sabato 11 febbraio 2006

La repubblica – salute, 10.02.06
Mamme depresse
Lasciate sole in un momento delicato L'importanza dell'ascolto e dell'aiuto Colpito il 10-15 per cento delle donne dopo il parto: molte negano o dissimulano. Alterazioni nel rapporto con il neonato, il bisogno di una "rete di contenimento". Un progetto mirato della Regione Emilia Romagna
di Johann Rossi Mason


Le immagini del video scorrono sullo schermo: una donna parla con una terapeuta, e, da un lato, lontano, un passeggino con un neonato. Avrà sei mesi circa, è silenzioso, non guarda la madre e la madre non guarda lui. Per tutta la durata del video, la registrazione di una seduta di psicoterapia tra i due non ci sono contatti.
Secondo video, stessi soggetti: la terapeuta invita la donna ad allattare il neonato. La donna lo prende in braccio impacciata, il bambino apre la bocca per attaccarsi al seno ma i loro sguardi non si incontrano mai; ad un certo punto il neonato si chiude gli occhi con le mani.
Terzo video, girato alcuni mesi dopo: il passeggino è accanto alla madre e mentre parla ogni tanto si gira a guardare il figlio, che allunga le braccia verso di lei.
Si percepisce che molto è cambiato, che si è ristabilito un rapporto, che ora e solo ora c'è una comunicazione non verbale tra i due. Sia pure lentamente si è creato un legame. Sono le immagini eloquenti che commentanoun appuntamento del progetto dell'Emilia Romagna sulle depressioni dopo il parto, un piano specificamente rivolto ai primi anni di vita.
La depressione post-partum colpisce il 10-15% delle donne che hanno un bambino, ma molte negano e dissimulano: la società è permeata del luogo comune che una nascita sia un evento meraviglioso e la donna non abbia diritto di sentirsi meno che felice. Specialmente in anni in cui di figli ne nascono sempre meno e su quei pochi viene investito immensamente. Alla donna che sta male non rimane che la vergogna, il che aumenta il proprio senso, schiacciante, di inadeguatezza.
"Le madri che arrivano, sono per lo più consapevoli delle difficoltà di relazione con il loro bambino, ed hanno chiesto aiuto, anche se spesso in modo indiretto, alle persone a loro vicine", spiega Marilisa Martelli, Direttore dell'Unità operativa di Neuropsichiatria dell'età evolutiva dell'Ausl di Bologna e del Centro Clinico per la Prima Infanzia: "Nel 33% dei casi madre e bambino ci vengono inviati da un collega neuropsichiatra o psicologo, nel 29 per cento dal pediatra di famiglia e nell'undici per cento da divisioni ospedaliere".
"Quando c'è una depressione", continua la neuropsichiatra, "la relazione madre-bambino viene alterata precocemente. Madre e bambino arrivano insieme, accompagnati anche dal padre nel 65,7% dei casi. Arrivano da noi perché i bambini manifestano problemi di comportamento, di relazione con i genitori, di sonno, di alimentazione, o difficoltà di comunicazione".
Le cause? Tramontata l'ipotesi dominante sino a qualche anno fa dello '"sbalzo ormonale", sono più verosimili ipotesi di natura sociale e ambientale: ricoveri molto brevi, solitudine fino all'isolamento della donna al ritorno a casa, scarso supporto familiare e sociale. Manca insomma una "rete di contenimento" della donna che la accompagni nelle prime settimane e che le dia consigli specialmente se ha un bambino irrequieto, che non dorme, non mangia o piange molto.

"E anche papà sta giù"
Gli uomini

E gli uomini? Non partoriscono e quindi non hanno la depressione? Sbagliato. Sembrerebbe invece che la nascita di un figlio possa avere risvolti negativi anche sui padri e, a cascata anche se a lungo termine, sui figli. Lo affermano i ricercatori della prestigiosa Università di Oxford in Gran Bretagna, guidati da Paul Ramchandani: "Gli effetti della depressione paterna durante i primi anni di vita dei bambini hanno ricevuto scarsa attenzione sinora. Abbiamo sottoposto 8431 padri al test EPDS (Edinburgh postnatal depression scale) otto settimane dopo il parto delle partner e eseguito un controllo 21 mesi dopo. Ebbene la depressione paterna nel periodo dopo la nascita era associata a comportamenti ed emozioni negative nei figli dai 3 ai 5 anni". Resta da indagare se la causa della depressione maschile in occasione dell'evento nascita sia la causa reale del disagio.









AprileOnLine, 10.02.06
Il ricatto di don Gelmini

Le vie del Signore sono infinite, mentre quelle di Don Piero Gelmini sono poche ma buone, e portano tutte dritte dritte ad Amelia, provincia di Terni, dove ha fondato la “Comunità Incontro”, casa madre di oltre 200 comunità nel mondo. E in effetti, di incontri nel regno incontrastato di Gelmini se ne possono fare parecchi, e di interesse più che rilevante per l’andamento del nostro paese, ogni giorno che passa sempre più terreno di conquista di una chiesa tornata ai fasti migliori dell’epoca delle crociate: ma la conquista degli infedeli italiani, stavolta viene intrapresa a colpi di inaccetabile collateralismo con i poteri teoricamente laici dello Stato. Questo almeno è quanto emerge da un’intervista, rilasciata al maggior quotidiano nazionale dal prete nato a Pozzuolo Martesana nel 1925, sacerdote dal 1949, che pensavamo (e speravamo) in questi giorni venisse se non smentita, almeno edulcorata in alcuni suoi passaggi apparsi francamente pesanti e difficili da digerire, almeno per chi pensa di aver già subìto sufficienti ingerenze ecclesiastiche nella storia del proprio paese. Invece, neanche una parola sulle dichiarazioni rilasciate a commento della nuova legge sullla droga, nelle quali don Piero si lascia andare a confidenze degne di una camera caritatis torbida e oscura, dagli inquietanti risvolti pseudo-massonici.
Sembra infatti che al momento della votazione in parlamento, il telefono di (don) Pierino la peste abbia cominciato a squillare all’impazzata, per ricevere i complimenti commossi di numerosi esponenti del Palazzo, da Gasparri a Buttiglione, passando per Cutrufo e, naturalmente, per il (demo)cristianissimo e (forza)italiota Giovanardi. Sì, perché il vero demiurgo di questa ennesima norma repressiva partorita dalla maggioranza in zona Cesarini, approfittando dell’urgenza del decreto sulle Olimpiadi, è stato proprio lui, don Gelmini, servito e riverito da una fitta schiera di politici di centro-destra, desiderosi di accontentarlo prima della fine della legislatura, così da rispettare un patto siglato addirittura nell’anno della discesa in campo dell’Unto dal Signore: “Quando scese in politica, nel ’94, Silvio arrivò qui con i capi di centrodestra, e io feci sottoscrivere a tutti un documento per sostenere che ogni tipo di droga andava vietata. Lo scrisse Buttiglione, altri lo firmarono qui, su questo tavolo. Oggi l’obiettivo è stato raggiunto”.
Dunque potente e tenace il nostro prete, che non si è lasciato infiacchire dalla caduta del primo governo-Berlusconi, tessendo con pazienza la tela della sua legge antidroga sino alla vittoria, bissando il successo incassato all’epoca della prima modifica voluta da Craxi circa vent’anni prima, come conferma quest’altra affermazione: “Le radici di entrambi le leggi antidroga sono state piantate qui, ad Amelia...Craxi aveva ancora idee libertarie, gli ho parlato a lungo, si è convinto, e ha combattuto la buona battaglia che ha portato alla legge allora chiamata Iervolino-Vassalli”. A dir poco agghiacciante; ma il meglio, anzi il peggio, deve ancora venire, perché alla fine della sua generosa confessione, don Gelmini ci regala la chiusura col botto.
“In questi quarant’anni sono passati dalle nostre comunità 300 mila ragazzi solo in Italia. Salvare un figlio dà un certa influenza sulla sua famiglia (!). Sono tre milioni le persone cui posso arrivare. Berlusconi lo sa, e mi dà retta”.
Detto questo, rimane soltanto pregare che il bravo Don Gelmini, prima di questa intervista, si fosse fatto una bella canna, con principio attivo fortemente elevato. Altrimenti siamo nei guai fino al collo.








Il Manifesto, 10.02.06
Il dio dell'odio
Domenico Starnone


Mi pare necessario, di questi tempi, ricordare con chiarezza che tutte le religioni sono, proprio in quanto religioni, un canale attraverso cui è possibile esprimere con estrema forza l'odio. Avere un dio serve a moltissime cose e tutte danno parecchio conforto. Tra queste bisogna mettere al primo posto l'idea che un'offesa a me è sempre un'offesa al mio dio. Io sono debole, forse vile, forse meno capace del mio avversario. Lui perciò mi umilia, mi schiaccia, mi toglie tutto quello che ho, anche la dignità. Allora provo odio, ho desiderio di vendetta, voglio fare scempio del suo corpo infame. Bene, la mia unica consolazione, in quel caso, è pensare che il mio dio è offeso quanto me e sperimenta il mio stesso odio. Lui però, a differenza di me che sono piccolo, è grande e schiaccerà il mio nemico, quello che per adesso primeggia. Presto la gerarchia si rovescerà e il mio persecutore sarà l'ultimo, io il primo. Non solo le rissose divinità omeriche hanno questa funzione primaria.
Ma anche il dio unico della tradizione giudaico-cristiana. Ogni dio, proprio in quanto dio, assume su di sé il sentimento dell'odio, il bisogno di vendetta, e così fa in modo che io mi acquieti, mi raffreddi. Questo dio non elimina i miei cattivi sentimenti e gli altrettanto cattivi propositi, ma se li attribuisce e nel farlo mi persuade che faccio bene ad attendere: la vendetta è un piatto che va servito freddo, basta sedere sulla riva del fiume e presto passerà il cadavere del mio nemico. Una delle funzioni divine, quindi, è proprio lo smistamento dell'odio e del bisogno di violenza. Come il ragazzino soggetto a soprusi sogna di rifarsi quando interverrà il suo fratello maggiore o l'amico grande e grosso che mena impavidamente, l'uomo schiacciato si rivolge al suo dio e aspetta che lui provveda. C'è insomma un dio punitore sempre, in ogni religione, che presto o tardi si manifesta come dio degli eserciti. Il mio compito è non fargli torto, agire sempre nel suo nome più che nel mio, evitare che rompa il suo patto con me e mi abbandoni. Questo, si sa, non è affatto in contraddizione con un dio dell'amore, del perdono, del dialogo. È il dio che preferiamo, naturalmente, specialmente se siamo stati bene allevati e abbiamo la propensione a migliorare noi stessi e gli altri. Persino se non abbiamo un dio, amiamo questo dio che ci vorrebbe tutti testimoni del suo amore per gli ultimi, non solo i poveri, ma i reietti, i braccati dal male che fanno a loro volta del male. Questo dio d'amore e di perdono è il progetto più alto che sia nato dall'interno delle religioni. Ma non deve far dimenticare il dio dell'odio e della violenza, perché altrimenti tutto si confonde e pare che ci siano le religioni buone e quelle cattive. Anche il dio dell'amore e del dialogo resta sempre, in ultima istanza, un dio punitore, un dio che promette ai suoi fedeli un risarcimento, un riscatto, un regno, dal quale resteranno esclusi tutti quelli che non hanno voluto o saputo eleggerlo. Questa persistenza del dio del Giudizio è ciò che rende potenzialmente pericolosa ogni fede religiosa.

Certo, si può obiettare che il dio che fa giustizia è pur sempre un dio d'amore, nient'affatto un dio dell'odio e della violenza. Ma è proprio un'obiezione del genere che oggi ci dovrebbe allarmare. Il pericolo delle religioni viene dal loro versante apocalittico che svela come il dio d'amore sia sempre pronto a mutarsi nel dio del Giudizio. Voglio perciò azzardare che le fedi religiose, proprio per disinnescare il loro lato esplosivo su cui fanno leva da sempre i poteri mondani, dovrebbero cancellare dalla loro ragion d'essere il bisogno di giustizia e potenziare invece nei fedeli la capacità di riconoscere l'ingiustizia e correggerla subito o almeno alleviarla.

Il dio più pericoloso per il genere umano, oggi specialmente, con le atomiche già negli arsenali e le altre in via di realizzazione, è il dio che assume su di sé i torti fatti ai suoi fedeli e promette giustizia. In un mondo in cui la disperazione di massa è sempre più trasformabile politicamente e militarmente in fuoco e fiamme per via religiosa, il patto del fedele col suo dio tende continuamente a trasformarsi in patto di rivalsa, in patto di annientamento. L'amore quindi sbiadisce e prevale l'odio per tutta la modernità. I fondamentalismi - tutti - non sono più il versante fanatico delle religioni, ma «le ragioni divine» gridate contro il mondo contemporaneo sazio, annoiato, corrotto, che si è introdotto nelle stesse fedi e le ha annacquate. I fondamentalismi diventano il patto rinnovato col dio grande, che punirà presto, caso mai per mano dei suoi servi più vigili, i troppi cedevoli traffici degli stessi fedeli con la carnalità disperante, senza più spirito, di oggi. Questo patto non sa che farsene del dio d'amore e di dialogo, che almeno è il simbolo di un rovello quotidiano logorante da parte di chi crede. Perciò questo dio sbiadisce. Compare, più urgente, più attuale, quello che invece vuole le donne, per esempio, tutte pronte a confessare la loro colpa di sterminare tramite aborto vite innocenti; o quello che si erge contro ogni immedesimazione relativizzante nell'Altro, nelle verità dell'Altro, tradendo la Verità. Il fatto è che questo davvero, pur nella differenza degli occhiali con cui lo guardiamo, è un mondo abbastanza brutto, esposto a tutte le apocalissi. Perciò vi hanno facile gioco quelli che vogliono menare le mani persuadendo la gente che sia un dio, offesissimo, a volerlo. La forza crescente del versante pericoloso delle religioni è nella più disperante assenza di politiche capaci, subito, di rendere il mondo almeno un poco meno immondo.















