sabato 29 luglio 2006

Apcom 29.7.06
Governo / Bertinotti: più coraggio, la crisi non ci sarà
Maggioranza più larga? Niente veti


Roma, 29 lug. (Apcom) - "Il governo non rischia la crisi", anche se "la politica deve innalzarsi di tono perché si stanno realizzando buoni obiettivi con cattivi spettacoli". Ad affermarlo, in un'intervista a La Stampa, è il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, spiegando che non metterà veti ad un allargamento della maggioranza ma precisando che tutto deve avvenire senza astuzie di basso profilo.
Bertinotti si sofferma, poi, sugli ultimi provvedimenti e, riferendosi all'indulto e alle scelte in politica internazionale, si dichiara soddisfatto dell'azione di governo anche se - sottolinea il presidente della Camera - "alle cose buone si è arrivati per compromesso interno, senza un adeguato disegno riformatore".
Per il presidente della Camera "le difficoltà si possono superare allargando la maggioranza di governo". Bertinotti chiede però una discussione che "sotto traccia è già in corso". Il riferimento va "a quelle forze che fin qui non sono state dentro la nostra coalizione, ma che ne hanno compreso meglio la natura e scelgono di unirsi a noi". Bertinotti poi lancia un auspicio: "in politica ci vorrebbe un Marchionne".

l’Unità 29.7.06
Erika De Nardo, con la pena ridotta semilibertà più vicina


Tra i tanti detenuti che beneficeranno dell’indulto, se anche il Senato darà il via libera al provvedimento, ci sono diversi protagonisti di casi efferati di cronaca nera. Si va da Pietro Maso, il giovane veronese che nel 1991 uccise i suoi genitori, a Gianfranco Stevanin, l’agricoltore di Terrazzo condannato all’ergastolo per l’omicidio di cinque donne; dalle amiche assassine di Castelluccio di Sauro sino a Erika di Nardo, la ragazza di Novi Ligure che uccise la mamma e il fratellino. Per alcuni di loro grazie allo sconto di pena di tre anni, potrebbero aprirsi a breve le porte del carcere, accedendo a benefici e misure alternative alla detenzione che finora erano precluse. Per Maso il suo fine-pena sarà anticipato dal 2021 al 2018. Le porte del carcere potrebbero aprirsi tra poco più di un anno per Erika. Condannata definitivamente a 16 anni, ne ha scontati 5: con lo sconto di 3 anni e la minore età al momento del delitto potrebbe ottenere la semilibertà.

l’Unità 29.7.06
Giordano Bruno, vittima della Controriforma
di Igino Domanin


RIEDIZIONI Parla il filosofo Fulvio Papi che ristampa un suo fortunato saggio sulle idee del Nolano. Quel che era in ballo con la sua eresia era un nuovo «sguardo» sulla natura. Che la Chiesa di allora volle censurare

L’interpretazione della Modernità come rottura e discontinuità rispetto a un universo culturale incapace di produrre una efficace rappresentazione scientifica della natura è senz’altro uno dei cardini del nostro modo di pensare. Riconosciamo nelle formazioni epistemiche, sorte con l’avvento del metodo sperimentale e delle concezioni meccanicistiche, il fulcro di un modo di conoscere la natura che si oppone alla precedente sensibilità magica ed esoterica. Questo convincimento, non privo, com’è ovvio, di fondamento, sostanzialmente sta alla base di un conseguente giudizio di valore che può essere positivo o negativo. Nel primo caso si tenderà a vedere nel sorgere della scienza moderna il trionfo della verità obiettiva e di un sapere adeguato ai fenomeni della natura; nel secondo caso, invece, il trionfo dei modelli galileiani e newtoniani come un impoverimento spirituale che riduce la natura a materia inerte e priva di legami con la vita psichica.
In questo quadro l’interpretazione dell’opera di Giordano Bruno risulta centrale. A patto, però, di non esaurire la figura del Nolano nel cerchio dell’esoterismo, o come un mero precursore, capace di geniali intuizioni che avrebbero trovato conferma e verifica nel corso della Modernità successiva.
La ripubblicazione, a distanza di decenni, dalla prima edizione del testo di Fulvio Papi Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, pubblicato presso Liguori, a cura di Nuccio Ordine (lo studioso che negli ultimi anni sta maggiormente contribuendo alla ricerca italiana e internazionale su Bruno), diventa oggi molto significativa di un modo di affrontare la storia delle idee in chiave teorica e problematica, piuttosto che come arida filologia. Papi, come avviene per altri notevoli interpreti di Bruno come Badaloni e Ciliberto, cerca d’isolare le differenze piuttosto che le identità, i caratteri propri e originali, cioè, della filosofia di Bruno. Puntando l’attenzione sull’antropologia filosofica, e sull’idea che il naturalismo di Bruno conduce direttamente nella direzione della civiltà occidentale del fare.
Professor Papi, qual è il significato attuale della filosofia di Bruno?
«Le filosofie, di per sé, non sono attuali o inattuali. Ma vanno capite rispetto agli strumenti intellettuali con cui sono costruite. Questi strumenti appartengono a un tempo storicamente determinato e variano a seconda dei periodi storici che consideriamo. Bisogna, perciò, in questo caso comprendere quali siano i mezzi di produzione teorici che Bruno poteva effettivamente utilizzare. Solo così possiamo comprenderlo criticamente. In questo modo arriviamo a capire che Bruno non è un anticipatore della scienza moderna. Il suo modo di “vedere” la natura ci è completamente estraneo».
In che senso ci è estraneo?
«Lo sguardo di Bruno vedeva la divinità della natura, mentre noi la consideriamo essenzialmente come una risorsa. Noi oggi parliamo di ambiente, il che vuol dire che la natura non ha una sua realtà, essa è il “nostro” ambiente. Addirittura noi contemporanei non potremmo vivere se avessimo lo stesso sguardo di Bruno sulla natura. Sapere che cosa si è perduto equivale un po’ a sapere chi si è».
Nel suo libro c’è un attenzione profonda verso l’antropologia filosofica e verso i tratti naturali della condizione umana che si traducano in civiltà e in temporalità storica. Qual è il rapporto di Bruno con la modernità?
«Bruno considera l’uomo come un essere naturale che rispetto agli altri viventi ha l’intelletto e le mani. Le mani sono lo strumento che è in grado di usare altri strumenti per costruire un mondo ulteriore rispetto a quello già esistente. La centralità, dunque, del fare, dell’attitudine costruttiva è l’autentico nesso che lega Bruno alla modernità in arrivo».
La condanna al rogo di Bruno ha pesato come un emblema nella storia delle idee dell’Europa moderna. Qual è il suo significato storico?
«Bruno scelse consapevolmente di non abiurare la sua filosofia e, quindi, di morire sul rogo. Bruno, infatti, cercava un accordo possibile con la chiesa Cattolica basato sul riconoscimento dell’autonomia della filosofia dalla religione. Il suo punto di vista radicale non era contenuto nelle affermazioni che vennero stralciate dai suoi scritti e usate contro di lui dai suoi accusatori. Questo tipo di espressioni erano in voga e ricorrenti anche in altri autori del periodo. Ben altro era in gioco. Se il processo si fosse fermato, per esempio a Venezia, Bruno avrebbe potuto semplicemente abiurare alcune frasi e cavarsela. A Roma, però, le cose si complicarono. Un’altra partita si era giocata e riguardava i poteri della Controriforma. Bruno non poteva più avere scampo, poiché in quel contesto non c’era più spazio per la tolleranza verso forme di verità indipendenti dal magistero della Chiesa».

il manifesto 29.7.06
Nell'angoscia il più arcaico degli affetti
Psicoanalisi. Un libro di Lucio Russo per Borla titolato «Le illusioni del pensiero» I limiti dell'incoscio Quel che non è pensabile poiché appartiene a una mente prelogica
di Roberto Finelli


In un discorso ricco di sapienza psicoanalitica e di cultura filosofica Lucio Russo si prova a leggere nel suo ultimo libro, titolato Le illusioni del pensiero. La psicoanalisi tra ragione e follia (Borla) i temi e i problemi di classica pertinenza della filosofia - che cosa sia il pensiero, il soggetto, la verità, l'illusione - attraverso le lenti della sua esperienza teorica e terapeutica, mettendo in campo una strutturale omologia tra la scena della relazione analitica e quanto accade, fuori dal setting nel campo più vasto del pensare, del vivere e del patire, della ricerca di identità e di soggettività.
Se la caratteristica essenziale, la regola aurea della seduta psicoanalitica è l'astensione da ogni contatto fisico tra analista e paziente, ovvero la messa in parentesi della corporeità, Lucio Russo ritrova nel pensiero, nella sua attitudine simbolico-linguistica, nella sua dimensione immateriale e virtuale, la medesima assenza di realtà fisica e sensibile, la medesima distanza da un contesto di realtà concreto e materiale che sia limitato alla percezione e alla rappresentazione dell'hic et nunc. Già Freud aveva definito l'attività conoscitiva della mente come «processo secondario» e derivato rispetto al «processo primario» della vita psichica costituito dagli affetti e dalle spinte pulsionali. Tanto più ciò vale per Russo il quale, attento lettore di Lacan, e dei filosofi del pensiero negativo, teorizza l'attività del pensare come una costruzione incessante che tenta di contattare e di tradurre nella vigilanza della coscienza quel prius esistenziale che è l'angoscia, costituito da un fondo emotivo originario e primario, intrinsecamente indicibile e irrapresentabile, genesi di tutti gli affetti . L'angoscia è un affetto per definizione iscritto in una condizione di mancanza, di assenza. È «lo stato affettivo - scrive Russo - più arcaico dell'uomo», a partire dall'angoscia della nascita, dalla separazione del neonato dalla fusione materna, che si rinnova in ogni tentativo del soggetto di individualizzarsi, separandosi dalla collettività, dal conforme, dal comune. «L'angoscia della nascita esprime l'esperienza limite di un dentro che, mentre viene fuori, sperimenta un'alterazione impossibile da rappresentare, una separazione che non si può né vivere in prima persona né ovviamente pensare». Ma se l'angoscia è l'impensabile, se è il non-rappresentabile dell'inconscio, in quanto appunto affetto primario di una mente ancora prediscorsiva e prelogica, il pensiero dovrà essere concepito come una continua relazione, oltre che con il mondo esterno, con la profondità del mondo interno, per far sì che l'assenza del concreto e del determinato, l'indeterminatezza propria dell'angoscia, si trasformi in libertà dell'immaginare e del concepire, in forza di un vivere e di un pensare personali e liberi dal fusionale. Ne deriva così - da tale fondo originariamente indeterminato e mai pienamente attingibile del sentire e del senso - una sorta di fondazione psicoanalitico-trascendentale del cosiddetto pensiero debole: dall'opera di rifiuto di ogni compiuta sistematica teorica inaugurata da Nietzsche, con la sua negazione dei valori classici di certezza e verità, attraverso Heidegger, fino al decostruzionismo di Deridda, autore tra i più amati e citati da Russo.
Il pensiero che pretende la coerenza sistematica è solo un pensiero chiuso e difensivo, che non ha il coraggio di aprirsi al continuo divenire del sentire e della vita. È un pensiero solo mentale, che rifiuta la facoltà insostituibile della fantasia e dell'immaginazione nel cercare di volgere nel rappresentabile l'indicibile e l'irrapresentabile, ma soprattutto di radicare nel sentire, nel «senso» inteso nel significato letterario del termine, il criterio di orientamento del conoscere e dell'agire. Laddove, come nella stanza d'analisi l'interpretazione non è mai definitiva ma sempre rimessa in gioco attraverso un lavoro paziente e pressoché infinito di approssimazioni, nella complessa trama del transfert e del controtrasfert, così solo un pensiero conoscitivo che rifiuta l'identità, la stabile verità e la rigidità di una teoria fallocentrica e forte, può sottrarsi alle illusioni del pensiero di essere sufficiente a se stesso. Del resto, Lucio Russo muovendo da questa teoria del pensare radicata nel più arcaico sentire, non si perita di imputare, paradossalmente, alla stessa concezione freudiana della psiche elaborata prima degli anni '20 addirittura la valorizzazione e il primato della rappresentazione e del logico rispetto alla potenza e all'originarietà dell'affetto: affermando che solo con la «seconda topica» e l'abbandono di una teoria dell'inconscio, limitata unicamente al principio del piacere, Freud giungerebbe a una profondità metapsicologica adeguata alla drammatica complessità dell'animo umano.

