sabato 29 aprile 2006

La Repubblica - 19.04.2006
Roma - Rinasce piazza San Cosimato. Trastevere, 14 mesi di lavori. Il restauro è costato 2,3 milioni
di Gabriele Isman


È stata la piazza dove nacque Alberto Sordi; ora rinascerà, e sarà inaugurata il 28 aprile dal sindaco Veltroni, dopo i lavori durati 14 mesi. «Piazza San Cosimato - spiega Roberto Morassut, assessore Ds all'Urbanistica - è stata riqualificata con un progetto selezionato attraverso un concorso internazionale». Un appalto da 2,3 milioni di euro, per risistemare l'area del mercato coperto, aumentare illuminazione e piantumazioni e sistemare gli spazi pubblici, «partendo - spiega Morassut - dai giochi per bambini e valorizzando il sito Protiro, ossia l'ingresso del convento dei santi Cosma e Damiano che risale al XIII secolo, e spesso sconosciuto anche ai trasteverini più radicati».

Per lo spazio rinnovato, un modello innovativo: «Avremo - spiega Morassut - un comitato per piazza San Cosimato che lavorerà d'intesa con assessorato all'Urbanistica, Gabinetto del sindaco, I municipio e dipartimento per la Cultura. Sarà guidato dalle associazioni di commercianti e ristoratori di Trastevere e si occuperà di manutenzione, vigilanza e promozione culturale della piazza». Presidente del comitato sarà Alberto Ciarla, ristoratore di san Cosimato. «Anche a piazza delle Coppelle - ricorda Giuseppe Lobefaro, presidente del municipio I - i commercianti si sono uniti per un progetto unitario di occupazione suolo pubblico, e il municipio sta per varare una delibera per la massima occupabilità di san Cosimato».
Nei 14 mesi di lavori qualche intoppo c'è stato: «È stato - prosegue Morassut - un cantiere difficile: grande lavoro di progettisti, amministrazione e operai, più di qualche problema con l'impresa che non sempre ha rispettato il cronoprogramma. Ma alla fine quella che non era una piazza, ma uno spazio disadorno di macchine, banchi di mercato vecchi, arrugginiti e sporchi e pochi spazi per bambini privi di sicurezza, diverrà finalmente una vera piazza popolare e pedonalizzata, eccezion fatta per il carico e scarico merci e per gli autoveicoli autorizzati».
Karl Marx
Lettera al padre (1837)


Berlino, 10 novembre (1837)

Caro Padre!
ci sono momenti della vita, che si piantano come regioni di confine davanti ad un tempo trascorso, ma al tempo stesso indicano con precisione una direzione nuova.
In un tale punto di passaggio ci sentiamo spinti a considerare con l'occhio aquilino del pensiero il passato e il presente, per attingere cos1 la coscienza della nostra reale posizione. Si, la stessa storia del mondo ama un tale sguardo retrospettivo e si osserva, ciò che poi le imprime spesso l'apparenza della retrocessione e dell'arresto, mentre essa si getta soltanto sulla poltrona, per comprendersi, per penetrare spiritualrnente la propria opera, l'opera dello spirito. Ma in tali momenti l'individuo diviene lirico, perché ogni metamorfosi è in parte canto di un cigno, in parte ouverture di un grande nuovo poema, che cerca di procurarsi un contegno in colori lucenti, ancora confusi; e tuttavia noi vorremmo elevate un monumento a ciò che si è una volta vissuto; questo deve riguadagnare nel sentimento il posto che ha perduto dal punto di vista dell'azione, e dove troverebbe un asilo più sacro che nel cuore dei genitori, il giudice più benevolo, colui che più profondamente s'interessa a noi, il sole dell'amore il cui fuoco riscalda il centro più intimo dei nostri sforzi! Come potrebbe qualcosa di odioso, di biasimevole, ottenere la sua composizione, il suo perdono, altrimenti che diventando la manifestazione di uno stato essenzialmente necessario? Come potrebbe lo spesso sfavorevole gioco del caso, dello smarrimento spirituale, essere sottratto almeno al rimprovero di un cuore mal fatto? Se dunque, alla fine di un anno vissuto qui, io getto uno sguardo indietro sugli avvenimenti di esso e cosi rispondo, mio caro Padre, alla Tua così cara, cara lettera da Ems, mi sia consentito di esaminare la mia situazione, come io considero la vita in generale, quale espressione di un agire spirituale che modella la sua forma in tutte le direzioni, nella scienza, nell'arte, nelle situazioni private. Quando Vi ho lasciato era sorto per me un nuovo mondo, il mondo dell'amore, e di un amore, certo, all'inizio ebbro di struggimento, privo di speranza. Anche il viaggio verso Berlino che, altrimenti, mi avrebbe incantato al massimo grado, mi avrebbe sollevato alla contemplazione della natura, mi avrebbe infiammato di gioia di vivere, mi lasciò freddo, anzi mi mise straordinariamente di malumore, perché le rocce che io vedevo non erano più aspre e più fiere dei sentimenti della mia anima, le grandi città non più vive del mio sangue, i tavoli delle osterie non più sovraccarichi, non più indigeribili dei pacchi di illusioni che io portavo, e l'arte infine non era bella come Jenny.
Giunto a Berlino, ho rotto tutti i legami che avevo avuto fino allora, ho fatto di malavoglia rare visite e ho cercato di immergermi tutto intero nella scienza e nell’arte.
Secondo quello che era allora lo stato del mio spirito la poesia lirica doveva essere necessariamente il primo argomento, perlomeno il più gradevole, il più immediato, ma, come comportavano la mia situazione e tutto il mio sviluppo anteriore, questa poesia era puramente idealistica. Un al di là altrettanto lontano quanto il mio amore, divenne il mio cielo, la mia arte. Ogni realtà svanisce, e tutto quel che svanisce non trova limiti, attacchi contro il presente, sentimento espresso in maniera prolissa ed informe, niente di naturale, tutto costruito a partire dal mondo della luna, la piena opposizione di ciò che è e di ciò che deve essere, riflessioni retoriche invece di pensieri poetici, ma forse anche un certo calore del sentimento e un lottar alla ricerca di vivacità caratterizzano tutte le poesie dei primi tre volumi che Jenny ha ricevuto da me. Tutta l'ampiezza di uno struggimento che non vede limiti si dibatte in forme molteplici e fa del «far poesia» («Dichten», condensare) una «effusione» («Breiten», effondere). Ora, la poesia poteva e doveva essere solo un accompagnamento; io dovevo studiare giurisprudenza e mi sentivo spinto soprattutto a lottare con la filosofia. Le due tendenze furono unificate in modo tale che in parte trattai Heineccius, Thibaut e le fonti del tutto acriticamente, solo scolasticamente (cosi per esempio tradussi in tedesco i due primi libri delle Pandette), in parte cercai di attuare una filosofia del diritto nel campo del diritto. Come introduzione feci precedere alcune frasi metafisiche e portai questa infelice opera fino al diritto pubblico, un lavoro di circa 300 fogli... Soprattutto risaltava qui in modo assai fastidioso la stessa opposizione della realtà e del dover essere che appartiene all'idealismo e che era la matrice della susseguente inutile, falsa partizione. In primo luogo veniva quella che io avevo benignamente battezzato metafisica del diritto, cioè principi, riflessioni, determinazioni concettuali, separata da tutto il diritto reale e da ogni forma reale del diritto, come accade in Fichte, solo, in me, in modo più moderno e più carente di contenuti. Inoltre vi era la forma non scientifica del dogmatismo matematico, in cui il soggetto si muove intorno alla cosa, raziocina di qua e di là, senza che la cosa stessa si dia forma come una ricca entità in sviluppo, come una entità vivente; questo era fin dall'inizio un ostacolo per la comprensione del vero. Il triangolo lascia che il matematico costruisca e dimostri, rimane pura rappresentazione nello spazio, non si sviluppa a niente di ulteriore, lo si deve portare vicino a qualcos'altro, allora assume altre posizioni, e questa diversità, applicata allo stesso soggetto che viene trasportato, dà a questo diversi rapporti e diverse verità. Al contrario nella concreta espressione del mondo vivente del pensiero, come è il diritto, lo Stato, la natura, tutta la filosofia, qui l'oggetto deve essere ascoltato nel suo sviluppo, partizioni arbitrarie non possono essere introdotte, la ragione della cosa (Dinges) stessa deve svolgersi progressivamente come una entità in sé contraddittoria e trovare in sé la sua unità. Come seconda sezione seguiva poi la filosofia del diritto, cioè, secondo la mia concezione di allora, la trattazione dello sviluppo del pensiero nel diritto positivo romano, come se il diritto positivo nel suo sviluppo di pensiero (intendo dire non le sue determinazioni puramente finite) potesse essere in generale una qualsiasi cosa diversa dalla formazione del concetto giuridico, che già la prima parte doveva comprendere.
Avevo per di più diviso ancora questa sezione in dottrina formale e dottrina materiale del diritto, di cui la prima doveva descrivere la pura forma del sistema nella sua successione e nella sua connessione, la partizione e l'estensione del sistema; la seconda invece doveva descrivere il contenuto, il concretarsi della forma nel suo contenuto. Un errore, che io ho in comune con il signor Savigny, come pin tardi ho trovato nella sua dotta opera sulla proprietà, solo con la differenza che egli chiama determinazione concettuale formale «trovare il posto che prende quella determinazione concettuale e la dottrina nel (fittizio) sistema romano»; e determinazione materiale «la dottrina del positivo, ciò che i Romani hanno aggiunto ad un concetto così fissato»; mentre io ho inteso per forma l'architettonica necessaria delle formazioni del concetto, per materia la necessaria qualità di queste formazioni. Il difetto stava in ciò, che io credevo che l'una potesse e dovesse svilupparsi separata dall'altra, e così non ottenevo alcuna forma reale, ma una scrivania con cassettini in cui poi gettavo della sabbia. Il concetto è, certamente, ciò che media tra forma e contenuto. In uno svolgimento· filosofico del diritto l'uno deve dunque venir fuori nell'altro; la forma può essere certamente solo il procedere del contenuto. Così dunque giunsi ad una partizione, quale l'argomento poteva delinearla al massimo per la facile e superficiale classificazione, ma lo spirito del diritto e la sua verità scomparivano. Tutto il diritto si divideva in contrattuale e non contrattuale. Mi permetto di presentare qui, per una migliore rappresentazione in forma concreta, lo schema (del mio lavoro) fino alla partizione dello ius publicum, anch'esso elaborato nella parte formale.

I. ius privatum
II ius publicum
I. ius privatum
a) Del diritto privato contrattuale condizionato,
b) del diritto privato non contrattuale incondizionato.
A. Del diritto privato contratto condizionato
a) Diritto personale. b) Diritto sulle cose. c)
Diritto personalmente materiale.
a) Diritto personale

I. Dal contratto oneroso, II. Dal contratto di garanzia III. Dal contratto vantaggioso.
I. Dal contratto oneroso
2. Contratto di società (societas). 3. Contratto di appaltamento (locatio conductio).

3. Locatio conductio.
1. In quanto si riferisce alle operae.
a) Vera e propria locatio conductio (non s'intende né il dare a nolo né l'appaltare romano!).
b) mandatum.
2. In quanto si riferisce all'usus rei.
a) Sui terreni: Usufructus (anche non nel significato puramente romano).
b) sulle case habitatio.

I I. Da! contratto di garanzia
1. Compromesso o contratto di comparazione.
2. Contratto di assicurazione.

III. Da contratto vantaggioso.
2. Contratto di approvazione.
1. Fidejusso. 2. Negotiorum gestio.
3. Contratto di donazione.
1. .donatio. 2. gratiae promissum
b) Diritto sulle cose.

I. Dal Contratto oneroso.
2. permutatio stricte sic dicta.
1. vera e propria permutatio. 2. mutuum (usurae).
3. emptio venditio.