Liberazione, 10.02.06
Vale la pena di partire da una singolare anomalia: se tanti movimenti rivoluzionari nella storia si sono caratterizzati per aver avuto un inizio e una fine la singolarità di quello delle donne[…]
Laura Capobianco


Vale la pena di partire da una singolare anomalia: se tanti movimenti rivoluzionari nella storia si sono caratterizzati per aver avuto un inizio e una fine, la singolarità di quello delle donne, a partire dal ’900, consiste nel fatto che può inabissarsi, assumere un andamento carsico, ma prima o poi rinasce, visibile ed efficace. E’ quello che sta accadendo in questo momento in Italia.

Senza dubbio a fondamento del nuovo femminismo, come hanno voluto definirlo i media, c’è un sentimento forte di indignazione, un urlo prolungato che è risuonato da Milano a Roma e di lì in tutta Italia. “Basta”. E’ come un’onda che alzandosi produce effetti a cascata moltiplicandosi in tanti altri rivoli. Di nuovo un tentativo di riportare la politica ad un significato originale di condivisione dello spazio pubblico, senza la prepotente occupazione dell’oggi? Uno degli effetti è stato sicuramente il passaggio del testimone, da Milano a Napoli, già pronta ad accoglierlo; l’altro è la contaminazione, l’apertura, il salto in avanti che si produce all’interno di contesti dove più numerose sono le donne.

Ci è capitato di vivere questa esperienza il 6 febbraio scorso quando i fili che si stavano tessendo in città per la manifestazione nazionale del prossimo 11 febbraio, con naturalezza si sono riannodati nella Convention delle donne Ds che a Napoli ha una storia molto particolare, di grande apertura e di costruzione di relazioni tra donne. E così il tema della laicità, proposto da una storica del Cristianesimo e da Simona Marino, filosofa del pensiero della differenza, ha buttato sul tappeto interrogativi inquietanti ripresi da appassionati interventi dal pubblico. Se “laicos” è in origine colui che è escluso dalla legge, (fondata sul sacro) perché non appartiene al demos, ma è volgare e popolare; e se tutta la cultura occidentale scaturisce dal patto che gli uomini stipulano tra di loro, escludendo, dando in cambio per questo patto, il corpo delle donne (come si legge nella Genesi) la domanda da farsi è proprio come le donne possano occupare lo spazio del “fuori” e dare origine ad una laicità non oppositiva ma che includa l’altro.

Un concetto che viene forse da troppo lontano ma che comunque serve a guidarci a ritrovare un percorso in un contesto come quello da cui parliamo dove l’illusione forte di governi di sinistra ci aveva portato a credere che la libertà femminile “naturalmente” potesse esservi iscritta. Verità molto parziale se si considera che non molte ma abbastanza donne sono nelle istituzioni e che rende più urgente affrontare la domanda di come ci stanno e soprattutto di che relazione esse mantengono con il “fuori”. E ancora, come si raccontano, se lo fanno, quelle che ostentano un di più di libertà e occupano con gli uomini i luoghi del potere e che relazione hanno con questi uomini, soprattutto con quelli che si mostrano disponibili al dialogo?

Un laboratorio, Napoli, (e rispondiamo a Paola Melchiori) di nuovo interessante, dove la sindaca non ha prodotto direttamente effetti di trasformazione né valorizzato ciò che le donne avevano prodotto ma che è ancora vitale sotto la cenere. Dopo l’11 da Napoli riannodiamo i fili magari con maggiore generosità, sicuramente con rinnovate energie.





Liberazione, 10.02.06
L’anniversario della nascita dello scienziato inglese è l’occasione per un inventario delle diverse associazioni europee impegnate a difendere la cultura dei non-credenti. In Italia incontri organizzati dalla Uaar presso le librerie Feltrinelli
Darwin day, la libertà di non religione per i diritti di tutti
Valeria Magnani


Circa la metà della popolazione europea non professa alcuna religione, eppure negli anni scorsi si sono succedute sconsolanti diatribe sulla necessità che figurasse il richiamo alle radici cristiane sul testo della Costituzione europea. Le parole quindi hanno peso e misura, realizzano conseguenze concrete; e dal riconoscimento costituzionale di un’Europa cristiana, potrebbe nascere una situazione quantomeno ambigua: cioè che l’approvazione di una norma in frizione con le aspettative di una chiesa, e potrebbe essere solo quella cattolica, sarebbe una violazione della Costituzione europea, con tutte le plausibili conseguenze. Dare vero significato alle parole, o alla loro omissione, è un gesto mentale di cui non si sente quasi più il bisogno, le parole garriscono al ritmo della fretta quotidiana, se ne afferra un senso ingessato di consuetudini che sempre qualcuno ha preventivamente stabilito. La “libertà di religione” di cui si parla, ad esempio, ci sembra esaustiva di tutte le libertà possibili in ambito morale; passa inosservato che venga invece esclusa la “libertà di non-religione”. Eludere questo avverbio che identifica e rafforza un opposto: anche questo è un gesto che ha peso e misura, perché decreta l’accettazione, consapevole o meno, che i diritti morali dei non credenti non abbiano pari dignità nel mare magno degli atteggiamenti di tendenza, che raramente sono di coerenza quanto invece quasi sempre di conformismo alla prassi del potere cattolico. Così, dai preti chiamati a benedire opere pubbliche alle non-stop televisive che divorano l’emotività della gente con i funerali del papa, la libertà di non-religione e la pari dignità morale degli atei, viene ingoiata da un’arroganza culturale fagocitante. La laicità rimane un concetto vuoto come un gesso tolto, una parola tra le tante di cui vedere solo la piega apparente.

L’anniversario della nascita di Charles Darwin il 12 febbraio è l’occasione per interessarsi alle diverse associazioni europee impegnate a dare alla libertà di non-religione un significato più impegnativo. Ognuna di queste tiene a precisare che non ci sono distinzioni politiche, né sociali od economiche tra i partecipanti; l’anticlericalismo è ovviamente il minimo comune denominatore, e l’ateismo o l’agnosticismo il filo conduttore; ma la cultura del rispetto che in genere coltivano fa sì che alcune associazioni raccolgano anche quei credenti che sanno fare della fede un dogma unicamente individuale.

Con “Uaar” (Unione atei e agnostici razionalisti) è approdata anche in Italia la commemorazione che in Inghilterra celebra già da tempo il Darwin day, con incontri e dibattiti realizzati in molte città italiane presso le librerie Feltrinelli (info: www. uaar. it). L’ateo è la sua pubblicazione bimestrale, occasione di incontro delle idee e di raccordo tra i soci.

Ancora in area veneta opera da circa vent’anni il “Mai”. (Movimento anticlericale italiano), nato sulla base di esperienze radiotelevisive e di ricerche storico-antropologiche; il mezzo radiofonico serve da cassa di risonanza dell’organizzazione, che sensibilizza sui danni prodotti dalla contraddittoria morale clericale, dai soprusi e dalle ingiuste cause perpetrate dalla chiesa. Il dato di attualità è supportato da notizie storiche che ne attestano la continuità culturale con la tradizione ecclesiastica (sui 94 Mhz di Radio Gamma 5).

Nel 1989 nasce il movimento anticoncordatario “Carta 89”, radicato nell’ambito delle iniziative per l’abolizione del concordato, e per la tutela del diritto di non partecipazione all’ora di religione nelle scuole. Si è impegnato in istanze anche giuridiche, ed è stato presente in tutte le lotte istituzionali per il progressivo smantellamento dell’obbligo religioso nelle scuole a favore dei diritti dei non avvalentisi. Da notare la parabola costitutiva del movimento che si forma da comitati e collettivi operanti già nel 1983 per la laicità nella scuola: di tali processi associativi facevano già parte il concistoro della chiesa valdese e la federazione evangelica italiana insieme a collettivi come Rossoscuola e associazioni sindacali. La variegata composizione testimonia ancora una volta di come la vera laicità sia un valore universale per le mentalità più aperte della società, di qualunque estrazione ideale (www. arpnet. it).

L’associazione dei liberi pensatori italiani intitolata a Giordano Bruno è forse tra le più antiche. Si ufficializza nel 1903, ma raccoglie le tensioni composite delle associazioni di liberi pensatori che nel 1869 si erano riuniti nell’Anticoncilio di Napoli, un convegno organizzato da alcuni deputati appoggiati da Giuseppe Garibaldi e Victor Hugo. Attaccata prima da Pio X come oltraggiosa e provocatoria, l’associazione fu sciolta perché dichiarata antinazionale da un regio decreto di Mussolini, che ne boicottò i lavori in accordo con il Vaticano, mentre le squadre nere distruggevano sede e archivi. Duri di sangue e di confino gli anni seguenti, all’insegna degli umori della storia mondiale. In anni più recenti l’associazione “Giordano Bruno” (www. liberopensiero.20m. com) si muove in prima fila nelle battaglie per il laicismo e i diritti civili di tutte le minoranze. Dal 1919 pubblica il periodico La Ragione. Correlata a livello europeo è la “Fèdèration Nazionale de la Libre Pensèe”, attiva in Francia dal 1848; anche i suoi militanti hanno vissuto in prima persona storie di persecuzioni; ma seppero portare a casa, tra gli altri, un risultato importante: l’abolizione della schiavitù dei neri nelle colonie francesi (www. librepenseefrance. ouvaton. org/buts. htm1).

Con piglio teutonico opera in Germania la “Lega contro il conformismo”, che per consapevolezza degli obiettivi e per eterogeneità dei nuclei si autodichiara l’equivalente moderno dei bolscevichi nella Russia zarista o degli ebrei nel medioevo cristiano. Segue tre principi generali: controllo delle nascite, perché solo un certo numero di uomini trova posto sul globo; riduzione dell’orario di lavoro, perché il lavoro è fatto per l’uomo e non l’uomo per il lavoro; uguaglianza: non delle risorse legate alle qualità personali ma dei beni terrestri distribuiti nel mondo. Si possono trovarne le pubblicazioni in italiano su www. ahriman. com.

Nel Regno Unito, dal 1866, opera la “National Secular Society”, che si propone come principali obiettivi lo smantellamento del potere della chiesa d’Inghilterra, l’abolizione della destinazione alle chiese di parte delle tasse, il regolamento degli studi di religione nelle scuole, l’abolizione del reato di blasfemia. Anche la “Nss” tiene a precisare che pur essendo un’associazione costituzionalmente di non credenti, non accampa diritti maggiori per questi ultimi nei confronti dei credenti, che pienamente rispetta, giudicando inalienabili i diritti di tutti. Condanna invece gli effetti negativi a cascata dell’uso strumentale che le chiese operano sulla fede delle persone (www. secularism. org. uk).

Il quadro è dunque vario, ma un’impressione svetta nitida; che i non cattolici, comprendendo tra questi anche le altre confessioni religiose che si battono per i diritti civili, nella maggioranza dei casi siano capaci di qualcosa che va ben oltre la tolleranza: si chiama rispetto e vero senso d’uguaglianza.







Liberazione, 10.02.06
Religioni
Quando il papa suggerisce
Mauro, Roma


Caro direttore, queste le parole di Ratzinger il 12 gennaio 2006 in Vaticano davanti al sindaco di Roma Veltroni e all’onorevole Marrazzo: «E’ un grave errore oscurare il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul matrimonio, attribuendo ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, dei quali non vi è, in realtà, alcuna esigenza sociale»; «occorre aver cura che non manchino di concreti aiuti le gestanti che si trovano in condizioni di difficoltà ed evitare di introdurre farmaci che nascondano in qualche modo la gravità dell’aborto». C’è un nesso tra il silenzio mediatico sulla notizia che il capo dello Stato Vaticano “suggerisca”, ai rappresentanti di un altro Stato come governare, ed il modo in cui il mondo islamico si ribella a 12 vignette raffiguranti Maometto? Le due notizie, apparentemente slegate l’una dall’altra, dimostrano la violenza che porta in sé ogni religione. E poi, che la destra vada a braccetto con la chiesa è cosa risaputa, è sempre stato così, ma la sinistra ha bisogno di queste alleanze? Lasciamola a Silvio la folle illusione che dio, la chiesa e la castità gli faranno vincere queste elezioni.
































Liberazione, 10.02.06
Bentornata dialettica, altro che fine della storia
I significati, gli sviluppi, la complessità di una categoria dalle tante implicazioni politiche.
A Bologna un incontro internazionale tra studiosi, oggi e domani
Alberto Burgio


Chiunque abbia qualche dimestichezza con la storia del termine «dialettica» sa che la questione centrale riguarda la presenza di due distinte prospettive teoriche. Nel corso del tempo sono state elaborate teorie nelle quali «dialettica» concerne il terreno del discorso (le contraddizioni e le impasses logiche o le contrapposizioni tra interlocutori) e teorie in cui invece «dialettica» riguarda i processi reali (la relazione tra le cose o il divenire storico). Possiamo dire con sicurezza che la storia di «dialettica» conosce una cesura e una sola, che si verifica con Hegel.

Perché? Non certo perché Hegel sia il primo a considerare la realtà come un tessuto di contraddizioni. Ma perché Hegel è il primo a impiegare «dialettica» per formulare una teoria della contraddizione reale. Il problema della tensione tra identità e mutamento è un problema classico. Sin da Eraclito la percezione di questo problema induce concezioni conflittuali della realtà. Questo problema è visto prima di Hegel, ma non è assimilato all’insieme delle questioni concernenti la «dialettica». Fino a Hegel, «dialettica» è riferita al solo ambito del discorso, del dialogo, della conoscenza e della teoria.