Corriere della Sera 29.7.06
Religione e Politica
E su Washington cala l’armata dei «cristiani sionisti» Migliaia di evangelici accorrono a sostegno dell’offensiva di Tsahal. In nome della Bibbia
di Viviana Mazza


«Non ostacolate Israele nella lotta contro Hamas e l’Hezbollah», invoca dal podio di una gremita sala d’albergo di Washington il reverendo John Hagee. Fermarne le operazioni militari in Libano e a Gaza va contro «le indicazioni di politica estera di Dio», spiega. «Amen!», grida la folla entusiasta tra gli applausi. Armati di fervore evangelico, mossi dall’ardente desiderio di «confortare» Israele, 3.500 cristiani di tutt’America sono approdati a Washington questa settimana per incontrare i deputati del Congresso. Vogliono che gli Stati Uniti restino saldi alle spalle dell'esercito di Tsahal sui fronti libanese e palestinese. Li guida Hagee, 66 anni, reverendo della mega-chiesa texana Cornerstone Church, «cristiano sionista». Hagee ha fondato quest’anno Christians United for Israel (Cufi), una coalizione di chiese, attivisti, tv e radio dediti a difendere Israele «per motivi biblici». «Tutti gli uomini saranno giudicati per le loro azioni nei confronti di Israele - spiega Hagee al Corriere -. Lo dice la Genesi 12:3: "Benedirò coloro che vi benedicono e maledirò coloro che vi maledicono". Lo Stato ebraico va protetto per ragioni di sicurezza e perché Israele ha un mandato biblico al possesso di quella terra».
I cristiani evangelici hanno avuto grande peso nell'elezione del presidente George W. Bush. E il presidente ha inviato un messaggio ai cristiani riuniti a Washington ringraziandoli perché «diffondono la speranza dell'amore di Dio e il dono universale della libertà». «Bush è il più grande amico di Israele - dice Hagee -. Vuole la pace, una pace duratura. E Israele non può essere in pace con chi vuole la sua distruzione e la morte di ogni ebreo». Nei mesi passati, i seguaci del reverendo hanno bombardato il Congresso di email e fax contro gli aiuti umanitari ai palestinesi governati da Hamas. Ora, in missione a Washington, mettono in pratica faccia a faccia la strategia di persuasione dettata dal sito Cufi.org: «Scopri l’orientamento religioso del deputato. Fai complimenti. Il tuo discorso includa le frasi: "non si ceda più terra" e "diritto all'autodifesa"».
Oltre a diversi repubblicani, arrivano alla riunione l'ambasciatore israeliano Daniel Ayalon e il generale Moshe Yaalon. Il premier Ehud Olmert ringrazia da lontano. E Hagee evita di affrontare argomenti poco delicati, per esempio la sua convinzione che solo chi crede in Gesù si salverà dall’Apocalisse.
Per lui il grande afflusso di gente a Washington è un passo avanti «miracoloso» nella missione intrapresa nel ’78, «quando andai in Israele come turista e ritornai sionista». Da allora ha lavorato senza sosta per la causa. Nell’81, quando Menachem Begin fece bombardare il reattore nucleare iracheno di Osirak, Hagee, scioccato dalla reazione critica della stampa americana, organizzò incontri pro-Israele. Nel 2005, offeso dai piani sul ritiro israeliano da Gaza, scrisse nel libro Jerusalem Countdown : «violano la parola di Dio». Nello stesso libro, annunciò che l'Iran vuole un olocausto nucleare. Oggi ripete l’allarme, seguito dall’appello: «La diplomazia e la ragione non servono. Il solo modo per fermare Ahmadinejad è un attacco preventivo».
Molti cristiani temono l’influenza politica di queste idee. Il reverendo britannico Stephen Sizer, autore di un libro sui cristiani sionisti, dice al Corriere che al di là dell'orientamento religioso, «non c'è un solo deputato nel Congresso pronto a criticare Israele e perdere così il voto popolare. Ciò significa che manca il dibattito su questi temi». Sizer ritiene che i cristiani sionisti in America siano oltre 20 milioni. Secondo il Pew Forum on Religion and Public Life , tre quarti dei 50 milioni di evangelici americani sono convinti che la creazione di Israele sia la realizzazione delle profezie bibliche. Guardando la folla a Washington, la faccia paffuta di Hagee si apre in un sorriso: «Non credo che il Congresso avesse idea del numero di cristiani evangelici che appoggiano Israele. Non staremo zitti».

Corriere della Sera 30.7.06
I Sì sono stati 245, i No 56, gli astenuti 6
Il Senato approva l'indulto, gioia nelle carceri
A favore Forza Italia, Udc e Unione. Contrari Italia dei valori, Lega Nord e parte di An.


ROMA - Feste e cori dei detenuti nelle carceri italiane: il Senato ha approvato con maggioranza qualificata dei due terzi il provvedimento di clemenza dell'indulto per combattere il sovraffollamento delle carceri. I sì sono stati 245, i no 56, gli astenuti 6. I due terzi dell'assemblea previsti dalla Costituzione per l'approvazione, 216 voti, sono stati garantiti dal sì compatto di Forza Italia, dell'Udc e dell'Unione. Secondo recenti calcoli, grazie all’indulto potrebbe tornare in libertà quasi un terzo dei detenuti definitivi: tra 12 e 13 mila persone delle 38.086 che in carcere stanno scontando una condanna passata in giudicato. Con molte esclusioni, come spiega la nostra scheda

APPLAUSI - Applausi, grida di gioia e slogan, con in sottofondo il classico tintinnio metallico delle «marmitte» battute contro le porte delle celle: così, a Torino, la notizia dell' approvazione dell' indulto è stata accolta fra i detenuti del carcere delle Vallette. Stessa scena a Napoli e a Regina Coeli, con urla e grida, secondo i testimoni, paragonabili solo alla vittoria ai mondiali di calcio. Dal carcere romano potranno uscire da subito anche i 18 bambini finora reclusi con le loro mamme perchè minori di tre anni. Controcorrente San Vittore a Milano dove la notizia è stata accolta «bene», ma senza particolari manifestazioni di entusiasmo. «È stata accolta con soddisfazione - è stato spiegato dai responsabili della casa circondariale di piazza Filangieri -, ma non ci sono state urla di giubilo o altre manifestazioni particolari».
I CONTRARI Alla proposta di legge si è opposto con forza il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, autosospesosi per protesta, e il suo partito Italia dei Valori, che conta solo su cinque senatori, perché il provvedimento viene fatto valere anche per i reati finanziari e contro la pubblica amministrazione come corruzione e concussione. Contro il provvedimento si sono schierati anche la Lega Nord e parte di Alleanza Nazionale.
I DUE DISSIDENTI - I senatori dell’Ulivo Valerio Zanone e Domenico Fisichella hanno preso la parola nell’Aula di Palazzo Madama per esprimere il loro voto in dissenso rispetto al gruppo: entrambi hanno a votato contro il provvedimento di indulto.
MASTELLA: «SARA' L'UNICO» - «Questo è un elemento nato eccezionale e quindi non ci saranno altri gesti di eccezionalità». È quanto afferma il ministro della Giustizia Clemente Mastella conversando con i cronisti al termine del via libera del Senato all'indulto. Il ministro ricorda che l'ultimo atto di clemenza fu nel 1990 e quindi «sono passati tanti anni» e sottolinea inoltre che «questo non significa essere vicino ai trasgressivi a quelli che devono essere condannati per alcune pene da espiare». «A differenza di quello che scrivono i giornali nessun serial killer esce per via di questo indulto» ha detto poi il ministro. E ha citato alcuni casi: Erika De Nardo, per esempio, «uscirá nel 2013 anzichè nel 2016, mentre Pietro Maso, lascerá il carcere nel 2015 anzichè nel 2018». All'inizio della lista c'è anche il nome di Cesare Previti, la cui pena terminerà nel 2009, anzichè nel 2012.
DI PIETRO: LA PAGHEREMO - Deluso ma ancora combattivo il principale nemico della nuova norma, il leader dell'Italia dei Valori Di Pietro: «Ribadisco che è una scelta sbagliata di cui pagheremo grandi conseguenze in termini di difesa sociale, di sicurezza pubblica, di credibilità delle istituzioni e della coalizione». «Dopodichè - ha concluso - prendo atto del risultato con la serenità di chi ha fatto il proprio dovere fino all'ultimo per impedire un evento dannoso per il paese, le istituzioni e la coalizione. Io le istituzioni le rispetto anche quando prendono decisioni che non condivido affatto. Rimarcherò questa mia posizione che deve essere rispettata come io rispetto la decisione degli altri».

venerdì 28 luglio 2006

Repubblica 18.7.07
La matematica della vita
È una logica misteriosa a governarla
I vari momenti del processo vitale sono illuminati da discipline più o meno nuove L'esistenza però è anche "altro", anche senza pensare a un intervento divino - Più tragicamente Heidegger parlava di "un essere per la morte"
di Piergiorgio Odifreddi


