sabato 15 luglio 2006

l'Unità 15.7.06
No, il carcere non è un manicomio
La polemica
Risposta a Massimo Fagioli che sulla rivista Left ha sostenuto che le galere hanno sostituito le istituzioni abolite alla legge Basaglia. Così si riduce la popolazione detenuta a un concentrato di malattie mentali
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Nei penitenziari ci sono persone malate e persone sfortunate. Ma sono uomini e donne artefici del proprio destino e capaci di riscatto

II problema è dunque quello dell'istituzione carceraria che, così com'è fatta, riproduce l’attività criminale e se stessa

Si dice (sempre più spesso, sempre da più parti): «il carcere è diventato una discarica sociale». E una frase ambigua, da sottoscrivere solo in parte. Da un lato, mette bene in luce come il sistema penale e penitenziario si sia trasformato in un terminale per molteplici processi di marginalizzazione e di esclusione; e suggerisce come lo stato, e la società tutta, siano, in molte situazioni, sempre più assenti, sempre più incapaci d'intervenire per garantire opportunità di integrazione e di «recupero» alle fasce più deboli ed esposte della popolazione. Spiega, quella frase, come il sistema della «sicurezza civile» (che presiede alla difesa dell'incolumità dei cittadini e, quindi, procede a sanzionare chi, quest'incolumità, violi o metta a repentaglio) e quello della «sicurezza sociale» (che è fatta di diritti, welfare, intervento pubblico, garanzie) siano sempre più divaricati, sino a diventare confiiggenti. E la tendenza emergente da questo conflitto segnala che gli strumenti della repressione prevalgono su quelli della inclusione: ovvero che il carcere è divenuto, nel tempo, una non-soluzione a problemi di ordine sociale, più che penale. E, dunque, varrebbe la pena rovistare tra i «rifiuti» se di «discarica» si tratta; e si scoprirebbe che gli istituti di pena sono pieni di immigrati irregolari, tossicodipendenti, persone affette da disturbi psichici, emarginati d'ogni genere. Individui la cui condizione, sociale e individuale, può rivelarsi come un potente fattore precipitante verso le più diverse forme di devianza; e la cui condizione di marginalità impedisce, assai spesso, l'applicazione di quelle forme di difesa e tutela previste per chi è accusato di un crimine. Dunque, individui per cui il carcere si traduce, nella maggior parte dei casi, in un mero aggravamento del disagio e della emarginazione che già scontano.
Lo spunto per queste note ci viene da un articolo di Massimo Fagioli, pubblicato sul numero 26 del settimanale Left. Lo psichiatra romano sembra invitare a una riflessione proprio su questo punto: chi sono i detenuti? Qual è il loro profilo sociale, culturale, economico? e clinico? In quello scritto si accenna a diverse questioni, ugualmente meritevoli di approfondimento; ma una su tutte ci sembra la più interessante e riguarda proprio l'approccio scientìfico dell'autore: secondo il quale il carcere avrebbe, nella maggior parte dei casi, sostituito i manicomi aboliti dalla «riforma Basaglia». Le nostre galere, insomma, sarebbero piene di casi psichiatrici: persone, cioè, che andrebbero curate, ancor prima di essere punite. Sullo sfondo di questo ragionamento, si scorge quella che Fagioli stesso riconosce come un'utopia: l'abolizione del carcere in quanto istituzione. E, tuttavia, se quell'idea rimane - nelle condizioni attuali - «una favola», da essa si dovrebbe pur muovere per ripensare radicalmente la funzione sociale del sistema penale: serve a punire o a riabilitare? E quali effetti produce la detenizione sulla persona? E in quali casi vi si dovrebbe ricorrere?
Lo si è scritto più volte su queste stesse colonne: l'impostazione che vede il carcere quale principale (se non sola) politica penale è profondamente sbagliata. La detenzione, specialmente per come si configura nel nostro sistema, va ridotta ai minimi termini, riservata ad alcune fattispecie di reato e prevista solo per quei casi in cui la libertà del reo costituisce una minaccia attiva per la società. Esistono molte possibili forme di sanzione, alternative al carcere e più efficaci di esso, rispetto alle quali poco si è realizzato e poco si è sperimentato. Siamo altresì convinti che le «patrie galere» siano colme (anzi, stracolme) di persone che lì non dovrebbero trovarsi, che avrebbero bisogno di cura, aiuto, assistenza. Pure, quell'equazione tra istituti di pena e luoghi di «concentrazione» dei rifiuti, come dicevamo in apertura, non ci convince del tutto. E non perché ci sembra osceno che si paragonino i detenuti alla spazzatura (non c'è alcun intento stigmatizzante in quella definizione: al contrario). Ma non crediamo esistano dei meccanismi così ineludibili e cogenti da determinare una relazione stretta, di causa-effetto, tra lo svantaggio sociale e il crimine. Quello svantaggio è un fattore agevolante importantissimo: ma non è, in ultima analisi, un fattore determinante. Così pure, il ragionamento di Fagioli appare in larga misura condivisibile: è vero che il gesto criminale è molto spesso sintomo di un disturbo profondo, che meriterebbe cura e attenzione; e, tuttavia, questa affermazione (riferita specificamente a chi commette i reati più gravi ed efferati) non è generalizzabile oltremisura. In primis, perché questo approccio rischia di scivolare in una sorta di «panpsichiatrizzazione» della delinquenza o, peggio, della devianza. E, come ben documenta una ricerca di Laura Astarita sul carcere bolognese della Dozza, già oggi i detenuti assumono una quantità di psicofarmaci (vuoi perché effettivamente portatori di disturbi psichici, vuoi perché si tende a «sedarli») di gran lunga superiore, proporzionalmente, a quella consumata tra la popolazione libera. Secondariamente, perché questa visione, come più in generale quella della «discarica sociale», rischia - se portata alle estreme conseguenze - di validare un atteggiamento patemalistico-assolutorio, nei confronti dei detenuti, che vanifica il peso e il ruolo della volontà individuale. L'analisi del contesto, dei dati clinici, dei disturbi della personalità è determinante per comprendere un fenomeno assai complesso quale è quello del crimine: che è, innanzitutto, una misura fisiologica e inestinguibile di resistenza e infrazione alle regole che organizzano una società. E vanno tenuti in grande considerazione, per far sì che la giustizia penale non sia estranea a quella sociale. Ma equiparare il carcere, persino «questo» carcere, a un sistema di occultamento e segregazione della follia vuoi dire ridurre la popolazione detenuta, nel suo complesso, a un concentrato di malattia mentale. Così pure, equipararlo definitivamente a una «discarica sociale» vuoi dire dare per spacciato chiunque nasca in condizioni di grave disagio sociale. In carcere ci sono molte persone malate e molte persone sfortunate; ma ci sono, soprattutto, uomini e donne artefici del proprio destino. E, dunque, capaci del proprio riscatto. Per questo motivo, soprattutto per questo motivo, non meritano di vivere segregati in un meccanismo punitivo, capace solo di riprodurre l'attività criminale stessa. E, con essa, il carcere.




Corriere della Sera 15.7.06
IN COMMISSIONE
Camera, primo sì all’indulto


Un indulto di tre anni. Lo prevede il testo base sullo sconto di pena approvato a larga maggioranza dalla commissione Giustizia della Camera e messo a punto dal deputato della Rosa nel pugno, Enrico Buemi. L’indulto, applicato a tutti i reati commessi fino al 2 maggio 2006, è escluso per i reati di maggiore pericolosità sociale come stragi, terrorismo e mafia, sequestri di persona a scopo di rapina o di estorsione, ma anche per quelli a sfondo sessuale: dalla violenza di gruppo, alla detenzione di materiale pedo-pornografico. Gli emendamenti al testo dell’indulto, che dovrebbe essere discusso in Aula il 24, potranno essere presentati entro il 18 luglio. «Stiamo chiudendo con fatica - ha affermato Massimo Brutti dei Ds - ma spero che arriveremo ad un provvedimento di clemenza prima di agosto». Marco Rizzo, eurodeputato del Pdci pensa, invece, che «l’amnistia sarà un argomento di cui parlare solo a settembre». E l’esponente dell’Ulivo Pierluigi Mantini ha affermato che presenterà «emendamenti migliorativi sul punto per l’estinzione delle pene accessorie».

il manifesto 15.7.06
Una nuova «forza» a sinistra
«Pace, lavoro e libertà». Da Orvieto prende forma l'alternativa rosso-verde al Partito democratico. La «costituente» sarà in autunno
di Antonio Massari


Ieri è arrivata la risposta al Partito democratico. Una costituente ad autunno, una struttura federale, un'organizzazione ispirata al sindacato. Il nuovo soggetto della sinistra potrebbe nascere presto, con Rifondazione, parte dei Ds e altre associazioni. E se non possiamo stabilire con certezza la data di nascita, di certo ieri hanno messo le basi perché il nuovo soggetto veda la luce: c'erano oltre 200 persone nel borgo medioevale di Pitignano, in provincia di Orvieto, impegnate a discutere i fondamenti di questo progetto politico.
Se la corsa di Ds e Margherita verso il Partito democratico, almeno finora, si è incentrata sul contenitore più che sul contenuto, ieri i protagonisti del nuovo soggetto di sinistra hanno percorso la strada opposta. Non a caso il convegno si titolava: «Il problema dei fondamenti». E i fondamenti sono risultati chiari: «pace, lavoro e libertà». Tre parole d'ordine sulle quali hanno discusso tre componenti di peso nella sinistra non riformista, e cioè «Uniti a sinistra», «Rossoverde» e «Asinistra.it». E non solo loro.
E' intervenuto il segretario del Prc Franco Giordano, che ha mostrato grande apertura verso il progetto: «E' una grande sfida culturale al partito democratico - ha detto Giordano - e Rifondazione Comunista, pur mantenendo la sua autonomia politica e organizzativa, vuole mettere a disposizione tutto il suo percorso politico, perché questa nuova soggettività politica possa nascere». Giordano aggiunge: «Il punto è capire su quali basi culturali ci appoggiamo: dobbiamo ancorarci al mondo del lavoro, alle nuove contraddizioni che toccano l'ambiente, la questione di genere, la pace e la guerra. Non possiamo correre il rischio di trasformare la sinistra in una cittadella autoreferenziale. Purtroppo in questi anni abbiamo assistito a un impoverimento culturale, a una espulsione del conflitto sociale dalla politica. Occorre una ripresa della tematica marxiana. Perché qualche subalternità al neoliberismo, nel centrosinistra, esiste».
Insomma Rifondazione apre i suoi cancelli, e quelli del progetto di Sinistra europea, che da ieri può iniziare a camminare a due gambe. Il senatore diessino Cesare Salvi, della corrente «Socialismo 2000», aveva annunciato immediatamente che non avrebbe mai aderito al Partito democratico, e che si sarebbe impegnato per la nascita di un nuovo soggetto di matrice socialista. Infatti ieri era presente all'appuntamento e ha subito afferrato il messaggio di Giordano: «Non posso che esprimere grande apprezzamento per le parole di Franco Giordano: è un primo passo importantissimo», ha dichiarato. «Il dibattito sul Partito democratico è simile a un vuoto pneumatico ed è un progetto al quale dico no senza se e senza ma», ha aggiunto. «Invece noi abbiamo bisogno di dare uno scarto culturale e politico. Siamo dinanzi a un momento complesso: il risultato elettorale, come è evidente, si è dimostrato inferiore alle aspettative. IL governo ha dei problemi: pace, lavoro, lotta al precariato. Sembra che l'abolizione della legge 30 sia improvvisamente scomparsa dall'agenda politica. Abbiamo bisogno di riflettere, di capire perché stia accadendo questo».
Soddisfatto del primo incontro anche Pietro Folena, indipendente di Rifondazione ed esponente di «Uniti a sinistra»: «Quella di oggi è stata un'ottima giornata: la piattaforma offertaci da Aldo Tortorella (presidente di Arsinistra.it, ndr) è stata un'ottima base. In più c'è una novità: l'apertura di Franco Giordano, con Sinistra europea che si mette in gioco».
Quindi il nuovo soggetto politico della sinistra è davvero in vista? «Credo che la costituente di sinistra europea, prevista per l'autunno e sollecitata da Giordano, possa essere l'occasione giusta per la costituzione di questo nuovo soggetto politico», dice Folena. Che aggiunge: «Oggi abbiamo cercato di delinearne i fondamenti ideali e nella seconda giornata del convegno avremo modo di approfondire ancora. Penso che questo soggetto possa essere federativo, con una larga rappresentanza nei territori, come moderne case del popolo».