II. Dal contratto di garanzia.
pignus

III. Da contratto vantaggioso.
2. commodatum. 3. depositum.


Devo riempire oltre i fogli con cose che io stesso ho respinto? Partizioni tricotomiche attraversano il tutto, il quale è scritto con stancante prolissità e si abusa nel modo più barbaro delle rappresentazioni (giuridiche) romane, per farle entrare a forza nel mio sistema. D'altro lato così ho acquistato piacere e sguardo sintetico nei riguardi della materia, almeno in un certo modo. Alla conclusione del diritto privato, materiale io vidi la falsità del tutto, che nello schema fondamentale è vicino a quello kantiano, nello svolgimento se ne allontana completamente, e di nuovo mi divenne chiaro che non ci si dovesse addentrare nella materia senza filosofia. Così ho potuto ancora una volta gettarmi con buona coscienza nelle sue braccia, e ho scritto un nuovo sistema fondamentale metafisico, alla cui conclusione fui costretto ancora una volta a riconoscere l'assurdità e l'assurdità di tutti i miei sforzi precedenti. Intanto mi ero fatta la consuetudine di prendere appunti da tutti i libri che leggevo, dal «Laocoonte» di Lessing, dall'«Erwin» di Solgers, dalla storia dell'arte di Winckelmann, dalla storia tedesca di Ludens, e di scribacchiarvi accanto delle riflessioni. Al tempo stesso traducevo la Germania di Tacito, i libri tristium di Ovidio e cominciavo a studiare in privato, cioè su grammatiche, l'inglese e l'italiano, cosa in cui non ho finora ottenuto nulla; lessi il diritto criminale di Klein e i suoi Annali e tutte le più recenti opere letterarie; certamente queste ultime le leggevo a parte.
Alla fine del semestre cercai di nuovo le danze delle Muse e la musica del satiro, e già in quest'ultimo quaderno che Vi ho inviato, l'idealismo passa attraverso l'umorismo sforzato («Scorpion e Felix»), attraverso un fallito dramma fantastico («Oulanem»), finché alla fine si rovescia del tutto e trapassa in pura arte formale, per lo più senza oggetti capaci di ispirare, senza vivace movimento di idee. Eppure queste ultime poesie sono le uniche in cui mi sia balenato di fronte improvvisamente come per un colpo di bacchetta magica - oh! il colpo fu al principio tale da sbalordire - il regno della vera poesia come un lontano palazzo di fate, e tutte le mie creazioni si dissolse:o nel nulla. Che in queste molteplici occupazioni nel corso del primo semestre molte notti dovevano essere passate vegliando, molte battaglie dovevano essere combattute, molte eccitazioni interne ed esterne dovevano essere patite, che io alla fine non ne uscivo molto arricchito, che intanto avevo trascurato natura, arte, mondo, che avevo perso gli amici, questa riflessione sembrò farla il mio corpo; un medico mi consigliò la campagna e così per la prima volta capitai, attraversata tutta la lunga città, fuori della porta verso Stralow. Non sospettavo che io là avrei maturato una robusta saldezza del corpo, da un essere anemico, languente quale ero. Un velo era caduto, il mio sacrario era distrutto, e nuovi dei dovevano essere introdotti. Dall'idealismo, che io, detto di passata, confrontavo e avvicinavo al kantismo e al fichtismo, giunsi a questa esigenza: cercare l'idea nel reale stesso. Se gli dei avevano vissuto prima sulla terra, ne erano ora diventati il centro. Avevo letto frammenti della filosofia di Hegel, la cui grottesca melodia rupestre non mi era piaciuta. Ancora una volta volli immergermi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale altrettanto necessaria, concreta e solidamente fondata quanto la natura fisica, di non esercitare più l'arte della finzione, ma di portare la pura perla alla luce del sole. Scrissi un dialogo di circa 24 fogli: «Cleante, o del punto di partenza e necessario progresso della filosofia». Qui si congiungevano in certo qual modo arte e scienza, che si erano del tutto staccate, e come un robusto viandante ho proceduto nell'opera ad uno sviluppo filosofico-dialettico della divinità, in quanto questa si manifesta come concetto in sé, religione, natura, storia. La mia ultima frase era l'inizio del sistema hegeliano e questo lavoro, per il quale acquistai una certa conoscenza della scienza naturale, di Schelling, della storia, che mi causò infiniti mal di capo e che fu scritto (poiché doveva essere propriamente una nuova logica) in modo tale che anche adesso posso appena tornare a pensarci, questo mio figlio prediletto, allevato al chiaro di luna, mi porta come una falsa sirena nelle braccia del nemico. Dal dispiacere non potei pensare assolutamente nulla per alcuni giorni; come un pazzo correvo qua e là e nel giardino lungo le acque sporche dello Spree «che lava le anime e annacqua il tè», andai persino ad una partita di caccia con il mio padrone di casa, corsi a Berlino e volevo abbracciare ogni mendicante. Poco più tardi mi sono rivolto a studi soltanto positivi, allo studio della «Proprietà» di Savigny, di Feuerbach e del diritto criminale di Grolmann, del De verborum significatione di Cramer, del sistema delle Pandette di Wcning-Ingenheims, di Mulenbruch: Doctrina Pandectarum, su cui studio ancora a fondo; infine di singoli titoli, seguendo il Lauterbach: il processo civile e soprattutto il diritto canonico, di cui ho letto quasi per intero nel corpus la prima parte, la Concordia discordantium canonum di Graziano, traendone degli appunti; come pure ho letto l'appendice, le Instituziones del Lancellotto. Poi tradussi in parte la Retorica di Aristotele, lessi il De augmentis scientiarum del famoso Bacone di Verulamio, mi occupai molto di Reimarus, il cui libro «Delle inclinazioni artistiche delle bestie» ho meditato con grande piacere, giunsi ad occuparmi anche di diritto tedesco, principalmente in quanto studiai i capitolati dei re franchi e i rescritti papali. Dal dolore per la malattia di Jenny e per i miei lavori intellettuali inutili e falliti, dal dispiacere, che mi consumava, di dover fare nei confronti del mio idolo una figura che mi era odiosa, caddi ammalato, come Ti ho già precedentemente scritto, caro Padre. Ristabilitomi, bruciai ogni poesia e ogni abbozzo di novelle etc. nell'illusione di non poter continuare in ciò, di cui non ha finora, per la verità, fornito ancora alcuna prova contraria. Durante la mia malattia avevo conosciuto da capo a fondo Hegel, e insieme la maggior parte dei suoi seguaci. Attraverso diversi incontri con amici a Stralow, capitai in un Doktorklub in cui erano alcuni liberi docenti e il mio più intimo amico di Berlino, il dott. Rutenherg. Qui, ndla discussione, si manifestò qualche opinione contraria, ed io mi legai sempre più saldamente alla odierna filosofia del mondo (Weltphilosophie), da «li avevo pensato si sfuggire, ma ogni clamore era ammutolito, un vero furore di ironia mi assalì come poteva accadere con molta facilità dopo tanta negazione. Vi si aggiunse il silenzio di Jenny, ed io non ho potuto avere pace finché non avessi acquisito, con alcune cattive produzioni come «La visita», la modernità ed il punto di vista della odierna opinione scientifica. Se forse, caro Padre, non ti ho esposto chiaramente tutto quest'ultimo trimestre, né sono entrato in tutti i particolari, ed ho anche cancellato tutte le sfumature, perdona il mio desiderio di discorrere del presente. Il signor Chamisso mi ha inviato un biglietto del tutto insignificante in cui mi annuncia che «si dispiace che l'Almanacco non possa utilizzare i miei contributi, perché è stampato già da molto tempo». Me lo mangerei per la rabbia. Il libraio Wigand ha inviato il mio progetto al dotto Schmidt, editore dell'esercizio commerciale Wunderschen, il quale commercia in buon formaggio e cattiva letteratura. Accludo qui la sua lettera; il secondo non ha ancora risposto. Nel frattempo non abbandono in nessun caso questo progetto, specialmente perché tutte le celebrità estetiche della scuola hegeliana hanno promesso la loro collaborazione per intervento del Professor Bauer, che gioca tra di esse un grande ruolo, e del mio coadiutore dotto Rutenberg. Per quel che concerne, mio caro Padre, la questione della carriera amministrativa, ho fatto recentemente la conoscenza di un certo assessore Schmidhinner, il quale mi ha consigliato di passare all'avvocatura, dopo il terzo esame giuridico, in qualità di Justitiarus; ciò che mi sarebbe andato tanto più, in quanto io realmente preferisco, di tutta la scienza amministrativa, la giurisprudenza. Questo signore mi ha detto che egli stesso e molti altri hanno fatto carriera in tre anni fino al grado di assessore del Tribunale provinciale superiore di Miinster in Vestfalia, la qual cosa non sarebbe difficile, s'intende con molto lavoro, perché qui le tappe della carriera non sono rigidamente fissate come a Berlino ed altrove. Se più tardi ci si laurea essendo già assessore, vi sono anche maggiori probabilità di poter entrare subito come professore straordinario, come è successo al signor Gürtner a Bonn, che ha scritto un'opera mediocre sui codici provinciali e per il resto è conosciuto solo per il fatto di parteggiare per la scuola giuridica hegeliana. Magari, mio caro, ottimo, Padre, fosse possibile parlare di tutto ciò direttamente con Te! Lo stato di Edoardo, gli affanni delta cara mammina, il Tuo malessere, per quanto sia da sperare che non sia forte, tutto mi ha fatto desiderare, anzi rende quasi necessario che io mi precipiti da Voi. Sarei già li, se non avessi dubitato proprio del Tuo permesso, della Tua approvazione. Credimi, mio caro, amato Padre, non mi spinge nessuno scopo egoistico (sebbene, sarei certo felice di rivedere Jenny), ma è un pensiero che mi spinge, e che non posso esprimere. Sarebbe per me sotto qualche riguardo persino un duro passo, ma come scrive la mia unica, dolce Jenny, queste considerazioni cadono tutte insieme di fronte all'adempimento di doveri che sono sacri. Ti prego, caro Padre, come anche Tu puoi decidere, di non mostrare questa lettera, o almeno questo foglio, alla madre dell'angelo. Il mio improvviso arrivo potrebbe forse risollevare quella grande, splendida signora. La lettera che ho scritto a mammina è stata redatta molto prima dell'arrivo del caro scritto di Jenny, e così ho scritto senza volerlo forse troppe cose che non sono affatto o sono molto poco opportune. Nella speranza che a poco a poco si disperdano le nuvole che si sono fermate sulla nostra famiglia, che sia permesso anche a me di soffrire e di piangere con Voi e di dimostrare forse vicino a Voi la profonda, intima partecipazione, l'immenso affetto, che io spesso ho potuto esprimere casi male; nella speranza che anche Tu, caro, sempre amato Padre, esaminando la forma del mio sentimento, proiettata in modo molteplice di qua e di là, voglia perdonare, se ogni tanto sembra che il cuore abbia sbagliato, mentre lo spirito in lotta lo soffocava, nella speranza che presto Ti ristabilisca completamente, così che io stesso Ti possa stringere al mio cuore e possa sfogarmi fino in fondo. Tuo figlio che ti ama sempre
Karl

Perdona, caro padre, la scrittura illeggibile e il cattivo stile; sono quasi le quattro, la candela è del tutto consumata e gli occhi sono appannati; una vera inquietudine si è impadronita di me, non potrò calmare gli eccitati fantasmi, finché non sarò nella Vostra cara vicinanza.
Saluta per cortesia la mia dolce splendida Jenny. La sua lettera l'ho già riletta 12 volte, e sempre scopro nuovi incanti. È sotto ogni riguardo, anche dal punto di vista dello stile, la più bella lettera che io possa pensar di ricevere da una donna.

venerdì 28 aprile 2006

Repubblica 28.4.06
LE SFIDE DI KURT GöDEL
Cade oggi il centenario della nascita del matematico filosofo
Dalle intuizioni dei maggiori pensatori, da Leibniz a Kant e Wittgenstein ha tratto i suoi fondamentali teoremi
È certamente il logico più grande dai remoti tempi di Aristotele e forse il più grande di sempre
di PIERGIORGIO ODIFREDDI