Nell'ambito della Milanesiana, organizzata da Elisabetta Sgarbi, ieri si è tenuta la serata su "Gli elementi della vita". Pubblichiamo qui l'intervento di Piergiorgio Odifreddi. «Che cosa buffa è la vita, quel misterioso articolarsi di logica implacabile per uno scopo ben futile», notava Joseph Conrad in Cuore di tenebra, con un'espressione che Giuseppe Berto adottò come titolo del giocoso romanzo La cosa buffa. Più tragici, Dante nel Purgatorio e Martin Heidegger in Essere e tempo definirono invece paradossalmente la vita attraverso il suo opposto, come «un correre a la morte» o «un essere-per-la-morte». Dal canto loro, i profeti e gli innamorati hanno spesso proclamato ai propri fedeli e infedeli, oltre che a se stessi: «La vita sono io». Naturalmente, non è con gli aforismi, i versi o i proclami che si può pretendere di rispondere seriamente alla domanda Che cos''è la vita?, che costituisce il titolo di uno dei più influenti libri del Novecento, pubblicato da Erwin Schrudinger nel 1944 (Adelphi, 1995). Il quale si sbilanciava anch'egli letteriariamente, in un'evanescente appendice, a dichiare: Deus factus sum, «sono diventato Dio», ma questa volta con buone ragioni. Durante il corso del libro aveva infatti posto le basi per la risposta scientifica al generico dilemma del titolo, arrivando a complementarlo nell'ultimo capitolo con la più precisa domanda: «La vita è basata sulle leggi della fisica?». Quel libro fu letto da un'intera generazione di fisici, chimici e biologi: in particolare da Francis Crick, James Watson e Maurice Wilkins, che dopo aver vinto il premio Nobel per la medicina nel 1962 per aver risposto alle domande di Schrudinger, scoprendo la struttura e il funzionamento del DNA, pagarono tutti un tributo intellettuale al loro ispiratore. A partire dallo stesso Crick, che già il 28 febbraio 1953, giorno dell'epocale scoperta della doppia elica, dichiarò che era stato finalmente trovato il segreto della vita: una dichiarazione che da allora è divenuta un dogma della biologia molecolare. Ma una dichiarazione che tende anche a ridurre la vita a un processo puramente fisico-chimico, dimenticando che essa è anche, per non dire soprattutto, altro. Non stiamo pensando, naturalmente, alla manifestazione di un intervento divino come quello che i fondamentalisti ritengono necessario: senza rendersi conto, per inciso, che una creazione in grado di procedere automaticamente dall'inanimato all'animato, così come dall'incosciente al cosciente, manifesterebbe un'eventuale potenza divina in maniera molto maggiore di una che richiedesse invece ripetuti aggiustamenti in corso d'opera. Piuttosto, stiamo riferendoci a ciò che Ian Stewart ha chiamato, nel titolo di in un suo bel libro, L'altro segreto della vita (Longanesi, 2002). Cioè, la struttura matematica che sottende i vari momenti del processo vitale, e che è il prodotto di un cambiamento di paradigma ormai sempre più evidente: quello che sta facendo passare dagli augusti e placidi fiumi della geometria e dell'analisi classiche, che la fisica ha alimentato nei primi secoli della scienza, agli angusti e spumeggianti rivoli di una nutrita serie di discipline più o meno nuove, che la biologia ha ispirato negli ultimi decenni. Fu nel rivoluzionario anno 1917 che D'Arcy Thompson descrisse per la prima volta in maniera sistematica, nell'ormai classico Crescita e forma (Bollati Boringhieri, 1992), le regolarità aritmetiche e geometriche presenti in quantità impressionante nel mondo biologico, dalle cellule agli organismi: mostrando, ad esempio, come i semi del girasole si dispongano in spirali legate a una successione di numeri introdotta nel 1202 da Fibonacci; o come gli scheletri di alcuni radiolari marini realizzino i solidi geometrici regolari già studiati dai Greci. Qualche decennio prima, nel 1880, Wilson Bentley aveva prodotto un catalogo di foto al microscopio di fiocchi di neve: tutti rigorosamente a simmetria esagonale, per motivi intuiti già nel 1611 da Keplero nel suo libriccino Strenna, ossia della neve esagonale. Ma queste non erano che avvisaglie tassonomiche rispetto all'uso strutturale che si è fatto in seguito della nuova matematica, per descrivere fenomeni che coinvolgono ogni livello dell'organizzazione della vita: dai geni alle cellule agli organismi alle popolazioni. Uno dei suoi primi successi è stata la teoria dell'autoriproduzione sviluppata da John von Neumann nel 1948, cinque anni prima che la scoperta della doppia elica la confermasse: essa si basa su una variazione delle tecniche usate nel 1931 da Kurt Godel per la dimostrazione del suo famoso teorema di incompletezza dell'aritmetica, e costituisce uno dei temi sui quali si sviluppano le variazioni del best-seller Godel, Escher, Bach di Douglas Hofstadter (Adelphi, 1990). La teoria di von Neumann descrive il meccanismo astratto sul quale si basa l'autoriproduzione cellulare, ma non spiega né i dettagli informatici del codice genetico, né la struttura geometrica del DNA. Una soluzione del primo problema è stata proposta nel 1993 da José e Yvonne Hornos, in termini di rottura di simmetria: in particolare, essi sono riusciti a rendere conto del perché tre aminoacidi sono codificati da ben sei codoni ciascuno, cinque da quattro, uno da tre, nove da due, e due da uno solo. Quanto al secondo problema, che ha a che fare col fatto che il DNA, oltre a essere avvolto nella doppia elica, è anche «superavvolto» su se stesso in maniera piuttosto complicata, lo si affronta oggi coi mezzi della teoria dei nodi: una branca della matematica ormai tanto apprezzata, da aver già fruttato la medaglia Fields a Jean Christophe Yoccoz nel 1994 e Vladimir Kontsevich nel 1998. Uno dei problemi più appariscenti della vita, vegetale e animale, è la cosiddetta morfogenesi degli organismi: il processo, cioè, attraverso il quale essi acquistano la loro forma. Il primo a trovare equazioni di reazione-diffusione che descrivano un aspetto della morfogenesi, relativo alla formazione di chiazze o strisce sulla pelle degli animali, fu l'inventore del computer Alan Turing, nel 1952: oggi le sue idee hanno trovato applicazioni che vanno dalle decorazioni delle conchiglie, ai disegni delle ali delle farfalle, alle strisce del pesce angelo, descritte rispettivamente nel 1995 da Hans Meinhardt, nel 1982 da James Murray e nel 1995 da Shigeru Kondo e Rihito Asai. Forse meno appariscente, ma certo più sostanzioso è il problema della struttura del sistema nervoso degli animali. Le sue superficiali similitudini con un circuito elettrico hanno portato Warren McCulloch e Walter Pitts a svilupparne nel 1943 un modello astratto, dal quale è derivata la teoria degli automi finiti, oggi fondamentale in informatica. Nel 1947 Alan Hodgkin e Andrew Huxley hanno dimostrato che la trasmissione dei segnali in un neurone è diversa da quella della corrente in un filo elettrico, e assomiglia invece a quella delle scintille in una miccia, meritando per questo il premio Nobel per la medicina nel 1963. Ma dalle idee di McCulloch e Pitts è nata comunque una teoria delle reti neurali che, oltre a fornire interessanti modelli di apprendimento, ha permesso nel 1987 a Chris Sahley e Alan Gelperin di descrivere completamente la struttura cerebrale che regola i gusti alimentari della limaccia degli orti. Il comportamento collettivo di gruppi di animali, dai formicai agli stormi ai banchi alle mandrie alle folle, presenta problemi di coordinazione che si possono studiare tramite la teoria dei sistemi, e ridurre spesso a semplici regole di comportamento individuale: un esempio archetipico in questo campo è la simulazione computerizzata del volo degli uccelli ottenuta nel 1987 da Craig Reynolds. Più in generale, negli ultimi decenni il computer ha permesso di creare una vera e propria vita artificiale, che è ormai diventata un banco di prova sperimentale per le teorie sulla vita naturale. Già oggi, regole anche molto semplici sono in grado di generare automaticamente dal caos organismi in grado di autoriprodursi e cooperare. Domani, quegli stessi organismi probabilmente pretenderanno di essere stati creati a immagine e somiglianza dell' ignaro programmatore del loro mondo: che cosa buffa è la vita artificiale, quel programmato articolarsi di logica implacabile per uno scopo ben futile!

La Stampa 28.7.06
Passa l’indulto, Diliberto non lo vota
di Ugo Magri


ROMA. L’indulto è passato alla Camera con una maggioranza vasta, da «governissimo». I voti a favore sono stati 460 (Ulivo, Forza Italia, Prc, Udc, Verdi, Udeur, Rnp), 94 quelli contrari (Idv, An, Lega), 18 gli astenuti (Pdci). Ora la battaglia si trasferisce a Palazzo Madama. Secondo il presidente del Senato, Franco Marini, è concretamente possibile che lo sconto di pena venga approvato in via definitiva entro sabato notte. Nelle carceri la notizia è stata accolta con boati da stadio.Si calcola che saranno oltre dodicimila i detenuti che potrebbero beneficiare della scarcerazione.

Ieri il testo non ha subìto modifiche. In particolare, è stato respinto l’emendamento che mirava a escludere dall’indulto il voto di scambio con i mafiosi (cosiddetto 416 ter). Questa bocciatura ha generato nel centrosinistra reazioni a catena. La prima si è manifestata con l’annuncio dei Comunisti italiani che si sarebbero astenuti sul voto finale in polemica col resto dell’Unione. Processione per far cambiare idea a Oliviero Diliberto. Piero Fassino e Massimo D’Alema ci hanno provato pure loro, insieme con Luigi Manconi e Dario Franceschini, ma senza successo e con viva irritazione soprattutto dei «cugini» rifondaroli. I quali nella mossa di Diliberto hanno visto un tentativo di sgambettarli sulla questione morale. Franco Giordano, segretario Prc, ha denunciato la «ferita aperta nella maggioranza da culture molto conservatrici». Diliberto ha replicato sostenendo che «adesso io a Locri ci posso andare», qualcun’altro magari no.

Sul piano pratico, la defezione ha costretto l’Ulivo a rincorrere i deputati e a chiamare in aula tutti i ministri, nel timore che non venisse raggiunto il quorum. Cosicché al momento del voto c’era un pienone da grandi occasioni. Passato il batticuore, Fausto Bertinotti ha salutato l’evento come «una bella giornata per la Camera e per le istituzioni del paese». Proprio Bertinotti è stato protagonista dell’altro scontro di ieri, quello con Antonio Di Pietro.

E’ accaduto quando An si è accorta che sul sito internet dell’Idv era stata pubblicata la lista dei deputati che avevano appena affondato l’emendamento sul voto di scambio. Ignazio La Russa ha preso la parola evocando le liste di proscrizione. Il clima si è surriscaldato. E il presidente della Camera ha bacchettato severamente Di Pietro: «I voti sono pubblici», ha osservato Bertinotti, «ma quello che è stato denunciato qui, qualora venga verificato, lo troverei deplorevole». Standing ovation del centro-destra, vivi applausi anche dai banchi dell’Ulivo. Dove poco prima era stato accolta con simpatia l’autodifesa di Clemente Mastella, grande «desaparecido» nei giorni scorsi e avversario numero uno di Di Pietro nel governo, che aveva solleticato l’orgoglio dei peones: «Non posso accettare che chi è contro l’indulto venga considerato moralmente in regola e che è a favore no...».

Di Pietro, durante il discorso di Mastella, aveva finto di non udire, impegnatissimo a scrivere qualcosa. Ma non poteva fare altrettanto con Bertinotti. Stavolta ha restituito il colpo: deplorevole, secondo il ministro auto-sospeso delle Infrastrutture, sarebbe il presidente della Camera «qualora davvero pensasse di censurare l’organo d’informazione ufficiale di un partito. L’Idv ne farebbe una questione di fiducia politica, non senza conseguenze per questa maggioranza...». E’ lo scenario più temuto da un Romano Prodi presente in aula, silenzioso e anche molto irritato per le continue dissociazioni di ministri e partiti politici. Ha sempre difeso Di Pietro poiché senza di lui la maggioranza va a gambe per aria. Però deve darsi una calmata sennò diventa indifendibile. Ieri il film andato in onda potrebbe intitolarsi «Di Pietro contro tutti». Il leader dell’Idv ha rivendicato una grande vittoria d’immagine nel paese reale, contrapposta allo «sbracamento delle istituzioni». Ed è arrivato a sostenere che s’è realizzato «un voto di scambio politico-parlamentare in cui l’Unione ha svenduto la propria dignità cedendo al ricatto di Forza Italia». Troppo per gli alleati. Franceschini, capogruppo dell’Ulivo, ha alzato il telefono per dire a Vannino Chiti, ministro dei Rapporti col Parlamento, che la misura è colma, e lo riferisse anche a Prodi. Nel «tiro al Di Pietro» si sono distinti Gennaro Migliore (Prc), Mauro Fabris (Udeur), Roberto Villetti (Rnp). Pierluigi Castagnetti (Margherita) ha esortato il ministro a chiedere scusa. Fassino: «Di Pietro da tre giorni sta facendo demagogia a buon mercato». Equanime, ha esteso il rimprovero a Mastella: «Le dimissioni sono una cosa seria, quando uno le annuncia poi dovrebbe avere la coerenza di darle...». Sull’altro fronte rimane agli atti il giudizio sornione di Silvio Berlusconi: «Noi non facciamo opposizione muro contro muro, noi proponiamo costruttivamente. Quando le tesi della maggioranza sono nell’interesse del paese, non abbiamo difficoltà ad aggiungere il nostro voto». Un discorso, quasi, da nuovo azionista di riferimento.

il manifesto 28.7.06
La natura umana, materiale infiammabile
di Francesco Ferretti


Ultime nuove su una vecchia querelle. Da una parte le tesi, ormai famose di Richard Lewontin, Leon Kamin e Stephen J. Gould contro il biodeterminismo: gli umani sono contraddistinti alla nascita da una natura plastica e indeterminata. Tutte le differenze che li caratterizzano sono di ordine sociale e storico. D'altra parte, Steven Pinker dice che bisogna distinguere le ipotesi su come veniamo trattati dalle tesi scientifiche che descrivono come siamo. E Noam Chomsky sostiene...