aprileonline.info 15.7.06
Più azione, meno testimonianza
Il ddl rappresenta una netta discontinuità. E’ un passo in avanti per chi ha l’obiettivo di una exit strategy dall’Afghanistan. Il movimento ha bisogno di autonomia
di Gennaro Migliore*


A pochi giorni dalla discussione sul rifinanziamento delle missioni italiane all’estero, possiamo trarre alcuni elementi di giudizio sull’importanza generale in politica estera del governo Prodi. Questo disegno di legge rappresenta una discontinuità rispetto al precedente governo Berlusconi. Otteniamo infatti lo straordinario risultato del ritiro completo delle truppe italiane dall’Iraq. Questa scelta è una vittoria per il movimento della pace italiano. Tra le 28 missioni italiane, le quali costituiscono un reale contributo alle operazioni di peace-keeping a protezione delle popolazioni civili, c’è l’eccezione della missione Isaf in Afghanistan, retaggio della prima guerra in nome della lotta al terrorismo inauguratasi dopo l’11 settembre 2001. Abbiamo sempre contrastato l’ideologia statunitense della guerra preventiva e della lotta al terrorismo fatta con gli eserciti. Ma il terrorismo lo si combatte solo se si prosciuga il bacino d’odio da cui i criminali terroristi attingono per perseguire le loro nefande attività. Per questo chiediamo con forza un intervento della comunità internazionale che impedisca ad Israele di proseguire nell’azione di aggressione sistematica ai palestinesi, oggi esteso anche alla popolazione del Libano.

Berlusconi sbagliò ad inviare i nostri soldati in Afghanistan. Tuttavia, molte forze dell’Unione non la pensano così. Il disegno di legge sulle missioni è la sintesi tra chi avrebbe voluto una exit-strategy alla Zapatero (ritirò le truppe dall’Iraq triplicando la presenza in Afghanistan) e chi, come noi, vuole la chiusura dell’esperienza militare in Afghanistan. La mediazione raggiunta rappresenta un punto di partenza importante per riprendere un’iniziativa di massa anche sul tema dell’exit-strategy dall’Afghanistan.

L’accordo si basa su tre pilastri fondamentali. Il congelamento dell’attività compresa una non modificazione delle regole d’ingaggio e delle aree di intervento che rimangono a Kabul e Herat scontentando così le richieste del Segretario Generale della Nato. La costituzione di un comitato parlamentare di monitoraggio e verifica permanente coadiuvato da importanti esperti della società civile e di operatori civili che agiscono in Afghanistan. Una mozione di indirizzo al governo sulle missioni che contiene degli avanzamenti significativi in linea con la nostra idea di politica estera (a partire dalla prevenzione dei conflitti e dalla messa al centro dell’Articolo 11 della Costituzione italiana e del rispetto della legalità internazionale).

L’accordo raggiunto non contraddice le istanze pacifiste. In questo quadro crediamo sia di vitale importanza raggiungere l’autosufficienza della maggioranza che sostiene il governo senza far ricorso ai voti di una parte dell’opposizione. Per questo credo sia profondamente sbagliato il ragionamento fatto da alcuni senatori dell’Unione che minacciano di non votare il disegno di legge. L’autosufficienza politica dell’Unione è un bene comune da difendere.

Apprendo che numerosi esponenti pacifisti non siano stati nemmeno invitati all’assemblea che si terrà domani sabato 15 luglio. Peccato perché al posto di una sterile assemblea in sostegno di alcuni parlamentari si sarebbe potuto dar vita ad una rinnovata azione del movimento pacifista. L’autonomia del movimento è un bene prezioso. Autonomia sia dal governo ma anche da chi tenta di farsi appoggiare strumentalmente in battaglie politiche interne alle loro organizzazioni. Occorre rifuggire da queste tentazioni e scegliere una strada che privilegi l’efficacia dell’azione alla pura testimonianza.
*Capogruppo Camera Prc - Sinistra europea



Repubblica 15.7.06
In Bozze. La luna di Ingrao
di Simonetta Fiori


Non è un'autobiografia ingessata quella che Pietro Ingrao ha appena consegnato alla casa editrice Einaudi, annunciata per settembre nei Supercoralli con il titolo Volevo la luna. D'altra parte in un personaggio della sua caratura non sorprende il bilancio irrituale e tutt'altro che reticente del Pci, soprattutto la resa dei conti con Palmiro Togliatti. Specie sulla vicenda ungherese, tuttora molto sentita, Ingrao non lesina critiche al segretario, in un ripensamento sofferto dei suoi silenzi rabbiosi intorno a una tragedia che spaccò il mondo e la sinistra. Una memoria, in sostanza, niente affatto indulgente: con se stesso e con la storia del suo partito. Per questo ancora più preziosa.
Più che un'autobiografia, Volevo la luna è il racconto corale di oltre un secolo di storia: dalle lotte risorgimentali della famiglia (il nonno garibaldino in fuga dalla Sicilia borbonica, arretrata e parafeudale) al ritratto di gruppo nella vecchia casa in Ciociaria (il mondo di signori e contadini destinato a tramontare nel primo scorcio del Novecento). C'è "il lungo viaggio attraverso il fascismo", con il mitico gruppo romano - gli Amendola, i Pintor, i Lombardo Radice - raccontato nella sua dimensione più autentica, su cui s'infrange qualsiasi tentativo revisionistico. E c'è naturalmente la militanza nel Pci, incluse le battaglie eretiche per il diritto al dissenso, che segneranno la nascita della folta costellazione degli ingraiani. Una luce famigliare investe il Sessantotto, vissuto attraverso le speranze delle figlie.
Se la vita è "l'arte dell'incontro", il nonagenario Ingrao è abilissimo nel restituire i suoi: dagli affetti della vita - in primo piano la moglie Laura Lombardo Radice - ai colloqui con Che Guevara e Mao. Tante emozioni, un senso profondo dell'amicizia: colpisce il dialogo con Luigi Nono, la pena nei giorni della sua fine.

L’Arena 15.7.06
Un elegante volumetto edito da Donzelli presenta tutti gli «Scritti» del grande astrattista americano, solo in piccola parte noti ai lettori italiani
L’arte secondo Rothko
Nei suoi dipinti una «vampata di luce»
Le pagine testimoniano della tenacia irriducibile con cui l’artista ha continuato a credere nella forza comunicativa delle sue opere
di Gian Luigi Verzellesi


Tra i pittori del Novecento sono innumerevoli i seguaci di Dioniso, obbedienti alla sua vena rumorosa, aggressiva e sconcertante. Non così Mark Rothko (nella foto), nato nel 1903 e morto nel 1970, astrattista americano, devoto di Apollo, inteso come " il Dio della Luce ", grazie al quale " in un lampo di splendore non solo ogni cosa viene illuminata ma, come l'intensità aumenta, è allo stesso modo annientata. È questo segreto di cui mi servo per contenere il Dionisiaco in una vampata di luce ". Parole che si leggono in certi appunti del 1960, inclusi in un elegante volumetto, (presentato da Miguel López Remiro, edito da Donzelli) che presenta tutti Scritti sull'arte di Rothko, solo in piccola parte noti ai lettori italiani. Parole preziose, in quanto manifestano l'intento tenacemente ricercato e realizzato dall'artista nei suoi dipinti (dal 1947, quando si discosta dai surrealisti, in poi): dipinti, spesso maestosi, come pareti colorate, in cui l'esigenza predominante di "esprimere emozioni umane fondamentali" non si vale più della tradizionale rappresentazione di soggetti riconoscibili, ma è affidata a grandi quadrangoli cromatico-luminosi. Nei quali "ogni cosa" risulta sopraffatta e annientata da una "vampata di luce", così come permane condensata nelle campiture rettangolari che emergono da altre campiture in ombra, stagliate nello spazio dell'immagine.

"Sono convinto - scrive Rothko - che un dipinto può comunicare direttamente solo con quei vari individui che hanno la fortuna di trovarsi in sintonia con l'opera e con l'artista".
Dal ritratto dell'artista, tracciato da John Fischer nel 1970, il lettore apprende che Rothko era tutt'altro che fiducioso nelle capacità della critica d'arte: "disprezzo e diffido di tutti gli storici dell'arte, degli esperti e dei critici. Non sono altro che una massa di parassiti, che si nutre del corpo dell'arte. Il loro lavoro non solo è sterile, è fuorviante". Rosenberg (uno dei più prestigiosi critici americani) "si ostina a interpretare fenomeni che sfuggono alla sua comprensione": non capisce che "un dipinto non ha bisogno di nessuno. Se vale qualcosa parla da sé". Né Greenberg, né Emily Genauer, né Katharine Kuh, nè Selden Rodman (tutti addetti ai lavori della critica) avrebbero capito o saputo ascoltare i messaggi visivi di Rothko. A Rodman che gli aveva detto, "per me sei un artista: un maestro di armonie cromatiche", risponde seccamente: "non sono un pittore astratto: non mi interesso ai rapporti di colore"... Risposta sibillina che attesta una sorta di animosità difensiva, che lascia perplessi e induce a chiedersi: se le reazioni di colore non costituiscono l'essenziale, da che fattori è suscitata la reazione sentimentale dell'osservatore? Rothko precisa: "io preferisco comunicare una visione del mondo", "non credo che il mio lavoro abbia a che fare con l'espressionismo", i miei "dipinti di grande formato sono come drammi cui si prende parte in modo diretto".
Dichiarazioni come queste ricorrono nelle pagine degli scritti, ora pubblicati, come testimonianze della tenacia irriducibile con cui Rothko ha continuato a credere nella forza comunicativa dei suoi dipinti. Più volte ha precisato che, per poter essere capiti e ammirati, quei quadri spaziosi devono essere immessi in un bagno di luminosità accogliente, perché "se c'è troppa luce, i colori si fanno slavati e la loro apparenza si altera". Ma nel corso degli anni, la fiducia di Rothko di poter verificare l'efficacia comunicativa della sua pittura, è progressivamente diminuita. Il nucleo espressivo, reso visibile nelle grandi tele, risultava sfuggente o male inteso. Di qui, come ha notato Fischer, "la sua rabbia cronica: legittima in un uomo che si sentiva destinato a dipingere templi e constatava che le sue tele erano trattate come merci".
Un uomo dotato di un temperamento di grande, rara energia, che deprecava il consumismo, e concepiva l'arte come comunicazione tra l'artista e il pubblico: senza avvertire che dipinti come i suoi, "a denotazione zero" (ossia svincolati dalla rappresentazione mimetica), essendo privi di 'contenuto', esigono l'integrazione dello spettatore. Per l'amico Barnett Newman, Rothko avrebbe evocato "immagini di morte"; per un collega come che Clifford Still esprimerebbe " la tirannia dell'ambizione di soffocare " il riguardante con distese di colore; per T.J. Clark offrirebbe la possibilità di osservare "La nascita della tragedia di Nietzsche rifatta da Renoir"...
La disparità di queste interpretazioni (segnalate da Riccardo Venturi nella densa e incisiva postfazione) attesta il disorientamento fatale della critica di cui Rothko continuava a non fidarsi. Infatti, si sentiva molto diverso dagli espressionisti astratti. Era alla "ricerca disperata (così scriveva nel '69) di sacche di silenzio", dove "radicarsi e crescere". Né il successo internazionale né la prestigiosa laurea honoris causa, conferitagli dall’Università di Yale, hanno saputo dargli la pace interiore. E il coraggio di continuare a vivere.