Qualche anno fa, quando il settimanale Time scelse i protagonisti del Novecento appena concluso, incoronò come «matematico del secolo» Kurt Gödel: certamente il logico più grande dai tempi di Aristotele, e forse il più grande di sempre.
Se avesse voluto, però, avrebbe anche potuto incoronarlo come «filosofo del secolo», invece di assegnare il titolo a Ludwig Wittgenstein (tra parentesi, un altro logico): fu infatti lo stesso Gödel a dire, parlando dei suoi maggiori risultati matematici, che essi discendevano direttamente dalle sue assunzioni filosofiche.
Oggi, a cent'anni esatti dalla sua nascita, avvenuta a Brno il 28 aprile 1906 e celebrata in questi giorni con congressi in tutto il mondo, si ha effettivamente la percezione che il lavoro di Gödel abbia spalancato le porte di una nuova disciplina: la moderna «matematica della filosofia», da non confondere naturalmente con la classica «filosofia della matematica». Mentre quest'ultima, infatti, è un'ancella della matematica che si dedica a una ripulitura delle sue nozioni, dei suoi metodi e dei suoi risultati, la prima è invece un'evoluzione della filosofia che ha come scopo la trasformazione delle sue vaghe intuizioni in precisi teoremi.
I pensatori con i quali Gödel si è cimentato nel corso della vita, producendo i suoi famosi risultati, sono naturalmente i grandi della storia della filosofia: soprattutto, Aristotele, Leibniz e Kant nel passato remoto, e Frege, Russell e Wittgenstein in quello prossimo. E le loro intuizioni, trasformate in teoremi dal tocco di Mida delle mani di Gödel, riguardano naturalmente i concetti fondamentali della filosofia: l'essere, la verità, lo spazio, il tempo...
Per cominciare dagli inizi, e cioè dall'essere, le sue due leggi fondamentali erano state isolate da Aristotele nel quarto libro della Metafisica: esse non sono altro che i famosi princípi del terzo escluso e di non contraddizione, secondo i quali qualunque proposizione dev'essere vera o falsa, ma non può essere entrambe le cose allo stesso tempo. Ora, ciò che rende una legge fondamentale, è il fatto che essa sta in un certo senso agli inizi del discorso: non la si può provare, se no ci sarebbe qualcosa di più fondamentale alla quale essa è riducibile.
Ma senza provarla, come si può sapere che si tratta veramente di una legge e non di un pregiudizio? Aristotele compie un doppio salto mortale e sostiene che, benché non dimostrabili, le leggi fondamentali sono comunque impossibili da confutare: in altre parole, la loro negazione è contraddittoria. Si tratta del famoso e oscuro elenchos, che nel 1933 Gödel ha reso preciso con la cosiddetta «interpretazione della doppia negazione»: ovvero, mentre è vero che la legge del terzo escluso non è dimostrabile in maniera costruttiva, lo è la contraddittorietà della sua negazione, cioè appunto la sua doppia negazione.
Naturalmente, perché la cosa abbia un senso e non si limiti a un vuoto gioco di parole, bisogna che una doppia negazione non affermi: cosa che fa nella logica classica, ma non in quella costruttiva. Il che significa, di passaggio, che Aristotele aveva intuito l'esistenza di una logica più sofisticata di quella alla quale in genere il suo nome è associato: cosa, tra l'altro, evidente anche da altre sue distinzioni, come quella tra «essere diverso» e «non essere uguale», poi precisate dall'analisi costruttiva.
Detto altrimenti, Aristotele era più moderno di quanto i cultori dell'ipse dixit abbiano mai immaginato o capito, anche se pure lui ha preso le sue belle cantonate: ad esempio, credendo che se la legge del terzo escluso dovesse fallire in un caso, dovrebbe fallire in tutti; o che se ci fossero altri valori di verità, oltre ai soliti «vero» e «falso», dovrebbero essercene infiniti. Tutte cose, queste, refutate in seguito dalla matematica della filosofia.
L'altro grande riferimento filosofico di Gödel è stato, non sorprendentemente, Kant. Soprattutto quello della Critica della ragion pura, il cui assunto principale si può riassumere dicendo che se la ragione vuol essere completa, nel senso di poter trattare liberamente di idee trascendentali come quelle di dio, del mondo o dell'anima, allora deve accettare di essere contraddittoria, nel senso che quelle idee portano ad antinomie. Equivalentemente, se la ragione non vuol essere contraddittoria, allora deve accettare di essere incompleta, rifiutandosi di spingersi oltre le colonne d'Ercole della sensatezza ed evitando di imbarcarsi in discorsi sulle idee trascendentali.
Il famoso teorema di incompletezza, che Gödel ha dimostrato nel 1931 e che lo ha reso famoso, trasporta l'impianto dell'opera di Kant nella matematica: esso afferma, infatti, che se un sistema matematico vuol essere completo, nel senso di poter esprimere «formule trascendentali» come quella che dice di se stessa di non essere dimostrabile, e di poter dimostrare tutte quelle vere, allora deve accettare di essere contraddittorio. Equivalentemente, se un sistema che può esprimere formule trascendentali non vuole essere contraddittorio, allora deve accettare di non poter dimostrare tutte quelle vere.
Ora, come nel linguaggio naturale non ci vuole molto a parlare di dio, del mondo o dell'anima, anche se Kant ha dimostrato che non se ne può parlare in maniera non contraddittoria, cosí nel linguaggio matematico non ci vuole molto a trovare una formula che dica di se stessa di non essere dimostrabile, anche se Gödel ha dimostrato che essa è vera ma non dimostrabile. O meglio, non ci vuole molto dopo il suo lavoro, perché prima sembrava invece impossibile: tanto che Wittgenstein aveva dichiarato nel Trattato che un linguaggio può solo mostrare la propria forma logica, ma non parlarne.
Per confutare Wittgenstein e costruire la sua formula, Gödel inventò un metodo che permette di tradurre la sintassi di un linguaggio nell'aritmetica dei numeri. O meglio, lo prese a prestito da Leibniz, che nella Dissertazione sull'arte combinatoria aveva già anticipato la possibilità di associare numeri semplici alle nozioni semplici, e numeri composti a quelle composte: con una ingenuità, però, perché lui suggeriva di assegnare prodotti a queste ultime, senza tener conto del fatto che nella moltiplicazione i fattori si perdono, e diventa impossibile ritrovarli in maniera univoca. Gödel aggirò il problema sfruttando un teorema di Euclide secondo cui la decomposizione in fattori primi di un numero è invece univoca, e assegnò alle nozioni composte prodotti di numeri primi aventi per esponenti i numeri delle componenti.
Se le limitazioni della ragione erano il punto centrale della Logica della Critica, quello centrale della sua Estetica era la natura dello spazio e del tempo: secondo Kant, infatti, essi non sono caratteristiche del mondo ma del nostro modo di percepirlo, e derivano dalla particolare struttura del nostro apparato sensoriale e mentale. Nel suo colorito linguaggio, spazio e tempo sono cioè degli a priori che costituiscono le forme della nostra percezione. In particolare, né l'uno né l'altro hanno un'esistenza oggettiva: un'idea che Gödel non condivideva, ma di cui voleva verificare la consistenza con le teorie della fisica contemporanea, in particolare la relatività di Einstein.
Ora, benchè la teoria speciale del 1905 avesse fatto uscire l'assolutezza dello spazio e del tempo dalla porta, la teoria generale del 1915 sembrava averla fatta rientrare dalla finestra: in tutti i modelli conosciuti fino al 1949, infatti, era possibile arrivare a una nozione di tempo assoluto mettendo insieme i tempi relativi delle grandi masse. Ma Gödel scoprí un modello in cui non solo non c'è un tempo assoluto, ma è addirittura possibile fare un giro attorno all'universo e tornare nello stesso punto dello spazio-tempo, cosí come sulla Terra si può fare un giro attorno a un isolato e tornare nello stesso punto dello spazio. In un mondo come questo si può andare sempre avanti nel futuro e ritrovarsi a un certo punto nel proprio passato: dunque, nemmeno il tempo individuale è oggettivo.
Con questi (e molti altri) risultati Gödel ha indicato la via regia per la rivitalizzazione della filosofia: trafugare il suo cadavere imbalsamato dalle celle frigorifere dei manuali di storia e dagli obitori dei dipartimenti accademici, dove esso viene mantenuto a disposizione dei continentali per le loro necrofile dissezioni, e rivitalizzarlo mediante iniezioni di logica, matematica e scienza, che riportino in vita le sue problematiche, le sue ispirazioni e le sue idee. O, più semplicemente, smettere di preoccuparsi di cosa noi possiamo fare per la filosofia degli antichi, e incominciare a chiedersi cosa la filosofia possa fare per noi moderni.

L'Espresso 27.4.06 pagg.151-152
Sognare con Freud
Desiderio, illusione, disagio. A 150 anni dalla nascita del padre della piscoanalisi, con 'L'espresso' un'antologia ragionata dei suoi scritti
di Stefania Rossini


Ci sono domande ricorrenti che gli esperti o anche i semplici appassionati di psicoanalisi si sentono rivolgere spesso. Sono domande esplorative che potremmo chiamare ermeneutiche. Dove comincio se voglio avvicinarmi alle opere di Freud? Come affronto un edificio dottrinario tanto complesso? C'è un libro elettivo per iniziare? Qual è il saggio che mi può dare una visione d'insieme, senza troppo studiare, senza troppo cercare? Sono domande legittime che esprimono un desiderio e un timore. Il desiderio è quello di far propri i rudimenti di una disciplina che il comune sentire ritiene ormai indispensabile. Il timore, mascherato da cautela culturale, è probabilmente quello di sempre. Che ne sarà di me se vado a toccare le mie zone più nascoste? Sopporterò la conoscenza di me stesso?

Se la voglia di sapere supera la diffidenza (peraltro mal centrata, perché non sarà mai la conoscenza intellettuale a intaccare le difese), il potenziale lettore freudiano ha ragione a disorientarsi. La mole degli scritti di Sigmund Freud, che si dipana nei 13 splendidi volumi curati a suo tempo per Boringhieri da Cesare Musatti, non fornisce un bandolo per orientarsi. Chi non ha avuto l'opportunità di avvicinarla sitematicamente, magari attraverso quella cadenza regolare che negli anni Settanta ha mandato in libreria circa un volume all'anno, deve pur cominciare da qualche parte. Potrebbe leggere un caso clinico, come quello letterariamente superbo di 'Dora', ma ne trarrebbe un'idea primitiva di un metodo e di una terapia ancora alla ricerca di sé. Potrebbe immergersi nel fascino di una delle opere della maturità, come 'Il disagio della civiltà', ma è difficile capire davvero quel grande testo del disincanto senza una base e un lessico di riferimento.

Meglio allora un'antologia, specie se guidata con mano ferma da un profondo conoscitore del pensiero freudiano come Michele Ranchetti, che affronti cronologicamente e con una selezione intenzionale il percorso teorico di quel grande innovatore, nato esattamente 150 anni fa, e della cui lezione l'uomo contemporaneo, occupato a dar briglia sciolta alle proprie peggiori pulsioni, sembra essersi dimenticato. I due volumi di 'Opere scelte' pubblicati da Bollati Boringhieri che 'L'espresso' diffonde proprio in occasione di questo anniversario, possono così avere la funzione di accompagnare i nuovi lettori alla conoscenza di un grande edificio dottrinario, ma anche di ricordare a molti altri che quelle credenze accese per cui pensano di battersi, trovano la loro origine, nell'individuo come nella società, in conflitti e sensi di colpa inconsci che si traducono in aggressività distruttiva.

Con a disposizione più di mille pagine, Ranchetti fa la scelta, diciamo così didattica, ispirata dallo stesso metodo freudiano, che è quello di "precisare, approfondire, chiarificare, rendere intellegibile pure agli occhi dei profani" le scoperte della psicoanalisi, in un vero e proprio 'work in progress' che rivisita continuamente se stesso. Per i testi di teoria e tecnica si parte dalle 'Cinque conferenze sulla psicoanalisi' del 1909, redatte con grande attenzione divulgativa perché destinate al pubblico americano, allora tanto vergine alla nuova disciplina da ispirare a Freud la celebre frase sussurata a Jung all'arrivo della nave a New York: "Non sanno che stiamo portando loro la peste". E si arriva al più complesso 'Compendio di psicoanalisi' del 1938, dove, nell'anno che precede la morte, Freud consegna ai posteri la sistematizzazione teorica del lavoro di una vita.

In mezzo decenni di ricerca, qui ben documentati da decine di scritti e illuminati da quegli imperdibili saggi di cosidetta psicoanalisi applicata, come 'Psicologia delle masse e analisi dell'io' del 1921, per niente invecchiato nel suo disvelamento dei processi di identificazione collettiva. Come 'L'avvenire di un illusione', in cui la religione, definita "nevrosi ossessiva universale dell'umanità", viene messa in contrapposizione alla psicoanalisi: di fronte alla paura in cui l'uomo si smarrisce, l'una costruisce illusioni, l'altra le dissolve. O come, appunto, il più estensivo 'Il disagio della civiltà'. È in questi lavori che il Freud scrittore, grande letterato con un uso sapiente della narrazione, raggiunge il massimo del suo fascino.

Utile anche la scelta di dedicare un intero al volume al sogno, con la proposta integrale de 'L'interpetazione dei sogni', indiscusso saggio di fondazione più celebrato che letto. Va infatti avvertito il lettore profano che non si tratta di una guida all'interprezione in pillole, ma di un grande apparato di riferimento teorico e clinico in cui c'è, sì, l'autoanalisi dello stesso Freud con il racconto dei sogni che gli hanno indicato la strada dell'inconscio, ma c'è soprattutto la summa continuamente riaggiornata della sua teoria del processo onirico. Chi ha fretta, potrà leggere il più accessibile e limpido 'Il sogno', senza perdere la distinzione tra significato latente e manifesto o la conoscenza dei meccanismi di condensazione e spostamento. Ma chi ha voglia e passione, si immerga nel 'Perturbante' (1919), fascinoso scritto che ci fa sentire il brivido della paura senza nome, tante volte evocato dalla letteratura, tante volte subito dall'esperienza, e che ci regala qualche spiegazione di una delle esperienze umane più diffuse e annichilenti: quella dell'angoscia.

Dopo la lettura dei testi, e non prima come è d'uso, andrebbe forse gustata la densa introduzione di Ranchetti. Sarà più interessante seguirlo nella desolata analisi di una modernità che pensa di fare a meno della psicoanalisi, la attacca come una delle ideologie totalitarie del Novecento, si priva di uno strumento formidabile di conoscenza. I motivi del nuovo rigetto sono in parte simili a quelli che hanno costellato l'affermarsi della psicoanalisi: la paura del dominio della libido, l'orrore della voragine interna e la perdita delle certezze esterne. Ma ce n'è uno più nuovo e suggestivo: la consapevolezza che nemmeno la psicoanalisi 'guarisce' davvero. Freud l'ha sempre detto, ma l'uomo ha fatto finta di non crederci. Oggi invece sa che la conoscenza di sé, ottenuta attraverso la fatica di lunghe terapie, non garantisce né la salute né la salvezza, ma soltanto, scrive lo studioso "la consapevolezza delle trame che all'interno del singolo si sono costruite per poi dissolversi nel riconoscimento di esse".
Può sembrare poco a chi affida se stesso alla falsa calma dell'inconsapevolezza o al potere di frettolose pillole liberatorie. È molto per quanti hanno saputo accettare la perdita della più grande delle illusioni umane: quella di essere padroni di se stessi.