Bruce Lahan, genetista all'Università di Chicago, se l'è cercata: dopo avere pubblicato su Science i risultati di una ricerca relativa a due recenti mutazioni genetiche correlate all'incremento della massa cerebrale negli umani - sostenendo, così, in modo indiretto, che i fondamenti dell'intellegenza sono genetici - e dopo avere argomentato che tali variazioni avrebbero coinvolto soltanto alcune popolazioni (quelle eurasiatiche) e non altre (quelle africane) ha avuto la brillante idea di ripetere l'esperimento su se stesso. Con un risultato amaro: le mutazioni in questione erano assenti dal suo patrimonio genetico. Non per questo, tuttavia, ha smesso le sue ricerche. Come ha sottolineato con un certo compiacimento Enrico Franceschini (La Repubblica del 17 giugno 2006), Bruce Lahan ha abbandonato le sue ricerche perché le indagini in questo campo sono troppo controverse: «riviste e siti internet che promuovono la 'supremazia della razza bianca' hanno rapidamente adottato i suoi studi come se fossero la prova che la più diffusa povertà e le piaghe sociali che affliggono i neri non dipendono da ingiustizia sociale o da cause esterne, bensì da fattori genetici».
Il tema del rapporto tra biologia e comportamento tocca da vicino le grandi questioni della natura umana: un materiale altamente infiammabile, come è facile intuire. La posizione di Franceschini, che chiama in causa i rapporti tra scienza e ideologia, è quella che ricorre più spesso nella stampa e anche in gran parte del senso comune; merita dunque alcune parole di commento.
Dati falsati da pregiudizi ideologici
In Intelligenza e pregiudizio, un libro del 1981 (unanimemente considerato una pietra miliare nella discussione dei rapporti tra scienza e razzismo), Stephen Jay Gould sferra un duro attacco al biodeterminismo, la tesi secondo cui «le norme comportamentali comuni e le differenze sociali ed economiche tra gruppi umani - in primo luogo razze, classi e sessi - derivano da distinzioni innate ereditarie, e la società, in questo senso, è un esatto riflesso della biologia». L'attacco di Gould prende di mira l'ideologia che anima il biodeterminismo: la giustificazione e la difesa dei privilegi guadagnati dai gruppi dominanti ai danni di quelli subalterni. Assicurare una relazione diretta tra geni e comportamento apre in effetti la strada a politiche di discriminazione tra esseri umani: dire che alcune capacità o comportamenti dipendono da come gli umani sono per natura equivale a dire che le differenze tra individui rispettano un ordine contro cui è inutile tentare di opporsi. In Biologia come ideologia (Bollati Boringhieri, 1993), Richard Lewontin insiste sullo stesso punto sostenendo che «gli scienziati razzisti producono scienza razzista»; lo fanno senza falsificare deliberatamente, dal momento che i loro giudizi e le loro inclinazioni inconsce bastano a guidare in modo fazioso le loro ricerche.
Richard Lewontin e Stephen Jay Gould, insieme a Leon Kamin hanno messo sotto accusa la difesa della discriminazione sociale presentata come una «spassionata ricerca dei fatti scientifici». Un esempio interessante di come il pregiudizio ideologico possa falsare i dati, indirizzare le metodologie e persino vincere la buona fede degli scienziati è rappresentato dalla «craniologia» di Paul Broca utilizzata nella seconda metà dell'Ottocento a difesa della relazione stretta tra lo sviluppo dell'intelligenza e il volume cerebrale. Il commento di Gould al metodo di ricerca di Broca è lapidario: «Le conclusioni venivano per prime e le conclusioni erano la concezione comune alla maggioranza dei maschi bianchi di successo a quel tempo: essi stessi al vertice, per buona sorte di natura; e donne, neri e poveri in basso. I suoi fatti erano attendibili ... ma furono raccolti selettivamente e quindi manipolati inconsciamente al servizio di conclusioni a priori». Fondato sullo stesso vizio ideologico è il test del quoziente intellettivo (Iq) creato dallo psicologo Alfred Binet: in The Science and Politics of Iq (Erlbaum, 1974), Leon Kamin ha mostrato l'uso politico dei test Iq in America - basta pensare alla storia dell'Immigration Act del 1924 - demolendo il mito di una scienza oggettiva e disinteressata. Richard Lewontin fa un discorso analogo rispetto a quella che può essere definita l'evoluzione moderna del test del quoziente intellettivo; nel libro Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza (Laterza, 2004) egli considera il Progetto Genoma Umano l'ultima campagna ideologica in favore del biodeterminismo: la trasformazione del Dna da portatore di informazione a progetto, piano, disegno di costruzione, rappresenta a suo avviso «il trasferimento nell'ambito della biologia della credenza relativa alla superiorità del lavoro mentale su quello puramente fisico, del pianificatore e disegnatore sull'operaio generico della catena di montaggio». L'oggettività della scienza è un mito: nel migliore dei casi la biologia e la genetica sono utilizzate inconsciamente a conferma di preconcetti ideologici e politici.
Che fare a questo punto? Una indicazione di buon senso sembrerebbe quella di ridurre al minimo l'influsso dell'ideologia nella scienza. Con una certa sorpresa, tuttavia, l'invito di Stephen J. Gould va nella direzione opposta: non si limita a constatare l'impossibilità di una scienza senza ideologia, ma sostiene che l'ideologia deve alimentare la ricerca scientifica. Nella introduzione all'edizione riveduta e ampliata di Intelligenza e pregiudizio (Il Saggiatore,1998), dopo aver ribadito che la pretesa oggettività della scienza è un falso mito, Gould sostiene che nella scienza «abbiamo molte più chance di portare a termine qualcosa di significativo se seguiamo le nostre passioni e lavoriamo in campi che toccano un più profondo significato personale».
Criticando aspramente Charles Murray (autore insieme a Richard Herrnstein del controverso The Bell Curve), per aver nascosto la militanza politica in favore di Ronald Reagan sotto l'ombrello dell'oggettività scientifica, Gould sostiene che il motivo che lo ha spinto a scrivere Intelligenza e pregiudizio è innanzitutto l'opposizione politica alle tesi di Murray. Ora, quanto è davvero giusto fare scienza guidati dall'ideologia?
In Tabula rasa (Mondadori, 2004) Steven Pinker affronta il tema proponendo una soluzione diversa: la sua idea è che sia necessario tracciare una linea di demarcazione tra dottrine politiche e teorie scientifiche perché è necessario mantenere distinte le ipotesi che riguardano come la gente deve essere trattata dalle ipotesi scientifiche che descrivono come la gente è. Pinker rivolge a Lewontin, Kamin e Gould le stesse critiche di pregiudizio ideologico che i tre autori muovono ai biodeterministi. Al di là dei meriti specifici che si possono riconoscere agli argomenti di Pinker, il suo discorso è istruttivo per una considerazione di carattere più generale. La conclusione che si può trarre dal suo libro, infatti, è che se l'ideologia è inseparabile dalla metodologia d'indagine, gli argomenti di Lewontin, Kamin e Gould valgono come prova contro il biodeterminismo solo se si crede che esista una ideologia buona rispetto a una ideologia cattiva. Certo, c'è ideologia e ideologia: si potrebbe obiettare a Pinker (come lui stesso riconosce) che le sofisticate disquisizioni in favore della linea di demarcazione tra ideologia e scienza «sono semplicemente troppo elaborate per il mondo pericoloso in cui viviamo». Visto che i risultati scientifici possono essere usati ai fini peggiori da razzisti e darwinisti sociali, non conviene esagerare in prudenza e attenersi all'ipotesi secondo cui il biodeterminismo deve essere falso se vogliamo evitarne le infauste conseguenze? La prima risposta a una critica di questo tipo è che una posizione del genere vale se si crede che i pericoli riguardino solo una delle due fazioni concorrenti. Ma non è così.
Lo sfondo teorico su cui fanno perno le tesi di Lewontin, Kamin e Gould è l'idea che gli umani siano contraddistinti alla nascita da una natura plastica e indeterminata: tutte le differenze che li caratterizzano in modo specifico sono di ordine sociale e storico. A sostegno della sua posizione Stephen Gould cita il celebre passo di Charles Darwin tratto dal Viaggio di un naturalista intorno al mondo (1989): «Se la miseria dei nostri poveri non fosse causata dalle leggi della natura, ma dalle nostre istituzioni, la nostra colpa sarebbe grande». Discorsi di questo tipo portano a sostenere che gli umani sono il prodotto delle variazioni sociali e a negare l'esistenza di una «natura umana comune». Ma è possibile anche una interpretazione alternativa.
In Linguaggio e Libertà. Dietro la maschera dell'ideologia (Marco Tropea editore, 2002), Noam Chomsky sostiene che la libertà e l'eguaglianza degli esseri umani devono essere tematizzate in riferimento all'idea di una natura comune. Gli argomenti che egli porta a sostegno della sua ipotesi sono istruttivi perché sottolineano i pericoli insiti nell'ideologia della plasticità e della indeterminatezza degli umani: «se gli esseri umani sono indefinitamente malleabili, totalmente plastici, senza strutture mentali innate e senza bisogni intriseci di natura culturale o sociale, allora sono soggetti adatti a subire la 'formazione del comportamento' operata dalle autorità dello stato, dall'alto dirigente commerciale o industriale, dal tecnocrate o dal comitato centrale del partito. Quelli che conservano un po' di fiducia nella specie umana sperano che non sia così e cercheranno allora di determinare quelle caratteristiche intrinseche dell'uomo che fanno da telaio per il suo sviluppo intellettuale, per la crescita della sua coscienza morale, delle sue conquiste culturali e della sua partecipazione a una comunità libera».
L'ultima uscita della stampa in meteria di rapporti tra biologia e comportamento porta la firma di Paolo Rossi, il quale sostiene - sul Domenicale del Sole 24 ore (18 giugno 2006) - che il determinismo genetico può avere sì, come di fatto ha avuto, le paurose conseguenze politiche (di tipo nazista e razzista) che tutti conosciamo, ma è anche vero che «altrettanto terrificanti, sono le conseguenze politiche deducibili dall'idea che si possa 'fare ciò che si vuole' della natura umana. L'immagine dell'uomo come oggetto infinitamente plastico, la retorica sull'Avvento dell'Uomo Nuovo hanno sorretto non pochi disegni di una radicale trasformazione dell'uomo realizzati eliminando o umiliando selvaggiamente un numero grandissimo di esseri umani».
Prendere coscienza del fatto che qualsiasi interpretazione dei dati empirici può avere conseguenze nefaste da un punto di vista etico e politico apre la strada alla individuazione di un «errore categoriale» nella valutazione dei rapporti tra biologia e comportamento. Tale errore consiste nel confondere i piani di analisi utilizzando i pregiudizi ideologici (di qualsiasi tipo essi siano) per sostenere la verità o la falsità di una teoria. Certamente gli scienziati non sono anime belle prive di condizionamenti: la scienza è fatta da donne e uomini in carne e ossa che vivono e agiscono in un contesto politico, sociale ed economico determinati. E tuttavia l'esigenza di una metodologia d'indagine che sappia far valere la forza del metodo sperimentale - contraddistinto dalla riproducibilità e dal controllo pubblico dei metodi e dei risultati - nel distinguere il vero dal falso deve essere posta di nuovo alla base dei programmi di indagine relativi al rapporto tra biologia e comportamento.
Una partita ancora aperta
Senza aderire al mito dell'oggettività della scienza, la strada da seguire è quella che punta alla rimozione delle visioni ideologiche viziate da analisi indifferenziate. Per un motivo importante: perché tale errore impedisce di prendere finalmente sul serio l'idea che gli esseri umani siano allo stesso tempo il portato della cultura e della biologia - una visione «sintetica» degli umani che sembra semplicemente di buon senso e che tuttavia richiede molto impegno per essere giustificata.
Non sappiamo se Bruce Lahn abbia ragione oppure torto. Allo stato attuale delle ricerche semplicemente la partita è ancora aperta: nessuno sa oggi come stiano davvero le cose circa i geni responsabili dell'aumento del cervello, la natura più o meno innata dell'intelligenza e le supposte popolazioni che prima di altre avrebbero avuto la mutazione vincente. L'intelligenza potrebbe essere una caratteristica innata degli individui e, forse, addirittura di alcune popolazioni rispetto ad altre. Oppure no. A dispetto di questo fatto, tuttavia, due cose appaiono chiare: la prima è che la verità o la falsità dell'innatismo dell'intelligenza rimane (e deve rimanere) una questione empirica che, come tale, deve restare indipendente dalle sue ricadute etiche o politiche; la seconda è che le ricadute sul piano etico e politico di alcuni risultati scientifici non sono mai neutrali quando è in ballo la natura umana.
È compito di tutti vigilare su cosa si può e su cosa non si può fare di verità di questo tipo. Allo stesso modo però è dovere di ognuno salvaguardare l'impegno alla ricerca e alla conoscenza: da questo punto di vista, l'unico motivo valido per fermare le ricerche di Bruce Lahan è la falsificazione empirica delle ipotesi teoriche da lui poste al vaglio sperimentale. Ogni altra considerazione al riguardo dovrebbe essere motivo di rammarico, non certo di compiacimento.