http://www.imgpress.it/notizia.asp?idnotizia=19940&idsezione=4#
IGMPRESS 15/07/2006
Stanchi di sentire tifosi ossessionati dalla retrocessione, e giornalisti ossessionati dalla televisione, spegniamo tutto e viviamo. Così se vi capita di passare da Roma in questi giorni, oltre che venire a trovare due emigranti solitari, fate un giro a Trastevere. Vi capiterà di camminare tra piazze (come quella di San Cosimato, appena ristrutturata in stile hightech) che ospitano video istallazioni e sedute da biennale d’arte contemporanea, e basterà girare l’angolo per ritrovarsi in un vicolo che fino al 23 luglio accoglie artisti affermati, registi, attori e comparse. Tra le comparse noi emigranti ci facciamo strada, e accaparriamo due posti in piedi per sentire parlare di cinema due dei più grandi registi contemporanei della scena italiana: Marco Tullio Giordana (La meglio gioventù, per intenderci) che intervista Marco Bellocchio (l’ultimo film è Regista di Matrimoni, ma forse ricorderete Buongiorno Notte o L’ora di religione). Insomma, tempo e spazio per volare alto, e ripercorrere nella lunga conversazione la carriera di Bellocchio attraverso la sua produzione che, da I pugni in tasca (film che nel 1965 gli regala il successo a soli 23 anni), attraversa anche la storia politica e sociale del nostro Paese. Lui ha anticipato le istanze di ribellione del ’68 in parecchi dei suoi primi film, ha documentato con pellicole che potremmo definire militanti gli anni della lotta armata, ha indagato sulla psiche collettiva stringendo una criticata relazione artistica con lo psichiatra Massimo Fagioli, ha interpretato cinematograficamente la letteratura (da Pirandello a Kleist), sempre alla ricerca di una identità politica che non ha, a suo dire, ancora trovato. Abbiamo pensato a quanti di noi vivono chiedendosi e cercando una identità politica, che poi si traduce anche in una esigenza di critica e di interesse verso la realtà in cui viviamo. Che non è solo un rettangolo d’erba di 90x60…è anche una piazzetta di Trastevere, dove se vi capiterà di passare, la sera del 16 luglio, sentirete le note di Ludovico Einaudi, e vi chiederete se è vero.

venerdì 14 luglio 2006

Il Riformista 14 luglio 2006
Filo-nazismo. Per una cattedra bisogna studiare le opere del discusso filosofo
Senza Heidegger, in Germania non puoi fare l'insegnante
di Marco Filoni


Sapevamcelo! Ultimamente uno dei temi più discussi e al centro del dibattito culturale dei nostri cugini d'Oltralpe è una vera scoperta nel campo della filosofia. Heidegger era un nazista. Eh sì: proprio una chicca. E poi dicono che la comunità filosofica sia noiosa e manchi di idee nuove. II tutto è stato rilanciato nelle ultime settimane con l'inscrizione, per la prima volta, delle opere del filosofo nel programma di abilitazione all'insegnamento della sessione 2006. Complice il trentennale della scomparsa del tedesco, la questione è diventata subito polemica Hei! ... degger! Così Le Monde. Ma anche un monografico del prestigioso Le Magazine littéraire; fino a un dossier della scorsa settimana su Le Point, nel quale campeggia in copertina un primo piano del filosofo che annuncia «l'affaire Heidegger». La lista è lunga. Ad alimentare questa nuova querelle è il vero e proprio finimondo scoppiato lo scorso autunno e provocato dal volume Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie di Emmanuel Faye, mandato in libreria da Albin Michel (e in corso di traduzione qui da noi). La questione Heidegger e il nazismo va avanti «soltanto» da vent'anni. Ma ciò che lascia perplessi, questa volta, sono le reazioni tanto pro quanto contro, che da entrambi i lati appaiono onestamente esagerate. È successo di tutto, fino alle petizioni (firmate da autorevoli esponenti della cultura filosofica francese) contro il libro - e, di conseguenza, anche petizioni (con firme altrettanto autorevoli) contro queste petizioni! Francois Fèdier, uno dei più accaniti difensori del filosofo tedesco, sta preparando un virulento contrattacco presso Gallimard, annunciato con il titolo Heidegger a plus forte raison. Si sa, son cose che possono succedere quando si tocca un «mostro sacro» come Heidegger. Ma veniamo alla questione. Le tesi di Faye sono difficili da riassumere, tante e tanto radicali. Ma, in grosso, ecco di cosa si tratta: utilizzando documenti nuovi e inediti, l'autore mostra fino a che punto il filosofo tedesco si fosse ingaggiato nell'operazione di introdurre i fondamenti nazisti e antisemiti nella sua filosofia e nel suo insegnamento. Posizioni non riconducibili alla semplice ingenuità politica: Faye mette mano a una serie di atti d'accusa, citazioni e testimonianze presentate come inconfutabili. Le conclusioni sono chiare e nette: Heidegger è stato ed è rimasto nazista; ha condotto un'operazione per legittimare una certa apologià dell'hitlerismo (ha anzi contribuito a forgiarla); ha motivato la «selezione razziale» e l'antisemitismo; non ha compreso e ha addirittura negato la specificità della Shoa aprendo così la via al revisionismo e al negazionismo; addirittura è possibile che fra il 1932 e il 1933 abbia redatto alcuni discorsi del Führer. Inoltre ha avuto sin dagli anni venti rapporti con una serie di pensatori razzisti e protonazisti. Quindi il suo pensiero è permeato delle tematiche in questione: la sua filosofia dell'essere indossa le uniformi delle SS e delle SA. E via così di seguito.
Inutile entrare nel merito delle argomentazioni di Faye: che le si possa condividere oppure no, sono serie e documentate. L'autore sa fare il lavoro di storico. Il merito del libro è dunque quello di provare - ma bisogna aggiungere: ancora una volta! - la realtà e lo spessore della compromissione politica di Heidegger. Quelli che invece sono i forti limiti del libro sono le conclusioni: essendo stato nazista, Heidegger non può essere un grande filosofo. Anzi bisogna resistervi, liberarsene, bloccarlo! La sua opera è pericolosa, e bisogna reagire. Testualmente: «II compito della filosofia è contribuire a proteggere l'umanità e allertare gli spiriti per evitare che l'hitlerismo e il nazismo continuino a propagarsi attraverso gli scritti di Heidegger». Chi scrive è un essere umano, e in quanto tale ritiene di appartenere all'umanità. Ora, per quanto mi riguarda, non voglio esser protetto né tantomeno assistito dalla filosofìa - cioè dai filosofi! Per carità: tutti abbiamo già i nostri problemi. Ma se leggiamo - perché, come ricordava spesso Arnaldo Momigliano, a non leggere non succede nulla - leggeremo quasi sempre libri con i quali non siamo d'accordo senza per questo sentire il bisogno di proteggere e assistere l'umanità. Eric Weil, filosofo, ebreo tedesco, scampato ai campi, diceva che il suo più grande maestro «involontario» fu Hitler. E consigliava la lettura del Mein Kampf. Eliminare Heidegger e rimuovere le sue opere dalle biblioteche, come vorrebbero Faye e i suoi difensori, significa portare lo spazio filosofìco in una dimensione moralizzante - francamente irritante e soprattutto inutile.
Secondo questa logica, non dovremmo leggere Machiavelli che ha inorridito i suoi contemporanei (gli ingenui gli ipocriti e poi i gesuiti) svelando la verità della politica senza confonderla con la morale. E nemmeno Hobbes, che può esser visto come il cantore del totalitarismo. Per non parlare di Platone, o del razzismo greco (anti-asiatico quindi anti-persiano e antisemita) presente in Omero e teorizzato da Aristotele. Insomma, che Faye continui a leggere e studiare Heidegger. E se sente questo strano bisogno di contribuire all'educazione degli spiriti, che ci permetta di leggerlo in santa pace. E se poi si vuol scrivere un libro su Heidegger, non necessariamente se non si tratta la questione del nazismo si è revisionisti - e qui purtroppo si son varcate le Alpi: si legga l'intervento di Livia Profeti (Left, n.66) sull'ottimo libro di Antonio Gnoli e Franco Volpi L’ultimo sciamano, da Bompiani. La filosofia non ha bisogno di inquisitori umanistici. Ha bisogno di pensieri, di idee. E in fondo Heidegger, pur essendo stato nazista, qualche idea l'ha avuta.

Corriere della Sera 14.7.06
Il caso sollevato da una interrogazione del pdci Cancrini
Mastella, verifiche su San Patrignano e don Gelmini
«Voglio accertare se la loro convenzione è regolare». La Cdl insorge: giù le mani
di Alessandra Arachi


ROMA - È bufera sulle comunità terapeutiche di Andrea Muccioli e di don Pierino Gelmini. Tutto è cominciato con un’interrogazione parlamentare. Ed è esploso un caso con la risposta del ministro della Giustizia Clemente Mastella: «Verificherò che le due comunità siano in regola». E’ stato Luigi Cancrini, medico e deputato dei Comunisti italiani, a fare l’interrogazione: al ministro della Giustizia chiedeva notizie su San Patrignano e sulla comunità Incontro. Questioni tecniche, di requisiti e di convenzioni. E Mastella non ha esitato: «Voglio verificare se le due comunità sono accreditate presso le Asl territoriali e hanno dunque una regolare convenzione con il sistema sanitario».
LE REAZIONI - Non ce l’hanno la convenzione con il sistema sanitario le due comunità in questione. «Ma questo non è un problema con la legge attuale», dice Luigi Cancrini. E spiega: «La mia interrogazione era ben più delicata. Infatti sia San Patrignano sia le comunità di Don Gelmini non sono accreditate presso il sistema sanitario ma prendono i soldi pubblici dal ministero della Giustizia, visto che si offrono come luogo di detenzione alternativa per i tossicodipendenti. Qual è il problema? Che non passando attraverso il sistema sanitario non tengono nessuno standard di personale e di strutture per una comunità. A me questo non sembra corretto. E di questo ho chiesto conto al ministro».
Ma nessuno ha tenuto conto della realtà dell’interrogazione. La verità è che il bailamme politico si è scatenato a prescindere ed è passato attraverso una guerra di schieramenti. Ed è da destra che si è levato un coro di solidarietà per le due comunità terapeutiche che sono sicuramente le più grandi del nostro Paese. Loro, le due comunità, si sono indignate, profondamente.
Dalla comunità Incontro è stata non la voce di don Pierino, bensì quella del suo portavoce Aldo Curiotto a tuonare contro Clemente Mastella: «Il ministro prende per buona l’osservazione che la comunità Incontro ospiterebbe detenuti in convenzione senza l’iscrizione all’albo nazionale delle comunità terapeutiche, quando avrebbe potuto tranquillamente verificare che la normativa parla di iscrizione ad albi regionali, cosa con cui la comunità è perfettamente in regola».
IL CASO - Anche da San Patrignano l’indignazione tuona forte. Ma questa volta si scaglia contro Luigi Cancrini. «Vogliamo informare l’onorevole Cancrini, il quale finge di non saperlo o, cosa ancora peggiore, ignora realmente, che San Patrignano corrisponde in pieno alle richieste del nostro ordinamento giuridico in materia di pene alternative al carcere. Infatti l’iscrizione all’albo del ministero della Giustizia è subordinata a quella dell’albo regionale o provinciale del territorio sul quale si trova la comunità...». Non era questo il punto di Luigi Cancrini. E forse è proprio per questo che sono scattate le barriere di difesa da parte del centrodestra, con An in prima fila. «Giù le mani da San Patrignano e dalla comunità Incontro» è l’altolà di Maurizio Gasparri, seguito a ruota da Alfredo Mantovano, ex sottosegretario all’Interno: «Questo governo capovolge la realtà: adesso vuole mandare gli ispettori in due realtà, quella di San Patrignano e della comunità Incontro, che con sforzi enormi in questi anni hanno cercato di liberare dalla droga migliaia di giovani». Anche Carlo Giovanardi, ex ministro con la delega sulla droga, si scandalizza: «Sono affettuosamente solidale con Don Gelmini e con Andrea Muccioli e trovo incredibile che il ministro Mastella abbia detto che farà verifiche sui requisiti di queste due comunità».