Piacere e realtà
Inizia con 'Cinque conferenze sulla psicoanalisi' (1909), tenute da Freud alla Clark University, il primo dei due volumi degli scritti di Sigmund Freud, in edicola con 'L'espresso' la settimana prossima. Un'iniziativa rivolta al pubblico che vuole conoscere i più importanti testi del padre della psicoanalisi e l'uomo che cambiò il nostro rapporto con l'immaginario, con i sogni, con il sesso, con la famiglia. Tra gli altri saggi del primo volume: 'Precisazioni sui due princìpi dell'accadere psichico' (1911), dove Freud spiega cosa sono il principio del piacere e il principio di realtà. E i fondamentali per la comprensione del mondo che ci circonda 'L'avvenire di un'illusione' (1927) e 'Il disagio della civiltà' (1929). Il prezzo del volume è di 9,90 euro più 'L'espresso'.

giovedì 27 aprile 2006

Corriere della Sera 26.4.06
Inediti. Escono da Mondadori le lettere del Nobel a Irma Brandeis conservate al Gabinetto Vieusseux
Montale, occasioni e bugie di un amore
La doppia vita del poeta e l’ironia sugli scrittori nella corrispondenza con «Clizia»


L’«incontro disastrosamente stupido» dell’estate 1933 fra Eugenio Montale, allora direttore del Gabinetto Vieusseux, e Irma Brandeis, giovane e luminosa letterata americana venuta a Firenze per conoscere il poeta, avrebbe potuto impedire la deflagrazione di quello che fu il grande amore di Montale: un amore che influenzò persino il cambiamento di stile riscontrabile nel passaggio dagli Ossi di seppia alle Occasioni . Per fortuna la tenace ammiratrice chiese un secondo incontro, e dopo pochi giorni i due erano investiti dalla passione. L’amore per Irma (1905-1990), che Montale indica col senhal Clizia, permea quasi tutta l’opera successiva del poeta, sino alle ultime composizioni, sino al discorso del 1975, per il Premio Nobel, dove la cita, proprio come Irma Brandeis, per i suoi lavori su Dante. Irma Brandeis aveva buone credenziali: studiosa, oltre che di Dante, del Medioevo latino, ma anche del Futurismo, insegnava letteratura italiana nel Sarah Lawrence College e frequentava la Columbia University di New York, dove abitava; scriveva su riviste importanti. A molti lettori di Montale il suo nome giungerà nuovo. Vi fu infatti, tra gli amici che tutto sapevano, un impegno a non rivelare chi fosse in verità l’ispiratrice Clizia, almeno prima della morte del poeta. E rimaneva misteriosa la sigla I.B., nella dedica delle Occasioni . Solo negli anni Ottanta del Novecento il segreto fu svelato (in particolare da Luciano Rebay). Più tardi, Paolo De Caro dedicò a Irma due importanti volumi.
Finalmente Rosanna Bettarini pubblica, con una elegantissima introduzione, le oltre centocinquanta lettere di Montale a Irma; mancano quelle di Irma, forse distrutte dal poeta, ma se ne indovina il tono dalle citazioni che ne fa Montale stesso, e da una lettera di Irma non spedita (Eugenio Montale, Lettere a Clizia , a cura di Rosanna Bettarini, Gloria Manghetti e Franco Zabagli, Mondadori, pagine XLVI-378, 25). Le lettere sono conservate presso lo stesso Gabinetto Vieusseux in cui avvenne l’incontro, dove fanno parte della Donazione Irma Brandeis.
L’evento è eccezionale. Potremo ora rileggere le poesie delle Occasioni , e in particolare «Costa San Giorgio», la splendida serie dei «Mottetti», «Palio», e così via, sulla filigrana di episodi anche minimi della vicenda erotica, narrata nella sua reale successione dalle lettere (così c’insegna a fare la Bettarini). Possiamo ricostruire il tessuto connettivo, le situazioni e gl’incontri raccontati nelle lettere e chiariti nelle note, precisissime. Possiamo osservare la fantasia nell’indicare con soprannomi spiritosi i conoscenti. Possiamo persino sentire la voce di Montale che spiega all’amica il senso e le allusioni di singole poesie che le ha spedito, e qualche volta le risentite dichiarazioni della donna che non vi si riconosce, o lamenta di essere persino contaminata con altre donne della memoria del poeta...
Se l’espressione del sentimento è il tema di base delle missive, va anche ricordato che si tratta di uno scambio epistolare fra due letterati, e che la fascinazione nasce pure dai sapori del racconto della quotidianità. Montale, grande affabulatore, è fecondissimo, qui, di schizzi di persone e incontri, di sapide maldicenze, ma anche di aneddoti estesi, che poi diventeranno racconti della Farfalla di Dinard , o che Irma viene invitata a trasformare in articoli per riviste americane. In più, queste lettere ci danno molti flash della vita culturale italiana negli anni che precedono la guerra, ci rappresentano i comportamenti non sempre dignitosi dei letterati rispetto alla corruzione prodotta dal regime.
A misurarla sul calendario, la passione dei due amanti ha avuto ben poco tempo per sfogarsi: due viaggi estivi di Irma in Italia (1933 e 1934), con gite a Venezia, Genova, Torino, Siena, e una terza apparizione nel 1938, quando il rapporto è già traballante, e Irma, tra le voci di guerra ormai minacciose, dà a Eugenio un addio che pensa, ed è, definitivo. Ma le lettere riempiono tutti i vuoti, ritmate anche dal sempre maggiore ricorso all’inglese (alcune sono completamente in quella lingua, non senza tentativi di scrittura poetica), e poi, con la crisi, dal ritorno all’italiano. Questa parabola coincide con curiosi cambiamenti nel modo di firmare (sempre comunque con le sole iniziali): sino alla fine del 1934 domina A., cioè Arsenio, uno degli eteronimi poetici di Montale; poi incomincia E., che significa forse non Eugenio ma Eusebio, soprannome di Montale per gli amici; alla fine, quasi con un distanziamento, si trova E.M., iniziali del nome all’anagrafe.
Qualche volta il lettore ha l’impressione di origliare o di ascoltare conversazioni troppo intime. Fatto sta che la precarietà degli incontri fra gli amanti, l’impossibilità di ufficializzare, o legalizzare, il loro legame derivano dalla presenza della Mosca (soprannome di Drusilla Tanzi), con cui Montale conviveva, e che nel 1963 sposò, poco prima della sua morte. Questa presenza, prima nascosta, poi confessata, è subito causa di grosse discussioni, e mette in rilievo insuperabili divergenze tra Montale e Irma. Irma ha una concezione borghese dell’amore, che va coronato, se possibile, col matrimonio; in più, romanticamente, vagheggia l’amore assoluto, eterno. Montale, trascinato dall’attrazione per Irma, non obietta, ma certo non sa condividere l’ottimismo che questi ideali implicano, la risolutezza che esigono. E ha ben presente, anche attraverso i trovatori, e Dante, e Petrarca, il potenziale poetico della distanza e del distacco (avrà pensato a Beatrice e a Laura); resiste, conscio della persistenza dei ricordi e dei sentimenti, all’idea di cambiare di sana pianta la sua vita, o peggio di trasferirsi in America, come Irma vorrebbe.
Così la Mosca, da ostacolo, si trasforma in pretesto. Non è certo gradevole cogliere il poeta mentre descrive le forme di comprensibile autodifesa della Mosca di fronte all’incombente abbandono: minacce di suicidio, invocazioni di pietà. E sfiorano il comico le reiterate assicurazioni di Montale a Irma: sarò libero fra tre mesi, o prima dell’estate, eccetera, con scadenze continuamente spostate lungo gli anni, sino a dare l’impressione di una totale inaffidabilità. Montale non vuol confessare un dato decisivo: che alla Mosca non è unito solo dalla riconoscenza per l’aiuto che gli ha dato in anni difficili, ma anche da un affetto profondo, che si scoprirà anni dopo (post mortem!) con le bellissime composizioni, queste sì matrimoniali, degli Xenia . Due vite ormai intrecciate, anche negli anni di Irma: alle mondanità che Montale descrive, lui e la Mosca partecipano insieme (come risulta, non certo dalle lettere, ma dalle annotazioni della Bettarini); persino al battesimo di un figlio di Vittorini, Eugenio e la Mosca sono i due testimoni.
Ma è meglio non almanaccare troppo su questa penosa vicenda, che mescola toni di tragedia borghese e storie di gelosia da rotocalco. Cerchiamo di evocare, anche grazie alle lettere ora stampate, la bella americana, le epifanie erotiche condivise con Montale, e poi torniamo a leggere le Occasioni e la Bufera , e a cogliervi le apparizioni della donna, trasformata dal poeta in una dea, portatrice di alti ideali e di salvezza.

Irma cara, è inutile che io continui a tacere nella speranza di un fiat a scadenza di poche ore. Ho già impedito (a torto o a ragione, chissà?) due suicidii, e ora mi prendo un po’ di riposo. Sono molto abbattuto moralmente, fisicamente e finanziariamente, quasi irriconoscibile. Non ho il coraggio di farmi vedere da Giovanna. Io non so che farò, non so nulla. So (ed è cretino e criminoso il ripeterlo) che ti voglio, molto bene , disperatamente bene . E.

Mia cara Irma, se ubbidissi al mio istinto ti scriverei tutti i giorni, anche essendo, come sono, un cattivo epistolografo. Ma questa enorme città mi porta via tutto il tempo e alla sera non trovo né la pace necessaria né una penna decente... Sono contento che ti rivedrò tra pochi giorni - ma rattristato dalla tua prossima partenza. Dovrò passare un altro inverno imbecille a Firenze, senza essere neppur certo di rivederti la prossima estate. A.

Darling, sono stato 17 giorni senza tue notizie! Io, invece, magari con cartoline, ho rotto il silenzio ogni settimana. Trovi strano che nella stessa lettera possa dichiararmi insieme half dead e pieno di speranza; ma non è strano affatto. Per liberarmi devo attraversare ore tali da ammazzare un bue; ma proprio durante tali prove deve assistermi la speranza. Se no, che senso avrebbe mettere a repentaglio la propria e l’altrui vita? E.

Repubblica 27.4.06 - Prima Pagina e pag 51
LE IDEE
DIAMO RETTA A CONFUCIO
La fede la ragione e il Segretario dell'Esattezza
Fede e ragione: un intervento al convegno del Pen Club
di ROBERTO CALASSO


Il Segretariato generale dell'Esattezza e dell'Anima di Robert Musil
Molti ostentano la loro fede senza avere nozione del sacr e del divino
Se le parole sono bistrattate non posson aderire alla realtà delle cose e dunque non hanno oggetto
Secondo il filosofo cinese la prima cosa da fare volendo governare è quella di rettificare i nomi