Bibliografia
Il dibattito sul biodeterminismo
Il dibattito sul biodeterminismo prende le mosse dal libro di Richard Dawkins, Il gene egoista (Mondadori, 1992) e da quello di Edward Wilson, Sociobiologia: la nuova sintesi (Zanichelli, 1979). Per una critica al biodeterminismo, oltre ai libri citati nel testo sono fondamentali: Richard Lewontin et al., Il gene e la sua mente (Mondadori, 1983) e, sempre di Lewontin, Gene, organismo e ambiente (Laterza, 2002). Per una rassegna critica sulla sociobiologia, è utile John Alcock, The Triumph of Sociobiology (Oxford University Press, 2001). Sugli usi e gli abusi della scienza rispetto al tema della natura umana sono da leggere Pat Shipman, The Evolution of Racism (Harvard University Press, 1994). Sulla natura innata o appresa dell'intelligenza si vedano il dibattito tra H. J. Eysenck e Leon J. Kamin, Intelligenti si nasce o si diventa?(Laterza, 1994) e la raccolta a cura di Steven Fraser, The Bell Curve Wars. Race, Intelligence, and the Future of America (Basic Books, 1995). Una prospettiva «sintetica» della natura umana è presentata da Peter Richerson e Robert Boyd nel libro Non di solo geni (Codice, 2006).

Libertà 27 .7.06
Allievi concordi: Bellocchio ottimo maestro


BOBBIO - Dopo 10 giorni di lavorazione, ormai giunti alle soglie della conclusione di Fare Cinema 2006 (prevista per sabato), i ragazzi del laboratorio diretto da Marco Bellocchio iniziano a tirare le somme sulla loro esperienza in Valtrebbia: un bilancio complessivamente positivo, che nemmeno la grande stanchezza accumulata in questi giorni di lavoro ha potuto scalfire.
Tra gli "alunni" del cineasta, il romano Giovanni Dentici rivela: «L'esperienza maturata a Bobbio è molto buona; Marco è una persona molto attenta a noi, cura molto la sceneggiatura e le inquadrature. E' davvero difficile seguirlo, perché è una persona attivissima, instancabile. Iniziamo alla mattina alle 10 e proseguiamo fino alle 19 o oltre, senza orari prefissati. I primi giorni abbiamo lavorato per 8 ore alla traccia».
Giudizio positivo anche sui compagni di laboratorio: «Il rapporto tra di noi è ottimo. Siamo un gruppo straordinario. Al di là di qualche screzio professionale, fuori dal set si scherza, si gioca. E ci piace molto questa idea del festival serale».
Dello stesso avviso la piacentina Violante Dassena e la lodigiana Laura Astolfi, che sottolineano la grande collaborazione di Bellocchio: «Marco è molto aperto ai consigli. Ha cambiato tanto sulla base delle nostre osservazioni. E si è rivelato molto calmo, perfino solare». Bellocchio, inoltre, riesce a coinvolgere e responsabilizzare tutto il gruppo: «Molto è lasciato all'iniziativa personale. Noi siamo qui per imparare; all'inizio ci è stato detto di apprendere il più possibile nella misura in cui vogliamo noi. E' una scuola che ti forma anche sotto il profilo dell'autogestione».
Dalle rivelazioni dei ragazzi, si evince, inoltre, che Fare Cinema rappresenta un'esperienza capace di plasmare e rendere completo l'allievo: «Sotto le direttive di Bellocchio abbiamo imparato tutti gli aspetti della lavorazione. E' stato un percorso di completamento che ci è servito molto».
Positivo anche il commento di Francesca Morselli proveniente dalla provincia di Reggio Emilia, che rivela un interessante retroscena: «Il corso è faticoso ma interessante. Inoltre, dovrebbe nascere un concorso interno, indetto dagli stessi corsisti: anziché optare per il solito backstage o documentario di questa avventura, abbiamo deciso di scrivere ciascuno un proprio soggetto, con delle regole precise ed un tema: ne verrà selezionato uno e proveremo a girarlo».
Il maestro ha prontamente avallato l'iniziativa, come sottolinea la romana Martina Migliorini: «Abbiamo esternato l'idea a Bellocchio, il quale metterà a nostra disposizione il materiale necessario alla lavorazione. Dovrebbe essere tutto pronto per sabato sera». L'unico problema, a quanto pare, rimane il poco tempo a disposizione, dal momento che i ragazzi, ancora impegnati nelle riprese del corto Sorelle 4, non sono ancora riusciti ad incontrarsi fuori dal set per discutere della cosa.
ma. mo.

giovedì 27 luglio 2006

LIBERTÀ mercoledì 26 luglio 2006 - Spettacoli
La saga di "Sorelle"
Dallo "studio notarile" all'Ostello della gioventù:
proseguono a ritmo intenso le riprese del corto


BOBBIO - Procedono a gonfie vele le riprese del nuovo cortometraggio che il regista bobbiese Marco Bellocchio sta girando con i ragazzi della masterclass di tecnica cinematografica Fare Cinema 2006; con questo nuovo lavoro, come dichiarato prima dell'inizio del corso, il cineasta piacentino giungerà alla definitiva conclusione della saga di Sorelle, il percorso familiare che il regista ha immortalato nei suoi cortometraggi in questi anni, nei luoghi della Valtrebbia a lui tanto cari.
Sotto il profilo tecnico, peraltro, l'importante novità di questa edizione riguarda l'utilizzo della pellicola. Ricostruendo il "diario" di lavorazione degli ultimi giorni, sabato pomeriggio il regista è stato raggiunto da suo figlio, l'attore Pier Giorgio Bellocchio, che anche quest'anno sarà interprete del film assieme a Donatella Finocchiaro.
La troupe, di fronte a Kim Rossi Stuart e Barbora Bobulova, ospiti a Bobbio, ha girato nella splendida cornice offerta dalla Villa dei Malacalza, in località Maiolo, nonostante la minaccia, poi scemata, di un brutto temporale. Domenica, sempre nel pomeriggio, è arrivata a Bobbio proprio la Finocchiaro, reduce dall'intensa collaborazione con Bellocchio sul set de Il regista di matrimoni; la scuola, tuttavia, ha viaggiato a ritmo ridotto, come previsto dal programma: non vi sono state attività sul set ma i corsisti hanno assistito ad una lezione sulla fotografia tenuta da Marco Sgorbati, fedele collaboratore di Bellocchio. Lunedì, invece, sono cominciate le riprese con la scena che vede i due protagonisti, i fratelli Sara e Giorgio, impegnati nella cessione di una proprietà immobiliare al cospetto di un distinto notaio, interpretato da Gianni Schicchi.
Ieri mattina poi, presenti i due attori principali, le sorelle di Bellocchio Letizia e Mariuccia e la figlia del regista, Elena, il gruppo ha terminato le riprese nello "studio notarile", salvo poi spostarsi e proseguire il lavoro, lungo l'arco dell'intero pomeriggio, nell'Ostello della gioventù di Bobbio, all'interno del quale è stata ricreata la stanza di un monolocale milanese.
Si tratta della prima scena del copione, in cui Sara scorge in tv il film La balia e vi riconosce Giorgio in abiti d'epoca.
Infine, attorno alle ore 17, dunque, mentre il gruppo del laboratorio stava ancora lavorando a pieno ritmo, sono giunti in Valtrebbia i fratelli Manetti, invitati da Bellocchio per presentare alla rassegna cinematografica serale il loro ultimo film, Piano 17.