Liberazione 14.7.06
Musacchio: «E’ un’ottima notizia che rimette al centro il rispetto della dignità dei pazienti, le pratiche de-istituzionalizzate, il loro reinserimento. Un testo che trae molto dall’esperienza italiana della “legge Basaglia”
L’Ue approva la relazione sulla salute mentale


Si è concluso con un sì a larga maggioranza, ieri alla commissione Ambiente e Salute del Parlamento Europeo, il voto sul rapporto Bowis per la salute mentale, il documento rappresenta un passo decisivo per un futuro senza manicomi nei Paesi dell’Unione Europea. Il rapporto segue l’approvazione del libro verde comunitario, dove la salute mentale è considerata condizione fondamentale per il benessere dei cittadini e dunque un diritto da garantire a tutti, ed è largamente ispirato dall’esperienza italiana della legge Basaglia, la famosa 180 che chiuse i manicomi e diventando per tutto il mondo sinonimo di una conquista di civiltà in materia di psichiatria.

Il sì è stato quindi ispirato da una maggioranza decisamente trasversale, che oltre alla sinistra (Gue/Ngl e Pse su tutti) ha coinvolto liberali e popolari, con un consenso che ricorda come il tema della salute mentale non sia roba da poco, considerando che i disturbi psichici sono un problema in crescita e - secondo le stime del libro verde - in Europa almeno 60mila persone l’anno si suicidano per cause legate alla depressione e alle malattie mentali in genere, un numero spropositato che supera quello delle vittime da incidenti stradali. Soddisfatto il relatore, l’ex ministro di Margharet Tatcher John Bowis a riprova del carattere trasversale della battaglia, e soddisfatti i membri della commissione che in questi anni si sono adoperati sul tema. Per gli italiani, su tutti, Giovanni Berlinguer dei Ds e Roberto Musacchio del Prc, che oltre a far approvare una decina di emendamenti furono ispiratori del viaggio, circa un anno fa a Bruxelles, di un gruppo di operatori e di utenti italiani (l’avevano chiamato “il viaggio dei 44 matti”) che hanno illustrato ai relatori e al Parlamento Ue l’esperienza della Basaglia, una legge creata non tanto nei conclavi accademici quanto con il coinvolgimento diretto dei pazienti e di chi si occupa di salute mentale.

«L’approvazione della relazione sulla salute mentale è un’ottima notizia - esulta Musacchio - che rimette al centro il rispetto della dignità dei pazienti, le pratiche de-istituzionalizzate, il loro reinserimento. E’ un buon testo che trae molto dall’esperienza italiana della “Legge Basaglia” - sottolinea ancora l’eurodeputato del Prc - l’Europa, insomma, indica a tutti noi una strada di civiltà e di diritti, chiede a tutti i suoi Stati membri di porre fine a pratiche manicomiali, di segregazione e di stigma, che purtroppo ancora permangono in molte situazioni».

La risoluzione è un punto di arrivo, ma non la fine. Dopo la pubblicazione del libro verde l’Unione ha infatti avviato una riflessione che nei mesi a venire, soprattutto adesso che il rapporto Bowis è stato votato e verrà recepito, potrebbe portare ad una raccomandazione ufficiale della Commissione agli Stati membri, se non diventare oggetto di una vera e propria direttiva comunitaria. Se in Italia i manicomi sono un triste ricordo, in Europa sono infatti ancora molti i Paesi che ricorrono, magari in casi estremi, al ricovero coatto in strutture che altro non sono che i vecchi manicomi. «Tra questi anche Stati civilissimi come Germania, Francia e Olanda, naturalmente come ultima ipotesi laddove non funzionino i normali strumenti di sostegno o le strutture, che pure ci sono» ricorda il dottor Luigi Attenasio di Psichiatria Democratica, che fu una delle guide della spedizione dei “44 matti” nelle istituzioni comunitarie. Il sì della Commissione Ambiente «è molto importante, in particolare laddove si richiama all’esperienza italiana della Basaglia. Mi riferisco al protagonismo dei pazienti, che una volta tanto ha avuto la meglio sulle necessità dei tecnici o sulle soluzioni accademiche. E in Italia - guira il medico di Psichiatria Democratica - ha decisamente funzionato».

giovedì 13 luglio 2006

aprileonline.info 13.7.06
Indulto, i Poli trovano l'intesa
Giustizia. Da governo e opposizione emerge la volontà di un'accordo in tempi rapidi. Prende quota la politica dei due tempi. di amnistia si dicuterà a settembre
di Ida Rotano


"Sull'indulto il gioco è fatto". A parlare è il presidente della commissione Giustizia della Camera Pino Pisicchio (Idv), martedì 11 luglio. Accanto a lui il relatore Enrico Buemi (Sdi-Rnp) spiega cosa sta scrivendo nella prima misura di clemenza dal ´90: "Uno sconto di pena di tre anni per chi ha commesso reati fino al 7 maggio, giorno in cui ho presentato la mia proposta. Sconto cancellato se il detenuto, entro cinque anni, commette un nuovo reato. Una misura che include i recidivi, ma esclude gli autori di reati gravi". Terrorismo, mafia, pedofilia, violenza sessuale. Buemi sta riflettendo se e come inserire il ripristino dei diritti civili. È molto probabile che ci rientrino "perché altrimenti chi esce non avrà alcun modo per reinserirsi nella società.
Mercoledì la notizia rimbalza sui principali quotidiani nazionali. "Nello sconto - scrive La Repubblica - sarà compresa la corruzione". Il giornalista, spiega che il responsabile Giustizia dei Ds Massimo Brutti e il forzista Gaetano Pecorella, nelle ultime settimane hanno tessuto la tela delle trattative dietro le quinte per trovare l'intesa politica: "L´indulto agisce sulla pena. Per noi conta che si facciano i processi, che ci sia l'accertamento delle responsabilità, che si appurino le connessioni. Poi, per la corruzione come per altri reati, non siamo dei fan del carcere a tutti i costi. Lo sconto di pena non si può negare". Chiosa Pecorella: "In nessuna proposta sull'indulto presentata in commissione si esclude la corruzione". Pisicchio dettaglia i tempi stringenti: "Il 18 mattina scade il termine per gli emendamenti sul testo di Buemi. Il 20 lo licenzieremo. Il 24 luglio, come previsto dal presidente Bertinotti, siamo pronti per l'aula".
"I più ottimisti - continua La Repubblica - ritengono che se l´indulto passasse alla Camera potrebbe farcela pure al Senato". Una frase detta dal presidente Franco Marini lascia ben sperare, perché egli ritiene che dopo il via libera di Montecitorio l´indulto andrebbe subito previsto nel calendario di palazzo Madama.

Ma qual è il fronte politico e che fine ha fatto l´amnistia? L´Unione è compatta. In vista di future riforme sulla giustizia rientrano le perplessità dell´Idv. Dice in commissione il sottosegretario alla Giustizia Luigi Li Gotti: "È la strada più seria e realistica. Sin dall'inizio ho sostenuto che bisognava separare le due strade. Con l´indulto non solo usciranno 12 mila persone, ma un altro 20 per cento di detenuti potrà chiedere l´accesso alle misure alternative". La maggiore sorpresa, almeno in commissione, arriva da An, peraltro già preannunciata dal segretario Gianfranco Fini al Guardasigilli Clemente Mastella. Manlio Contento chiede a via Arenula tutti i dati possibili, ma Giuseppe Consolo apre a "un indulto contenuto" che escluda i recidivi. Il capogruppo di An alla Camera Ignazio La Russa contesta i tempi diversi, prima l'indulto, poi l'amnistia, parla di "specchietto per le allodole". Ma senza An e Lega i numeri ci sono lo stesso: Unione, Forza Italia e Udc (Erminia Mazzoni: "Si' a uno sconto di tre anni").

Amnistia in autunno? Pecorella: "Non l'abbiamo accantonata ma bisogna viaggiare su binari paralleli. Prima dobbiamo approvare l'indulto. Per l'amnistia ci sono ancora troppi niet". Lo ammette anche Luigi Manconi, il sottosegretario diessino alla Giustizia che martedì ha discusso con Mastella dei passi avanti della Camera: "Il ministro valuta positivamente la bozza Buemi e soprattutto la volontà che emerge da entrambi gli schieramenti di raggiungere un'intesa in tempi rapidi". Mastella a Regina Coeli non aveva parlato pure di amnistia? "Abbiamo sempre auspicato un provvedimento contestuale perché ciascuno interviene su emergenze diverse, ma se gli accordi impongono i due tempi è accettabile. A patto che si approvi l'indulto entro l'estate e si riprenda la discussione sull'amnistia a settembre"

Corriere della Sera 13.7.06
Giordano: i ribelli rispettino la maggioranza «Noi appoggiamo la legge. I Comunisti italiani contrari solo a parole»
di Daria Gorodisky


ROMA - Franco Giordano, allora nell'Unione è pace fatta sul rifinanziamento della missione in Afghanistan? Dopo il dissenso, adesso arriva anche il sì della sua Rifondazione comunista? «C'è l'accordo: il testo sarà preceduto da una mozione di indirizzo che prevede la formazione di un comitato parlamentare a cui parteciperanno anche organizzazioni non governative pacifiste. Sarà un osservatorio per monitorare l'evoluzione delle vicende nelle zone delle missioni, per verificare via via la loro compatibilità con l'articolo 11 della nostra Costituzione e anche per discuterne le finalità in sedi internazionali».
Però proprio un attimo dopo l'annuncio ufficiale dell'intesa i Comunisti italiani hanno detto «non c'è accordo, ma solo un percorso: la mozione è tutta da scrivere».
«È la loro solita politica: disinteresse nel merito e proclamazione dell'identità contraria. Noi invece abbiamo una linea di paziente costruzione della mediazione, di riduzione del danno...»
Infatti partivate da un no, e D’Alema lo ha definito «stravagante».
«Non si rivolgeva a noi».
Dunque, la mediazione - e quindi la novità del vostro voto a favore di nuovi fondi ai militari italiani in Afghanistan - come si concilia con il vostro principio assoluto della pace senza se e senza ma? Nel suo partito c'è chi non vuole rinunciarvi.
«Si mette in piedi qualcosa che non è proprio quanto chiedono i pacifisti, è vero. Lì c'è una guerra e sarebbe bene far rientrare i soldati. Ma io voglio tenere insieme il diritto alla pace e il diritto a mantenere in piedi questo governo. E poi i nostri princìpi restano fermissimi: ci ritiriamo entro l'autunno dall'Iraq».
In Afghanistan, lo dice anche lei, è guerra: come in Iraq, ci sono migliaia di vittime civili e di cosiddetti "resistenti" uccisi.
«Nel primo caso c'è stato l'avallo dell'Onu, mentre nell'altro c'è una illegalità formale. Comunque noi continuiamo a tenere alta l'opzione politica del ritiro anche dall'Afghanistan».
Crede che servirà la fiducia per far passare il decreto? Rifondazione ha dichiarato di lavorare per l’autosufficienza della maggioranza.
«Alla Camera, per noi il percorso più limpido è di non utilizzarla».
E al Senato, dove i voti della maggioranza sono risicati? I dissidenti della sinistra hanno voglia di farsi sentire e allora potrebbe diventare importante il sì annunciato dalla Cdl.
«Al Senato vedremo. Ma credo che tutti dovrebbero attenersi al vincolo politico. In quanto a Berlusconi, il suo sostegno a un decreto che prevede il rientro dall'Iraq sarebbe una pubblica ammenda sulla sua politica estera. Mi stupirebbe».
In contemporanea con la mediazione sulle missioni militari, il vostro capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore, annuncia un «no a tagli sulla spesa sociale». È una posizione irrevocabile, oppure cercherete una composizione con il resto della maggioranza anche su questo tema?
«Per noi sono fondamentali alcune cose: ricostruire l'apporto del sindacato e operare un risanamento colpendo evasione ed elusione fiscali, grande rendita finanziaria e grandissima rendita immobiliare, in modo che ci sia una forma di risarcimento sociale per le fasce più deboli. Però riteniamo anche assoluto mantenere l'unità della coalizione».
Tornando un attimo alla politica estera, i pacifisti annunciano per i prossimi giorni alcune manifestazioni per ribadire "via dall'Iraq e via dall'Afghanistan". Voi ora come farete a partecipare?
«Costruiremo delle cose con il movimento per la pace... Ma sottolineo che sarebbe un errore far determinare, in nome del pacifismo, una maggioranza più centrista e più filoatlantica. E anche ai dissidenti del mio partito dico una cosa: c’è una comunità politica di Rifondazione che è maggioritaria e dovete rispettarla».

aprileonline.info 13.7.06
L’Afghanistan di Rifondazione
Il partito è di fronte ad un difficile banco di prova. Il movimento pacifista in larga parte comprende il compromesso. Sarebbero incomprensibili strumentalizzazioni
Giovanni Russo Spena*


Per Rifondazione comunista, partito che ha la battaglia pacifista indelebilmente inscritta nel proprio dna, il voto sul rifinanziamento delle missioni all'estero, inclusa quella in Afghanistan, rappresenta un difficile banco di prova. La posizione del Prc è nota, ed è altrettanto noto che si tratta di una posizione sofferta. Eravamo e restiamo contrari alla missione in Afghanistan. Eravamo e siamo convinti che la via maestra sia rappresentata dal ritiro delle truppe e dalla riconversione della nostra presenza in senso esclusivamente cooperativo e umanitario.