Quando sono stato invitato a parlare di fede e ragione, ho pensato subito: questo è perfettamente in linea con la tradizione del Pen Club, che ha sempre voluto occuparsi dei perseguitati. Tali infatti mi appaiono queste due parole, che ogni giorno subiscono abusi, maltrattamenti, violazioni.
A un punto tale che certe persone, dalle quali ci si potrebbe aspettare che le pronuncino spesso, al contrario le evitano.
Di fatto ciò che il nostro mondo richiede con urgenza è quell´operazione che, secondo Confucio, dovrebbe precedere ogni altra: la rettifica dei nomi. Come si legge nei suoi Detti: «Una volta un discepolo gli chiese: "Se un re vi affidasse un giorno un territorio da governare secondo le vostre idee, che cosa fareste prima di tutto?". Confucio rispose: "Rettificare i nomi"». E poi spiegò al suo discepolo sconcertato: Se i nomi non sono corretti, se non corrispondono alla realtà, il linguaggio non ha oggetto. Se il linguaggio non ha oggetto, l´azione diventa impossibile – e così tutti gli affari umani si disgregano e amministrarli diventa futile e impossibile. Perciò il primo compito di un vero uomo di Stato è quello di rettificare i nomi.
Proviamo ora ad applicare queste parole al nostro mondo – e plausibilmente ci sentiremo colti da un senso di paralisi. Perché sarebbe arduo trovare anche solo una fra le parole fondamentali della quale si possa dire che viene usata in modo generalmente accettabile. Se ora ci guardiamo intorno e proviamo ad attraversare una qualsiasi parte del mondo, troveremo immancabilmente sciami di persone che si richiamano alla parola fede – e talvolta la brandiscono minacciosamente.
Ma, se pensiamo che la parola fede debba avere qualcosa a che fare con il divino e con il sacro, subito siamo assaliti da forte perplessità. Perché molti fra quelli che ostentano la loro fede sembrano non avere nozione precisa né del divino né del sacro. E così anche, se la parola fede deve in qualche misura corrispondere alla definizione fino a oggi più densa che ne sia stata data - la definizione che si incontra nel Paradiso di Dante e traduce un passo della Lettera agli Ebrei: «Fede è sustanza di cose sperate / ed argomento delle non parventi» - , è forte il dubbio che oggi essa animi davvero un alto numero di quelle innumerevoli persone che si dichiarano «fedeli». Se non altro perché non molti sembrano condividere la percezione precisa di una realtà invisibile, che è il presupposto della definizione di Dante. Immediatamente avvertibile è invece qualcos´altro, a Ovest come a Est, a Nord come a Sud: la parola fede è diventata, per un vasto numero di persone, il più efficace fra i collanti sociali, l´unico che fornisca una riserva inesauribile di certezze, sulla base delle quali le azioni più diverse possono essere compiute, le più miti ma anche le più micidiali, senza bisogno di giustificazioni ulteriori. E già questo rende potenzialmente micidiale qualsiasi azione.
Il senso della Gemeinschaft, della «comunità», vagheggiato da certi sociologi fuori moda come Tönnies e reso fantomatico per il puro svilupparsi del mondo tecnico, viene così riattivato e recuperato servendosi della parola fede, che a questo punto non ha più bisogno di riferirsi alla percezione di una realtà invisibile, ma si appaga del calore animale sprigionato dalla comunità dei fedeli. Questo induce a una constatazione molto amara: che la vera religione ecumenica del nostro tempo tende a essere la società stessa, il «grande animale» di cui Platone scriveva - e che Simone Weil riconobbe attorno a sé nell´Europa degli Anni Trenta.
E un´ironia non trascurabile della storia che un discorso in qualche modo parallelo a quello sulla parola fede possa essere applicato alla parola ragione. In una certa parte della comunità scientifica e in una vasta parte della comunità di coloro che vogliono imitare il pensiero della comunità scientifica, la parola ragione continua a essere usata come una sorta di rimedio per tutti i mali. Coloro che lo fanno sono per lo più i legittimi eredi di quei positivisti di fine Ottocento i quali sostenevano che la coscienza e la mente fossero epifenomeni secondari da ricondurre - una volta giunto il momento - alla madre di tutte le certezze e di ogni ragione: la materia. Nel frattempo - quindi negli ultimi cento anni - la materia è diventata il luogo di una esplosione progressiva di paradossi, a prima vista piuttosto irragionevoli. Esplosione che non sembra essere finita. Di conseguenza nessuno come i fisici che devono aprirsi ogni giorno la strada fra quei paradossi è diventato diffidente, se non addirittura sarcastico, verso la parola ragione.
Sembrerebbe a questo punto raccomandabile una savia mutezza - o per lo meno una certa cautela farmacologica verso le due parole fede e ragione: usare in piccole dosi. Se poi si volesse cercare un esempio in direzione opposta, un caso in cui le due parole fede e ragione abbiano agito insieme, ubbidendo a presupposti trasparenti e rigorosi, sarebbe consigliabile volgersi indietro verso un punto che dista da noi quasi tremila anni. Penso a una parola sanscrita - sraddha - , che si incontra assai spesso nei Brahmana, testi di esegesi liturgica risalenti all´epoca vedica. Marcel Mauss osservò che sraddha corrisponde, anche fonologicamente, al latino credo. Dumézil proponeva di tradurla con «fiducia tranquilla». Ma che cos´era questa fede vedica? Innanzitutto una convinzione che riguardava gli atti rituali. Senza la sraddha, la fede nell´efficacia dell´atto che si sta compiendo, il sacrificio è vano. E, per il pensiero vedico, se il sacrificio è vano tutto è vano. Quindi sraddha, la fede rituale, è la fiducia, non dimostrabile ma sottintesa in ogni atto, che il visibile agisca sull´invisibile e soprattutto che l´invisibile agisca sul visibile. I Brahmana dedicano a questa parola le più audaci speculazioni. E tentano anche di rispondere a un quesito insidioso: se non ci fosse nulla di tangibile, come si potrebbe compiere il sacrificio?
La risposta ci giunge attraverso il sapiente Yajnavalkya. Se anche mancassero il latte e il fuoco in cui versarlo, ugualmente si potrebbe celebrare il più elementare dei sacrifici, l´agnihotra. Ma come? «Offrendo in libagione la verità - satya - nella fede, sraddha», disse Yajnavalkya. Sylvain Lévi traduceva satya non con «verità» ma con «esattezza». Questo ci fa sentire in modo ancora più netto come l´aspirazione più tenace della ragione - la adaequatio rei et intellectus - possa congiungersi con un atto rituale. E il nodo si stringe in una formula memorabile, che si incontra nell´Aitareya Brahmana. Così la traduceva Lévi: «Fiducia e esattezza; questa è la coppia più bella». Ma esiste in Occidente e in tempi non troppo distanti qualcosa che vagamente ricordi questa formula? Forse sì - e lo si può trovare nell´Uomo senza qualità di Musil, là dove si racconta che Ulrich, il matematico protagonista del romanzo, aveva immaginato di istituire un «Segretariato Generale dell´Esattezza e dell´Anima». Ancor più che delle Nazioni Unite, è forse di quel Segretariato che avremmo bisogno. E forse mai come in questo momento ne siamo stati lontani.

Corriere della Sera 27.4.06
Carlo De Benedetti presidente, si cambia al gruppo L’Espresso


ROMA - All’Espresso si chiude dopo cinquant’anni esatti l’epoca di Carlo Caracciolo, cognato di Giovanni e Umberto Agnelli, principe e partigiano nella guerra di Liberazione. Ieri il nuovo consiglio di amministrazione lo ha acclamato presidente onorario, nominando al posto occupato per mezzo secolo dal fondatore del gruppo editoriale, quello di presidente, il suo attuale principale azionista Carlo De Benedetti. Un segno di profondo cambiamento, accompagnato anche dal drastico ridimensionamento (da 19 a 10) del numero dei consiglieri, decisione che ha avuto come conseguenza molte illustri uscite. Escono Cristina Busi e Giulia Maria Crespi. Ma anche Pierluigi Ferrero, Milvia Fiorani, Franco Girard, Oliviero Maria Brega, Paolo Mancinelli, Gianluigi Melega, Alberto Milla e Piero Ottone. E rimane fuori pure l’avvocato storico di De Benedetti, Vittorio Ripa di Meana, oberato da innumerevoli impegni.
Oltre a Caracciolo e allo stesso De Benedetti restano invece nel consiglio l’amministratore delegato Marco Benedetto (con identico incarico), il figlio dell’Ingegnere, Rodolfo De Benedetti, Francesco Dini e Alberto Piaser. Completeranno il board quattro «indipendenti»: Agar Brugiavini, Luca Paravicini, Mario Greco e l’avvocato Sergio Erede.
De Benedetti si è impegnato a ricorrere alla disponibilità manifestata da Caracciolo («straordinaria personalità imprenditoriale, appassionata, lucida, talvolta temeraria») nella scelta dei direttori e degli amministratori delegati delle testate: consultando «in via prioritaria» il presidente onorario.

mercoledì 26 aprile 2006

Corriere della Sera 26.4.06
Rossanda, gelo su Bertinotti alla Camera Gagliardi: eterna delusa. Parlato: no, ha ragione
di Angela Frenda


Speaker normalizzato o figura istituzionale vincente? Rossana Rossanda, a proposito di Fausto Bertinotti presidente della Camera, nell’editoriale di ieri sul manifesto sposa la prima ipotesi: «Non l’ho votato perché diventasse presidente della Camera... Non lo speravo nei panni di speaker della discussione parlamentare... Lo speravo come sollecitatore continuo del governo e di una scelta di sinistra». E, nella delusione, ritorna anche il parallelo con Pietro Ingrao, al quale Bertinotti dice di volersi ispirare. Ma il leader di Rifondazione non è, per Rossanda, come l’ex presidente della Camera, primo esponente del Pci a ricoprire quel ruolo: «Ingrao fu spedito alla presidenza perché dava fastidio a Botteghe Oscure». Risultato: lo spettacolo di «un mercato» di poltrone, conclude Rossanda, che andrebbe «tenuto fra loro».
In poche parole non piace, a una parte della sinistra, la scelta di Bertinotti di guidare la Camera. Una voglia di sdoganamento - come osserva Rossanda - che depotenzierebbe il ruolo che il leader prc avrebbe potuto svolgere nel governo. «Ha ragione Rossana - spiega un altro «grande vecchio» del manifesto , Valentino Parlato , che l’anno scorso si oppose, sempre con Rossanda, ad allegare al giornale un libro-intervista a Bertinotti -. Questa presidenza della Camera sembra il riposo del guerriero. Vedremo come si comporterà Fausto: se invece di limitarsi a fare lo speaker si ritaglierà spazi di azione. E però basta confronti con Ingrao, lui non era segretario di un partito...».
All’editoriale di Rossana Rossanda e alla posizione del manifesto risponde oggi Liberazione , quotidiano di Rifondazione. Con un’editoriale di Rina Gagliardi , che lei anticipa: «Premessa: per Rossana ho stima e affetto immensi. Nessuna polemica personale. Ma...». Ma? «Ma quelli del manifesto non fanno altro che esprimere la loro delusione: prima delle elezioni, durante, e il giorno dei risultati. Sono affetti da iperscetticisimo. La loro mi sembra solo una rinuncia a fare politica. C’è una sinistra che ha paura a riconoscere il proprio successo».
Condivisibile per Gagliardi, invece, la scelta di Bertinotti: «Credo che Fausto rilancerà il Parlamento e farà politica vera. Quella è una postazione istituzionale importante, molto più di un ministero. Giusto dunque il parallelo con Ingrao: è una delle ragioni che ha indotto il leader prc ad accettare».
Sulla stessa linea anche il direttore di Liberazione , Piero Sansonetti : «In questi anni si sono mostruosamente sviluppati potere esecutivo e giudiziario. E quello legislativo è stato annientato. Ingiusto non capire che la scelta di Bertinotti punta ad aggiustare questo scompenso. Detterà l’agenda parlamentare, e non è un accontentarsi. Oggi è più importante guidare il Parlamento che fare il capo di partito. Ci sarebbe stata la nuova legge elettorale senza Casini? Quelli del manifesto poi capiranno. D’altronde, non furono entusiasti neppure quando Ingrao accettò la Camera».
Chi, invece, rispetto a Bertinotti presidente è ottimista è il girotondino Pancho Pardi : «Come politico non mi piace. Ecco perché sono più soddisfatto che sia alla presidenza della Camera: saprà svolgere il suo ruolo... e farà meno guai». Infine Gloria Buffo , sinistra ds, prende le distanze dalle polemiche: «Era poco realistico pensare che tutte le cariche andassero al futuro partito democratico. Ma capisco anche gli elettori di Rifondazione che la pensano come Rossanda, ovvero che quel partito deve fare una battaglia per strappare una posizione di sinistra al governo. Diciamo che sono vere tutte e due le cose».

Liberazione 26.4.06
Il ruolo di Bertinotti. Domande a Rossanda sul Parlamento e la riforma della politica
di Rina Gagliardi