Liberazione 27.7.06
Il “vendettismo” che acceca la politica
di Piero Sansonetti


Sull’indulto - che forse sarà votato oggi dalla Camera dei deputati - si è scatenata una bagarre che non fa onore al mondo politico italiano. Partiti, pezzi di partiti, singoli leader hanno cercato la ribalta, in questi giorni, sicuri di poter raccogliere consensi larghi opponendosi alla clemenza, con argomenti semplici e forcaioli. So che moltissimi, anche tra i nostri lettori, diranno: ma quello non è forcaiolismo, è solo “rigore” e spirito di giustizia. Può darsi che sia spirito di giustizia, ma talvolta questo spirito scivola nel forcaiolismo. Il forcaiolismo non è una pratica fetida di piccole minoranze facinorose: è il cedimento a sentimenti, generalmente maggioritari, che individuano nella punizione, nella pena esemplare, nella “vendetta” sul reo - o sul presunto reo - l’essenziale del vivere civile. In tutto ciò non c’è niente di antidemocratico, visto che il più delle volte è un atteggiamento che riscuote i consensi della maggioranza, e la regola della democrazia sta nel comando della maggioranza: c’è però una rinuncia ai grandi principi di tolleranza e di umanità che sono i principi più alti affermati - in questi due millenni - prima dal cristianesimo e da altre religioni, poi dall’illuminismo e da gran parte della filosofia moderna.
Speriamo che nonostante una campagna molto robusta messa in piedi da forze di estrema destra ma anche da settori consistenti della sinistra, con sfumature diverse - dall’Unità, al Pdci, a “zone” minoritarie dei ds, ai famosi girotondi - l’indulto alla fine sia approvato e permetta la scarcerazione di circa 12.000 persone, tra le quali - dicono le statistiche - 11.935 esponenti della piccola mala e 65 colletti bianchi (cioè persone ricche, dei ceti alti). Ci sono buone possibilità che ciò avvenga, anche se i rischi di un intoppo all’ultimo minuto sono altissimi. Se l’indulto passerà è perché si è raggiunto un accordo tra le sinistre (con qualche eccezione) e Forza Italia. Questa era la condizione sine qua non, visto che una legge sciagurata, approvata ai tempi di tangentopoli (su spinta, scusate se insistiamo: forcaiola) ha reso necessaria - per le leggi di clemenza - una maggioranza dei due terzi.
Quali sono gli argomenti portati dai nemici dell’indulto, guidati da Di Pietro? (non prendiamo in esame le motivazioni, più scontate, della destra)
Primo argomento: non si fanno inciuci, cioè non si approvano leggi col voto di Forza Italia. E’ impossibile fare un indulto senza Forza Italia? Si rinuncia all’indulto. Secondo argomento: possiamo anche accettare un indulto, purché non premi i corrotti. Poi ci sono altre argomentazioni minori, ma quelle fondamentali sono queste due (e sono espresse anche in molte lettere a Liberazione, alcune delle quali pubblichiamo in penultima pagina).
Il primo argomento si basa sull’idea che bisogna distinguere tra principi e politica. Cioè che non si possa fare politica sacrificando i principi al compromesso. Giustissimo: però bsognerebbe porsi questa domanda: qual è il principio? Si può rispondere che il principio è la tolleranza, la clemenza, il diritto delle donne e degli uomini a vivere in condizioni umane (e non in otto in una cella per quattro). E che questo principio si difende anche a costo di perdere consensi politici (voti). Oppure si può rispondere che quello non è un principio, ma solo un effetto politico di un pregiudizio, e che il vero principio al quale mantenersi fedeli è la proibizione di fare accordi con Forza Italia. E’ evidente che la prima interpretazione è quella giusta - anche se politicamente “onerosa” - ma dieci anni di maggioritarismo e “politicismo”, basato solo sul “potere” e sulla purezza del potere da conquistare, hanno portato al grande equivoco. Il principio è diventato l’odio per il nemico, la propria identità da difendere: non più una idea di vita, di convivenza, di relazioni umane.
Il secondo argomento è quello “girotondino” classico, di chi dice: perdonate tutti ma i corrotti mai. E perché non deve essere perdonato un corrotto? Risposta: perché è un delinquente. Già, ma l’indulto secondo voi è per i delinquenti o per le suore di clausura? Che senso ha dire: indulto si, ma solo per la gente per bene? Non c’è nessuna logica.
La verità, naturalmente, è più complessa. L’dea girotondina è molto semplice: “indulto si, ma non per i miei nemici. I miei nemici sono Previti e i 65 colletti bianchi? Escludiamoli. Con quale argomentazione? Li odio. Non si può escluderli senza sacrificare altre 12.000 persone? Non è affar mio”.
E qui il cerchio si chiude e girotondismo e forcaiolismo della destra finiscono per coincidere.
Il punto, forse, è proprio questo. Al di là di ogni forzatura polemica. C’è un pezzo enorme di Italia, largamente rappresentata nel mondo politico, che considera la vendetta la chiave di volta della storia. Ignora la giustizia e il perdono, non sa vivere - no sa lottare, non sa far politica, non sa trovare la proprio identità, non sa costruire una cultura - senza un nemico da sconfiggere e punire. Il “vendettismo” è un male profondo, che corrode la nostra società, anche la sinistra.

il manifesto 27.7.06
Indulto. A che punto siamo


Chi rientra nell'indulto e chi invece rimane fuori L'indulto in esame alla camera prevede uno sconto di pena, nella misura massima di tre anni, per tutti i reati commessi entro il 2 maggio 2006. Lunga la lista dei delitti che sono esclusi dal beneficio. Si tratta, perlopiù, di illeciti classificati con l'aggettivo «odiosi»: terrorismo, mafia, violenza sessuale, pedofilia. Nella lista compaiono anche i delitti aggravati relativi alla produzione e al traffico illecito di sostanze stupefacenti, così come riformulato dalla legge Fini-Giovanardi. Un punto che sicuramente farà discutere. Sconto di pena invece per i reati finanziari, per quelli societari e contro la pubblica amministrazione. L'inclusione è stata alla base di una accesa protesta portata avanti dal ministro Antonio Di Pietro, che per l'occasione ha anche deciso di «autosospendersi» dalla carica di ministro. Il testo, approvato in commissione, prevede anche che l'indulto non produca effetti sulle pene accessorie perpetue, come l'interdizione «vitalizia dai pubblici uffici». La specificazione è passata la scorsa settimana in commissione giustizia e si è guadagnata il nomignolo di «anti Previti» poiché scongiura l'ipotesi che l'avvocato azzurro, condannato per corruzione relativamente alla vicenda Imi Sir, torni a sedere in parlamento. L'emendamento Mantini scompone gli schieramenti Ieri in aula è poi passato l'emendamento firmato da Pierluigi Mantini della Margherita, con il quale si escludono anche le pene accessorie temporanee. Lo stesso ha incassato i voti dell'Ulivo, del Pdci e anche quelli dell'Udc e della Lega. Contraria invece Forza Italia. L'Italia dei valori, pur votando a favore, non ha ritenuto la «proposta Mantini» sufficiente a rendere l'indulto «accettabile». Nel testo si legge anche che il provvedimento di clemenza viene revocato nel caso in cui il soggetto che ne ha usufruito commette, entro cinque anni dall'entrata in vigore della legge, un delitto non colposo punito con reclusione non inferiore a due anni.

Corriere della Sera 27.7.06
IL PROCURATORE GENERALE DI TORINO
Caselli: aiutare i disperati delle carceri è necessario Scelga la politica se farlo salvando i colletti bianchi
di D.Mart.


ROMA - Il procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli indossa la toga da oltre 40 anni: «Sono stato giudice istruttore sul fronte del terrorismo, presidente di corte d’Assise, procuratore antimafia a Palermo, rappresentante di Eurojust. Ne ho viste di tutti i colori. Eppure il lavoro più pesante è stato quello svolto alla guida del Dap dove ho gestito la disperazione che c’è in carcere». Caselli, dunque, quel mondo di sofferenza lo conosce bene e per questo è tendenzialmente favorevole all’indulto. Ma con vari distinguo perché, osserva, «con l’inserimento dei reati finanziari si rischia di riprodurre una logica simile a quella che, nella scorsa legislatura, ha prodotto tante leggi ad personam ». Lei dice che l’inclusione dei reati finanziari nell’indulto poco c’entra col problema dello svuotamento delle carceri?
«Il problema è questo: "sfruttare" un problema di carattere generale per farne la sponda utile ad affrontare la situazione di pochi, perché sarebbero circa 80 i cosiddetti "colletti bianchi" in carcere, mi sembra una logica parente di quella che nella passata legislatura ha portato a condoni, leggi ad personam e altri strappi».
Ora, dunque, il prezzo da pagare per questo indulto è troppo alto?
«Non è facile trovare la risposta. Si può accettare qualcosa che pure indirettamente risente di queste vecchie logiche perché altrimenti sarebbe impossibile risolvere il grave stato di necessità in cui versano le carceri? È un prezzo che si deve pagare? Oppure si tratta di uno strappo troppo profondo? Il dilemma è questo. Ed è un dilemma tutto politico per cui qui il magistrato si ferma».
Il magistrato, però, può fornire indicazioni in più sugli effetti dell’indulto.
«Vorrei fornire un dato: il 31 dicembre del 1990 i detenuti erano 25.804. Oggi, e sono passati solo 15 anni, e siamo a 61 mila detenuti in carcere. Il 33% sono stranieri e il 27% sono tossicodipendenti. Ecco, davanti a questi numeri impressionanti, dobbiamo porci un obiettivo che sappia andare oltre la repressione e al di là del diritto penale».
Quale sarebbe l’alternativa al carcere in questi casi?
«Io pongo due interrogativi: la questione della tossicodipendenza si può affrontare più utilmente nell’ambito della tutela della salute o in termini di repressione? Il diritto penale è idoneo o strutturalmente inidoneo, come io ritengo, a governare fenomeni sociali ed epocali come l’immigrazione? Ecco, al di là della risposta a queste domande, abbiamo uno stato di necessità strutturale legato al fatto che il carcere è sempre di più il luogo nel quale tendiamo a relegare i problemi sociali che non riusciamo ad affrontare in un modo più "produttivo". Il carcere è sempre meno un luogo di possibile rieducazione con conseguenze sulla sicurezza dei cittadini: perché così il carcere non riesce ad interrompere quella spirale della recidiva che produce sempre nuove violazioni di legge. E, dunque, sempre più insicurezza».

l’Unità 27.7.06
Indulto
Una questione di coscienza
di Gian Carlo Caselli


Miracolo o inciucio. Se Brutti e Pecorella, Pisapia e Cicchitto son d’accordo su un rilevante tema di giustizia, non vedo alternativa: o miracolo o inciucio, appunto. Il dilemma si pone per il recente disegno di legge sull’indulto. Per provare a scioglierlo, conviene partire da un dato di fatto: l'assoluto stato di necessità in cui versano le carceri italiane.
Il sistema giustizia fa acqua da tutte le parti, i processi sono sempre più lenti e barocchi, ma le carceri sono sempre più piene. Negli ultimi 15 anni siamo passati dai 25.804 detenuti del 31 dicembre 1990 ai circa 61.000 detenuti di oggi. Di questi, il 33% circa sono stranieri ed il 27% circa tossicodipendenti. A fronte di questa situazione, l’obiettivo da porsi è qualcosa di meglio della repressione e del diritto penale. Nel senso che il consumo degli stupefacenti si può affrontare più utilmente nell’ambito della tutela della salute che in sede di repressione. E nel senso che il diritto penale è strutturalmente inidoneo a governare - come invece si vorrebbe che facesse - fenomeni sociali epocali come le migrazioni. C’è dunque uno stato di necessità, per così dire, strutturale, legato al fatto che il carcere è sempre più “discarica sociale” piuttosto che luogo di possibile rieducazione. Con negative conseguenze anche sulla sicurezza dei cittadini, perché un carcere che non prova neanche a rieducare è un carcere che non fa nulla per ridurre la spirale perversa della recidiva che produce sempre nuova insicurezza. Questo stato di necessità strutturale si intreccia inestricabilmente con uno stato di necessità contingente, di tipo logistico (a ben vedere un problema di civiltà), derivante dal sovraffollamento delle carceri. Se mancano circa 20.000 “posti branda”, mancano persino gli spazi fisici (aule, laboratori...) per qualunque tentativo di recupero. E alla privazione della libertà si aggiunge una sanzione (che non sta scritta in nessun codice) consistente nell’inciviltà dell’esecuzione della pena detentiva.
Impossibile lavarsene le mani, di questo doppio stato di necessità. Intervenire per decongestionare l’insostenibile situazione carceraria (creando nel contempo i presupporti per una riforma organica del sistema penale) è perciò cosa buona e giusta, responsabile e seria. Ma se qualcuno profitta dello stato di necessità per infilarci la soluzione di casi particolari, ecco che i problemi si complicano. Nella pretesa di estendere l’indulto ai reati finanziari e di corruzione (altrimenti di indulto manco a parlarne!) si può vedere il tentativo di strumentalizzare la sofferenza di migliaia di detenuti per ottenere benefici anche per altri soggetti, quei “colletti bianchi” che già beneficiano del fatto che il nostro sistema penale si caratterizza ormai per la compresenza di due distinti codici: uno per i cittadini “comuni” e l’altro per i “galantuomini” (cioè le persone giudicate, in base al censo, comunque per bene...); “galantuomini” che a volte pretendono addirittura di essere liberati da ogni regola mediante condoni o leggi “ad personam”. Ora, appoggiarsi ad un problema di carattere generale (la situazione delle carceri) per farne la sponda utile a risolvere un problema di pochi (si calcola che siano un’ottantina i “colletti bianchi” in espiazione di pena, oltretutto quasi sempre “extra moenia”, cioè fuori del carcere), non è come legiferare brutalmente “ad personam”, ma è espressione di una logica che appare contigua, apparentata a quella che nella passata legislatura ha prodotto proprio un susseguirsi tale di leggi “ad personam” da mettere a rischio lo stesso equilibrio istituzionale.
Ed ecco il dilemma: il riaffiorare, sia pure per vie indirette, di logiche siffatte è un prezzo accettabile, perché senza subirlo sarebbe impossibile risolvere il grave stato di necessità di cui si è detto? Oppure si tratta di uno strappo troppo profondo per consentire un bilanciamento, alla fin fine tollerabile, di esigenze tutt’affatto diverse? Chi pensa nel primo modo, potrebbe parlare di (mezzo) miracolo. Chi preferisce il secondo parlerà di (mezzo) inciucio. Spetta alla coscienza di ciascuno scegliere. Come nel caso dell’articolo 416-ter del Codice Penale (scambio elettorale politico-mafioso) emerso da ultimo nel dibattito parlamentare.