Hegel, d’altra parte, non nasce dal nulla. La sua rivoluzione concettuale ha un antefatto, legato al complicato trattamento della questione da parte di Kant. Nella ricostruzione hegeliana, in gioco non è quello che Kant aveva inteso sostenere, ma il Kant di Hegel, ciò che Kant diventa in forza dell’uso che Hegel decide di farne. «Dialettica», per come Kant dapprima definisce il termine, concerne ancora il discorso - le sue tecniche - e si collega a una intenzione ingannevole, persino truffaldina. Richiama l’esperienza della sofistica, della «eristica» aristotelica. Ma Giano guarda anche verso il futuro. Quelle illusioni non sono, in realtà, sempre volontarie. Non sempre è questione di capriccio o della volontà di ingannare l’interlocutore. Kant introduce una distinzione fondamentale. L’apparenza dialettica e gli errori che ne conseguono nascono dalla nostra stessa natura, da come è fatta la ragione umana. Si tratta pertanto di «illusioni naturali e inevitabili», destinate a riprodursi «incessantemente», nonostante la critica le abbia già una volta smascherate.

E’ chiaro che qui Kant scopre qualcosa: una inquietante terra di nessuno (che Hegel definirà «in sé del per sé» e il Novecento istituzionalizzerà come «inconscio») posta tra ciò che è altro da noi e ciò che noi siamo, consapevoli di esserlo. Scopre quell’altro da noi che è in noi: quel nostro altro che non ci è dato conoscere ma in virtù del quale siamo ciò che siamo. Come sappiamo, Kant perviene a questa scoperta muovendo dal riconoscimento di un bisogno di totalità, di senso e di consistenza che egli considera costitutivo della nostra relazione con noi stessi e con il mondo della vita. Questo «bisogno della ragione», non eludibile ma nemmeno pienamente appagabile (vorremmo avere certezza della nostra consistenza nel tempo e dell’esistenza di dio, così come vorremmo poter conoscere e non soltanto pensare il mondo come totalità e come contesto dotato di senso), costituisce la radice antropologica dell’illusione dialettica.

E’ un’idea effettivamente ambigua, il che darà a Hegel il destro di aggrapparsi a uno dei suoi versanti per suffragare le proprie pretese. A fabbricare sofismi e antinomie è la natura stessa, dunque si potrebbe dire che la natura - la realtà oggettiva - è fonte e sede di contraddizioni. Hegel non si lascerà sfuggire la possibilità di metterla in questi termini.

Per Kant siamo noi - noi in quanto portatori di bisogni sproporzionati alle nostre facoltà - i soli vettori di contraddizione. Fondare presunte conoscenze su catene logiche alle quali non corrisponde alcunché di esperibile è come cedere a una tentazione, come abbandonarsi a «prospettive lusingatrici e speciose». La dialettica è accusata di «adescare» la ragione, alla quale, pure, è «inscindibilmente legata». La contraddizione è dunque il perturbamento, la deviazione dalla norma. Hegel dirà, criticando tradizione e senso comune: «un’anomalia, un transitorio parossismo morboso», a fronte di una realtà extraumana concepita, di per se stessa, come un tutto coerente. Se questo è vero, quello che Hegel compie ribaltando tale prospettiva è davvero un gesto sacrilego.

E’ il primo a chiamare «dialettica» la contraddizione reale. La scelta terminologica riflette una innovazione teorica di incalcolabile portata. Il fatto che in Hegel lo stesso nome designi sia le contraddizioni logiche che innervano lo sviluppo della scienza, sia quelle reali, è l’indicatore di una nuova idea della realtà e dei suoi processi di trasformazione: di una nuova idea di interscambio tra oggettività (realtà materiale: natura e mondo storico) e soggettività. «Dialettica» copre adesso l’intero campo discorsivo relativo alle contraddizioni di ogni genere e al loro superamento teorico e pratico. Questa convergenza dipende da una precisa interpretazione dei conflitti che presiedono ai processi reali di trasformazione e che proprio questa scelta lessicale riconduce all’attività della soggettività storica. Le precedenti teorie della contraddizione oggettiva vengono così riformulate in una nuova teoria in cui, tra la soggettività efficiente e l’oggettività attraversata dal conflitto e dal mutamento, sussiste un fondamentale continuum ontologico. Ciò equivale a dissolvere lo iato che precedentemente sussisteva tra la sfera del soggettivo e l’ambito di un reale naturalisticamente concepito come totalità autosufficiente e dunque, a maggior ragione, indipendente dal soggetto. E’ questo il motivo della insistita polemica hegeliana contro la «filosofia della riflessione», incapace, agli occhi di Hegel, di superare una prospettiva incompatibile con la comprensione del divenire storico, cioè tanto dei processi di produzione del reale (la realtà è un operoso cantiere in costante attività), quanto dei processi di oggettivazione del soggetto (che realizza se stesso per mezzo del lavoro e modifica se stesso per mezzo dell’esperienza).

La teoria hegeliana della contraddizione logico-reale consiste in una teoria del mutamento storico come oggettivazione del soggetto. In due sensi: il soggetto trae dall’esperienza la materia che gli consente di trasformarsi e di evolversi e, nello stesso tempo, esercita la propria crescente potenza nel plasmare la realtà a propria immagine e somiglianza.

Con ogni probabilità, è lo sguardo sul mondo contemporaneo a suggerire a Hegel la plausibilità, anzi la necessità di una nuova concezione dell’esperienza storica. Ma che cosa, precisamente, del mondo contemporaneo? Evidentemente, una metamorfosi del soggetto. E’ Il soggetto in quanto si costituisce come universale ad apparire a Hegel come il protagonista di una vicenda progressiva, nella quale le contraddizioni reali (i conflitti del mondo storico) appaiono in tutto e per tutto come contraddizioni logiche, dotate di senso e soggette a una dinamica risolutiva.

Dire universalità e autodeterminazione del soggetto equivale a dire eguaglianza e libertà, e ciò permette di riconoscere senza incertezze l’ispirazione borghese del progetto hegeliano. Senonché è proprio Hegel - lo Hegel della dialettica logico-reale - a consegnare ai posteri l’arma teorica più distruttiva, in grado di mandare in frantumi la pretesa armonia dell’utopia borghese (un universo di liberi ed eguali) e le sue «magnifiche sorti e progressive».

Del resto, l’ultima sua grande opera contiene chiari indizi di quanto Hegel ne fosse consapevole. Basti pensare alla lucida analisi delle crisi di sovrapproduzione, riconosciute nella loro dimensione oggettiva, sistemica, quindi nella loro ciclica ineluttabilità. Lo sviluppo economico, osserva Hegel, ha luogo su basi che inevitabilmente generano povertà. Con ciò le contraddizioni immanenti nella società borghese sono messe a nudo e sottratte a qualsiasi eziologia rassicurante. E’ dai suoi stessi meccanismi riproduttivi che «la società civile, soprattutto questa determinata società, è spinta al di là di sé». Che cos’altro mai sarà a determinare questo movimento, se non il carattere antagonistico della riproduzione sociale (Marx dirà: della valorizzazione del capitale)? E come altrimenti chiamerà, Hegel, questa dinamica contraddittoria, quale altro nome potrebbe darle, se non quello, sulfureo e beffardo, di «dialettica»?














































Liberazione, 10.02.06
Domenica a Roma prende il via un ciclo di seminari organizzato da Rifondazione comunista.
Obiettivo, interrogare la realtà sessuata del mondo in un’epoca caratterizzata da guerre ed integralismi
Patriarcato postmoderno: inganni e maschere del potere
Linda Santilli


Domenica prossima prenderà il via a Roma un ciclo di seminari che a scadenza bimestrale affronterà il tema del patriarcato. “Il patriarcato postmoderno: inganni e maschere del nuovo potere maschile” sarà il titolo del primo incontro, che si svolgerà dalle 10 alle 16 nella sala Libertini (viale del Policlinico 129). Tante e significative le presenze previste: da Lidia Menapace ad Angela Azzaro a Stefano Ciccone, Pino Ferraro, Lea Melandri, Michele De Palma, Pasquale Voza, Betta Piccolotti, ed altre e altri ancora.

A promuovere l’iniziativa è il “Gruppo di ricerca e iniziativa sul patriarcato” che si è di recente costituito nel Prc (area nuovi diritti e poteri istituzionali) come gruppo di lavoro aperto ad uomini e donne provenienti da percorsi politici e culturali diversi, iscritti e non iscritti a Rifondazione. In comune c’è la passione di interrogare la realtà sessuata del mondo e di farsi interrogare da essa per individuare nessi, contraddizioni e complessità della nostra epoca storica.

Il patriarcato, come costruzione storica culturale sociale e simbolica, è tutt’altro che una astrazione metastorica, o un argomento anacronistico da confinare in epoche arcaiche, o un tema che poco c’entra con la politica, ma è il telone di fondo su cui si muove drammaticamente la nostra contemporaneità. E’ l’ossatura che continua a reggere il mondo, in forme inedite, inquietanti, contraddittorie, pervasive. E’ il contesto in cui viviamo e da cui siamo attraversate. Sono i rapporti sociali di potere tra i sessi che noi produciamo, donne e uomini, anche illuminati/e, anche di sinistra. Dentro le case e dentro i partiti, nella sfera privata e in quella pubblica
E’ il substrato che alimenta e connette tra loro guerre, fondamentalismi, rigurgiti di razzismi, etnicismi, integralismi, in oriente come in occidente, con la pretesa di chiese e cleri di imporre dall’alto le loro verità assolute e i loro modelli di comportamento, convivenza, relazione tra i sessi.

Non si può negare che in Italia vantiamo un punto d’osservazione privilegiato: il patriarcato nostrano in tempi recenti ha dato prova di sé, ha tuonato - nei banchi del Vaticano e in quelli del Parlamento - con un fanatismo misogino e una spregiudicatezza d’altri tempi, ha sventolato spavaldamente la sua bandiera in difesa della vita contro le donne, tutte madri assassine o potenziali tali, da controllare, tutelare, indirizzare verso la retta via.

Un nuovo capitolo va aperto. Una nuova pagina va scritta affinché si apra un percorso di svelamento che nomini ciò che fino ad oggi hanno avuto il coraggio di nominare solo le donne. Liberazione ci ha provato coraggiosamente: ha affrontato il tema della violenza sulle donne in modo asimmetrico, ha chiamato in causa su questo tema direttamente la parte maschile. Ha rotto un tabù, disarticolato un immaginario patriarcale potentissimo.

E’ questa la direzione da prendere, non ci sono vie di fuga possibili: aprire una riflessione a 360 gradi e sollecitare una presa di parola collettiva su temi di importanza nodale che non possono più essere demandate solo alle donne, tante o poche che siano, organizzate in piccoli gruppi o libere pensatrici o accademiche o donne di partito. Sapendo che tante delle elaborazioni preziosissime prodotte dal femminismo, perfino quello stesso lavoro di decostruzione del patriarcato compiuto dalle donne negli anni 70 e 80, oggi chiede di essere aggiornato, ampliato, arricchito di nuove analisi e nuove parole. Alcuni punti di domanda vanno riformulati alla luce dell’avvento delle biotecnologie, della mutata percezione che hanno di sé e del proprio corpo le donne e gli uomini, della cosiddetta femminilizzazione della società, del lavoro, del maschile. Ma anche alla luce della precarietà come condizione esistenziale oltre che materiale dell’esistenza, di ciò che si intende per vita, nel momento in cui sembrano essersi erosi i margini che tradizionalmente separavano in modo netto pubblico e privato, produzione e riproduzione, sentimento e ragione.

Il punto di domanda essenziale è il seguente: come si manifesta dentro/fuori di noi il patriarcato nell’epoca postmoderna “liquida” e “femminilizzata”? Si vuole tentare di indagare sui nuovi meccanismi di potere, quelli più sotterranei, mascherati, camuffati nella cosiddetta femminilizzazione. Si vuole farlo insieme agli uomini. Partire da sé, parlare di sessualità, corpi, desideri liberi o colonizzati, relazioni di potere politiche/personali, relativizzare il proprio sguardo e considerarlo una parzialità: tutto questo può diventare parte importante di un rinnovato percorso di liberazione umana, oltre che di ricerca di nuove pratiche che superino le forme date della politica.





































il Manifesto, 10.02.06
E venne il giorno di Charles Darwin
Sono partite a Napoli le iniziative per ricordare il naturalista inglese e in difesa della teoria sulla origine della specie
La scienza in azione Da Roma a Venezia, da Ferrara a Milano un mese di incontri, convegni e performance teatrali contro il fondamentalismo che vuole cancellare Darwin in nome di un «disegno intelligente»
Jacopo Pasotti


La teoria evoluzionista esposta da Charles Darwin nel 1859 in Italia è approdata a Napoli. E qui ha messo la sua radice più profonda e duratura. Infatti nel capoluogo campano si trova il più antico centro edificato per applicare l'evoluzionismo alla ricerca sulla vita. Con questa premessa si è dato inizio questa settimana ai Darwin Day in Italia, una serie di incontri distribuiti su tutta la penisola per celebrare il compleanno di Darwin e della sua teoria sulla origine della specie. Organizzati dalla «Unione Atei e Agnostici» o dalla Associazione dei docenti di materie scientifiche o di storia naturale, sono incontri accomunati dalla volontà di approfondire e rilanciare l'elaborazione darwiniana, proprio quando è stigmatizzata se non «criminalizzata» da una pervicace campagna fondamentalista (Per maggiori informazioni, vedere i siti internet: darwinday.anisn.it o www.uaar.it/uaar.it/darwin_day/2006/). Non è però un caso che le celebrazioni di Darwin siano iniziate a Napoli, anche se il naturalista inglese a Napoli non ci è mai stato. «Darwin è giunto in Italia con Anton Dohrn, e con il suo progetto di una centro per le osservazioni sulla fauna marina», così ha introdotto la giornata di seminari napoletani Giorgio Bernardi, presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, il centro di ricerca costruito proprio dallo zoologo di origine polacca a costruire nella seconda metà del 1800.

La teoria sull'origine delle specie basata sulla selezione naturale proposta da Darwin 150 anni fa è il fondamento della biologia moderna. Da allora la teoria si è modificata, ma nel mondo scientifico il suo nocciolo non è certo in discussione. Ma celebrare lo scienziato inglese «è importante per mille motivi - ha sostenuto Giorgio Bertorelle, docente di genetica alla Università di Ferrara - tra cui ricordare una figura fondamentale per comprendere il mondo vivente e divulgare il pensiero evoluzionistico, soprattutto in momenti in cui tendono a diffondersi idee oscurantiste o religiose che affrontano temi scientifici con un approccio antiscentifico».