Bertinotti è un “vincitore ingombrante” o, al contrario, uno speaker innocuo? E’ destinato a terremotare, in permanenza, l’equilibrio politico del governo Prodi o, all’opposto, si è già istituzionalizzato, imborghesito, placato? Insomma, per citare un classico di Umberto Eco, è un apocalittico o un integrato? Vedete bene: il segretario di Rifondazione comunista non è ancora stato nominato alla Presidenza della Camera né, com’è logico, ha reso note le linee-guida alle quali cercherà di ispirare il suo lavoro, che già il dibattito propone punti di vista pressoché diametralmente opposte.
I due editoriali simmetrici del Corriere della Sera e del manifesto di ieri rappresentavano, esemplarmente, questa divaricata preoccupazione. Per Panebianco, Rifondazione ha vinto le elezioni (tesi non del tutto infondata), i riformisti sono stati sconfitti, e Bertinotti, da presidente della Camera, condizionerà pesantemente, a sinistra, il nuovo esecutivo - quasi si approssima la repubblica dei soviet.
Per Rossana Rossanda, invece, la conquista del vertice istituzionale da parte del Prc rappresenta una sorta di rinuncia preventiva alla lotta necessaria per costringere Prodi a fare politiche di sinistra - insomma, è quasi una resa, come fu quella del più prestigioso predecessore di Bertinotti, Pietro Ingrao, spostato dal Pci a Montecitorio in una classica logica da “promoveatur ut amoveatur”.
E dunque? Dunque, intanto, questi ragionamenti - e queste paure così difformi - danno l’idea che a tutto siamo fuorché ad un evento di ordinaria routine. Un “fatto politico” di prima grandezza, comunque destinato a modificare l’equilibrio politico della prossima fase, quella che sarà imperniata sul governo dell’Unione.
Proviamo a ragionarne, se possibile, con calma? La riflessione di Rossana Rossanda muove da un presupposto analitico tutto da dimostrare: quello per cui il presidente della Camera è, non può che essere, un puro notaio dei lavori parlamentari. Un ruolo minore, insomma, nella vicenda politica e nelle scelte dell’esecutivo. Se così fosse, avrebbe ragione a lamentare quello che lamenta - ovvero il già consumato depotenziamento della funzione politica della sinistra radicale. Ma a me pare proprio che così non sia.
Nei fatti, nella famosa “costituzione materiale” delle cose, il presidente della Camera ha assunto, nell’ultimo decennio, una funzione politica marcata - basti l’esempio, appena alle nostre spalle, di Pier Ferdinando Casini, che sulla sua presidenza “moderata” non solo ha contenuto alcuni eccessi berlusconiani, ma ha costruito una leadership credibile per il futuro del centrodestra. Nei fatti, cioè, dallo scranno più alto di Montecitorio si può molto lavorare per determinare scelte, priorità e, soprattutto, “centralità” politiche.
Del resto, perché mai, se no, i Ds avrebbero rivendicato la carica per il loro uomo più rappresentativo? Massimo D’Alema - questo è sicuro - sarebbe stato un presidente della Camera tanto eccellente ed “ingombrante”, quasi quanto lo sarà Bertinotti - ma in una direzione, e al servizio di una visione strategica, tutt’affatto diverse. (A proposito: questa è stata la partita vera che si è giocata, in questi giorni: una partita tutta politica, altro che scontro sulle o per le poltrone o, peggio, “mercato dei posti”. Sarebbe bene finirla, con le drammatizzazioni e i finti scandali. O si pensa che i nuovi assetti del parlamento, del Quirinale, del governo si farebbero meglio tirando a sorte?)
Poi, naturalmente, c’è la soggettività di chi assume questo incarico – e con essa le sue chances di sviluppo, le sue potenzialità. Trattandosi di Bertinotti, queste carte sono intuibili fin da oggi (e un altro commento di ieri, sul “Riformista”, le sottolinea acutamente): attengono ad un compito, il rilancio della democrazia e della partecipazione politica, che il segretario di Rifondazione comunista ha più volte rappresentato in una formula efficace, la “Grande Riforma” di cui l’Italia ha bisogno come il pane. La stessa Rossanda, nel suo articolo, pone l’accento su questa urgenza - sull’emergenza democratica. Come può non vedere, allora, che proprio su questo terreno è decisiva la qualità politica, la radicalità democratica, di un presidente come Fausto Bertinotti, per ciò che egli è e per ciò che rappresenta? E chi, se non il presidente della Camera, può provarsi a mettere in moto questo processo? Un processo che comprende, per un verso, un rapporto nuovo tra dimensione istituzionale, società civile, movimenti. E che implica, per l’altro verso, una tendenza tanto virtuosa quanto necessaria: il riequilibrio dei poteri dello Stato, ovvero quel rilancio della centralità del parlamento e delle assemblee elettive di cui tanto abbiamo parlato e che, forse, ci siamo persi per strada. Tutto chiaro, tutto a posto? Ma no, il lavoro – l’avventura – deve ancora cominciare. La rivoluzione non è alle porte, si tranquillizzi il “Corriere”. Ma una nuova stagione della politica, questa sì, ha tutte le ragioni di temerla e di paventarla.
EUPHONIE
Suoni del Passato e del Futuro


Roma, 9-10-11 maggio 2006
dalle ore 20.30 - ingresso gratuito -
Discoteca di Stato
Via Michelangelo Caetani, 32
Info 06/68406901 - www.dds.it

COMUNICATO STAMPA

“EUPHONIE – Suoni del Passato e del Futuro” è un’iniziativa promossa dalla Discoteca di Stato in collaborazione con Fairylands, etichetta discografica indipendente e società da molti anni promotrice di eventi atti alla riscoperta e alla valorizzazione delle arti, culture e musiche dei popoli del mondo. Obiettivo della manifestazione è quello di presentare attraverso il concetto di Suono – emesso, riprodotto, interpretato e creato – un ideale percorso che trascende l’idea di spazio e di tempo, recuperando e valorizzando la funzione magica, ieri come oggi, della Musica. L’evento si svolgerà nelle serate del 9, 10 e 11 maggio a Roma, nei suggestivi cortili monumentali della Discoteca di Stato dalle ore 20.30 fino alle 23.00.

Il programma delle tre serate:

martedì 9 maggio 2006 ore 20.30
GLEN VELEZ - Frame drums concert
Glen Velez, americano di origini messicane, è considerato uno dei più grandi percussionisti attivi nella scena musicale internazionale. Virtuoso e profondo conoscitore dei tamburi a cornice, a lui si deve l’introduzione di questo strumento nella musica contemporanea (dal rock alla musica etno-folk).
Il merito di Glen Velez è di aver approfondito lo studio e le tecniche dei tamburi a cornice unendo a questo lo studio delle teorie ritmiche delle differenti culture musicali. Il talento di Velez ha fatto il resto. Così strumenti antichi (ma ancora vivi nella tradizione popolare) come il tamburello italiano, la kanjira indiana, il riqq egiziano, il tar medio-orientale, il pandero spagnolo, il bendir marocchino e molti altri, trovano una nuova collocazione e diffusione nel contesto musicale moderno. Grazie ad un metodo didattico che unisce la tecnica didattica indiana (in cui si vocalizzano i ritmi) ad un metodo di apprendimento ed assimilazione dei ritmi mediante passi sul posto, Glen Velez ha fatto scuola e ha dato ispirazione e insegnamento a percussionisti che hanno poi trovato il loro cammino di approfondimento e ricerca, contribuendo ulteriormente alla divulgazione dei tamburi a cornice. Glen Velez svolge un'intensissima attività didattica in tutto il mondo.
Glen Velez è stato insignito del premio Grammy Award e votato come Miglior percussionista dell'anno nel 2001 dalla rivista DRUM!. Ha collaborato con numerosi artisti, tra i quali: Pat Metheny, Suzanne Vega, Zakir Hussain e Sonny Fortune.

Il concerto di Glen Velez sarà introdotto dal live set di JINGLES & FRAMES Andrea Piccioni e Paolo Cimmino presentano il loro primo cd “For Gaya”, che vanta la partecipazione straordinaria del suonatore di kanjira indiana Ganesh Kumar.

mercoledì 10 maggio 2006 ore 20.30
Raffaello Simeoni - Controentu
Vincitore del premio della critica dell’ultimo Festival di Mantova come miglior autore della nuova musica popolare, sono tanti gli album e le collaborazioni di questo formidabile artista conosciuto e apprezzato in tutta Europa per la sua potenza vocale e la sua indimenticabile presenza scenica.
La forza e l’energia del canto di Raffaello Simeoni (co-fondatore nel 1985 del mitico gruppo folk-rock sabino Novalia) propone da più di vent’anni un repertorio in continua evoluzione: canzone d’autore e musica popolare, tra sperimentazione e tradizione.
Per la presentazione del suo nuovo album “Controentu”, Simeoni propone un concerto in quintetto con Stefano Manelfi e Cristiano Califano (chitarre), Massimo Cusato (percussioni), Michele Frontino (basso) e la participazione straordinaria di Massimo Giuntini (ex Modena City Rambler), il più grande virtuoso italiano di cornamusa irlandese, e l’indiano Rashmi V. Bhatt, ai tabla.

Il concerto sarà introdotto da GIULIANA DeDONNO che proporrà un repertorio dedicato all’arpa popolare, con brani della tradizione celtica, mediterranea e latinoamericana.

giovedì 11 maggio 2006 ore 20.30
T.A.O - Re-mix the World
Dopo due album di grande innovazione e lungimiranza sonora, continuano gli sperimenti per musica elettronica e risonanze folk, di questo supergruppo che ama definirsi “progetto”.
Si propone un viaggio musicale che fonde echi di world music a sonorità da sound system: dal confronto degli stili emergono, affascinanti, le diverse tecniche dei musicisti, che uniscono lirismo a virtuosismi incredibili, capaci di proiettare l’ascoltatore in mondi fantastici e lontanissimi passando dal repertorio medievale celtico a quello mediorientale antico, o al jazz mediterraneo, dal melodico al più ritmato, con variazioni e soluzioni originali, tutto remixato “live” dai synth elettronici di Ras Noiz (già noto coi Tiromancino, Almamegretta, Nidi d’Arac e altri). Uno straordinario intreccio di linguaggi e canto armonico interpretati da Gavino Murgia (launeddas, “bassu” sardo e sax soprano), Thoni Sorano (canto siciliano e turco), con Flaviano Vitulli (chitarra elettrica), Andrea Piccioni (percussioni etniche) e Raffaello Simeoni (voce, fiati e corde). Un’esperienza indimenticabile in cui sorprende e lascia senza fiato l’uso delle molteplici tecniche vocali e strumentali che interagiscono con uno spettacolo di proiezioni visuali curate dal Vj Phella.


Direzione Artistica: Giorgio Calcara (www.giorgiocalcara.it)
Il Giornale d'Italia 26.4.06
Le immagini del pensiero di Marco Bellocchio
“Il regista di matrimoni”, una nuova svolta nella visione del regista piacentino
di Monica Bonciarelli


Venerdì scorso, mentre Moretti ritirava al Premio David ben sei statuette tra cui miglior film e migliore regia per “Il caimano”, usciva in tutte le sale cinematografiche l’ultima realizzazione di Marco Bellocchio, “Il regista di matrimoni”. Quest’ultimo, non ha concorso all’assegnazione dell’ambito riconoscimento ma sembra aver riscosso tra il pubblico molti più consensi rispetto al film del girotondino Moretti. Ad un primo sguardo, le due produzioni cinematografiche sembrano trattare argomenti simili come il dramma del regista o la realtà culturale che ci circonda ma, ad una osservazione più approfondita e attenta, ci si rende conto di vedere delle immagini completamente diverse. Differenti da quelle del “vecchio” Bellocchio, e soprattutto differenti da quelle di Moretti. Il maestro piacentino con i suoi film, negli anni ci ha raccontato quello che era e la ricerca che stava e sta affrontando: non ha mai nascosto la sua partecipazione all’Analisi collettiva di Massimo Fagioli e di quanto da questo grande Professore abbia potuto imparare. “Buongiorno notte” gia qualche anno fa (2004), sembrava preannunciare una svolta del regista che però per concretizzarsi, ha dovuto attendere qualche altro anno e prendere forma ne “Il regista di matrimoni”. Sono immagini che non disegnano la realtà per quella che è, per come appare, ma di come questo artista la vede, con la sua sensibilità e fantasia. Non sono riproduzioni oniriche ma immagini del pensiero non cosciente. Con questo stile introdurrà due brevi sequenze de “I Promessi Sposi” di Mario Camerini del 1941 o “trasformerà” due pitbull neri in pastori tedeschi bianchi. Con questo stile parlerà della crisi di un cineasta, di quell’Orazio Smamma che fingerà di essere morto per arrivare a contare qualcosa, anche se da morto non se la potrà più godere. Con altro stile ancora racconterà della principessa del castello che un altro regista, Franco Elica (Sergio Castellitto), dovrà salvare dal matrimonio combinato con un uomo di cui non è innamorata. Non si tratta di una fiaba a lieto fine però, perché i due non scapperanno insieme ma Bona, (Donatella Finocchiaro) se ne andrà da sola, con il pensiero di aver vissuto dei bei momenti con il tormentato regista, che però Bellocchio lascerà solo come istanti platonici. La canzone interpretata da Mariangela Melato e riadattata all’occasione, “Sola me ne vò per la città”, sembra adatta a raccontare la vita solitaria della donna, anche se per quel tale ritmo, la principessa dovrà abbandonare lo sguardo malinconico di quando sul treno se ne va.

altri articoli su "Il regista di matrimoni" finora non apparsi su "segnalazioni"

cinema.multiplayer.it 23.4.06
Bellocchio: incontro a Roma

Incontro con Marco Bellocchio e Sergio Castellitto.
Il regista di matrimoni pronto per volare a Cannes, nella sezione Un Certain Regard
di Vittorio Renzi

Incontro a Roma con Marco Bellocchio e Sergio Castellitto, il regista e l'interprete de Il regista di matrimoni, un film che è quasi una favola, "un'avventura misteriosa e anche un po' incomprensibile" come la definisce Marco Bellocchio.

C’è qualcosa di autobiografico ne Il regista di matrimoni?
Marco Bellocchio: Beh, in un certo modo tutto è autobiografico, bisogna capire cosa si intende. Le immagini vengono da te, nascono dalla tua vita. La tua cultura e la tua ricerca influiscono sul modo di filmare. Senz’altro si tratta di un film molto personale, anche se a me non è mai successo quello che succede a Franco Elica!

Potremmo dire che il personaggio di Smamma è il tuo portavoce?
Marco Bellocchio: Direi piuttosto che Elica e Smamma sono due opposti. E’ ovvio che ogni artista cerchi un riconoscimento all’esterno. Ma mentre Elica è impegnato nella ricerca di un’identità profonda, Smamma è ossessionato dal riconoscimento ufficiale. Ma la vera salvezza per un artista non dipende da questo, bensì da una salda identità che non ha bisogno di nessun premio per andare avanti.

