiaccio", inaugurata il 16 dicembre, dall'ex ministro della Salute, Girolamo Sirchia a Milano: una struttura dove, per un suo vecchio decreto ministeriale, i vari centri di fecondazione sparsi in Italia dovranno inviare i 400 embrioni soprannumerari congelati prima della legge 40. Spese di trasporto, stoccaggio nel nuovo centro milanese, con 25 addetti, e 38 congelatori ad azoto liquido, in un'ala dell'ospedale Maggiore di Milano. E a quale scopo dal momento che la ricerca sugli embrioni è proibita in Italia e che questi embrioni, non più richiesti, non potranno essere impiantati? «Qui non si tratta banalmente di tifare per le staminali embrionali o adulte, per Roma o Lazio, Bartali o Coppi - chiosa stizzito Giulio Cossu, direttore dell'istituto cellule staminali del San Raffaele di Milano -. Come scienziati dobbiamo poter sperimentare. La ricerca procede per gradi, per errori, non c'è altro modo di conoscere la realtà che facendo ricerca. Se un lavoro come quello del sudcoreano Hwang Woo Suk viene in parte ritrattato, questo non deve essere strumentalmente usato per chiudere un canale di ricerca». «Della proposta Rutelli - spiega Cattaneo - colpisce l'ignoranza. Il sapere scientifico è unico, le scoperte, se valide, sono universali. Non funziona per compartimenti stagni. Se in Italia escludiamo, in modo così assolutistico, come pretende Rutelli, la ricerca sulle staminali embrionali, anche quella sulle adulte ne soffrirà lo scotto. E viceversa. Le staminali embrionali totipotenti - prosegue la ricercatrice - proprio per la loro plasticità sono le più promettenti, ma non si può, come vorrebbe certa politica, scegliere un campo in maniera aprioristica e sulla base di discorsi strumentali come quello che Rutelli mette a incipit della sua proposta, parlando di cura del diabete fatta da una equipe di scienziati a Miami, utilizzando staminali adulte, quando si è trattato di un più ordinario trapianto di isole di pancreas. Il sospetto, allora, è che si voglia fare della propaganda per motivazioni etico-religiose». Difficile non pensare alle parole del Papa che nell'omelia del 28 dicembre parlava di agglomerati di poche cellule nell'utero materno come esseri che «contribuiscono, pur collocati in posto meno importante, all'edificazione della Chiesa. Poiché, sebbene inferiori per dottrina, profezia, grazia dei miracoli e completo disprezzo del mondo - dice Benedetto XVI - tuttavia poggiano sul fondamento del timore e dell'amore di Dio».






Avvenimenti, 10.01.06
LA PROPOSTA
Wilmut: Offriamo la terapia ai malati terminali


«Provate a pensarvi in una condizione di questo genere: siete affetti da una malattia che vi immobilizza dalla testa ai piedi e venite a sapere dalla tv e dalla radio che potrebbe esistere una terapia che potrebbe darvi qualche beneficio. Quale sarebbe la vostra reazione? Sarebbe certamente di entusiasmo e vorreste saperne di più». A scrivere così è uno dei maggiori esperti di staminali embrionali, l'inglese Ian Wilmut, direttore del nuovo Centro per la medicina rigenerativa dell'università di Edimburgo. Lo scienziato, noto al mondo, come il "papà" della pecora Dolly, dalle colonne del quotidiano The Scotsmen, ha lanciato una proposta: offrire la terapia con cellule staminali embrionali ai malati terminali. «Anche se i protocolli terapeutici non sono ancora del tutto consolidati - scrive lo scienziato - i benefici sarebbero comunque superiori ai rischi, la terapia potrebbe aiutare a salvare delle vite umane e, sicuramente, far andare avanti la ricerca scientifica». La proposta di Wilmut arriva dopo che lo scandalo che ha coinvolto in Corea del Sud il suo collega Hwang Woo-Suk ha profondamente turbato le aspettative di molti pazienti e ricercatori che attendevano un beneficio diretto dallo sviluppo della cosiddetta terapia rigenerativa. «Se aspettiamo ancora - ha aggiunto Wilmut - che tutti gli elementi siano sperimentati e testati potremmo ritardare molto la messa a punto di trattamenti efficaci".