L'applicazione dell'evoluzionismo darwiniano può essere inoltre molto utile per la medicina e la sanità pubblica. Per esempio «la virulenza degli agenti che causano le malattie infettive è regolata da processi evolutivi», ha affermato Gilberto Corbellini, docente di storia della medicina alla Università degli Studi di Roma La Sapienza. Corbellini ha infatti spiegato come i microorganismi sviluppano la resistenza ai farmaci attraverso meccanismi evolutivi. Cioè per selezione naturale. I processi di variazione genetica fanno infatti emergere delle forme che non sono sensibili al farmaco utilizzato, ma che anzi si sono adattate al farmaco e quindi possono mantenere l'infezione. Lo si è visto con tutti gli antibiotici, ma anche con i farmaci antivirali, per esempio quelli contro il virus dell'Aids o contro i virus dell'influenza.

Ma l'evoluzionismo è fondamentale anche in ecologia, per proteggere le specie animali e vegetali. Studi di genetica evolutiva hanno mostrato ad esempio che il ghepardo possiede una scarsa diversità genetica forse dovuta ad un rapido declino della popolazione avvenuta già migliaia di anni fa. Questo significa che il felino ha un limitato successo nella riproduzione, fatto che lo rende particolarmente vulnerabile.

Ma allora a chi stanno scomodi Darwin e la teoria evoluzionista? Vittorio Sgaramella, biologo molecolare al Parco Tecnologico Padano non ha mezzi termini: «Darwin non piace a coloro che temono il pensiero libero, critico ed indipendente».

E' stata forse questa la causa della eliminazione del darwinismo dai programmi di insegnamento delle scuole italiane nel 2004. Sgaramella era parte della commissione Darwin istituita dal Ministro Moratti a seguito delle proteste del mondo accademico. Lo scopo era di «riportare il nome di Darwin» senza troppi clamori nelle aule scolastiche, come ha raccontato il biologo in una affollata aula a Napoli.

Secondo Sgaramella alla base di tutto c'è l'eterno conflitto tra scienza e politica ed una diffusa «ostilità verso la scienza» che è di casa nel governo. Sulla scienza, ha continuato Sgaramella, si applica il principio: «se non la conosci, mortificala».

Ecco che allora che i gruppi neo-creazionisti o i promotori del disegno intelligente (intelligent design) hanno sferrato l'attacco all'evoluzionismo. Lo hanno fatto «sfruttando alcune controversie ancora in discussione all'interno della comunità scientifica», usandole per attaccare l'intero sistema evolutivo, spiega Telmo Pievani, docente di filosofia della scienza alla Università della Bicocca di Milano. Oppure negando «l'evidenza scientifica».

Sotto l'insegna del cavalluccio marino, simbolo della Stazione Zoologica di Napoli ha chiuso gli incontri Luigi Luca Cavalli Sforza, una autorità nel campo della genetica umana. Sforza ha ricordato che si riescono a descrivere con processi evolutivi anche la distribuzione e la storia dei linguaggi umani che sono influenzate dalla evoluzione del patrimonio genetico delle varie popolazioni mondiali.


























il Manifesto, 10.02.06
Artemidoro, il mondo in un papiro
In mostra al pubblico da oggi a Torino il prezioso rotolo egizio recuperato nel corso di scavi all'inizio del secolo scorso. Solo negli ultimi anni è stato restaurato, ricomposto e indagato per le cure di Claudio Gallazzi, Bärbel Kramer e Salvatore Settis. Un oggetto unico, in cui coesistono ampi frammenti di un testo di geografia del II secolo avanti Cristo, mappe, disegni di volti umani e di animali veri o favolosi, e perfino incerti esercizi di «ragazzi di bottega» dell'antichità
Franco Montanari


Le sabbie dell'Egitto continuano a parlare, anzi, in questi ultimi tempi sembrano diventare sempre più loquaci e provocatorie. Pezzi di opere perdute della letteratura greca antica e testimonianze di grande interesse, magari attraverso percorsi tortuosi, spuntano fuori a popolare i sogni e le scrivanie degli studiosi e a stimolare eccitate curiosità. Impossibile dimenticare le migliaia di versi di Menandro (prima quasi sconosciuto), la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, i poemi di Bacchilide, i papiri filosofici di Ercolano e le innumerevoli altre scoperte che hanno costellato il ventesimo secolo, fino ai frammenti di Stesicoro e di Callimaco dei papiri di Lille, arricchendo in modo sorprendente la conoscenza della letteratura greca antica, rispetto a quanto la tradizione bizantina ci aveva conservato nei suoi codici. Provenienti direttamente da scavi archeologici oppure da cartonnage (lo strato di carta pressata che ricopriva la mummie egiziane) oppure ancora dal mercato antiquario (scrigno di tesori abilmente nascosti e ancor più abilmente disvelati), i papiri offrono sempre nuove scoperte. Qualche anno fa, un pezzo di rotolo papiraceo acquistato dall'Università Statale di Milano restituì diversi epigrammi del poeta ellenistico Posidippo, pubblicati da Guido Bastianini dell'università di Firenze e da Claudio Gallazzi dell'università statale di Milano: in un colpo solo, il numero dei versi conosciuti di questo poeta fu raddoppiato. Ancor più di recente, presso la collezione dei Papiri di Colonia è stato decifrato un frammento, che è risultato appartenere a una copia del III secolo a.C. delle poesie di Saffo: il più antico testimone dell'opera della poetessa greca. In attesa di edizione a stampa, ma già presentato a un congresso, è un nuovo pezzo del poeta arcaico Archiloco: ultima novità della più grande collezione di papiri editi e inediti: gli Oxyrhynchus Papyri di Oxford.

«Verso la metà degli anni Novanta, in una ristrettissima cerchia di papirologi e di studiosi di arte antica, cominciò a circolare, molto discretamente, la voce che un collezionista non meglio precisato possedeva un papiro eccezionale, in cui, accanto a un testo greco, comparivano decine di disegni di fattura squisita. Qualcuno si mise alla ricerca del pezzo, qualcun altro si propose di acquisirlo per la propria istituzione, ma nessuno realizzò i suoi propositi e le notizie sul papiro favoloso rimasero quanto mai vaghe. Finalmente, negli ultimi mesi del 1998, il proprietario del reperto, dimostrando un'encomiabile attenzione per le esigenze della scienza, propose a chi scrive e alla professoressa Bärbel Kramer dell'Università di Treviri di esaminare il suo prezioso oggetto e di presentarne una descrizione sulle pagine di una rivista specializzata». Scritte dal papirologo Claudio Gallazzi, queste righe non costituiscono l'incipit di un romanzo nel quale un manoscritto antico si trova al centro di mirabolanti avventure, ma sono l'inizio del saggio di apertura del catalogo della mostra che si apre al pubblico oggi a Torino (vedi box) intorno a quello che è ormai noto come il «Papiro di Artemidoro»: un reperto di straordinario valore, acquistato sul mercato antiquario, studiato, edito e restituito al mondo della cultura. L'ultimo arrivato sulla scena che abbiamo evocato: una star indiscutibile, dalla triplice vita e dal duplice fascino.

La prima notizia sul papiro apparve nella primavera del 1999, sulla rivista tedesca «Archiv für Papyrusforschung». Si rese noto che il pezzo di rotolo presentava sul recto un brano perduto del geografo Artemidoro con l'aggiunta di una grande carta geografica e sul verso un vero e proprio cahier d'artiste con una quarantina di figure. Gli specialisti cominciarono a parlarne (fissando l'uso di chiamarlo «Papiro di Artemidoro») e crebbe l'attesa per un'edizione completa, alla quale Gallazzi, Bärbel Kramer e Salvatore Settis poterono dedicarsi solo nell'estate del 2004, dopo che il reperto era stato acquistato dalla Fondazione per l'Arte della Compagnia di San Paolo e portato nel laboratorio di papirologia dell'Università Statale di Milano per il restauro e per lo studio con l'ausilio di adeguate apparecchiature ottiche. I risultati sono nel volume Il papiro di Artemidoro, curato dai tre studiosi con la collaborazione di Gianfranco Adornato, di prossima pubblicazione per la casa editrice Led di Milano.

Seguendo le pagine di Gallazzi, vale la pena di descrivere, sia pur brevemente, la storia del papiro e la sua ricostruzione. Recuperato da scavatori locali e finito in una collezione privata egiziana nella prima metà del secolo scorso, un ammasso di cartapesta da un cartonnage di mummia fu legalmente venduto nel secondo dopoguerra a un collezionista europeo e passò per varie mani fino all'ultimo acquisto, avvenuto appunto nel 2004. Da un gran numero di frammenti, la perizia degli studiosi ha ricavato venticinque documenti di carattere burocratico-amministrativo, appartenenti alla seconda metà del I secolo d.C. (intorno al 100 d.C. si può dunque collocare la fabbricazione del conglomerato con papiri gettati al macero), e ha messo insieme, unendo una cinquantina di frustuli talvolta minuscoli, un pezzo lungo due metri e mezzo dell'inizio di un rotolo, scritto poco dopo la metà del I secolo a.C. (diciamo fra il 50 e il 25 a.C.: datazione su base paleografica). In quest'ultimo è stata identificata l'opera del geografo Artemidoro di Efeso, vissuto a cavallo fra il II e il I secolo a.C. e autore di Geographoumena in 11 libri, nei quali descriveva tutta la terra conosciuta alla maniera degli antichi peripli. Un'opera di grande importanza, purtroppo perduta, di cui abbiamo ora ritrovato il frammento più consistente che possediamo, anzi l'unico passo esteso conservato per tradizione diretta: le cinque colonne di testo appartengono all'inizio del II libro, dedicato alla penisola iberica, e la copia fu prodotta pochi decenni dopo la morte dell'autore. Gli specialisti avranno di che indagare sulla sua collocazione nella storia del pensiero geografico antico, in rapporto con predecessori, contemporanei (come il filosofo Posidonio di Apamea) e successori, come il più noto Strabone.

Nel suo insieme il contenuto del frammento non ha paralleli nelle migliaia di papiri pubblicati. Sul recto, nella parte normalmente lasciata bianca all'inizio sono disegnati due volti; ci sono poi tre colonne del trattato geografico, seguite da una lacuna di circa 13,5 cm. e poi da una carta geografica evidentemente rimasta incompiuta; infine, dopo altre due colonne di testo, diversi schizzi di mani, piedi e volti. Il verso è invece di contenuto omogeneo e presenta una quarantina di figure di animali, sempre accompagnati da una didascalia con il nome in greco. La compresenza di testo, carte geografiche e disegni è del tutto straordinaria e si spiega con la «vita» del papiro, che si può ricostruire praticamente con certezza.

Il rotolo fu concepito per produrre una copia di pregio dello scritto di Artemidoro ed evidentemente era previsto che il testo geografico fosse accompagnato da carte (per questo lo scriba utilizzò un rotolo alto 32,5 cm., ben più della media dell'epoca). Un fatto del tutto eccezionale, almeno stando alla nostra documentazione - si tratta infatti del solo esempio che abbiamo di un testo con carte incorporate - che consente di approfondire il problema dell'illustrazione geografica nel mondo antico. Nessuno può dire se si trattasse di una copia destinata a un privato oppure a una grande biblioteca, come quella di Alessandria. Il copista lasciava nel testo spazi bianchi per le carte geografiche: ne abbiamo uno dopo la III colonna e uno dopo la V. Ma il disegnatore non completò la prima carta e non iniziò neppure la seconda. Una ipotesi plausibile è che egli abbia commesso un errore, riproducendo al primo posto una carta sbagliata, per cui non avrebbe proseguito il lavoro: in una simile copia non si poteva concepire un rimedio raffazzonato. Non sappiamo cosa succedesse dopo la V colonna del testo, dove si interrompe il frammento conservato: è possibile che il pezzo sbagliato fosse stato eliminato, per essere sostituito con un altro correttamente eseguito, da incollare al resto.

Il papiro scartato rimase nell'atelier del disegnatore e pochi anni dopo fu riutilizzato per disegnare il bestiario che si trova nel verso, fatto di animali reali (come giraffa, tigre, elefante), animali esistenti ma rappresentati in modo fantasioso (il pesce-sega, con la sega sulla coda), creature mitologiche e fantastiche (draghi e grifoni): questo primo riuso può essere datato a poco dopo il 25 a.C., di nuovo su base paleografica grazie alla scrittura delle didascalie che accompagnano le figure. Di cosa si tratta? Un prontuario di bottega, una serie di modelli per mostrare agli apprendisti come eseguire certe figure? Un repertorio da mostrare ai clienti? Un disegno di progetto per un affresco o un mosaico?

Ma la vita del pezzo di Artemidoro non era finita e fu riutilizzato ancora: la parte iniziale non scritta e le zone bianche fra le colonne, lasciate per carte mai realizzate, servirono presumibilmente a giovani di bottega per provare a copiare parti anatomiche di statue, tracciando disegni che rivelano spesso mani incerte e inesperte: dunque, una sorta di quaderno di esercizi, che costituisce la più abbondante serie di grafica dell'antichità. Questo terzo riuso è più difficile da datare, ma certo avvenne prima che il papiro fosse usato - come si è detto - per un cartonnage entro il 100 d.C.