Corriere della Sera 27.7.06
STAMINALI
L’ira di Prc e «Rosa»: così Romano segue i dogmi clericali


L’intervento di Prodi sulle staminali non è piaciuto a Radicali e Rifondazione Comunista. Le senatrici del Prc definiscono «incongruenti» le dichiarazioni del premier: «La questione principale non è quella di stabilire il criterio convenzionale che stabilisce cosa è vita e cosa non lo è. La cosa importante è la scelta della donna di accogliere l’embrione e consentirne lo sviluppo». Per il radicale Marco Cappato, un primo ministro che parla di «embrione intoccabile contribuisce a far circolare un dogma clericale inutile prima ancora che falso».

il manifesto 27.7.06
Staminali Maria Luisa Boccia (Prc): «Bravo Mussi» La crociata cattolica?«Non porta da nessuna parte»
«Ripartiamo dalle donne»
La legge 40: «E' impositiva nei confronti della donna, andrebbe cambiata ma finché c'è non possiamo non tenerne conto» Prodi? «Ha parlato da cattolico. E da uomo»
di Alessandro Braga


Roma. «Ma vogliamo rimettere al centro della discussione, una volta per tutte, la donna?». Maria Luisa Boccia, senatrice di Rifondazione comunista e femminista storica, ritiene positiva la risoluzione adottata dal Consiglio dei ministri europeo sulla ricerca, fuori luogo gli attacchi cattolici e pone la sua attenzione su un aspetto che, ancora una volta, viene sottovalutato: il ruolo della donna.
Senatrice, come giudica il voto del Consiglio dei ministri europeo di lunedì scorso sulla ricerca?
E' il settimo programma nel suo insieme che mi pare sia da valutare molto positivamente. In primo luogo per il superamento, rispetto alla posizione precedente, del blocco che era stato attuato. Su questo aspetto devo riconoscere il ruolo decisivo del governo italiano, e in particolare del ministro Mussi, che fin dall'inizio si è mosso bene, con il ritiro della firma del nostro esecutivo. Con la sua posizione molto chiara Mussi è riuscito a coinvolgere anche un paese importante come la Germania. In questo modo si è riaperto in Europa uno spazio per la ricerca, per poter intervenire e orientare in un campo così delicato. Io devo poter conoscere come funziona qualcosa per poterla controllare e governare, e con la risoluzione votata credo si sia fatto un passo avanti in questo senso. Senza dimenticare i benefici che deriveranno dalla ricerca per tutti coloro che soffrono di malattie genetiche. Mussi in sede europea ha mantenuto una posizione un po' meno aperta rispetto alla risoluzione del senato, ma ha ottenuto un primo passo molto importante, da non sottovalutare.
Dopo l'approvazione della risoluzione, in Italia si è aperta una guerra di religione: da un lato i cattolici, con l'Osservatore romano e la Cei in prima fila, a gridare al «macabro mercimonio della vita», dall'altro i radicali che chiedono più coraggio all'esecutivo.
Credo che una contrapposizione tra due blocchi rigidi, in una sorta di muro contro muro, porti soltanto all'immobilismo. E' una strategia che non mi convince, perché è poco efficace politicamente, ma soprattutto perché ritengo sia un braccio di ferro sbagliato. I due contendenti, per poter lottare, devono avere in comune almeno un elemento, che è la volontà dello scontro. Come due pugili che lottano tra di loro e condividono il ring. Non c'è da una parte l'etica della vita e dall'altra la ragione della scienza da contrapporre, ma serve una volontà di confronto per trovare una strada.
Un confronto che c'è stato, almeno all'interno dell'Unione, per poter arrivare a un testo, quello approvato in senato, che andasse bene sia a voi sia ai cattolici del centrosinistra.
Su questo punto voglio chiarire una cosa: non si è trattato, come qualcuno ha scritto, di una mediazione dell'Ulivo in vista anche del Partito democratico. Rivendico l'importanza del lavoro svolto dalle parlamentari del Prc nella stesura del testo definitivo. Prima c'era una premessa che era tutta incentrata sulla bioetica, e per noi era inaccettabile. E' stata sostituita con una premessa che pone come cornice alla risoluzione la ricerca, e forse è questo che infastidisce la Chiesa. Poi si è lavorato sul dispositivo. Sul nodo della distruzione degli embrioni non c'è stata solo mediazione, ma abbiamo tenuto in considerazione anche la legge 40 sulla fecondazione assistita.
Una legge che lo scorso anno è stata sottoposta a referendum e che ha visto lei e alcune sue compagne di coalizione su posizioni contrapposte.
A me personalmente quella legge non piace, è ovvio, e mi piacerebbe poterla cambiare. Ma non si può far finta che non ci sia. La ritengo impositiva nei confronti della donna. Nega la libertà di scegliere che fare del mio corpo, una libertà fondamentale. E poi non si pensa mai che la scelta della donna, in alcuni casi, non è mai semplice. Non si pensa mai alla donna, in fondo.
Nel testo che avete approvato al senato si parla della «possibilità di fare ricerca su embrioni non impiantabili».
E' una definizione volutamente aperta e non scientifica. Cosa significa non impiantabile? Perché non si pone mai l'accento sul ruolo della madre, della donna, senza la quale non vi è vita, neppure biologica, che possa svilupparsi? L'embrione è o meno impiantabile se è accolto o meno dalla donna. Senza la donna non esiste vitalità.
Prodi ha detto che il governo «tutela la vita fin dal suo concepimento», difendendo nello stesso tempo le posizioni di Mussi.
Il premier ha difeso l'atto politico del suo governo, poi ha parlato da cattolico. E da uomo.

l’Unità 27.7.06
Staminali, è tornata la politica
di Maurizio Mori


A volte, per vedere meglio qualcosa si deve mettere a fuoco la questione e guardarla in prospettiva - come da lontano. Dobbiamo fare qualcosa del genere per capire bene che cosa è capitato a Bruxelles col “compromesso” sulle cellule staminali embrionali. In merito sono opportuni alcuni preliminari: il primo è la controversia attuale non è nuova. Anche qualche anno fa, il finanziamento europeo alla ricerca sulle staminali embrionali aveva suscitato opposizioni, che però sono state più contenute. Di nuovo c’è che oggi gli oppositori hanno alzato il tiro, rivelando con chiarezza che sul tema è in corso una nuova battaglia della ormai lunga guerra tra scienza e religione. Pensavamo che questa guerra fosse finita da tempo, ma i duri fatti mostrano il contrario.
Il secondo è che, come spesso avviene quando si tratta di affrontare una realtà inedita, c’è una parte che la rifiuta in nome della tradizione. Così, ad esempio, quando ha avuto inizio la moderna democrazia costituzionale con il Parlamento, i tradizionalisti rifiutarono il criterio parlamentare, osservando che l’autorità viene “dall’alto”, e che le norme basilari della vita sociale sono “naturali” e “pre-politiche”. Per costoro, affidare al Parlamento il compito di stabilire queste norme era negare la realtà (o capovolgerla), e affidare il compito ad un processo di contrattazione politica era una sorta di usurpazione - e forse anche di profanazione. In Italia, per le note vicende storiche, il tradizionalismo ha portato al “non expedit” che imponeva ai cattolici di non accettare il Parlamento. Questa posizione non è né di destra né di sinistra - distinzione che vale solo per chi accetta la logica parlamentare, e non per chi la rifiuta e ne sta fuori. È semplicemente “pre-moderna”.
Anche oggi, di fronte alla nuovissima realtà delle staminali embrionali, abbiamo chi - in nome di principi “non negoziabili” - rifiuta il tavolo della contrattazione politica, asserendo che “sulla vita non si vota”, perché le norme in proposito sono “naturali” e “pre-politiche”. È questa una posizione analoga a quella pre-moderna sopra descritta, che esclude il criterio del Parlamento.
Va riconosciuto ai cattolici dell’Unione di non aver seguito questa linea e di avere accettato la contrattazione politica - portato della modernità. Questo è passo di notevole portata: se avessero insistito sulla “non negoziabilità” i cattolici sarebbero rimasti fuori dal Parlamento - come al tempo del non expedit. Hanno invece con coraggio accettato di entrare nella contrattazione e di far valere le loro ragioni, ottenendo punti che non sono affatto secondari né marginali. Ad esempio, i divieti iniziali tra cui il principio che l’Europa non finanzia ricerche che comportano la distruzione di embrioni ed altri vincoli non trascurabili. È facile che questi limiti susciteranno viva indignazione in alcuni Paesi, in cui saranno visti e vissuti come un iniquo vincolo imposto alla propria sovranità da un potere “esterno”.
Anch’io avrei preferito non fosse accolto quel principio generale, fosse lasciata maggiore libertà e prevalesse il rispetto del pluralismo etico diffuso in Europa. Ma quando si accetta la logica della contrattazione politica si deve anche essere disposti a rinunciare ad aspetti importanti della propria posizione. Altrimenti si riafferma una “non negoziabilità” di segno opposto a quello precedente. Per questo, per ribadendo che avrei voluto di più, credo si debba riconoscere che il “compromesso” raggiunto sia nel complesso soddisfacente.
Infatti, almeno due sono i risultati positivi acquisiti: primo, le ricerche sulle staminali embrionali continuano. Le linee cellulari richieste saranno preparate fuori dall’Europa, ma il mondo è grande e... le si acquisiranno in altri continenti. Secondo, si afferma che «l’eventuale uso di cellule staminali umane, siano esse adulte o embrionali, dipende dal giudizio degli scienziati in vista degli obiettivi che vogliono raggiungere». Questo significa che è caduto il pregiudiziale favore (di principio) che in passato era accordato alle staminali adulte. Questo favore ha fatto sì che nel precedente Programma quadro su 80 progetti approvati dall’Unione Europea, solo otto riguardassero le staminali embrionali. È vero che, appena dopo si afferma anche che «in pratica, la stragrande maggioranza dei fondi ... è dedicata all’uso di cellule staminali adulte. Non c’è ragione per cui questo cambi in maniera sostanziale». Ma quest’ultima è una considerazione pratica: una volta affermato il principio che i progetti saranno valutati in base al valore scientifico e conoscitivo atteso (indipendentemente dal tipo di cellule usate), può darsi che la realtà cambi e che il numero di progetti con le staminali embrionali aumenti. Questo è un aspetto di grande importanza. L’augurio è che l’aumento delle ricerche sulle staminali embrionali allenti la tensione, e che col tempo si attenuino le resistenze al riguardo.
C’è un ultima osservazione che va fatto nel bilancio sul compromesso di Bruxelles. Nella passata legislatura quando si affrontavano le questioni bioetiche mancava ogni dialogo e c'era solo il muro contro muro e la “blindatura” delle leggi - come è stato con la 40/2004 e col successivo Regolamento attuativo. Adesso, invece, è cambiato il clima generale e il metodo di lavoro: si è aperta infatti la concreta possibilità di confronto e di reciproco ascolto. Questo non vuol dire che si faccia tutto giusto o che ci si azzecchi sempre. Gli errori sono sempre possibili e sono umani. Ma abbiamo almeno guadagnato il metodo per poterli eventualmente correggere.
Credo che l’avere ristabilito questo metodo di confronto e di dialogo sia il risultato maggiore della nuova stagione politica. Va riconosciuta la pazienza con cui gli attori di questo nuovo corso sopportano le critiche di segno opposto. L’auspicio è che si continui su questa linea anche per i prossimi temi bioetici come il testamento biologico e, soprattutto, almeno per la ormai prossima dovuta revisione del Regolamento attuativo della legge 40/2004 (se non della legge stessa). Sarebbe un gran guadagno per tutti.
Presidente Consulta di Bioetica