E’ casuale la scelta della Sicilia, dove fatti anche recenti dimostrano che si può vivere nascosti per oltre quarant’anni?
Marco Bellocchio: La mia Sicilia è senz’altro immaginaria, e non c’è una ragione precisa per la scelta di questa ambientazione. Elica vuole separarsi da un progetto fallimentare che è quello sui Promessi sposi, anche perché ha capito che c’è qualcosa di sporco all’interno della produzione. Allora fugge in un altro luogo, dove vari personaggi lo metteranno alla prova. In più Elica non è riuscito ad impedire il matrimonio della figlia ed è in cerca di una sorta di risarcimento. Ecco dunque che lotta, in modo a volte comico, a volte drammatico, per evitare il matrimonio della ragazza siciliana, questa principessa triste. E’ un percorso un po’ da fiaba, come mi è stato fatto notare da qualcuno.

Riguardo al film commissionato a Elica sui Promessi sposi: come vivi tu i film su commissione, come nel caso di Buongiorno, notte?
Marco Bellocchio: Buongiorno, notte mi è stato commissionato, è vero, dalla Rai. Ma questo non c’entra assolutamente niente dal momento che ho avuto piena libertà e che è uno dei miei film che amo di più.

Sergio, come ti sei sentito nei panni dell’alter ego di Bellocchio?
Sergio Castellitto: Intanto dico che, dopo L’ora di religione e Il regista di matrimoni, mi piacerebbe molto essere anche in un altro film: confido in una trilogia! Nel primo, ero un pittore, qui un regista, due figure in crisi (uno con il passato, l’altro con il presente). Quella di Elica è una fuga che io considero però un gesto attivo, perché di fatto rifiuta di girare quel film. E allora vediamo, come era scritto nella sceneggiatura, che Elica se ne va da Roma uscendo di campo a destra, e arriva in Sicilia entrando in campo da sinistra. Una Sicilia anomala, piovosa, quasi “scozzese”. Elica rivendica perciò il primato dell’esistenza, che è fondamentale per l’artista.

Marco, a che punto sei con la religione?
Marco Bellocchio: Sulla religione mi sono espresso spesso. Credo che oggi affermare il proprio ateismo sia una cosa fuori moda, come tutte le conversioni degli ultimi anni stanno a testimoniare. Ma da candidato uscente della Rosa nel Pugno sono molto tollerante in merito e vorrei perciò la stessa tolleranza. Io non faccio lotte contro la religione ma voglio poter affermare la mia non religiosità. Nel film, il personaggio di Smamma ha qualcosa di religioso: crede che un premio possa salvarlo. Ecco allora che il film si riempie di simboli, come la croce che prende fuoco ma poi si spegne subito. O il regista che verso la fine dice “Mamma”, come faceva Costantin ne Il gabbiano.

Ci dici qualcosa sull’alternanza così ricercata fra 35mm e digitale?
Marco Bellocchio: Volevo dare una sensazione di controllo. Oggi viviamo controllati. Qui si tratta in parte anche di controllo metafisico. Non dico da parte di Dio, ma è come se Elica fosse in qualche modo controllato… A me non interessa che ogni immagine venga “spiegata”, abbia il suo chiaro significato, come nei film americani. Comunque è stato fatto un grande lavoro di montaggio, proprio al fine di lasciare alle immagini la loro qualità di immagini, una cosa per me fondamentale.

In questo film esistono tre registi [il Franco Elica di Castellitto, Smamma di Cavina e Baiocco, il regista di matrimoni, interpretato da Cariello], è interessante il rapporto che esiste fra loro.
Marco Bellocchio: Il regista di matrimoni è, fra i tre, l’unico che lo fa come mestiere, vorrebbe essere un grande regista… Ma viviamo ormai in una nazione che non è più, come si diceva un tempo, una nazione di poeti, ma di registi. Migliaia di registi o aspiranti tali. Tutti ormai posso fare i loro film e montarseli e c’è un’enorme circolazione di immagini che rischia però di affossare la qualità delle immagini stesse. Il che vale anche per la televisione con i suoi reality show, questa sorta di invasione degli ultracorpi… Il discorso dell’identità è sempre più minacciato dalla recita della vita.

Nel film ricorre spesso questa frase: “In questo paese comandano i morti”. Puoi estendere il concetto?
Marco Bellocchio: Nel nostro cinema non c’è un vero rinnovamento, a parte pochissime eccezioni, e dunque è dominato da vecchie idee. In più c’è questo stradominio della televisione, per cui il cinema diviene un fatto sempre più elitario. C’è poi l’aspetto cattolico della questione, secondo cui dopo che uno è morto, chi è vivo è tranquillo e lo può premiare… La storia dell’arte, lo sanno tutti, è piena di artisti postumi: pensiamo solo a Van Gogh. Certo, questo non è il mio caso: in quarant’anni di carriera io ho ricevuto fin troppi riconoscimenti ufficiali, per cui non posso certo sentirmi uno Smamma!

Questo film dice molto sull’Italia di oggi. Credi che lo avresti fatto nello stesso modo dieci anni fa?
Marco Bellocchio: Sinceramente non saprei cosa rispondere... Pensando a Buongiorno, notte, mi sono addirittura concesso un doppio finale, un finale in cui Moro era vivo, una sorta di mia ribellione all’ineluttabilità della storia. In questo film ho sentito andare in crisi in modo più accentuato il mio modo di fare cinema. Desideravo qualcosa di più complesso. Sia prima delle riprese che dopo, al montaggio, abbiamo eliminato molte parole, molte situazioni per andare oltre la struttura classica del film. Abbiamo fatto in modo che il film fosse pieno di sospensioni e di crepe, come se fosse stato smontato e bisognasse ricostruirlo.

Il lavoro sul tempo, le sospensioni, gli orologi che si fermano e poi riprendono a funzionare, come nella Bella e la bestia di Cocteau... C’è una sorta di funzione “mitologica” del tempo nel tuo film?
Marco Bellocchio: Mitologica no, non direi. Diciamo piuttosto che oggi, molto più di ieri, sono affascinato dalla potenza delle fiabe. E’ un andare indietro anche alle mie origini, alle mie prime letture. Il discorso del tempo e degli orologi mi ha ricordato anche Sussurri e grida di Bergman… Non so dirti altro. Quello che posso dire è che senz’altro con il montaggio abbiamo ricostruito il tempo del film.

L’Italia raccontata, definita da Moretti nel Caimano, come “sospesa fra orrore e folclore”, qui appare trasposta in immagini. E’ una cosa prevista, voluta?
Marco Bellocchio: Non ho visto l’ultimo film di Moretti, lo vedrò poi con calma, anche se ho visto tutti gli altri e quindi posso dire di conoscerlo bene. Trovo che ci siano due differenze fondamentali fra di noi: nei suoi film (non so in quest’ultimo) c’è il primato della parola, mentre a me interessano di più le immagini. Poi, la sua visione del mondo è disperata, cupa, non lascia speranze, mentre nel mio caso credo ci sia sempre il tentativo di passare dalle tenebre alla luce, in ogni caso c’è questo movimento, una ribellione, per quanto insufficiente o parziale possa essere. Ma il sentimento profondo è questo, come nel personaggio femminile di Buongiorno, notte: sognare di evitare l’ineluttabilità della storia; o ne L’ora di religione, in cui Picciafuoco è un uomo che lotta contro l’ipocrisia che gli è attorno.

Sergio, i tuoi personaggi nei due film di Bellocchio sembrano pervasi da una sorta di stupore. Cosa ti ha lasciato questo film?
Sergio Castellitto: Lo stupore nasce innanzitutto proprio dal fatto di lavorare con Marco, che lavora sempre sui suoi dubbi e le incertezze, e questo è entusiasmante perché la crisi è un momento fecondo e importante per ogni vero artista: un artista che sa sempre esattamente cosa fare probabilmente è già morto. Questo film poi è come un trompe l’oeil dell’Italia e per me che vengo dal teatro, il teatro è più reale della vita. Per cui ha davvero molto da dire sulla realtà. Dal fuoco di Picciafuoco, un fuoco che non si appicciava, al Franco Elica, quest’elica che non gira e riprende a girare solo alla fine del film. Devo dire che in quest’ultimo film per la prima volta mi è successa una cosa che, generalmente, mi fa orrore: mi è successo di pensare a un altro attore, e cioè al borghesissimo e un po’ stolido Fernando Rey di Buñuel. Faccio poi notare che Marco, regista ateo - ed è la sua ennesima contraddizione - ha scelto me come attore che sono un credente! Il che è segno anche della sua grande tolleranza.

cinema.multiplayer.it 21.4.06
Il regista di matrimoni
Recensione
Il ritorno di Bellocchio sotto il segno di un cinema frastagliato e “incompiuto”, fra religiosità (respinta), immagini di immagini
e una Sicilia che molto ci dice dell’Italia di oggi
di Vittorio Renzi

Dopo l’Ernesto Picciafuoco de L’ora di religione, Marco Bellocchio si avvale per la seconda volta di Sergio Castellitto, nuovamente nei panni di un artista in crisi. Non più pittore ma regista, in procinto di smarrirsi nel panorama conformista e angusto del cinema televisivo italiano.
Ne esce un film volutamente meno compatto di Buongiorno, notte e apparentemente meno provocatorio di L’ora di religione, complesso e sfaccettato come certi suoi film degli anni Settanta e Ottanta ma più fruibile, dal momento che la narrazione possiede un tono quasi fiabesco, ambientata nella cornice di una Sicilia sui generis nella quale non è difficile scorgere una metonimia dell’intera nazione: ovvero l’”Italietta” canzonata da Jerzy Sturosky nel Caimano di Moretti.

Dopo aver assistito, impotente e frustrato, al cattolicissimo matrimonio della figlia, e ora impegnato nei provini per l’ennesima versione dei Promessi sposi, improvvisamente Franco Elica (Sergio Castellitto) si sente proiettato altrove e fugge via da quella produzione e da quell’ambiente romano, sempre più soffocante. Fugge via anche da un’accusa di violenza carnale la cui fondatezza non è neanche molto chiara.
Improvvisamente è su una spiaggia in Sicilia, ad osservare una coppia di sposini impegnata in convenzionali scene romantiche da album: i due vengono diretti senza molta fantasia da un regista di paese, specializzato in matrimoni, tale Enzo Baiocco (Bruno Cariello). Costui lo riconosce e gli chiede consiglio sul modo di girare una scena.

In Sicilia Elica incontra anche un suo collega, Smamma (Gianni Cavina), che era stato dato per morto e che è il candidato più probabile a vincere il prossimo “David di Michelangelo (sic)”. Tramite Baiocco, Elica conosce il Principe di Gravina (Sami Frey), che ha dissipato la propria fortuna e, per evitare lo sfacelo, sta per maritare la figlia Bona (Donatella Finocchiaro) col rampollo di una famiglia ricca. Costui ingaggia Elica per le riprese del matrimonio, ma Elica, conosciuta la principessa, ne rimane affascinato e decide di sabotare il suo matrimonio.

Il discorso di Bellocchio parte ancora una volta dalla religione, ma solo per andare oltre.
Nella prima sequenza, Elica osserva con distacco sprezzante il matrimonio cattolico di sua figlia. Lei stessa non sembra molto convinta di ciò che sta facendo, lui vorrebbe fermarla ma alla fine desiste e si lascia convincere a riprendere la scena. Ma il puntiglio rimane e alla fine Elica, probabilmente anche per amore, cerca un risarcimento nel tentativo di impedire il matrimonio della principessa siciliana.

Uno sguardo, quello bellocchiano, sempre grottesco e surreale - i primissimi piani insistiti sulla sposa, la gente che inciampa sul velo - meno irrequieto che in passato, ma non meno a disagio e in conflitto con una ritualità che in Bellocchio appare come la vera e unica essenza del Cattolicesimo, da cui prende sempre e comunque le distanze.
Il discorso poi si allarga e va ad investire altri temi, come il ruolo dell’immagine nella società italiana di oggi, un ruolo sempre più inconsistente e appiattito, come dimostra il gioco di specchi fra i tre personaggi di registi presenti nel film. Oltre a Elica, in crisi con la propria artisticità, Smamma, che è disposto anche a “morire” per un riconoscimento, e il regista di matrimoni siciliano, che si limita a fare un mestiere: un regista al grado zero, potremmo dire, ma alla fine paradossalmente più dignitoso di uno Smamma (o di ciò che Elica potrebbe diventare), rimasto incastrato nell’ingranaggio ricattatorio e squalificante di un cinema da passerella.

Il discorso investe anche il senso delle immagini e si manifesta nella costruzione stessa del film, nella regia come nel montaggio: da una parte le sequenze si interrompono causando un senso di sospensione e di indefinitezza degli eventi; dall’altra, le immagini si alternano in diverse modalità e registri: una stessa immagine viene riproposta in digitale e in bianco e nero, come filtrata dall’occhio impreciso e appiattente di una telecamera di sorveglianza (ma non è così, poiché spesso si tratta di soggettive dello stesso Elica).
Nella prima parte, inoltre, vengono interposti alla narrazione alcuni spezzoni da I promessi sposi di Mario Camerini. Una modalità che semina incertezza, disturbo, molteplicità di punti di vista e che costituisce al tempo stesso un’interrogazione in fieri sullo statuto delle immagini e sulla rappresentazione/manipolazione della realtà, processo che del resto non è nuovo in Bellocchio (basti pensare all’uso della televisione come percezione del mondo e del passato in Buongiorno, notte).