Il Papiro di Artemidoro riveste dunque una importanza eccezionale anche per la storia dell'arte antica, offrendo uno straordinario esempio di cahier di bottega multiuso. Considerando lo scarso numero di papiri figurati, la novità assume un rilievo forse ancora difficile da determinare. A tutte le tematiche coinvolte su questo versante, Settis dedica un magistrale saggio pubblicato nel catalogo della mostra (Le tre vite del papiro di Artemidoro, Electa, pp. 256, euro 35): «La prepotente evidenza offerta dai disegni che affollano, con ricchezza e intensità senza precedenti, il recto e il verso del nostro papiro induce a guardare con occhio nuovo ad alcune questioni assai discusse negli ultimi trent'anni: il ruolo del disegno nella pratica artistica antica, la natura e i meccanismi della tradizione iconografica, e più in generale il funzionamento della bottega. Come in molti altri casi, la scoperta e la pubblicazione del Papiro di Artemidoro sono dovute in misura prevalente a una serie di circostanze, la cui fortunata sequenza è del tutto casuale. Tuttavia, essa cade in un momento favorevole, mentre la storia dell'arte (anche dell'arte antica) viene sperimentando un significativo spostamento d'accento, rispetto al tradizionale studio della personalità degli artisti e delle loro opere, in due direzioni simmetriche: all'indietro, verso le pratiche e le tecniche di formazione, di esecuzione e di bottega; e in avanti, verso i meccanismi della recezione e il ruolo dell'osservatore».

Venuto fuori per noi dai meandri che portano dalle sabbie egiziane ai magazzini degli antiquari e infine alle scrivanie degli specialisti, grazie alle sue tre vite il Papiro di Artemidoro sale sul palcoscenico della storia della letteratura greca e della storia dell'arte antiche con un ruolo di protagonista e un fascino carico di mistero.












Liberazione, 10.02.06
L’esperienza scioccante del ritorno in Italia dall’Inghilterra
Un blog contro il razzismo. Storia di mamma Flora, single con due figlie di “colore ambrato”
Monica Lanfranco


Flora è una mamma single di due bimbe, vive a Roma, fa l’impiegata. Come tante altre madri italiane, direte voi: e allora? Allora Flora è una di quelle genitrici le cui figlie sono di colore diverso dal suo, e qui la cosa si fa complessa, e interessante. Tanto da aprirci un blog, e progettare di fare una associazione di famiglie e singole persone che abbiamo figlie e figli frutto di “mixitè”, un fatto ancora problematico, in Italia.

«Io ho due figlie che sono di un colore diverso dal mio nel senso che le ho concepite con un nero, e io sono bianca. Le mie figlie sono appunto miste, dello stesso colore ambrato di alcuni bimbi rom (che per questo sento molto vicini a noi) ed in più con i tratti somatici africani e capelli ricci.

Io sono molto pallida, occhi blu. E pur essendo madre biologica e politicamente impegnata da sempre nell’antirazzismo mi pongo continuamente il problema di quel giudice che disse che non è giusto che i bimbi neri vengano dati in adozione e quindi crescano in un paesino totalmente bianco».

E’ così che Flora apre la home page del suo “blog afroitaliani” attivato da poche settimane su http: //afroitaliani. splinder. com/, uno spazio nel quale ogni giorno segnala iniziative, offre al pubblico riflessioni, brani di libri, indicazioni di links, e ospita commenti di chi ha voglia di comunicare con lei. Quando le si chiede come è nata l’idea di tenere il blog, Flora racconta l’esperienza scioccante del suo ritorno in Italia dall’Inghilterra: paese a due ore di volo dal nostro che dalle sue parole appare però lontanissimo, come già alcuni anni fa segnalava, nel suo spassoso e profondo “Imbarazzismi” lo scrittore e medico togolese Kossì Komla Ebrì, narrando l’ignoranza del bel paese in materia di rapporti tra persone con diversa pigmentazione.

«Ho vissuto alcuni anni a Londra, dove ho insegnato spagnolo e inglese nelle scuole, oltre che inglese nei corsi gratuiti per i rifugiati politici pagati dallo stato. Già questo illustra bene come sia diversa la situazione inglese: una italiana che insegna lingue diverse dalla sua a persone altrettanto straniere. Ma le differenze con l’Italia continuano.

Le mie figlie non sono mai state una minoranza a scuola: c’erano insegnanti di colore, bambine e bambini di tutte le provenienze in classe, e di questo si tiene conto nella didattica e nei programmi, favorendo così l’esplicitazione positiva delle differenze. Non si negano. Tornata in Italia mi sono sentita dire da alcune madri che le loro figlie, tutte bianche, non vedevano la differenza di colore della pelle rispetto alle mie. Sono sicura che me lo dicevano per sembrare non razziste, e rassicurarmi. Perché, ho chiesto loro, sono forse daltoniche le vostre figlie, che non vedono la pelle scusa delle mie? Il problema è che facendo così, negando quella che è l’evidenza, ovvero il diverso colore, si omogeneizzano le differenze, e in questo modo non si vedono le sfumature diverse e i colori differenti come una risorsa, ma come un problema. Ecco perché le mie figlie cominciano a dimostrare insicurezza, a chiedersi perché le principesse sono sempre bianche e bionde e con gli occhi azzurri. Ho persino visto alcuni libri di scuola nei quali i bambini e le bambine erano invitati ad abbinare case diverse con diversi bambini di differenti provenienza geografica, e a quello africano indovinate un po’? Era allegata la capanna di legno, come se a Nairobi non esistessero i grattacieli. Vi ricordate la figuraccia fatta da uno dei concorrenti dell’isola dei famosi, che disse a Idriss che lui sarebbe stato avvantaggiato nel vivere un’esperienza “selvaggia” in quanto nero? Idriss rispose che lui nella giungla non c’era mail stato, ma a nessuno sarebbe venuto in mente di fare quella battuta, se Idriss fosse stato un bianco».

Nella battuta sulla visione daltonica di chi non vede i colori laddove ci sono, che riassume bene lo spirito combattivo e creativo di questa coraggiosa alfiera della mixitè, c’è tutta la problematica italiana sullo stato dell’intercultura. E sul tasso (purtroppo alto) di razzismo, latente e manifesto.

«Si dice, spesso con buone intenzioni, che i bambini e le bambine sono tutte uguali, ma si fa un errore: i bambini e le bambine, come gli uomini e le donne, sono tutti diversi, ed è un bene nominare e valorizzare questa differenza come una ricchezza. Altrimenti accade che il colore della pelle diventa un tabù, un fattore di imbarazzo, come succede quando i bambini notano una persona handicappata e chiedono spiegazioni, e le dovrebbero avere, alla persona adulta, che invece li zittisce, perché “di certe cose” non è bello parlare. Credo che un bambino o una bambina per crescere sano e felice non ha bisogno soltanto del grande amore che noi come genitori possiamo dare. Ha bisogno anche di costruirsi un’identità di sé e di gruppo. L’identità di sé è costituita essenzialmente dal sesso, cioè dal sentirsi maschio o femmina e dal colore, cioè nero, o bianco o marroncino. Perchè sono i primi due elementi che gli altri, e anche noi, notiamo. Coltivare l’identità razziale di un bambino nero è fondamentale per il suo benessere. Ma come fare in assenza di role-models di colore, senza maestre o amichetti di colore?»

Domande importanti, che Flora offre al popolo della rete come un approdo verso la ragionevolezza, l’empatia e il senso di giustizia che ogni giorno viene messo in forte pericolo in Italia, un paese che si scopre razzista sempre più spesso e che vede rappresentanti del governo proporre, per esempio, che l’assegno per i nuovi nati non sia destinato ai figli e figlie di immigrati nati qui. Come a dire che la cittadinanza è una prerogativa selettiva, ed ha un colore solo. Indovinate quale.


























Liberazione, 10.02.06
A che serve la laicità? Senza, la democrazia
diventa teocrazia. La sfida dell’11 febbraio
Il coordinamento Facciamo breccia chiama a manifestare a Roma
Graziella Bertozzo


La manifestazione “No Vat” che si svolgerà a Roma sabato 11 febbraio, con partenza da Piazza Bocca della Verità alle 14 e arrivo in Campo dei Fiori, organizzata dal Coordinamento Facciamo Breccia, ha come tema la laicità dello stato e l’autodeterminazione.

Le continue ingerenze del Vaticano negli affari interni del nostro paese sono ormai insopportabili: dalla riproduzione alla scuola, dalla pesante condanna di gay, lesbiche e trans alla pretesa di sempre crescenti benefici economici, non passa giorno in cui il Vaticano non intervenga nelle scelte politiche del nostro paese. Per farlo utilizza una destra di governo a cui la posizione della chiesa cattolica è funzionale, ma anche una certa sinistra che si ostina a glissare sulle conseguenze di un ritorno all’indietro delle conquiste civili degli ultimi quarant’anni.

Non dimentichiamo che fu proprio un governo di centrosinistra a compiere un’operazione che non era riuscita alla Democrazia cristiana in decenni: finanziare le scuole private a danno della scuola pubblica.

Perché la laicità è così necessaria? Si potrebbe rispondere per tutti i motivi elencati nella piattaforma della manifestazione di Facciamo Breccia: per i diritti riproduttivi delle donne (legge 194, legge 40), per i diritti di gay, lesbiche, trans e contro ogni discriminazione, per il riconoscimento delle unioni civili, per l’istruzione pubblica e laica, contro i privilegi economici del Vaticano e per l’autodeterminazione.

Ma c’è un altro motivo che li comprende tutti: perché non esiste democrazia senza laicità, ma solo teocrazia. Dov’è il confine? Quando inizia il percorso che porta i vari Ruini a ritenersi i migliori interpreti della Costituzione Italiana? Inizia dalla verità. Quello che differenzia il mondo migliore in cui vorremmo vivere da un mondo teocratico, è che non esiste una sola verità. La chiesa fa il suo mestiere: evangelizza. In particolare la chiesa cattolica ha costruito il suo essere al mondo sull’evangelizzazione, cioè sulla volontà di convertire il mondo intero al suo credo, alla sua unica verità. E’ diffusa ovunque, e ovunque fa danno quando pretende di dispensare verità: pensiamo alla politica assassina di negare l’uso del preservativo in Africa. Allora la prima anomalia nella politica italiana è proprio la presenza di un potere evangelizzatore che è penetrato nello Stato. L’abolizione del concordato è infatti uno dei punti della piattaforma di Facciamo Breccia.

Anomalia italiana che ben si sposa con una tendenza mondiale di riscossa delle destre che passa attraverso l’invasione della sfera pubblica da parte di chiese di vario tipo, dai teocons negli Stati Uniti ai fondamentalismi islamici.

Durante un dibattito sulla laicità a cui ho assistito l’altro giorno, un ragazzo chiedeva: ma allora, non ci sono preti buoni? E don Milani? E padre Zanotelli? Ecco: non dobbiamo temere di dare un giudizio politico anche sui preti buoni: essere “buono” o “cattivo” non è una misura politica. In uno stato laico non esistono buoni o cattivi, così come non esistono peccati ma solo reati. Ed il giudizio non ha mai da essere sulle persone, ma sugli atti che queste persone compiono.

Ho riflettuto a come il ragionamento su “buono” e “cattivo”, ragionamento confessionale e non laico, sia compenetrato nella nostra cultura. L’anomalia italiana è allora l’incapacità di distinguere fra legge dello stato e dottrina della chiesa, e su questo si gioca il potere della chiesa cattolica. Riflettiamoci insieme sabato alla manifestazione: rifiutare l’ingerenza della chiesa nello stato italiano significa pretendere garanzie per tutti e tutte, indipendentemente dal loro conformarsi o meno alla dottrina di una chiesa, a una sola verità.













































Liberazione, 10.02.06
Lettera aperta alle promotrici di “Usciamo dal silenzio”
Laicità e conflitto tra i sessi per noi sono la stessa cosa


Cara Lea, cara Assunta, care tutte,
sono passate tre settimane dalle manifestazioni del 14 gennaio, la milanese e la romana, ma non abbiamo ancora smesso di rallegrarci per un sentimento comune a tutte e per ragioni che proveremo a esporre a nostro modo.

Una manifestazione non solo femminile, e quindi non separatista, ma pensata e organizzata da donne, e quindi femminista, ha risposto a un fenomeno grave di regressione politica e culturale. Il fenomeno può essere detto integralismo, fondamentalismo, riduzione drastica dei livelli di laicità di una società e di uno Stato. Come è noto, la cosa non riguarda solo l’Italia e solo il mondo cattolico. Come è noto, l’ascesa di forze regressive si appoggia anche altrove alla pretesa di chiese e di cleri di dettare le norme della vita pubblica e privata.

Si tratta delle stesse forze che, per esempio negli Usa, fanno da sostegno materiale e ideologico alla guerra permanente, al razzismo e alla società dell’ingiustizia.

Gli uomini della sinistra avrebbero quindi anch’essi forti ragioni di allarme, ma non è un caso che a preoccuparsi siano prima di tutto - e talvolta quasi esclusivamente - le donne. Anzi, delle donne che ci piace continuare a chiamare femministe. Ci sembra che questo elementare dato di fatto dimostri che il femminismo non è solo lotta, pratiche, pensiero delle donne per se stesse, ma anche soggetto civilizzatore delle comunità umane nel loro complesso. La cosa è meno ovvia e acquisita di quanto oggi sarebbe lecito pensare.

Per quel che ci riguarda, non consideriamo la questione della laicità e quella della relazione uomo-donna cose diverse. La prima è solo il modo in cui un rapporto di dimensioni antropologiche si storicizza e si dispone quindi sul terreno specifico della politica.

Chiese e cleri che resistono ai processi di modernizzazione, cristallizzano nelle loro strutture organizzative e nelle loro narrazioni le manifestazioni più arcaiche delle relazioni tra i sessi, che poi ripropongono come verità immutabili ed eterne. Quando un modo di produzione, un sistema sociale o un conflitto politico non trovano forme di consenso razionali, ripescano nel pozzo senza fondo di una relazione di potere persistente perché con radici profonde nell’inconscio. Nel fondamentalismo protestante statunitense (per esempio) l’ossessione misogina è dominante e la sua stessa nascita, agli inizi del Novecento, fu una reazione alla femminilizzazione delle chiese. Diciamo queste cose forse ovvie per tutte per ribadire che rifiuto di integralismi e fondamentalismi, lotta per la laicità e conflitto tra i sessi non sono cose diverse. Nella complessità del nostro mondo essi si dispongono su piani diversi e si presentano in modi diversi, ma fanno riferimento alla stessa realtà.