Abbiamo tuttavia sottoscritto un accordo di mediazione per due fondamentali ordini di motivi.
Il primo riguarda i segnali di discontinuità che il governo dell'Unione sta effettivamente dando sul fronte della politica estera, a partire dal ritiro totale delle truppe dall'Iraq per proseguire con il rifiuto di concedere al comando della Nato quell'aumento del nostro impegno militare in Afghanistan che ci veniva chiesto con martellante insistenza. Il secondo riguarda la necessità di difendere il governo Prodi. Non c'è bisogno di essere politologi per capire quale epocale sconfitta rappresenterebbe per il movimento pacifista la caduta del governo. Si può star certi che, un attimo dopo, i caccia bombardieri che la Nato reclamava partirebbero per l'Afghanistan, insieme alle truppe speciali da impiegare nel sud di quel paese.

Questa posizione è stata compresa e condivisa da larghi settori del movimento pacifista, dall'Arci alla Fiom, alla Tavola della pace, a Pax Christi. Non ha convinto invece altre aree del pacifismo italiano. Il dissenso di queste componenti va rispettato e non demonizzato, deve essere trasformato in occasione di confronto, nel caso anche aspro ma limpido. A patto, però, di non trasformare la realtà in una caricatura grottesca che vedrebbe da una parte i "veri pacifisti" e dall'altra i "guerrafondai", inserendo a forza in questa turpe categoria decine di militanti e dirigenti che hanno speso gli ultimi decenni della loro vita nelle battaglie pacifiste.

L'accordo non ha convinto le minoranze del nostro partito, e anche in questo caso si tratta di un dissenso che deve avere piena libertà di espressione, col quale è compito della maggioranza confrontarsi senza anatemi. Tutt'altra cosa sarebbe però trasformare la lecita espressione del dissenso in tentativo di capovolgere le scelte dell'ultimo congresso con forzature inaccettabili come il voto contro il rifinanziamento delle missioni. Quello sarebbe un comportamento decisamente meno accettabile. E col pacifismo avrebbe in realtà poco a che vedere.

*Capogruppo Prc - Senato




dalla newsletter della Libreria Amore e Psiche:
due pagine tratte da
"Follia e psichiatria" di Michel Foucault (Raffaello Cortina Editore 2006)


M. Foucault: Su questo tema non si potrebbe dire, per esempio, quando si attribuisce la frigidità di una donna (o eventualmente la sessualità di un uomo) al trauma dello stupro, o anche al trauma di un’esperienza ripetuta di esibizionismo, non si può ammettere che si fa svolgere allo stupro il ruolo dell’Edipo nelle psicoanalisi facili?

J.P.Faye: Durante un dibattito alla Shakespeare & Co., Kate Millett ha raccontato pubblicamente che aveva subito un grave stupro a Parigi, uno “stupro psichico”…L’ha descritto molto dettagliatamente: in un caffè, lo stupratore psichico si era seduto al tavolino accanto al suo e, quando lei cambiava caffè, lui la seguiva e le si sedeva di nuovo accanto…
Mi è stato raccontato anche un esempio più inquietante. Una ragazzina di otto anni, stuprata da un giovane bracciante agricolo di ventotto anni, in un fienile. Teme che l’uomo la voglia uccidere, lui le strappa i vestiti. Poi lei ritorna a casa – suo padre fa il medico, è cardiologo, che si interessa anche a Reich: da cui la contraddizione. Vede rincasare la figlia, che non apre più bocca. Resta completamente muta per diversi giorni, ha la febbre. Non dice nulla, nemmeno una parola. Nel giro di qualche giorno, tuttavia, fa vedere che è ferita fisicamente. Il padre cura la lacerazione, sutura la ferita. Medico e reichiano, sporge denuncia? No, si limita a parlare con il bracciante agricolo, prima che lui se ne vada. Non scatta alcuna azione giudiziaria. Parlano – tutto qui. Ma il racconto continua con la descrizione di un’enorme difficoltà psichica a livello della sessualità, più avanti nel tempo. Che è verificabile soltanto quasi dieci anni dopo.
È molto difficile pensare qualcosa a livello giuridico in questo caso. Non è facile a livello della psiche, mentre sembra più semplice a livello del corpo.

M. Foucault: In altre parole, bisogna dare una specificità giuridica all’aggressione fisica nei confronti del sesso? È questo il problema.

J.P. Faye: C’è una lesione che è al tempo stesso fisica, come un pugno sul naso, e insieme anticipa una “lesione psichica” – tra virgolette – forse non irreversibile, ma che sembra molto difficile da misurare. Al livello della responsabilità civile, “misurare il danno” è una questione delicata. Al livello della responsabilità penale, che posizione può prendere un partigiano di Reich? Può presentare una denuncia, intentare un’azione repressiva?

M. Foucault: Ma tutte e due voi, in quanto donne, siete immediatamente urtate dall’idea che si dica: lo stupro rientra nelle violenze fisiche e pertanto deve essere trattato semplicemente come tale.

M. O. Faye: Soprattutto quando riguarda bambini o ragazzine.

D. Cooper: Nel caso di Roman Polanski negli Stati Uniti, in cui si trattava di una questione di sesso orale, anale e vaginale con una ragazza di tredici anni, la ragazza non sembrava traumatizzata, ha telefonato a un’amica per discutere dell’accaduto, ma la sorella ha origliato dietro la porta e così si è messo in moto tutto il processo contro Polanski. In questo caso non c’è una lesione, il “trauma” deriva da “formazioni ideali”, sociali. La ragazza sembra aver tratto godimento dalla sua esperienza.

M. Foucault: Sembra che fosse consenziente. E questo mi porta alla seconda domanda che volevo porvi. Lo stupro può comunque essere definito abbastanza facilmente, non solo come un non-consenso, ma come un rifiuto fisico di accesso. Per contro, tutto il problema che si pone, nel caso delle ragazze ma anche dei ragazzi – perché, legalmente, lo stupro nei confronti dei ragazzi non esiste – è il problema del bambino che viene sedotto. O che comincia a sedurre voi. Si può fare al legislatore la seguente proposta? Con un bambino consenziente, con un bambino che non si rifiuta, si può avere qualunque tipo di rapporto, senza che la cosa rientri nell’ambito legale?

D. Cooper: Faccio una digressione: due anni fa in Inghilterra cinque donne sono state condannate – mi sembra con la condizionale – per lo stupro di un uomo. Ma non sarebbe il sogno di molti uomini?

M. Foucault: Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto – e allora? Ci sono bambini che acconsentono, rapiti.

M. O. Faye: Anche i bambini tra di loro, ma su questo si chiudono gli occhi. Quando un adulto entra in gioco, però, non c’è più uguaglianza e equilibrio tra le scoperte e le responsabilità. C’è una disuguaglianza… difficile da definire.

M. Foucault: Sarei tentato di dire che, se il bambino non si rifiuta, non c’è alcuna ragione di sanzionare il fatto, qualunque esso sia. Ma una cosa mi ha colpito ieri, quando ne ho parlato con alcuni membri del Sindacato della magistratura. Uno di loro aveva delle posizioni davvero radicali, lo stesso che sosteneva che lo stupro non dovesse essere penalizzato in quanto stupro, dato che è semplicemente una violenza. Inizialmente, anche a proposito dei bambini ha preso una posizione molto radicale. Ma a un certo punto, è sobbalzato, e ha esclamato: devo dire, però, che se vedessi qualcuno fare sesso con i miei figli!
Inoltre, esiste anche il caso dell’adulto che è in un rapporto di autorità rispetto al bambino. Sia come genitore, sia come tutore, oppure come professore, come medico. Anche qui si sarebbe tentati di dire: non è vero che da un bambino si può ottenere ciò che non vuole veramente, attraverso l’effetto dell’autorità. Tuttavia, il problema dei genitori è considerevole, soprattutto quello del patrigno, che è piuttosto frequente.

Foucault Michel, Follia e psichiatria, Raffaello Cortina, 2006 (pp. 219-221)




La Stampa.it 13.7.06
Si apre oggi a Roma il V Congresso internazionale degli analisti lacaniani
Al centro del dibattito la figura di cui «anche il Papa parlerebbe sul lettino»
Il padre è morto? Viva il padre
La sua parola conta sempre meno e il suo ruolo è da reinventare
di Giancarlo Dotto


Parola di Jacques Lacan. «Prendete il Papa, sdraiatelo sul lettino dello psicoanalista, dopo cinque minuti è già lì che vi parla di suo padre….». Non si scappa. Il padre è lì. Da uccidere e da amare. Più che mai da nominare. Da Edipo al codice napoleonico, dal Vangelo a Freud, da Shakespeare a Joyce, passando per Collodi e Kafka, il Mosè biblico ma anche quello cinematografico. Lo trovi nella vertigine sospesa di Robert Bresson e nelle gag andanti di Carlo Verdone, nel sessantottino Porcile di Pasolini, Pierre Clementi che vaga vestito di pelli alle pendici dell'Etna, gemendo «Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana e sto piangendo di gioia…» e nelle sale di oggi, il film sul figlio di Joseph Mengele, che non risponde presente in classe perché i professori quando fanno l'appello saltano il nome del padre, l'innominabile kriminal doktor di Auschwitz, sempre lui Charlton Heston, già Mosè, The Father tutto d'un pezzo di una nazione che si ostina a credere nella Legge, spaventoso Mengele quando sussurra al figlio che lo trova e gli punta la pistola alla tempia: «Tutti i figli sognano di uccidere il padre, e tu, in questo momento, stai sognando».

E' sempre la stessa Telemachia, la stessa fallimentare impresa, accerchiare e circoscrivere il Nome del Padre, mettere il sale sulla coda del fantasma eccellente o puntargli la pistola alla tempia. La caccia alla balena bianca di Achab è più il mito di un avvistamento che la metafora di un parricidio truccato da balenicidio. Ogni paternità è follia, Giuseppe, Lear o Geppetto che sia, lo stesso autorizzato delirio. Il rapporto mancato da manuale e però inevitabile, di più, necessario. «Nessun essere cosciente può dire cos'è un padre» fa sapere Lacan. Il padre non è certo e non è dicibile, al di là dello spermatozoo che ti ha generato, «l'unico padre certo». Non si può dire e pure, proprio per questo, non si smette mai di parlarne. La missione dei Ghostbusters in veste laica con tanto di potente cannocchiale rovesciato s'inoltra là dove non regge più l'identificazione del padre con Dio, quando la preghiera scade nell'afasia. «Padre nostro sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra…».

Oggi più che mai il padre «evapora» sotto gli occhi di tutti. Dopo averlo messo come totem al centro della sua teoria, la psicoanalisi ne svela l'inconsistenza. Il padre è silente oltre che assente. Un gigante sfigurato dal vuoto che lo crepa proprio là dove si mostra enfatico con le sue tavole della legge. Dal patriarca di Sigmund Freud, il padre padrone, al padre umiliato e deriso di Paul Claudel, il padre che non esiste in quanto non consiste, è lo strapotere che denuncia l'impotenza. Nel disordine delle identità fluttuanti, il re della foresta subisce lo sfratto esecutivo. Fuori dalla caverna, dissolta la tribù, abolite le differenze, il padre metropolitano è tutto da reinventare, la sua parola conta sempre meno, non solo per i figli, ma anche per la sua partner, non è mai all'altezza, non ci sa più fare.