Più in generale, lo sguardo è quasi sempre di secondo grado: Elica che guarda un regista che riprende due sposini sulla spiaggia, Elica che studia il volto di sua figlia attraverso il monitor della telecamera; oppure ancora vetri, doppi vetri e “quinte” che trasformano certe inquadrature in un gioco di scatole cinesi, dove proliferano i punti di fuga.
Per finire, una Sicilia al tempo stesso irreale e iperrealista, luogo altro e, al tempo stesso, cuore di un’Italia favolistica, ma anche tristemente reale. Una Sicilia/Italia mummificata in un reticolo di riti e tradizioni, cieca e omertosa dinnanzi a certi “principi” che possono così ergersi a padri e padroni e perseguire indisturbati i loro interessi.
Il regista di matrimoni conferma dunque, se ce ne fosse ancora bisogno, l’unicità di Bellocchio nel panorama cinematografico italiano, uno dei pochi cineasti disposti ancora a rischiare e a fare del cinema uno strumento di indagine e di comunicazione, prima ancora che di intrattenimento.

lettera22.it/ 24.4.06
Il regista di matrimoni
di Maurizio Regosa

Jean Cocteau, che di visioni se ne intendeva parecchio, diceva che l’artista è colui che mette i piedi nel piatti. Nel senso che è imprevedibile e non rispetta le regole.
Marco Bellocchio, che sta svelando sempre più la sua vena visionaria, è artista proprio alla maniera di Cocteau: nel suo Il regista di matrimoni si prende una libertà piena e assoluta.
Fa sì che il personaggio del titolo (Sergio Castellitto) divenga attore del filmino matrimoniale, entri nel campo della finzione agìta, quasi sempre inviolabile per chi lo crea.
Intreccia i piani, creando un primo livello narrativo del resto molto ma molto archetipico sul quale si attorcigliano altri riferimenti, metariflessivi per lo più (lo aveva già fatto più di vent’ani fa con l’Enrico IV, con risultati migliori).
Si diverte a spiazzare lo spettatore seguendo un andamento che procede privilegiando la forma (il montaggio è dominato dall’ansia dell’analogia visiva oppure dal fortissimo contrasto) e cura un po’ meno i raccordi logico-narrativi, saltando qua e là perché anche il pubblico possa finalmente provare l’esperienza dell’intelligenza.
Il risultato, direi, ha lo splendore freddo dell’analisi, che se non coinvolge, pure lascia ammirati (in specie i critici). La sapienza nella creazione di immagini forti, dissonanti, asimmetriche, mai banali è tale da suscitare la nostalgia per una storia più vigorosa e forte, per una narrazione più libera dal pensiero “debole” che sa e non vuole dire tutto, che pensa per frammenti e si dice in modo ritroso, quasi timido sino al finale che più aperto di così non si può. È bravo bravissimo, Bellocchio, a infondere alle sue inquadrature una carica ipnotica, a far sì che paiano quasi la parte superficiale di un magma che ribolle e che è misterioso.
Si intuisce solo in parte, ad esempio, perché Castellitto debba girare un film tratto da I promessi sposi. Esempio di produzione non attuale? Giudizio critico nei confronti della produzione italiana (accompagnato del resto da altre, più esplicite affermazioni)? Comodo riferimento per codificare alcune situazioni che ricalcano quelle del romanzo manzoniano e lasciar intendere altre e più forti riserve nei confronti dei personaggi del film?
Personaggi nei confronti dei quali traspare un rapporto di odio e amore da parte di Bellocchio: comprende le ragioni del suo alter ego eppure non lo soccorre, anzi. Allo stesso modo conosce la pervasività delle immagini, così forti da prevaricare sulla cerimonia più importante della vita, e l’enfatizza giocando con il bianco e nero e potenziando così la sua visionarietà post-moderna.

University.it 22.4.06
Fuga nel regno del cinema

"Il cinema è dominato da vecchie idee; schiacciato dal potere della televisione rischia di diventare elitario. Io credo fortemente nella rivendicazione della forma e nel primato dell'immagine.". Basterebbero queste due righe, fedele trascrizione di un concetto che Marco Bellocchio ha espresso con chiarezza esemplare durante l'incontro con la stampa di presentazione del film, per raccontare il suo Il regista di matrimoni.

E invece no, pensandoci bene non bastano queste parole. Non rappresentano pienamente il giusto tributo ad una pellicola di esemplare bellezza e di enorme valore teorico ed estetico; uno dei film più compiuti di un autore pieno, un outsider lucidissimo del nostro pazzo e disperato cinema italiano. Il regista di matrimoni è contemporaneamente la messa in atto coerente e riuscita del concetto espresso in apertura, quanto un poderoso sguardo sulla realtà attraverso una sintesi contenutistico-formale astratta, visionaria, esaltante. È l'approdo del cinema di Bellocchio, il raggiungimento di una consapevolezza estetica sorprendente e probabilmente definitiva. Un grido di allarme potente e rabbioso, evocativo ed onirico sull'inferno di una quotidianità nulla, irraccontabile ed irraggiungibile.

C'è un uomo in crisi. Si chiama Franco Elica Sergio Castellitto ed è un artista: un regista segnato dalle sue scelte, da un rapporto smarrito con la figlia e dalla perdita di senso del vivere. Il suo adattamento dei Promessi Sposi è in pre-produzione, ma su di lui incombono accuse di violenza sessuale e una chiara aria di boicottaggio. È tempo di fuga in Sicilia. Un matrimonio su una spiaggia sarà il punto di partenza di una rinascita, il motivo per rimettersi in discussione, mentre un suo collega regista, ossessionato dai premi, si finge morto - perché in questo Paese comandano i morti - per ottenere il suo agognato David di Michelangelo il Donatello meta-cinematografico di Bellocchio. Intanto un principe alla ricerca dell'antico status perduto gli commissiona la regia del matrimonio d'interesse di sua figlia Bona di cui Franco si innamorerà.

Fotografato splendidamente da Pasquale Mari ed avventurosamente musicato da Riccardo Giugni da applausi il pregnante connubio tra l'inquietante commento sonoro e il repertorio classico e contemporaneo il film vive su una straordinaria dimensione altra garantita dal potere di una messa in scena affilatissima e dal sensazionale montaggio sospeso di Francesca Calvelli una gigante assoluta, la Thelma Schoonmaker italiana. Bellocchio filma con irruenza e trasporto un'Italia patetica, reazionaria e provinciale, rifiutando qualsiasi didascalismo o banalità ed indagando una crisi con il linguaggio della crisi, integrando forme e contenuti con una lucidità ragguardevole. Il cinema diviene così il mezzo attraverso il quale il regista italiano prende una posizione di straordinaria intransigenza. Filmando ed indagando la soglia tra il visibile e l'invisibile cinematografico, tra il fuoco ed il fuori fuoco, tra il sogno e la realtà, Bellocchio restituisce alla visione quello scarto fondamentale che rende ancora unica l'esperienza cinematografica. Ma è solo una fuga irreversibile, ad occhi chiusi ben spalancati.

cinema.supereva.com
Marco Bellocchio
Un'avventura misteriosa e incomprensibile
di Alessandra Bitti

Dopo la famiglia, la religione, l'istituzione militare, la figura del padre è arrivato il momento del matrimonio: Il regista di matrimoni, il film di Marco Bellocchio inserito nella sezione Un Certain Regard del prossimo Festival di Cannes. Nel suo stile, Bellocchio si ribella agli stereotipi e mette in scena un alter ego, Sergio Castellitto, regista in crisi privata e professionale. Incontriamo Bellocchio, consueta aria tranquilla e apparentemente distratta, e gli chiediamo di raccontarci questa sua nuova fatica... "Qualcuno ha visto in questo film uno spirito da fiaba, una cosa che condivido. Sono sempre stato affascinato dalla potenza delle fiabe; un modo per tornare indietro verso le origini, verso le mie prime esperienze di lettura''.

Ci sono diverse chiavi di lettura racchiuse nel film...
"Ho voluto rccontare un'avventura misteriosa e un po' incomprensibile, quella vissuta dal personaggio principale e che procede per scene non finite, in modo sospeso".

Elica e Smamma, i due personaggi a confronto...
"Si contrappongono: mentre il primo cerca un'identità profonda, che riguarda innanzitutto la sua vita personale, il secondo è ossessionato da un riconoscimento che lo porterà all'autodistruzione".

Ci sono riferimenti personali?
"Dipende ca cosa si intende, le immagini del film certamente nascono dalla mia vita, poi però c'è un modo estremamente complesso di trasformarle. Comunque è sicuramente un'opera molto personale".

C'è ancora la sua ossessione religiosa...
"Io sono ateo ma affermare il proprio ateismo è una cosa molto fuori moda: c'è un'esplosione di conversioni a destra, a sinistra, dappertutto. Ma, da candidato uscente della Rosa nel pugno, sono molto tollerante: vorrei che ci fosse la stessa tolleranza nei miei confronti, che esista la possibilità del riconoscimento di non essere credente".

Il ruolo della donna è un po' debole...
"Ammetto di essere in difficoltà con le donne ma posso garantire che mi interessano...".

E c'è un attacco esplicito alla nostra cultura con la frase "In Italia comandano i morti".
"E' una frase che si può ben applicare all'intero ambito della cultura perché nel nostro Paese non c'è alcun rinnovamento: nel cinema cambiano le persone, ma le idee sono vecchie. E comunque, in generale, di geni postumi è piena la storia dell'arte: basta pensare a Van Gogh. Mi sembra che oggi ci sono centinaia di registi e festival ma siamo come dominati dalla tv, dai reality show che sono come un'invasione di ultracorpi dove l'identità è minacciata dalla recita della vita. Così da un punto di vista cattolico, come accade appunto al regista Smamma nel film, quando uno è morto, chi sopravvive è tranquillo e può così anche premiare il defunto. Per me però non è stato così: ho avuto fin troppi riconoscimenti''.

Ha visto Il caimano di Moretti?
"No, ci andrò con calma".

Anche nel film di Moretti il ritratto del nostro paese non è certo esaltante...
"Conoscendo tutti gli altri suoi film posso dire che tra noi ci sono due grosse differenze. La prima è che lui è un regista di parole, io di immagini. La seconda è la sua visione del mondo, è assolutamente cupa, disperata; nel mio film, invece, c'è un tentativo di andare dalle tenebre alla luce, si intravede la possibilità di un miglioramento".

Quanto è stata importante la televisione nella campagna elettorale?
"Il potere delle tv ha dimostrato ancora una volta di essere onnipotente. Se le elezioni fossero durate anche solo un'altra settimana l'Unione avrebbe sicuramente perso".

jugo.it
Cinema: Il regista di matrimoni, nato da un'immagine

Sergio CastellittoIl regista Marco Bellocchio torna a dirigere Sergio Castellitto per il film ''Il regista di matrimoni''. A distanza di circa 4 anni da "L'ora di religione" (2002), la copppia si riforma per una pellicola nata da ''un'immagine''. E' lo stesso Bellocchio, infatti, a sottolineare che ''Il regista di matrimoni è nato per un’immagine casuale sulla spiaggia di Scilla in Calabria: una coppia di giovani sposi filmati appunto da un regista di matrimoni''.

Ne è così sorta una commedia che riflette quell'istante tutto particolare, dove il protagonista, il regista Franco Elica, si trova nella situazione di dover filmare un matrimonio. Come per il regista osservato da Bellocchio a Scilla, anche Elica non si preoccupa di capire il significato delle nozze. Anzi, Franco agisce addirittura per sabotarlo. Come? Si lascia travolgere da una passione inaspettata per la futura sposa, Bona Gravina, principessa di Palagonia.

Sergio Castellitto Ma la storia inizia da più lontano, da quando Franco Elica entra in crisi perché la figlia ha sposato un fervente cattolico e perché è costretto, suo malgrado, a girare l’ennesima versione alienante dei “I Promessi Sposi”. Alla crisi si aggiunge un evento inaspettato, così decide di fuggire in un paesino della Sicilia profonda, dove incontra un uomo che si guadagna da vivere girando filmini di matrimoni e un regista che si spaccia per morto per ottenere finalmente il riconoscimento mai avuto prima “in vita”. Conosce anche il principe Ferdinando Gravina di Palagonia, un nobile spiantato che gli propone di dirigere il film del matrimonio di sua figlia, Bona. Franco, però, si innamora immediatamente della bellissima principessa e decide di salvarla da un matrimonio di convenienza.

''Questa passione lo guiderà alla salvezza di Bona- commenta Bellocchio - evitandogli pericoli anche mortali che troverà disseminati sulla sua strada… Ma poiché non è un eroe nato sbanderà spesso in questo pericoloso percorso e quasi volontariamente come se avesse paura di vincere, di conquistare la donna amata e di essere felice con lei. A un passo dalla vittoria rischierà di perdere tutto come se sbagliasse apposta per rimandarla continuamente''.