Le donne, nel corso della loro vicenda politica, hanno saputo tenere conto di quei modi e di quei piani, alleandosi contro il patriarcato più arcaico con il patriarcato meno regressivo e confliggendo poi anche con questo, ma in altre forme e in altre dimensioni.

Vogliamo dire che mentre ci rallegriamo e misuriamo le poste in gioco, ci poniamo anche un problema. Si tratta di un problema che non solo ci intriga da tempo, ma che abbiamo cercato a nostro modo di affrontare in diverse occasioni. Siamo convinte che il femminismo italiano debba continuare a sperimentare forme di collegamento meno occasionali di quelle che lo vedono unito nelle grandi o grandissime manifestazioni, che negli ultimi quindici anni - dal 3 giugno 1995 al 14 gennaio 2006 - si sono succedute alla distanza di cinque anni circa tra l’una e l’altra.

Non abbiamo mai pensato a organizzazioni, a gruppi dirigenti e a strutture rigide. Ci è sembrata sempre più idonea la forma delle reti, che del resto attraversano ormai movimenti di donne e femminismi a livello globale. Per questo abbiamo partecipato a esperienze successive dalla Convenzione di donne contro le guerre, alla Marcia mondiale delle donne, a Parigi-diverse. Tra queste esperienze ci è sembrata particolarmente interessante la Marcia per la sua dimensione internazionale, per il suo radicamento in realtà femminili popolari di culture e di paesi diversi. La Marcia ancora oggi in Italia si ricompone come rete in occasione delle scadenze internazionali proprie e dei Social Forum.

Non possiamo fare a meno di pensare che il seguito del 14 gennaio rappresenta una straordinaria occasione per fare un ulteriore passo avanti e per tentare relazioni tra noi un po’ più stabili e non legate solo a temi e a scadenze specifiche. Per esperienza sappiamo che convivere richiede un rispetto reciproco e un’attenzione alle suscettibilità di ciascuna maggiori che in altri luoghi della politica. La stessa esperienza suggerisce di darci un minimo di strutture organizzative, anche per evitare che l’eccesso di informalità costringa alla fine poche a fare e a decidere per tutte. Con la conseguenza di sempre, cioè con la progressiva sottrazione delle altre e dell’inefficacia.

Ci sembra infine che la vicina scadenza elettorale rappresenti una possibilità concreta di misurare la nostra capacità di incidere sulle istituzioni, non proponendo il voto a questo o quel partito, ma imponendo l’attenzione al tema che ci ha caratterizzato in questi anni:
la difesa dei corpi dalla guerra, dalla povertà e soprattutto dal bio-potere. Intendiamo per bio-potere il potere di decidere sulla nostra sessualità, sui nostri orientamenti sessuali, sulle maternità che non vogliamo o che desideriamo. Affettuosamente
La redazione dei Quaderni Viola
























il Manifesto, 10.02.06
KOSELLECK
Nel laboratorio della storia possibile
La morte di Reinhart Koselleck. Un grande studioso di «scienza della storia» che ha indagato la crisi della scansione lineare tra passato, presente e futuro che caratterizza la modernità. Dall'illuminismo alla monarchia prussiana, una prassi teorica tesa ad affermare che la storia si colloca nel punto di convergenza di vocabolari politici messi in tensione dalla realtà sociale che vorrebbe nominare
Sandro Chignola


Reinhart Koselleck amava dire di sé che era uno storico generale. O, ancora più volentieri, di essere un profano degli studi specialistici. E' stato, probabilmente, uno degli ultimi grandi storici capaci di aderire alla richiesta di Johan Gustav Droysen, che pretendeva dallo storico uno sguardo aperto, che questi sapesse tutto e che si formasse alla sua disciplina proveniendo da studi esterni alla storia: dalla scienza politica, ad esempio. Il rifiuto dello specialismo da parte di Koselleck non era soltanto espressione di una resistenza al moltiplicarsi delle storie settoriali, ma anche il portato di una tradizione, alla quale egli è rimasto sempre interno, in grado di valorizzare gli effetti di totalizzazione ricomposti dalla scienza della storia. La sua vasta produzione si situa infatti all'incrocio di diverse discipline e muove da una riflessione teorica sulla condizioni generali di possibilità della storia. Da un lato, un'idea di struttura in cui si compendia un progetto di ricerca volto a comprendere la fenomenologia politica al di là della gabbia con cui lo stato moderno ne ha circoscritto e formalizzato i limiti. Dall'altro, un'indagine sulle categorie metastoriche trascendentali che permettono la storicizzazione la genesi stessa di ciò che chiamiamo «storia». Si potrebbe dire che Koselleck lavora in costante discussione con Carl Schmitt e Martin Heidegger.

Già nel suo primo libro, Critica illuminista e crisi della società borghese (1959) - proprio come Carl Schmitt ebbe a rilevare - Koselleck eccede i profili della storia delle idee e apre un decisivo cantiere di riflessione «metodologica». L'indagine sul pensiero illuminista viene condotta evitando di incarnarla in grandi personalità e, al contempo, concentrando l'attenzione sulla zona di scambio tra i processi sociali alimentati e tenuti in tensione dal vocabolario illuminista e il modo in cui quest'ultimo viene formandosi proprio nel concreto dei conflitti, dei compromessi e degli equilibri dinamici dell'azione e del pensiero politico.

Tra riforma e rivoluzione

Le idee dunque non agiscono nei cieli rarefatti della pura teoria. Non si connettono le une alle altre in maniera più o meno coerente offrendosi linearmente alla funzione rappresentativa dello storico. Ciò che il libro di Koselleck pone al proprio centro è al contrario la «funzione politica» assunta dal pensiero nel quadro politico che gli corrisponde. Ed in questo caso, nello spazio di neutralizzazione dell'Assolutismo.

Di qui non soltantro una tesi destinata ad un certo successo - l'illuminismo come effetto di una sfera pubblica che si consolida all'interno dei meccanismi disciplinari della monarchia, nel segreto del «privato» che questa tollera come rovescio dei dispositivi attraverso i quali monopolizza l'espressione pubblica delle idee - ma la messa in opera di una riflessione costantemente rilanciata sul rapporto tra pensiero e prassi, tra concetti e storia.

In La Prussia tra riforma e rivoluzione (1791-1848) (1967) - lo scritto di abilitazione che valse a Koselleck una cattedra di teoria politica - questa impostazione si fa ancora più esplicita. La storia dei concetti viene ricondotta, come sua variante interna, alla storia sociale. L'analisi della costituzione e del dibattito costituzionale tedesco nell'epoca delle Riforme eccede programmaticamente i confini disciplinari della storia giuridica e quelli, più ampi perché più indeterminati, della storia intellettuale. L'analisi costituzionale si fa qui analisi del processo costituzionale. Dunque Verfassungsgeschichte, cioè analisi del complesso intreccio dei fattori sociali, economici, amministrativi, ideali e politici della costituzione e non indagine sull'enunciato formale della Konstitution.

Quanto Koselleck elabora è la «soglia» (il termine è di Hans Freyer) che agisce da spartiacque dell'esperienza politica tedesca nello spazio di tensione che si allarga tra società e stato come forma specifica del processo di modernizzazione della monarchia prussiana.

La società tedesca sviluppa - tra XVIII e XIX secolo - i propri processi di innovazione economica e culturale all'interno di un guscio che tende a non corrisponderle più sul piano politico ed istituzionale. E fatica a trovare le parole per dire la sua nuova realtà. La discrasia tra il vocabolario politico dell'antica società per ceti che la monarchia ancora utilizza come suo lessico ufficiale ed i processi di dislocazione, riformulazione ed innovazione radicale che lo investono per nominare il nuovo, disegna quella zona di «convergenza» tra lingua e storia che Koselleck assume a punto focale del proprio lavoro.

L'impresa principale di cui - assieme a Otto Brunner e Werner Conze - si è fatto promotore, e cioè, il Lessico dei concetti politici fondamentali di lingua tedesca (1972-1993) - lavora nel solco di quella stessa intuizione. Da un lato, la politica pensata per come si cristallizza nei suoi usi concettuali; nelle parole per mezzo delle quali si organizza e si dice. Dall'altro, una teoria del mutamento concettuale imperniata sull'analisi dei processi di democratizzazione, temporalizzazione, ideologizzazione e politicizzazione che investono il vocabolario politico nell'epoca delle Rivoluzioni.

Quello che va in frantumi è un intero mondo intellettuale. Il dilatarsi della forbice tra «spazio d'esperienza» (descritto dai concetti e dal loro uso «contestuale») e «spazio di aspettativa» (che si apre con le filosofie della storia) inaugura la possibilità di storicizzare l'esperienza del tempo e di guadagnare la possibilità del futuro: i concetti della politica vengono piegati alla pratica politica e usati per scatenare e per vincere battaglie. Se per un lungo tratto di tempo la politica è stata pensata all'ombra del motto historia magistra vitae - e cioè nella forma della ripetizione -, la transizione tra XVIII e XIX secolo inaugura la politica moderna come progettazione e sequenzialità della prassi (la morsa stringente della futuribilità del passato), organizzazione di pratiche collettive, irriducibile polemologia.

Tra Schmitt e Heidegger

Koselleck teorico della storia si muove a quest'altezza. Tra Schmitt e Heidegger, si diceva. L'analisi storico-concettuale gli permette di pervenire, in termini filosoficamente più radicali, al cuore del nesso tra lingua e storia. Non solo nella forma dell'incrocio tra sincronia (il nesso tra il vocabolario e il suo contesto d'uso) e diacronia (l'asse della trasformazione che la storiografia è in grado di rappresentarsi come forma generale del processo) che gli permette di innovare profondamente la storia delle idee. Ma anche in quello dell'isolamento delle categorie trascendentali che rendono possibile la storia. Ogni storia possibile.

Heidegger presenta in Essere e Tempo un'ontologia fondamentale che mira tra l'altro a far derivare la storia dall'analisi esistenziale dell'«esserci finito». L'orizzonte di senso è reso possibile dalla prospettiva della morte che si affaccia come possibilità più propria per ogni singolo essere umano. Koselleck - ed in particolare nella discussione condotta con Hans Georg Gadamer alla metà degli anni `80 (raccolta in italiano in un volume dal titolo Ermeneutica e istorica), ritiene che la posizione di Heidegger sull'essere per la morte debba essere completata con la possibilità della sua azione attiva, con il poter uccidere.

Le storie degli uomini - e così l'esperienza generale della storia, che viene integralmente posta, con Carl Schmitt, sotto il segno della politica - sono caratterizzate dal fatto che essi «hanno sempre avuto come obiettivo dei loro sforzi la sopravvivenza e non solo nel quadro del dover-morire». Un gruppo si mantiene - e si dota di una memoria storica - solo nella misura in cui difende sé stesso e la propria identità contro altri uomini. La relazione fondamentale tra amico e nemico, in cui si compendia per Schmitt il criterio del politico, è per Koselleck la categoria fondamentale per mezzo della quale viene storicizzata l'esperienza collettiva del tempo.

La politica oltre lo stato

Se la storia dei concetti gli permette di de-limitare l'area di vigenza della modernità liberale - e per mezzo di ciò, di assumere la politica come qualcosa di irriducibile ad essa - la riflessione sulle condizioni di possibilità della storia, e cioè sulla morte come esperienza singolare e collettiva della finitezza, inaugura un vasto campo di ricerche ulteriori: dall'analitica degli strati di tempo (lo scorrimento, la sovrapposizione, le interruzioni dei campi semantici sedimentati come usi linguistico-concettuali dai diversi attori storici) all'iconografia, alle rappresentazioni monumentali delle identità collettive e delle memorie storiche. Gli ultimi libri e saggi di Koselleck, Zeitschichten. Studien zur Historik (2000) e Der politische Totenkult. Kriegerdenkmäler in der Moderne (1999), affrontano il nesso tra politica e storicizzazione definitivamente al di fuori ed oltre lo stato.

Reinhart Koselleck ha pensato all'incrocio tra lingua e storia una totale denaturalizzazione del tempo. La storia si fa solo nell'appropriazione politica del tempo. Come definizione e mantenimento di identità che condividono un passato e un'immaginazione del futuro. Perché la storia è una possibilità e non un destino.

Vi è probabilmente più di un riflesso conservatore, in questa teoria. Che sarebbe forse auspicabile sondare anche con il riferimento all'antropologia filosofica di Gehlen e di Plessner. Koselleck è venuto a mancare proprio quando - sullo sfondo delle retoriche identitarie dello scontro di civiltà e degli esausti dibattiti sulle radici culturali d'Europa - avrebbe potuto contribuire a definire cos'è una memoria e cos'è un'identità. Forse, potremmo dire appoggiandoci ai suoi ultimi interessi di ricerca, nulla di più di un grigio monumento ai caduti spazzato dal vento.















il Manifesto, 10.02.06
Una grande madre contro la famiglia
La scomparsa di Betty Friedan, alla vigilia del suo ottantacinquesimo compleanno. Femminista di orientamento liberale, pragmatica e riformista, autrice di un testo cruciale, «La mistica della femminilità», uscito negli Stati uniti nel 1963
Stefania Giorgi


Alla vigilia del suo ottantacinquesimo compleanno il suo cuore ha ceduto, stroncato da un infarto. Betty Friedan era nata il 4 febbraio 1921 a Peoria nell'Illinois, da una famiglia ebraica del Midwest. Porta la sua firma un libro cruciale per il femminismo - La mistica della femminilità - testo di riferimento e formazione per generazioni di donne venute dopo di lei, al pari di Il secondo sesso di Simone de Beauvoir (1949) e di altri libri, tutti datati tra gli anni `60 e `70, come La politica del sesso di Kate Millet, La dialettica dei sessi di Shulamith Firestone, L'eunuco femmina di Germaine Greer, Noi e il nostro corpo del Boston Women's Health Book Collective. Figura e testimone di passaggio tra il «prima» di Virginia Woolf e Simone de Beauvoir, e il «dopo» della seconda ondata del femminismo dal 1968 a oggi, Friedan - di orientamento liberale, pragmatica, riformista, sensibile ai diritti e all'uguaglianza - non ha mai avuto pretese di pensatrice, non ha elaborato teorie ma è stata soprattutto la straordinaria cronista del malessere delle donne americane del dopoguerra. Una saggista che, con uno stile brillante, ha contribuito a dare la sveglia alle americane, all'America intera e al mondo.