«Il rifiuto della dissimmetria tra i genitori della nostra epoca dà vita a una specie di équipe interscambiabile nella quale i ruoli si confondono. Tutto ciò contribuisce ad abolire il padre come autorità. Solo i giudici tentano come possono oggi di sostenerla» scrive Marie-Hélène Brousse (presidente della Scuola Europea di psicoanalisi).

La crisi dell'imago paterna e dei sembianti classici che la sostengono si ripercuote sui figli. Gli effetti sono evidenti. «Sono i sintomi del nostro tempo: un aumento spettacolare e a tutte le età di angoscia e di panico, la ricerca ossessiva di garanzie, il protrarsi dello stato adolescenziale, la ricerca di forme sostitutive più o meno stabili in ideali da venerare o in miraggi da coltivare, la caccia a sensazioni forti con oggetti effimeri quanto insostituibili, di cui la droga è il paradigma» spiega Antonio Di Ciaccia, direttore dell'Istituto Freudiano di Roma e presidente del Congresso. «E ancora, l'insistenza edonistica di un uso e abuso del corpo, in un godimento che si fa sempre più privato, sempre più chiuso, sempre più autistico. La segregazione, dice Lacan, è la traccia, la cicatrice dell'evaporazione del padre».

Bisogna restaurare la figura paterna, ancorarla al suo antico ruolo, al centro della famiglia moderna ripensata sul modello di quella patriarcale, si invoca da più parti. Impresa disperata, per non dire impossibile, obiettano altri. La nostra è una civiltà aperta, ibrida, delebile: è il concetto d'identità nella sua globalità che va in pezzi. Sono cambiati i processi produttivi, le nuove tecnologie hanno reso tutto più fluido e frammentato, tutto viene ridimensionato e declassificato: non c'è più spazio per opinioni che si presentino nella dimensione della verità. Siamo nel mondo del relativismo e della scienza invasiva che si spinge, con il suo bisturi indifferenziato e i suoi valori flessibili, nell'area sacra della procreazione, profanandola, staccando ovuli e sperma dal loro universo simbolico, cambiando sesso e generando a comando, rimodellando in laboratorio la questione del padre e della madre.

Su queste due linee si muove anche una certa psicoanalisi: restaurare il padre o rendere più sopportabile il sintomo. Riformulando l'Edipo freudiano e spingendosi oltre è Jacques Lacan che firma la sfida decisamente audace e attuale: «Il nome del Padre: farne a meno, a condizione di servirsene». Il padre è morto? Viva il padre. Il padre è un'invenzione? Viva la funzione paterna. «Con l'espressione Nome-del-Padre, Lacan definiva la funzione paterna, che interviene come terzo nella coppia madre-bambino e che nella vita di un soggetto costituisce quel supporto stabile e normativo che collega la legge e il desiderio», sottolinea Di Ciaccia. E' nel suo seminario su Finnegans Wake, l'incompiuta di Joyce, che Lacan sottolinea come la scrittura agisca nello scrittore da funzione operativa del Nome del Padre, sia la supplenza che lo tiene a galla, ai bordi del suo disastro psichico. Nell'Ulisse, Bloom diventerà la figura del padre che Dedalus sceglierà per sé. Inventarsi un padre, ovvero inventarsi un cosmo in cui abitare, attraverso la parola scritta.

La scrittura non è evasione dalla sfera del padre come mostra di credere l'inetto (agli occhi di Hermann Kafka) Franz, l'insetto Franz, ma la sua piena, totale assunzione, nel pieno delle sue funzioni. Il nome del padre distanzia il figlio e articola il soggetto, lo spinge nel cuore del suo sintomo e diventa la sua spina dorsale. La provocazione di Lacan ha una risonanza grandiosa, ti trascina nella tagliola, ti costringe all'amputazione e ti indica come trasformare l'emorragia e il dolore in azione. Separare e legare. La paternità ridotta a funzione diventa una mirabile sartoria del taglia e cuci. Apre la possibilità di sostenere ciò che per definizione è insostenibile, il proprio desiderio. Sostituirai il tuo godimento seriale di potenziale assassino o eventuale tossicomane con qualcosa di analogo che sia però iscritto nella Legge.

La psicoanalisi apre uno spiraglio del tutto inaspettato. No al padre in quanto riproduzione di un ideale poco importa se esecrabile o da amare. Lacan fa un passo avanti: dal nome del padre al padre del nome, alla sua funzione di nominazione. «Ogni figlio, naturale o meno, ogni bambino, deve essere comunque adottato: è cioè necessario un atto di parola a soppiantare il fatto biologico», rafforza il concetto Jean-Daniel Matet, psicoanalista francese e membro dell'Ecole Freudienne.


Repubblica 13.7.06
Se il dialogo muore
INCHIESTA/ il silenzio dei cattolici democratici
Tra le ragioni dell'impaccio anche la difficoltà del confronto con gli anticlericali
Ma non mancano i segnali del risveglio nella battaglia per la Costituzione
Raniero La Valle: tra ascari ed oppositori desolante è il panorama politico
Adriano Ossicini: rischiamo di arenarci davanti a forme di relativismo morale
di Simonetta Fiori


Se i cattolici democratici inclinano all´afasia, non sono sospettabili di timidezza altre due opposte figure della scena italiana. Mosse da convinzioni inconciliabili, quasi specularmente contrarie, sono avvertite entrambe come minacciose, sebbene in modi diversi. Da una parte gli "atei devoti", non credenti ma obbedienti, sempre più amati e blanditi dalle gerarchie; dall´altra i propugnatori dell´anticlericalismo, che esasperati dalle chiusure del magistero tendono a riproporre nei confronti della Santa Sede antichi argomenti. Quasi incredulo, travolto da correnti differenti anche se disegualmente impetuose, il cattolico non confessionale rischia di essere sospinto fuori dall´agone pubblico. «Noto con dispiacere», ha confessato di recente Achille Ardigò, «che vescovi e cardinali si fidano molto più dei cosiddetti atei devoti, i Ferrara, le Fallaci, che dello spirito dei credenti». La speranza, conclude lo studioso bolognese, è che il laicato cattolico ricordi di "possedere un mandato". E finalmente lo eserciti.
Appartiene ormai all´altro secolo la lunga stagione in cui questo mandato fu svolto con battagliera vitalità, ai limiti del confronto anche aspro. Cominciò alla fine degli anni Sessanta, sull´onda del Concilio Vaticano II. Incontro-scontro con l´autorità, obbedienza-disobbedienza furono le categorie intorno a cui si dipanò il dissenso cattolico, che annoverava tra i suoi protagonisti personalità anche del mondo ecclesiastico come don Mazzolari, don Milani, padre Turoldo. Il modernismo - l´ultima grande eresia condannata dalla Chiesa romana - rappresentò secondo alcuni interpreti il modello di riferimento, sia per tradizionalisti che per dissenzienti. Ma il grande elemento di novità fu il rapporto tra fede e politica, con il tentativo in alcuni ambienti di coniugare cristianesimo e marxismo.
Il dissenso poteva essere declinato sul piano teologico e dottrinario, come sul piano politico: una tensione che attraverserà tutto il decennio dei Settanta coinvolgendo laici e prelati. Appaiono oggi distanti le appassionate omelie del cardinal Lercaro, arcivescovo di Bologna, che nel gennaio del 1968 dal pulpito della cattedrale disse parole gravi contro i bombardamenti americani in Vietnam: immediata fu la rimozione su decisione di Paolo VI, il quale stava trattando segretamente con gli Usa. Epoca di fermenti, anche di tormenti. Poteva capitare - siamo a ridosso del referendum sul divorzio - che un monaco d´intensa spiritualità come Carlo Carretto si pronunciasse con grande dolore a favore dello scioglimento coniugale: pensava ai poveri emigranti, non voleva aumentarne le sofferenze.
La Chiesa gerarchica naturalmente non rimase a guardare. Quando alcuni cattolici come Gozzini, La Valle, Ossicini decisero di candidarsi al fianco dei comunisti nella Sinistra Indipendente, i vescovi espressero pubblica deplorazione. «Partecipai a un incontro di autorevoli esponenti della Conferenza Episcopale Italiana», ricorda ora Pietro Scoppola, «e pur lamentando l´inopportunità politica di quelle candidature ne difesi la legittimità dal punto di vista ecclesiastico. Erano altri tempi: oggi i cattolici militano dappertutto, anche nelle frange più estreme di Rifondazione. Per questo oggi il dissenso non avrebbe più ragion d´essere. L´attuale silenzio dei cattolici democratici, in questo caso, è il frutto d´una cattolicità più matura».
Se allora però agli anatemi della Chiesa si reagiva con argomentata convinzione, oggi i diktat vengono accolti da diffusa rassegnazione. Racconta Raniero La Valle, prima direttore dell´Avvenire d´Italia e più tardi del Popolo, destinatario nel 1976 della sconfessione papale: «Dalla finestra di piazza San Pietro, papa Paolo VI ci chiamò "figli che hanno tradito". La cosa mi addolorò profondamente, ma ero convinto della mia scelta. La sfida era far politica da credente, traducendo in forme laiche i valori evangelici. D´altra parte avevo avuto i miei guai quando da direttore del Popolo, sul finire dei Sessanta, mi ero rifiutato di fare una campagna contro Fanfani: non potei scrivere per quindici giorni. E quando il tuo editore è anche il tuo confessore spirituale, la cosa si complica un po´».
Vent´anni fa poteva capitare che alcune leggi anche dirompenti come quella sull´aborto portassero la firma dei cattolici. «Lasciammo un segno là dove la legge si assume il dolore della donna», dice La Valle. «Quella che è venuta a mancare è proprio una voce politica del cattolicesimo capace di autonomia e anche di scatto inventivo rispetto alle indicazioni della gerarchia. Non ci sono più gli strumenti politici necessari a questa elaborazione, un luogo che funzioni da stimolo e collante. La lunga transizione italiana ha finito per cancellare il nostro contributo che aveva un segno specifico e diverso. Nella scena parlamentare, oggi, il panorama appare piuttosto desolante: o ci si propone come ascari del magistero, nella stretta osservanza del suo imperio, o ci si pensa in termini di alternativa alla Chiesa, posizione che giudico gravissima. Noi stavamo con il Pci non come transfughi ma come credenti. Ponendosi come antagonista al mondo dei fedeli, la sinistra sembra aver dimenticato la sua storia. E soprattutto rischia di regalare i cattolici alla destra».
La difficoltà del dialogo con la sinistra radicale è altra componente non trascurabile dell´attuale impaccio. In una provocazione di qualche settimana fa Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera celebrava il definitivo divorzio dei cattolici da una sinistra «in preda a una morale individualistica e libertaria» nel campo del costumi sessuali e soprattutto in quello della bioetica. Analisi un po´ tranchant, subito condivisa dall´agenzia dei vescovi. Adriano Ossicini, altro protagonista storico del cattolicesimo di sinistra - sospeso dai sacramenti da Pio XII per le sue autonome posizioni politiche - ammette questo disagio, restringendolo però ad alcune componenti. «Un cristiano a fatica si riconosce negli argomenti d´un Pannella o d´un Capezzone. Sono sempre stato avversario della cultura radicale: più la sinistra si orienterà in direzione anticlericale, più ci sarà difficoltà di comunicazione». L´incontro col Pci era avvenuto anche su un terreno etico, favorito dal rigore di Enrico Berlinguer. «Oggi dinanzi a forme sempre più sostenute di relativismo morale questo dialogo rischia di arenarsi».
Cattolici democratici come Pietro Scoppola lamentano "toni da crociata" che egli avverte minacciosamente riecheggiare in certe zone della sinistra. «Anche in un recente incontro pubblico sono rimasto sorpreso da posizioni di anticlericalismo radicale. In questo aveva ragione Augusto Del Noce: l´esaurimento del marxismo ha lasciato spazio nella sinistra a una cultura individualistica che rende molto più difficile un´intesa con i cattolici. Mi riferisco a una cultura dei diritti che non è in equilibrio con una cultura dei doveri e delle responsabilità. Quando si difende l´adozione nelle coppie omosessuali o la fecondazione eterologa, si pensa soltanto al desiderio di paternità e maternità dei genitori, non alla responsabilità verso i figli. Non si rispetta adeguatamente la dignità della persona. Quel principio, introdotto nella Costituzione per iniziativa di Dossetti, rappresenta un valore nel quale ancora oggi la sinistra dovrebbe riconoscersi».
Dalla Costituzione, in sostanza, bisogna ripartire. È nella difesa di quella carta d´identità, frutto comune di differenti famiglie culturali, che i cattolici democratici mostrano d´aver ritrovato voce. E una capacità di mobilitazione che sembrava perduta. «L´ultimo referendum del 25 giugno è stato vinto dai cristiani», dice Raniero La Valle, che indica anche il padre ispiratore in Giuseppe Dossetti. «Questa volta c´è stato un fermento di iniziative che era mancato nel precedente referendum sulla legge 40, tema giudicato tutt´altro che appassionante, anzi in qualche caso fonte di spaesamento». Il documento dell´Azione Cattolica, il manifesto delle riviste cristiane, la tessitura del movimento per la pace, le reti non ufficiali su Internet: la carta costituzionale ha avuto l´effetto di riportare in superficie un vasto mondo rimasto lungamente sommerso.
«Esiste un vissuto ecclesiale», interviene Scoppola, «sotterraneo e discreto, che non beneficia di visibilità nel sistema mediatico: gruppi di preghiera, gruppi di lettura della Bibbia, anche del Vecchio Testamento, movimenti giovanili che certo non si esauriscono nelle posizioni talvolta ingessate del magistero. Tutto questo rappresenta una parte importante nella vita della Chiesa alla quale non si presta dovuta attenzione». Gruppi di credenti non allineati, che però non trovano nel laicato cattolico, smarrito e titubante, molte personalità disposte a rappresentarli. «La campagna per la Costituzione», conclude La Valle, «è stata un´eccezione rispetto alla deriva prevalente: la tendenza in questi anni è stata alla rassegnazione. Ma da qui potremmo ripartire, se non vogliamo che una voce preziosa della cultura cattolica sia consegnata definitivamente al silenzio».
(2 - Fine)