Betty Naomi Goldstein - il padre, Harry Goldstein, era un gioielliere, la madre Miriam aveva lasciato il suo lavoro di giornalista per dedicarsi alla famiglia - si era laureata in psicologia allo Smith College nel 1942 e, dopo un anno di perfezionamento a Berkeley, si era trasferita a New York. Nel 1947 si era sposata con l'impresario teatrale Carl Friedan (dal quale divorzierà nel 1969). Per i successivi dieci anni fu moglie e madre di tre figli, lavorando al contempo come giornalista freelance. Ma nella sua vita, come in quella di milioni di americane, qualcosa non quadrava. Nel 1957, Friedan decise così di inviare un questionario alle sue ex compagne dello Smith College. Chiedeva loro se erano soddisfatte della loro vita. Solo una ristretta minoranza rispose di sì. Si trattava di donne bianche, di classe media che avevano preferito per lo più abbandonare studi e carriera per realizzarsi come casalinghe. Ma si sentivano incomplete, prive di identità, ridotte a un lavoro patologicamente ripetitivo, deluse, depresse, ingannate.

«C'è un problema che per molti anni è rimasto sepolto, inespresso nella mente delle donne americane. È una strana inquietudine, un senso di insoddisfazione che la donna americana ha cominciato a provare intorno alla metà del ventesimo secolo», scrive Friedan. Uno stato di frustrazione e insoddisfazione privo di parola, «the problem that has no name».

«Il problema senza nome era condiviso da innumerevoli donne americane... ma che cos'era questo problema? Quali parole usavano le donne quando cercavano di esprimerlo? Talvolta c'era chi diceva: "Ogni tanto mi sento vuota... incompleta". Oppure: "Mi pare di non esistere"». Talvolta questa sensazione veniva annullata con un tranquillante, una nuova casa, un nuovo marito... Ma erano ormai sempre più quelle che le confessavano: «Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa».

Friedan decide allora di allargare la ricerca con altri questionari, interviste, incontri e discussioni. Il risultato della sua lunga indagine si traduce in La mistica della femminilità. Un libro potente e deflagrante, forse oltre le intenzioni della stessa Friedan. Il libro giusto al momento giusto. Scioccò l'America del baby boom, della crescita delle aree suburbane, venne riconosciuto come proprio, aderente al proprio vissuto, da milioni di donne, venne tradotto in moltissime lingue e divenne un bestseller mondiale (in Italia fu tradotto per la prima volta nel 1970 dalle edizioni di Comunità).

Friedan in quel libro parlava della donna che aveva retto l'home front ed era stata poi prontamente rimandata a casa al ritorno degli uomini in armi. Tutto doveva tornare come prima. Quale migliore destino per le donne se non quello di vestirsi, acconciarsi, cucinare, fare figli, piacere agli uomini e render loro più piacevole l'esistenza? Gloria in eterno alla femminilità domestica. Friedan denunciava con inflessibilità e preoccupazione il regresso americano: alla fine degli anni `50 l'età media del matrimonio era scesa a 20 anni e stava scendendo ancora; nel 1920 la proporzione delle donne che frequentavano il college, rispetto agli uomini, era del 47%, nel 1958 era scesa al 35. Cent'anni prima le donne si erano battute per l'istruzione superiore, ora le ragazze andavano al college per trovarvi marito. A metà degli anni `50 il 60% di loro lasciava il college per sposarsi o perché temeva che «troppa» istruzione potesse essere un impedimento al matrimonio.

La casalinga perfetta del quartiere residenziale era (o sembrava essere) l'immagine ideale delle giovani americane. Reginette incoronate con elettrodomestici fiammanti, frigoriferi, aspirapolvere, lavatrici, televisori, alle prese con peonie e bambini. Protagoniste dell'happy ending di tanti film e romanzi dell'epoca. L'essere inchiodate al ruolo eterno di seconde, come denunciava de Beauvoir, era un problema francese, non certo americano.

Friedan descrive e denuncia, ma le sue proposte di uscita dalla condizione in cui la mistica della femminilità ha cacciato le donne, spesso con il loro consenso, sono modeste e tutt'altro che radicali. Friedan ritiene infatti che per curare la «malattia» provocata dall'accettazione della triade della mistica della femminilità (marito-figli-casa) la donna deve trovarsi un lavoro fuori di casa, senza però rinnegare la famiglia. Cercando di coniugare carriera e famiglia.

Il ruolo dell'uomo, la cultura patriarcale restano in ombra. Ruolo e responsabilità che vengono invece messi in luce da Mary MacCarthy nel suo straordinario romanzo Il gruppo (scritto l'anno dopo, nel 1964) dove si intrecciano i destini di un gruppo di amiche che hanno frequentato il prestigioso Vassar College.

La tesi di Friedan era che le donne venivano spinte a credere che la felicità risiedesse nella devozione alla casa e alla famiglia, mentre - spiegava - le aspirazioni femminili non dovevano limitarsi al matrimonio e ai bambini. Nel solco di questa convinzione nel 1966, Friedan fondò, insieme ad Aileen Hernandez e Pauli Murray e a un gruppo di attiviste decise a promuovere e rafforzare il riconoscimento dei diritti civili delle donne, il Now (National Organization for Women). Di orientamento esplicitamente liberale, promotore di iniziative per modificare la legislazione per eliminare le ineguaglianze derivanti dalla differenza sessuale. Come sua presidente, Friedan condusse campagne contro la pubblicità che rafforzava le rappresentazioni convenzionali della donna, per accrescere la presenza femminile nel governo, legalizzare l'aborto, estendere la cura dei figli ai servizi sociali. Anche dopo aver lasciato la presidenza del Now, nel `70, Friedan continuò la sua battaglia: fu una delle principali promotrici del Women's Strike for Equality del 26 agosto 1970 (cinquantesimo anniversario del suffragio femminile negli Usa) e lavorò per la ratifica dell'Equal Rights Amendment alla Costituzione americana. Dal 1977 il Now fece della ratifica all'Equal Rights Amendment (Era) il suo principale obiettivo, insieme alle battaglie contro la violenza sulle donne, le discriminazione nel lavoro e la difesa della legislazione sull'aborto.

Nel 1981 pubblica il libro The second stage nel quale il suo atteggiamento ancor meno radicale e più «riformista» provocò un certo sconcerto in molte femministe. Nel novembre del 1985, Friedan pubblicò sul «New York Times Magazine» un documento politico dove, da un lato analizzava la crisi del movimento femminista americano, e dall'altro avanzava delle proposte per superarla. Tra queste, l'invito a smetterla «con l'ossessione della pornografia e affrontare la vera oscenità, che è quella della povertà». Per oltre 15 anni, dal 1975 al 1989 circa, il femminismo americano si era infatti molto concentrato intorno a un acceso dibattito sulla pornografia, con una parte schierata a sostenere che la pornografia è la causa principale della violenza sulle donne. Alla conferenza mondiale delle donne di Pechino, nel 1995, Friedan aveva denunciato la degradante e stereotipata immagine delle donne che i media continuano a proporre e la condizione di miseria di tante donne del terzo mondo e di tante nere americane. Nel 1993, quando aveva già varcato la barriera dei 70, aveva applicato la lezione femminista del «partire da sé», alla propria vecchiaia, L'età da inventare (pubblicato in Italia da Frassinelli).

Ma Betty Friedan resterà per tutte noi la donna capace di squarciare il velo di una rappresentazione falsa e mortificante, di un altarino familistico che in cambio domandava (e domanda) l'annullamento di desideri e capacità femminili. Di aver saputo offrire alle donne le parole per nominare abissi di depressione e cupezza e scommettere nella propria libertà. Per una di quelle strane coincidenze che la storia spesso ci pone dinnanzi, La mistica della femminilità uscì lo stesso anno in cui, dopo aver riordinato la casa e accompagnato i figli a scuola, Sylvia Plath si toglieva la vita.


































Il Giornale, 08.02.06
Il male di vivere L’infelicità di essere uomini

Magro, capelli neri, pelle scura, testa inclinata, la bocca contratta in una smorfia. È il ritratto del melancolico secondo Galeno, medico del II secolo dopo Cristo. Il melancolico: ovvero colui nel quale, tra gli umori corporei, prevale la bile nera (melaina cholé, in greco) che la scienza antica riteneva responsabile degli stati di malessere psichico. Altri chiamavano in causa l'influenza nefasta di Saturno, mentre in età cristiana la malinconia sarà inglobata nel vizoi capitale dell'accidia, un'eredità del peccato originale che porta l'uomo a infiacchirsi tra pensieri vaghi e volontà incerte. Sarà così che, attraverso la noia e lo spleen dei romantici e dei decadentisti, si arriverà infine al «male del secolo» (scorso e presente): la depressione. Che però non è il frutto dei tempi moderni ma l'ultimo nome di un mal di vivere millenario. Solo che oggi la società dell'euforia, la civiltà dei consumi e dello spettacolo, impone il quasi dovere dell'allegria. E il depresso è uno scandalo, un intralcio che va rimosso a colpi di pillole e psicoterapie. Questa la tesi del libro di George Minois Storia del mal di vivere. Dalla malinconia alla depressione (edizioni Dedalo, pagg. 346, euro 25): una difesa delle severe ragioni dei depressi contro la tirannia di un edonismo citrullo e contro l'illusione che esista una terapia per il mal di vivere.
Che l'umanità non abbia mai avuto grandi motivi per essere allegra, va da sé. Ma sono i greci i primi a individuare le manifestazioni patologiche di questo senso di infelicità.
La malinconia è una malattia che provoca, come già scriveva Ippocrate, il padre della medicina, nel IV secolo a.C., «ansia e abbattimento costanti», «insonnia, irritabilità, agitazione», ma anche calvizie o balbuzie. Fin dall'inizio essa appare come una patologia che può e deve essere curata. I rimedi consigliati a volte sono molto semplici ma di innegabile efficacia: mangiare meglio e fare l'amore più spesso (gli antichi peraltro concordano nel fatto che il malinconico sia per natura un lussurioso). La malinconia però è anche il segno di una particolare acutezza e sensibilità. «Coloro la cui intelligenza è molto sottile e penetrante scivolano facilmente nella malinconia, poiché agiscono con rapidità e sono fervidi di immaginazione», scriveva Rufo di Efeso, un medico di età romana. Osservazione già contenuta in un trattato attribuito ad Aristotele: «Tutti gli uomini che furono eccezionali in filosofia, in politica, in poesia o nelle arti erano manifestamente malinconici».
C'è dunque una malinconia indotta dalle circostanze esterne, su cui il medico deve intervenire, e una malinconia innata, che è segno di un'indole più acuta. Saturno (Kronos, in greco), il pianeta che secondo gli astrologi governava i malinconici, è del resto capace di produrre apatia e tristezza ma è anche simbolo della contemplazione e della speculazione intellettuale. Per quanto la malinconia non sia sempre appannaggio del saggio: c'è uno stato di ansia, di inquietudine, di fastidio per se stessi che - scrive Seneca - caratterizza molti uomini annoiati.
Come quelli che, per distrarsi, passano da una viaggio all'altro, ma senza successo, perché ovunque vadano portano dietro se stessi. E qui la Roma imperiale prefigura già la dimensione del nostro turismo di massa.
Il Medioevo conobbe molti malinconici, da Papa Gregorio Magno fino a Petrarca. L'accidia, versione cristiana della malinconia pagana, allignava soprattutto tra i monaci. San Tommaso la descrive così: «È una tristezza opprimente che produce nell'animo dell'uomo una depressione tale per cui non si ha più voglia di fare nulla».
Per certi versi era un male necessario, che si accompagnava allo stato di peccato dell'uomo, ma il buon cristiano era comunque chiamato a combatterlo. Gli umanisti invece recuperano l'idea aristotelica della malinconia come segno di distinzione, pur conoscendone gli effetti dolorosi. Marsilio Ficino si descrive sempre agitato, inquieto: «Riteniamo di poter scacciare la tristezza nascosta nel nostro animo tramite gli svaghi e la frequentazione con altri uomini. Ahimé, ci sbagliamo. Nel bel mezzo dei divertimenti spesso sospiriamo e, alla fine della festa, ce ne andiamo più tristi di come ci eravamo venuti». L'iconografia di Kronos (il dio Saturno, nume dei malinconici) si sovrappone a quella di Chronos (il demone del tempo): la malinconia diventa angoscia del tempo che passa, resa poi quasi tangibile dall'invenzione dell'orologio meccanico. Fioriscono studi come L'anatomia della Malinconia di Robert Burton, pubblicata pochi anni dopo che William Shakespeare ha mandato in scena il suo Amleto, icona di tutti i malinconici.
I romantici, i maledetti, i decadentisti cercheranno nelle droghe la consolazione rispetto a un dolore senza nome e senza ragione, battezzato come noia o come spleen. Ma proprio nell'Ottocento, le magnifiche sorti e progressive della nascente civiltà industriale iniziano a produrre la demonizzazione della malinconia. Il medico alienista Brierre de Boismont scrive nel 1856 che ogni tristezza può essere vinta con il lavoro: «La pigrizia è causa frequente di morte volontaria». La malinconia non c'è più.
Al suo posto c'è la nevrastenia, una debolezza che va curata e superata da una società operosa. Invano il geniale (e malinconico) Kierkegaard scriverà che «il lavoro può far scomparire l'ozio ma non la noia».
Emile Durkheim, nel suo saggio Il suicidio (1897), sosterrà che una società euforica non è sana. Charles Péguy rileverà sarcasticamente, all'alba del XX secolo, il grottesco tentativo di rimuovere ogni senso tragico dell'esistenza: «Come un cristiano si prepara alla morte, il moderno si prepara alla pensione».
Ma ora siamo ritornati a quella demonizzazione della malinconia che caratterizzò l'epoca delle prime macchine a vapore. La mistica del lavoro è stata sostituita da quella del tempo libero, ma la tristezza resta una devianza, l'euforia lo stato naturale. La società ci vuole tutti allegri e garruli, psicanalisi e antidepressivi sono accessori di massa. Chi non si svaga è perduto






























la Repubblica, 09.02.06
Un articolo sulla stampa Usa punta il dito contro il degrado dello storico sito romano. Vi sono sepolti i poeti Keats e Shelley
Il Nyt: "Rischia di scomparire il cimitero dei poeti a Roma"
All'ombra delle Mura Aureliane il camposanto degli acattolici
di Rosaria Amato


ROMA - Non ci sono solo stranieri, ci sono sepolti anche Antonio Gramsci, Carlo Emilio Gadda, Dario Bellezza, ma il cimitero acattolico di Roma è caro particolarmente ai Paesi anglosassoni. Ed ecco probabilmente perché a denunciare lo stato di degrado del monumento all'ombra delle Mura Aureliane sono stamane il New York Times e l'International Herald Tribune.