mercoledì 12 luglio 2006

reazione:
da oggi a Roma un "revival" lacaniano dell'Associazione Mondiale di Psicoanalisi: oggi una Tavola rotonda sul tema "IL PADRE: UNA FUNZIONE ANTICA, UN’INVENZIONE NUOVA", con Claudio Strinati, Jacques-Alain Miller, Nadia Fusini e Giacomo Marramao, prof. di filosofia politica all’Università di Roma Tre. Coordina Antonio Di Ciaccia, introduce pubblicamente il V Congresso dell'Associazione Mondiale di Psicoanalisi sul tema "IL NOME DEL PADRE" (13 - 16 LUGLIO 2006), riservato rigorosamente ai soli soci... (brrr... qui). Repubblica nell'occasione pubblica due articoli:

Repubblica 12.7.06
Se il Padre diventa una invenzione
Lacaniani
di Luciana Sica

ROMA Una folla di psicoanalisti di formazione lacaniana è attesa a Roma tra domani e domenica alla Sala Capranica: sono 670 epigoni del maestro francese, appartengono a sette scuole e a sedici Paesi, si considerano i veri unici eredi dell´insegnamento di Jacques Lacan. Anche se - e non solo in Italia - il mondo lacaniano è più vasto, e percorso da sempre da divisioni decisamente aspre.
Sotto il titolo "il nome del padre - farne a meno, servirsene" l´Associazione mondiale di psicoanalisi tiene - per la prima volta in Italia - il suo quinto congresso. È un titolo che rimanda a un capitolo di un Seminario della metà degli anni Settanta appena pubblicato da Astrolabio (Il Sinthomo, pagg. 248, euro 21). Qui il grande teorico - ormai nella parabola finale della sua vita, morirà nell´81 - è già il controverso "altro" Lacan che ricorre alla topologia del nodo borromeo ed elegge Joyce come suo Virgilio, pensando la psicoanalisi non più a partire dalla nevrosi ma dalla psicosi (i passi dell´autore di Finnegans Wake sono stati tradotti da Nadia Fusini; il testo complessivo - si legge già sulla copertina - è stato stabilito da Jacques-Alain Miller, il genero di Lacan che ne è poi diventato l´interprete ufficiale).
L´edizione italiana del Seminario ora in libreria è stata curata da Antonio Di Ciaccia, direttore del congresso lacaniano di questi giorni. Dando ormai per scontata la perdita di lustro del padre nella nostra epoca, è lui a dire: «Per Lacan, non è il padre in quanto tale che ha la funzione di separare e di legare, ma è "padre" tutto ciò che riempie questi due aspetti, addirittura il sintomo del malessere che può anche diventare creazione, sinthome... Questo vuol dire che il padre è un´invenzione».
Non a caso s´intitola "Il padre: una funzione antica, un´invenzione nuova" la tavola rotonda che alla Protomoteca del Campidoglio, alle 18 di oggi, precederà le giornate congressuali. Intervengono Jacques-Alain Miller, Nadia Fusini e Giacomo Marramao; l´introduzione, affidata a Claudio Strinati, è giocata su "l´altalena dei Pulcinella: dal Tiepolo padre al Tiepolo figlio".

Repubblica - Roma 12.7.06
Freud, la città desiderata e l'amore per Michelangelo
Nel 150° anniversario dalla nascita del padre della psicanalisi Roma ha un ruolo di primo piano
"Quante volte ho salito la scala che porta dall'infelice via Cavour alla solitaria piazza della chiesa deserta"
di Emanuele Trevi


Cade in questo 2006 il centocinquantesimo anniversario della nascita di Sigmund Freud, e in tutto il mondo le celebrazioni del padre della psicoanalisi si susseguono, com´è giusto, a ritmo quotidiano. È forse meno ovvio, per chi non è uno specialista, che queste celebrazioni coinvolgano anche Roma. Il fatto è che nessun´altra città ebbe su Freud, per sua stessa ammissione, l´importanza di Roma: nemmeno Vienna, o la Londra degli ultimi anni gli concederanno esperienze psicologiche ed intellettuali minimamente paragonabili a quelle vissute in riva al Tevere. E sì che i soggiorni a Roma del grande scienziato, sette in tutto a partire dal primo del 1901, durarono al massimo qualche settimana, e a volte anche meno. Ma trattandosi di Sigmund Freud, non ci stupisce apprendere che, prima della Roma effettivamente visitata, esiste una Roma lungamente desiderata, con un misto di desiderio e timore che forma una classica "ambivalenza" psicologica; e soprattutto, esiste anche una Roma sognata, che ha lasciato ampia traccia di sé, con tutto il suo carico di possibili significati, nell´Interpretazione dei sogni. Freud stesso definisce questa città onirica «il simbolo di una serie di desideri lungamente vagheggiati».
Ma quando desideriamo qualcosa con tanta intensità, in veglia e in sogno, possiamo star certi che in agguato c´è anche qualche complicazione. L´oggetto del desiderio suscita anche inibizione, quando non paura vera e propria. Più di una volta, durante le lunghe vacanze estive nell´Italia settentrionale e centrale, sarebbe stato facile a Freud arrivare fino a Roma. Nel 1897, per esempio, è a poche decine di chilometri, sul lago Trasimeno, dove anche Annibale si era fermato invece di sferrare l´attacco decisivo alla Città Eterna. Secondo Ernest Jones, il fedele seguace e biografo ufficiale di Freud, questa identificazione con il generale cartaginese, di stirpe semita, è molto significativa per capire i sentimenti ispirati allo scienziato ebreo dal centro vitale della cristianità. Ad ogni modo, e nonostante il prestigio del modello di Annibale, il due settembre del 1901 Freud, in compagnia del fratello, mette piede finalmente a Roma al termine di un lungo viaggio in treno. Dopo i sogni e i desideri rimandati, l´arrivo concreto a Roma può addirittura essere definito da Freud stesso «il punto cruciale» della sua vita.
Come si desume dalle lettere ai familiari, tutto gli piace, di quella Roma all´alba del secolo: i capolavori dei musei, naturalmente, a cui da buon austriaco colto dedica visite accurate e sistematiche, il cibo e il vino (del quale a volte abusa), e le donne romane di cui, come afferma più d´una volta, la bellezza non si apprezza pienamente a prima vista, ma si rivela in maniera indelebile concedendo il giusto tempo all´osservazione. Molto a buon mercato è l´albergo dove scende Freud nei primi viaggi: l´Hotel Milano offriva le sue stanze, dotate di elettricità, a «quattro lire al giorno». A pochi passi da lì, racconta Freud nel 1906 in una lettera a casa, su un lato di piazza Colonna, un rudimentale "cinema" attraeva ogni sera frotte di romani, con brevissimi spezzoni di pellicola che si alternavano a pubblicità di prodotti farmaceutici.
Il 1906 è una data importante nella carriera di scrittore di Freud, che pubblica uno dei suoi saggi più celebri e accessibili anche a un pubblico non specializzato, Delirio e sogni nella Gradiva di W. Jensen. Si tratta di un tentativo di analizzare con i metodi della psicoanalisi non il materiale offerto dagli incontri con dei pazienti reali, ma i sogni e le visioni presenti in un romanzo pubblicato qualche anno prima, Gradiva di Wilhelm Jensen. Pur ambientato in gran parte a Pompei, questo romanzo è tutto ispirato a uno stupendo bassorilievo greco che si ammira, oggi come ai tempi di Freud e Jensen, ai Musei Vaticani. Dopo la visita ai Musei Vaticani, Freud riuscì a procurarsi una riproduzione della bellissima ragazza di profilo (forse una delle Ore) scolpita dall´artista greco, e la espose nel suo studio a Vienna, imitato in seguito da centinaia di psicanalisti in tutto il mondo.
Col passare degli anni e un sostanziale miglioramento delle condizioni economiche, Freud potrà permettersi di scendere in un albergo decisamente più lussuoso e confortevole rispetto alle sistemazioni dei primi viaggi. Fu così che approdò all´Hotel Eden, lo storico ed elegantissimo albergo aperto nel 1889 a via Ludovisi, a pochi passi da Porta Pinciana. Nessun "pellegrinaggio freudiano" potrà fare a meno di una tappa all´Eden, che sfoggia ancora la sua inconfondibile entrata sormontata da una tettoia di ferro battuto in puro stile liberty. E nel registro dell´albergo, tra le tante firme di ospiti illustri, come quelle di Eleonora Duse e Gabriele d´Annunzio, si legge chiaramente anche quella del «prof. S.Freud». Furono moltissime le lettere che l´instancabile professor Freud inviò da questo albergo ad amici, parenti, colleghi di lavoro. E se non è facile immaginare con precisione come evolvesse ad ogni ritorno la sua immagine della città, di sicuro è possibile calcolare la distanza (in fondo non eccessiva) che separa l´Eden da quella che è in assoluto la tappa principale e spiritualmente più importante di tutte le passeggiate romane di Freud: la chiesa di San Pietro in Vincoli e, al suo interno, il Mosè di Michelangelo che domina il monumento funebre di Giulio II.
Si può affermare in generale che la pur spiccata sensibilità artistica di Freud venisse sollecitata molto più dai volumi della scultura che dalle immagini bidimensionali della pittura. Ma il legame che lo avvince al capolavoro di Michelangelo sembra proprio oltrepassare i confini di una pura seduzione artistica. Ogni giorno, Freud è là, davanti alla possente e maestosa figura marmorea di Mosè, tentando di carpirne tutti i significati, e sperimentando in prima persona l´immenso potere, sia psicologico che estetico, che emana dai frutti del genio di Michelangelo. «Quante volte», racconta lo stesso Freud, «ho salito la ripida scalinata che porta dall´infelice via Cavour alla solitaria piazza della chiesa deserta; e sempre ho cercato di tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell´eroe, e talvolta me la sono poi svignata cautamente fuori dalla penombra dell´interno».
L´emozione, insomma, è tale che diventa impossibile al visitatore sostenere lo sguardo severo e corrucciato della statua, tanto da indurlo a «svignarsela» dalla chiesa stessa! Le parole citate provengono da un altro famoso saggio di Freud, Il Mosè di Michelangelo, scritto nel 1913. L´anno prima, durante tre settimane di settembre trascorse in solitudine a Roma, il contatto con il capolavoro di Michelangelo aveva rasentato i limiti di una vera e propria ossessione. Ogni giorno Freud imboccava la «ripida scalinata» (oggi via San Vincenzo di Paola) che collega via Cavour a San Pietro in Vincoli, e ogni giorno la tremenda immagine paterna del barbuto Mosè marmoreo aveva qualcosa di nuovo da rivelargli. L´abito mentale del detective, e soprattutto l´attenzione ai particolari anche minimi affinata dall´ascolto dei discorsi dei pazienti, adesso si riversava su questa statua che, a quanto sembrava a Freud, non aveva meno segreti di un uomo in carne ed ossa. E fu con molte esitazioni che Freud si decise a stendere le sue osservazioni e proporre un´interpretazione che, a conti fatti, ha convinto anche molti storici dell´arte ben più esperti di lui sulla tecnica e le intenzioni di Michelangelo.
Freud pubblicò il saggio sul Mosè in forma anonima, con la modestia dello scienziato che si avventura in un campo estraneo alle sue competenze, ma anche a distanza di molti anni considerava questo breve scritto come «un figlio prediletto». E l´insegnamento che alla fine del suo lungo e dettagliato sforzo d´interpretazione la statua ha da impartire al suo così accanito ammiratore, è dei più importanti, trattandosi addiririttura di quella che Freud definisce la «più alta impresa psichica possibile all´uomo». Che è la capacità, mirabilmente espressa dagli equilibri di forze concepiti da Michelangelo nello scolpire la figura di Mosè, di «soggiogare la propria passione a vantaggio e in nome di una causa alla quale ci si è votati». Un suggerimento che Freud tentò di tenere a mente e applicare in concreto in più di una occasione della sua lunga e travagliata carriera di scienziato e scopritore. E forse un uomo così abituato a soppesare il significato e il grado di verità di ogni parola, non esagerava affatto, quando affermava che il «punto cruciale» della sua vita era stato il primo arrivo a Roma. A parte, s´intende, tutti i viaggi già fatti in sogno.