L'articolo è il medesimo, firmato da Elisabeth Rosenthal. Il titolo cambia: "Il cimitero dei poeti è in crisi" sul New York Times, "Un piccolo paradiso che scivola via" sull'Herald Tribune.

Al cimitero degli acattolici di Roma, ricorda Rosenthal, sono sepolti, tra i tanti, i poeti Shelley e Keats, la famiglia Bulgari, l'unico figlio di Goethe, il padre fondatore del comunismo europeo Antonio Gramsci, decine di diplomatici. Potrebbe essere il Père Lachaise (il cimitero parigino degli artisti) di Roma, ma soffre per una cronica mancanza dei fondi necessari al suo mantenimento ottimale.

"Oggi questa preziosa parte di paradiso - si legge nell'articolo - è in decadenza e in crisi finanziaria, tanto da essere stato recentemente aggiunto alla 'World monument fund's 2006 watch list' che comprende i cento siti più a rischio estinzione della terra. Parte dei problemi del cimitero, fondato nel 1734, derivano dal fatto che è da sempre stato considerato come un qualcosa di estraneo in una città cattolica come Roma, dove il Vaticano per tradizione ha sempre pagato i più costosi lavori pubblici. Oggi però neanche il governo italiano lo ritiene degno di un aiuto finanziario. Per questo il sito è gestito da una commissione volontaria di ambasciatori stranieri a Roma. Ma anche questa struttura creata appositamente non ha le risorse finanaziarie necessarie al suo mantenimento".

Tuttavia sul sito del cimitero si mostrano le immagini di un recente restauro, avvenuto nel 2000, e che ha avuto per oggetto sia alcune tombe di particolare importanza che alcuni reperti di epoca romana.

"Ci si potrebbe innamorare della morte, pensando di poter essere sepolti in un luogo così dolce", scriveva Shelley. Forse anche adesso che il cimitero sta morendo a poco a poco, con la vegetazione selvatica che cresce indisturbata. "Sembra bello e romantico, ma le lapidi stanno cadendo a pezzi", denuncia Valerie Magar, una specialista nella conservazione dei beni culturali del Centro per lo Studio e la Conservazione e il Restauro dei beni Culturali dell'Onu.

"Questo è un sito che richiede molte cure - spiega ancora l'esperta - ma il loro costo va oltre il budget del cimitero". Anche perchè, rimprovera l'autrice dell'articolo, non ci sono contributi da parte italiana. I visitatori sono invitati all'ingresso a dare un contributo, ma evidentemente neanche questo è sufficiente. E così quello che lo scrittore Oscar Wilde definì "il luogo più sacro di Roma", rischia di precipitare nel degrado.



AprileOnLine, 09.02.06
L'ammonimento pugliese all'Unione
Società. La ricostruzione dell'iter di approvazione del ddl che ha esteso i diritti della famiglia alle coppie di fatto
A. Not.



Il ddl sulla famiglia pugliese che ha esteso i diritti - da sempre specificità della famiglia tradizionale - a tutti i nuclei di persone stretti da vincoli solidaristici, incluse le coppie di fatto etero e omosessuali, arriva in Giunta regionale il 18 gennaio scorso. L’ autrice Elena Gentile, Assessora diessina alle politiche sociali, fin da subito sente il bisogno di fare alcune precisazioni: “Non miniamo la famiglia tradizionale, ma cerchiamo di andare incontro a tutte le famiglie, soprattutto a quelle in difficoltà, a quelle che affrontano, ad esempio, problemi di povertà o legati alla non autosufficienza”. “Non tocca a noi – continua la Gentile - normare i pacs; non è a livello regionale che questo deve avvenire, lo sappiamo bene. Ma vogliamo che altre forme di convivenza vengano in qualche modo tutelate con servizi sociali adeguati”.
Scoppia la bagarre. Insorge il centrodestra: "Caro presidente Vendola – dichiara Angelo Cera capogruppo dell’Udc in regione - sono le famiglie da aiutare e subito e dispiace che gli unici a non accorgersene siano proprio quelli della Margherita e dell'Udeur a cui, evidentemente, non interessano più le parole della chiesa pugliese e di monsignor Cosmo Francesco Ruppi. Al posto loro mi vergognerei”.

In questo modo viene tirato dentro la vicenda il presidente della Conferenza episcopale pugliese, già tristemente famoso per le vicende che l’hanno visto coinvolto nell’arresto di don Angelo Lodeserto, lo scorso 11 marzo. Il sacerdote era direttore del Cpt “Regina Pacis” di San Foca a Melendugno (Lecce). Il centro dipendeva dalla curia della provincia pugliese, a capo della quale c’era appunto monsignor Cosmo Francesco Ruppi. Il rapporto tra quest’ultimo e il presidente Nichi Vendola è sempre stato di evidente ostilità.
Dopo che Nichi Vendola aveva criticato apertamente Camillo Ruini sui Pacs, il monsignore si era espresso in questi termini: “Non è nostra intenzione entrare in polemica con chi, pur dichiarandosi cattolico, si scosta visibilmente dall'insegnamento della Chiesa in materia di famiglia, di etica e di costumi sessuali, ma non è possibile essere cattolici e disattendere il magistero”. “Non si può essere cattolici a metà. O lo si è o non lo si è”, aveva aggiunto il prelato.
Il no politico al ddl sulla famiglia di Ruppi quindi, poteva indurre partiti cattolici come la Margherita e l’Udeur a privare l’Esecutivo regionale del proprio sostegno.

Il ddl ha rischiato seriamente di arenarsi. L’approvazione in prima istanza di questo disegno di legge, il 23 gennaio scorso, è così slittata al 6 febbraio. L'attrito con la Margherita era dovuto all’art.22, più precisamente al punto che definiva come nucleo familiare: “la famiglia di diritto e l'unione di fatto quali insiemi di persone legate rispettivamente da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela e da altri vincoli affettivi, aventi una convivenza abituale e continuativa e dimora abituale nello stesso Comune”. Questo è il momento in cui si è rivelata determinante l’opera negoziale di Guglielmo Minervini, Assessore alla trasparenza, in quota Margherita ed ex sindaco di Molfetta, cresciuto nella diocesi di Don Tonino Bello, il fondatore di Pax Christi, a cui lo stesso Nichi Vendola ha, negli anni scorsi, aderito.

Le indiscrezioni dicono che Minervini, da profondo conoscitore del cattolicesimo pugliese e dei suoi meccanismi interni, si sia recato a Lecce per incontrare monsignor Ruppi. Nelle segrete stanze della curia l’Assessore ha raggiunto il compromesso. Il prelato ha fatto un passo indietro. Non ci è dato sapere quali argomentazioni abbia utilizzato Minervini. Di sicuro, però, sono state efficaci.
La formulazione dell’art.22 in discussione è cambiata, ma non in modo sostanziale: le “unioni di fatto” sono state sostituite da “unioni solidaristiche”. Non si parla più, quindi, esplicitamente, come nella prima stesura, di unioni di fatto, eterosessuali e omosessuali, ma, in pratica, di realtà di fatto in cui ci sono elementi di solidarietà tra le persone. La sostanza non cambia. La Puglia migliore ha vinto.












































il Manifesto, 08.02.06
UNA VECCHIA ENCICLICA
di Rossana Rossanda


Molti commentatori, amici ed amiche presumibilmente non credenti, sono rimasti positivamente colpiti dalla prima Enciclica di Benedetto XVI come un invito all’amore quanto mai attuale in un mondo tutto intriso d'odio. Non credo che vada letta così. Se nel preambolo si dichiara che nessuna guerra può essere fatta in nome di Dio, ed è un passo avanti rispetto alle ancora recenti guerre giuste, questo è anche il solo passo avanti, mentre l'asse della lettera più volte ribadito è un rigido alt messo alla secolarizzazione che avevamo salutato nel Concilio Vaticano Il. Amatevi, dice Ratzinger, ma sappiate che ogni amore è impuro, salvo quello di Dio per noi e noi per Dio o fra noi in Dio. Non ce n'è un altro che non sia imperfetto e per natura degenerativo. Benedetto XVI fa qui un passo indietro perfino dalla lezione paolina, che riconosce dignità e valore anche ad aspetti prettamente e solamente umani. Quel che nella prima lettera di Giovanni, più volte richiamata, è un canto tutto indirizzato alla fraternità con l’altro, l'estraneo, o perfino mortalmente colpevole, qui diventa una barriera contro l'amore puramente terreno traversato dalla sessualità. Una chiusura totale alla problematica del moderno e dell’umano in quanto umano.

Toccherà ai teologi discernere i fili dell'argomentazione sottile, talvolta causidica, di Ratzinger. Ma intanto il non credente non ha di che estasiarsi, esimendosi dal coglierne l'intenzione centrale che è tutta politica — in senso pieno e perfino nobile della parola — e si allinea alla tradizione più retriva ottocentesca della chiesa di Roma. L'inizio — un po' filosofico scrive Ratzinger, un po’ filologico diremmo noi — sul significato della parola «amore» in greco e nella cultura cristiana la definisce la prima eros come desiderio egoista o ricerca per sé, per un proprio bisogno mentre la seconda agape sarebbe tutta volta al bene e al bisogno dell’altro, amore perfetto. L'eros è declassato a mero egoismo, a mera materialità del corpo (la psiche nella lettera non ha posto), tendente alla degenerazione e alla mercificazione, il cui simbolo sarebbe la prostituzione sacra. L'Enciclica non concepisce un rapporto con l'altro che non passi attraverso la purificazione, parola continuamente ripetuta, dell'amore di Dio e in Dio. Quasi che il corpo porti in sé indelebile come il peccato un originale perversità. Dio amerà l'uomo, ma Ratringer certamente no. Allora è più toccante e persuasiva la disperazione del mondo e propria di Agostino, che l'attuale papa non condivide, in quanto sicuro che con l'ascesi e secondo il magistero della chiesa ogni cattolico può trascendere se stesso. Se non vi riesce cade fuori dalla salvezza, o almeno dalla mente pedagogica dell'attuale pontefice.

Ne consegue che la sola unione possibile è fra un uomo e una donna in forma «esclusiva» e «per sempre», come il patto di Javeh con Israele, lui sposo sapiente, lei facilmente infedele che soltanto dalla generosità di lui può essere «perdonata». Il matrimonio non è che il riflesso del nocciolo fondamentale delle religioni monoteiste: amare Dio, un solo Dio e per sempre. Impensabile dunque il divorzio, impensabile l'unione precaria, neanche evocata l'unione fra due creature del medesimo sesso, impura ogni relazione non consacrata dal sacramento. Ratzinger erige un baluardo granitico contro le conquiste già avvenute nel diritto civile e quelle che, come i Pacs che hanno già preso piede in Francia e in Italia, minacciano anche il nostro paese.

La seconda parte dell’Enciclica rivendica il magistero della chiesa anche come istituzione e nelle forme che ha preso dalla donazione costantiniana in poi. Neanche pensare a una ridiscussione del Concordato. Non che la chiesa faccia politica in prima persona, ma ha diritto e dovere di indicare ai fedeli come la devono fare. Siamo lontani dal «non expedit». Adesso i cattolici sono chiamati ad impegnarsi contro le imminenti o già avvenute degenerazioni dei rapporti fra gli uomini, come appunto fa il cardinal Ruini. Anche in tema di giustizia: neanche essa può essere raggiunta soltanto dall'umanità, come si sono arrogantemente permessi di dire l'illuminismo e il marxismo. Perché è vero che il mondo è pieno di ingiustizie, ma è un errore fatale credere che gli uomini possano ridurle, mentre possono soltanto alleviarle con la carità, prima di tutto fra i membri della comunità dei fedeli. «Per la verità», ammette Ratzinger, il cristianesimo degli inizi voleva la partecipazione comunitaria dei beni, ma questo «con il crescere della chiesa non è stato più possibile». Per la verità chi o che cosa lo avrebbe reso impossibile? Forse il primato che il sacerdote deve assicurare ai sacramenti e alla liturgia rispetto al dovere di soccorrere gli infelici? Tanto che deve delegare questo secondo compito ai diaconi? Ma è una domanda maliziosa. Resta che l'enciclica assume come proprio il concetto avanzato anche dalla Commissione europea di sussidiarietà: arrivi l'istituzione pubblica soltanto dove il singolo o l'associazionismo privato, nel quale la chiesa ha un peso rilevante, non arriva. E ci si guardi bene dall'interrogare Dio sul male o le ragioni della sofferenza e delle ingiustizie. Questo non è lecito, come dimostra il Libro di Giobbe. Se lo tenga per detto, par di capire, anche chi si è chiesto: ma quale Dio dopo Auschwitz?

Insomma l'Enciclica ci deresponsabilizza di tutto fuorché dalla necessità di trascenderci nella volontà divina, che è imperscrutabile. Ci pare di averlo già sentito dire dal nostro parroco quando eravamo bambini.