Repubblica 12.7.06
L'esperimento della Newcastle University descritto su "Developmental Cell".
Gli scienziati: i risultati serviranno a combattere l'infertilità
Nati senza padre, rivoluzione in laboratorio
di Enrico Franceschini


LONDRA - E´ il seme della vita, il liquido organico con cui l´uomo feconda la donna, il contributo maschile alla riproduzione della specie: ma adesso è possibile crearlo artificialmente, sul vetrino di un laboratorio. Significa, in teoria, che la storia dell´umanità può fare a meno di uno dei suoi due protagonisti: per concepire, Eva, in teoria, non ha più bisogno di Adamo. L´annuncio arriva dalla Gran Bretagna, dove scienziati della Newcastle University sono riusciti a produrre sperma da cellule staminali raccolte da embrioni di topolini. Come è noto, le staminali sono cellule da cui si può far crescere ogni genere di cellule; ed era già accaduto, in un test compiuto sempre in Inghilterra (Sheffield University), che ricercatori avessero ricavato sperma da cellule staminali. Ma si erano fermati lì. A Newcastle, invece, hanno sviluppato le cellule di sperma fino a quando sono state pronte per fecondare un ovulo, quindi hanno impiantato l´ovulo fecondato in una topolina: l´animale ha avuto una normale gravidanza, al termine della quale ha messo al mondo sette topini. Uno è morto dopo pochi giorni, gli altri sei sono sopravvissuti e sono diventati adulti.
«E´ la fine dell´uomo?», perlomeno come mezzo di riproduzione, s´interroga la stampa britannica, immaginando un futuro in cui le donne, con questa tecnica, potrebbero in effetti riprodursi da sole. E´ presto, beninteso, per dire «ciao, maschio». Per cominciare, la scoperta della Newcastle University - descritta nei dettagli sulla rivista scientifica Developmental Cell - necessita ulteriori studi perché sia perfezionata: i sei topolini sopravvissuti soffrivano di anomalie genetiche, facevano fatica a camminare, erano troppo grossi o troppo piccoli, e sono tutti morti nel giro di cinque mesi, meno di un quarto della vita media di questo minuscolo mammifero, che è di due anni. In secondo luogo, la ricerca condotta dal professor Karim Nayernia ha come obiettivo dichiarato non certo quello di eliminare l´uomo dalla procreazione bensì di aiutarlo nell´impresa: viene considerata un importante passo avanti per la cura della sempre più diffusa infertilità maschile. «Cellule di sperma ricavate dalle staminali di un uomo potrebbero essere cresciute in laboratorio fino a svilupparsi e quindi essere impiantate di nuovo nel paziente», nota il professor Nayernia: risultando nella nascita di un figlio biologicamente proprio, anziché facendo ricorso allo sperma di un anonimo donatore. Quanto all´idea che il procedimento possa servire a un altro scopo, ovvero a fare a meno del maschio per procreare figli, va precisato che al momento le leggi del Regno Unito la vietano tassativamente: per cui, anche se fosse tecnicamente possibile, sarebbe illegale. «Mettere al mondo figli in questo modo causerebbe infiniti problemi etici», osserva Anna Smajdor, ricercatrice dell´Imperial College di Londra. «Chi sarebbe il padre? Un gruppetto di cellule staminali su un vetrino? Oppure l´embrione da cui queste cellule sono cresciute?».
Assai meno seriamente, il quotidiano Sun pubblica una lista di ragioni per cui la donna avrà sempre bisogno dell´uomo: per avere qualcuno che le chiede scusa, anche se non sa per cosa; per dirle che quel vestitino nuovo le sta benissimo; per cambiare le ruote della macchina; e così via. Ma noi uomini dovremo inventarci ragioni più importanti, se vogliamo che la prospettiva da romanzo di fantascienza di un mondo popolato soltanto da donne non diventi realtà.

Repubblica.it 12.7.06
La Corte suprema annulla la condanna di un giovane di Latina accusato di aver violentato l'ex fidanzata minorenne
Cassazione: "Stupro non sempre reato se lei dice sì all'inizio del rapporto"


ROMA - Una sentenza della Cassazione riguardo ad un caso di stupro è destinata a far discutere: non è sempre reato se il rapporto inizia con l'assenso di entrambi i partner, ma non viene poi interrotto su richiesta di uno dei due. La Corte suprema lo ha decretato annullando la condanna del Tribunale di Latina e della Corte d'appello di Roma a quattro anni di reclusione per un giovane ventenne di Latina, accusato di violenza su una minorenne.
La storia risale al 2000, quando i due fidanzati si erano appartati per scambiarsi effusioni, sfociate in un rapporto completo. La ragazza aveva allora 16 anni e poco dopo la sua prima volta ha denunciato il fidanzato: dopo un primo consenso la ragazza avrebbe chiesto invano al partner di fermarsi, senza però essere ascoltata.
Dopo le due sentenze di condanna l'imputato ha proposto ricorso in Cassazione denunciando vizi di motivazione e, in particolare, una erronea ricostruzione dei fatti e l' inattendibilità della minorenne. E con la sentenza 24061 la Corte ha dato ragione al ragazzo. La motivazione riguarda proprio quel "sì" iniziale della ex fidanzatina: "I giudici non hanno adeguatamente tenuto conto del fatto che la ragazza avrebbe accettato di avere un rapporto
sessuale con l'imputato, ma si era opposta nel momento in cui aveva iniziato a sentire forti dolori nella zona vaginale".
La Cassazione crede poi al ragazzo che dichiara di aver agito "nella certezza di avere un rapporto consentito" e che quindi "poteva non aver percepito quel disagio che la ragazza avrebbe successivamente manifestato". Considerato indicativo del fatto che la ragazza fosse consenziente il suo comportamento il giorno successivo alla presunta violenza: "Era tranquillamente andata in macchina con l'imputato".




Corriere della Sera 12.7.06
Eventi / Il regista e gli appunti per i suoi film: «Non li porto sul set ma alla fine influenzano i miei lavori»
Bellocchio: «Con la matita scopro le facce della realtà»
di Fabio Cutri


Yerevan. A 20 anni sognava di fare il pittore. Poi, a tu per tu con la tela, ha capito che quella vita monastica e «masturbatoria» non faceva per lui. Molto meglio buttarsi nella mischia, immergersi fino al collo nel continuo confronto con gli altri («che talvolta diventa scontro, violenza») di cui è fatto il cinema. Il piacere di disegnare però Marco Bellocchio non se lo è mai lasciato alle spalle. Per ingannare i tempi morti che precedono le riprese di un film, certo. Ma anche perché saper tradurre in forme semplici le immagini oniriche che affollano la mente di un regista può rivelarsipiuttosto utile.
«I miei schizzi non sono direttamente funzionali a cjò che farò con la macchina da presa e nemmeno abbozzi di personaggi alla Fellini», racconta l’autore de I pugni in tasca e Il regista di matrimoni dall’Armenia, dove è opite di una rassegna cinematografica («Compiuti i 60 anni inizia la fase dei premi alla carriera», scherza). «Io più che altro disegno perché mi diverto. Di solito, a sceneggiatura finita, penso e ripenso alla storia e mi viene naturale mettere sulla carta alcune istantanee, fissare delle inquadrature, annotarmi qualche idea su ciò che può accadere in un preciso momento. Anche se poi i disegni non li porto sul set me li ricordo e, forse inconsciamente, influenzano il mio modo di lavorare».
Un esempio del metodo di Bellocchio lo si vede negli appunti schizzati per Buongiorno, notte, il film del 2003 sul rapimento di Moro. C’è la sera tipo ell’appartamento; gli appelli del papa, la notte che precede l’assassinio. Ma anche disegni più onirici che deformano e trasfigurano la realtà: «Mi sono ad esempio immaginato il covo-prigione come un piccolo convento, ritraendolo dall’alto in una panoramica che mostra ognuno nell’isolamento della propria cella. Questo schizzo, più che una traccia da seguire, dà corpo a un sentimento profondo: per quanto intraducibile nel linguaggio del cinema offre una prospettiva in più sulla vita quotidiana dell’ostaggio e dei carcerieri».
Ai disegni del regista sono state dedicate alcune mostre e un libro: Bellocchio, Il pittore, il cineasta. A proposito, in questo momento sta scrivendo o disegnando? «Sull’aereo di ritorno butterò giù qualche schizzo per una storia da raccontare agli studenti del corso di Bobbio».

Ansa 12.7.06
Festival e laboratorio di cinema con Bellocchio a Bobbio


(ANSA) - BOBBIO (PC), 12 LUG - Torna a Bobbio (Pc) l'appuntamento estivo con il cinema curato da Marco Bellocchio che propone il 'Bobbio Film Festival' e il 'Laboratorio di cinema'. Dal 16 al 30 luglio il borgo piacentino, famoso per il romanico Ponte Gobbo, a cui il regista ha intitolato il premio del Festival (Gobbo d'oro), ospitera' opere importanti accompagnate dai registi, sceneggiatori e attori che alla fine delle proiezioni (cinema Le Grazie) risponderanno alle domande del pubblico. La rassegna, inaugurata il 17 da 'Musikanten' di Franco Battiato, proporra' tra gli altri il romeno '12.08 a l'east de Boucarest' di Corneliu Porumboiu, vincitore della Camera d'Or all'ultimo Cannes, 'L'enfant' dei fratelli Dardenne, 'Anche libero va bene','Piano 17' di Marco e Antonio Manetti, 'La guerra di Mario', 'L'enfer' di Danis Tanovic, 'La passione di Giosue' l'ebreo'. Chiusura il 30 luglio con 'Il regista di matrimoni' dello stesso Bellocchio. Contemporaneamente al Festival si svolgera' il laboratorio 'Farecinema', promosso dal regista a partire dal 1997. Al laboratorio partecipano venti giovani cineasti provenienti da diverse regioni italiane, scelti in una rosa di 70/80 candidati. Il programma prevede la realizzazione di un cortometraggio che permette di percorrere, in due settimane, tutte le fasi creative di una produzione cinematografica, dalla sceneggiatura alle riprese al montaggio. Bellocchio, sempre presente, sara' affiancato di volta in volta da diversi collaboratori, tra cui grandi professionisti. Info: Iat Bobbio 0523/962815 o www.comune.bobbio.pc.it (ANSA). BEA
12/07/2006 00:12