l’Unità 27.7.06
«BORGHESIA BUONA»
Parla Valerio Castronovo, storico contemporaneo e studioso dell’industria: «Finanza e mercato globale hanno sfumato i confini tra i ceti, ma la classe operaia e i lavoratori esistono eccome e la sinistra non può perderli»
«Borghesi e operai riprendetevi il lavoro»
di Bruno Gravagnuolo


«Borghesi buoni»? La locuzione non piace a Valerio Castronovo, 71 anni, ordinario di Storia contemporanea a Torino, storico dell’industria italiana e del mercato globale. Troppo semplificata, «giornalistica», e vagamente moralistica. E però ammette, la provocazione funziona. Infatti l’intervista di Bertinotti al Corsera da cui tutto nasce, un problema lo pone: il rapporto tra sinistra e borghesia in Italia. Nel solco di finalità sistemiche comuni, per trarre fuori il paese dalle secche di sprechi, parassitismi e lavoro precario o assente. E tuttavia per un «patto» di tal genere, conviene Castronovo, ci vogliono i soggetti, i valori e gli interessi. In una parola le «identità». Da estrarre, se è possibile, dal magma sociale e indistinto di un’economia resa inafferrabile e spesso indecifrabile. Per via di liofilizzazioni del lavoro sul territorio, nonché di grandi processi finanziari, «che rendono irriconoscibile la mappa vera del potere, e indistinguibili i cosidetti “poteri forti”». Un asse forte nondimeno, nel ragionamento dello storico, c’è: il lavoro. Come «sviluppo delle forze produttive in un’economia regolata non più da uno stato gestore». E poi «l’etica del lavoro». Come ideale «dell’autorealizzazione individuale in una prospettiva di eguaglianza». E su questo terreno, a lungo trascurato per Castronovo, che la sinistra riscopre se stessa. E vince la prova di governo. Ritrovando al contempo la borghesia, per dialogare e magari scontrarsi. Ma in direzione di finalità generali. Prima di tutto però, visto che si parla di borghesia in Italia, un po’ di storia non guasta. Per rimettere a posto i «fondamentali». Sentiamo Castronovo.
Professor Castronovo, esiste ancora la borghesia? E se esiste, come si presenta e com’è fatta in Italia?
«Intanto in Italia la borghesia è senz’altro esistita, visto che alcuni ne dubitano. Altrimenti non si capirebbe la conversione del paese in una società industriale avanzata, pur con tutti i suoi squilibri, tra il 1896 e il 1914. Allora divenimmo infatti il settimo paese industriale del mondo, di là di ogni polemica sull’ Italietta. Un po’ come tra il 1950 e il 1970. Fu una sorta di “golden age”, malgrado tutti i difetti di quella borghesia, che a differenza dei paesi balcanici ebbe modo di agganciare l’ultimo vagone della rivoluzione industriale».
E tutte le lamentele dei Gobetti, Gramsci e Salvemini sulle angustie di quella borghesia assistita e conservatrice?
«Distinguiamo. Gobetti, nonostante le critiche, apprezzava anche gli eroi del capitalismo nostrano che avevano creato la grande impresa: i Conte, Pirelli, Olivetti, Agnelli. Quelle erano dinastie nuove, diverse dalle aristocrazie fondiarie. E del resto persino la sinistra di allora rispettava quella borghesia, capace di consentire espansione e modernità. Perché? Perché c’erano dei valori comuni: l’etica del lavoro innanzitutto. Il lavoro produttivo come valore sociale. E su di essi l’accento andrebbe sempre posto. Visto che sia la borghesia che la sinistra corrono oggi il rischio di perderli. Altro valore: il rispetto dell’autorità funzionale. Gramsci lo teneva in gran conto. E ancora adesso nei luoghi produttivi che marciano, piccoli o grandi che siano, è tenuto in gran conto da imprenditori e lavoratori. Significa: la capacità di gestire bene e di innovare l’impresa. E ancora: il riconoscimento del merito. Un principio di regolazione su cui la sinistra ha sempre insistito nel dopoguerra, e che la borghesia ha sempre contrapposto all’aristocrazia parassitaria. Infine c’è la fiducia nella scienza e nella tecnica. Un patrimonio comune di borghesi e operai, anch’esso da recuperare a pieno come modello».
Che fine fanno in questo schema classico la polverizzazione del lavoro, l’economia finanziaria, e la moltiplicazione dei lavori autonomi e della piccola impresa?
«Stiamo parlando di borghesia, no? Ebbene, almeno fino agli anni 70, lo schema e il panorama classici reggono. Dopo, c’è l’esplosione della piccola impresa, che s’è valsa a lungo di lassismo e protezioni fiscali. Oggi però piccola e media imprenditoria sono ancora fatte di ceti popolari, che provengono proprio dall’etica del lavoro e della famiglia, di cui si diceva prima. Il punto è che questa borghesia nuova non ha ancora acquisito i tratti della classe generale e della leadership, quelli che fanno “sistema” e responsabilità generale. Di qui il ribellismo e il populismo. Non è detto però che le cose stiano sempre ferme. Proprio la necessità di stare sul mercato globale, spinge questo mondo a fare un salto. Perciò bisogna saper distinguere e non dare per persi alla sinistra lavoro autonomo e piccola impresa».
Veniamo all’altra faccia della luna, ai lavoratori. Come sono fatti e dove sono in questo pulviscolo?
«Oggi la classe operaia, sotto altre sembianze e non più in forma fordista, c’è eccome. Tanto per cominciare essa persiste anche nelle grandi fabbriche integrate, sotto specie di addetti a funzioni più complesse di una volta. È una sorta di aristocrazia operaia, ben rappresentata dalla Fiom. E poi essa è diffusa nei tanti segmenti laterali dell’industra e nei comparti che sono tipici dell’economia terziarizzata o a rete. La classe operaia non è affatto sparita. Si è solo differenziata al suo interno. Certo, non c’è più la classe monolitica portatrice di fini universali e alternativi al capitalismo di una volta, la classe di cui ancora si parlava al tempo della “centralità operaia”, negli anni 70-80. Oggi infatti siamo nell’era della globalizzazione e della rivoluzione informatica...».
Il che ha comportato anche l’espansione pervasiva della finanza. Espansione interclassista...
«Già, ed è un fenomeno connesso alla liberalizzazione del mercato dei capitali. Dove entrano in scena soggetti e agenti prima sconosciuti. Cosa sono infatti i fondi di investimento, che raggruppano milioni di piccoli risparmiatori e grandi operatori finanziari, con confini spesso indecifrabili? In questo scenario sfumano i “blocchi sociali” e gli antagonismi di una tempo. Così come i “poteri forti”. Dove stanno? Dove abitano? Bene, il 30-35% delle maggiori società è controllato dallo stato. Poi ci sono i grandi azionisti stranieri e le fondazioni bancarie. Infine, con un 15% di controllo, ci sono le vecchie grandi famiglie. Ovvio che in questo quadro mutato rispetto agli anni 90 - gli anni di Mediobanca - i poteri forti non siano più quelli di un tempo. Come pure assai sfumati, in virtù di questi processi, appaiono ormai i confini tra borghesia e operai, magari divenuti risparmiatori»
Ma lo sforzo della politica specie a sinistra, non deve essere quello di restituire visibilità e corpo agli interessi? Di scegliere quelli su cui puntare, per tradurli in programmi e valori?
«Sì, ma la sinistra deve innnanzitutto ricostruirla, una sua tavola di valori. Anche dopo il tracollo delle alternative radicali. Bene, la finalità principe di una sinistra riformista non può che essere questa: espansione regolata delle forze produttive nel mercato globale. Valorizzando innovazione e rivoluzione del sapere. In funzione di un’allocazione più razionale delle risorse, e di una forte distribuzione equitativa del reddito. Con eliminazione di squilibri sociali ereditati dal passato. Già questo qualificherebbe una sinistra moderna, così come la si può intendere nel quadro del socialismo europeo. Se le finalità sono queste, dentro il mutamento di scenari di cui sopra dicevamo, occorrono ideali e programmi adeguati. Capaci di conquistare consenso e alleanze e allo scopo di detenere maggioranze in cui si riconoscano le classi interessate a una crescita qualitativa di tal tipo. E allora insisto: valore del lavoro. Come autovalorizzazione, allargamento delle possibilità di tutti. E privilegiamento del merito. E poi senso della responsabilità individuale. Tutti criteri di regolazione sociale che la sinistra aveva nel suo Dna. E che però sta perdendo per strada».
Una sinistra di questo tipo farebbe bene anche alla borghesia, col richiamarla alle sue responsabilità generali?
«Senza dubbio. Una borghesia degna di questo nome, e come s’è visto in Italia c’è stata, non può derogare ai suoi valori d’origine. E quindi a un suo ruolo propulsivo. E a questi valori, me ne lasci aggiungere ancora uno: la fiducia nella razionalità positiva della tecnica. Sia pur con tutti le precauzioni e le avvertenze d’obbligo nell’era dell’intrusione nel genoma e degli effetti perversi della tecnoscienza, suscettibile di divenire fine a se stessa»
Dunque è su questa rete di valori e di interessi che vince o perde una sinistra di governo?
«Certamente sì, perché una sinistra che va al governo in Italia, non può che qualificarsi in base a riforme che incorporino quei valori. Dalla ricerca, alla scuola, al mercato del lavoro, alle liberalizazioni, regolate e bilanciate dall’equità. Mi rendo conto: è la quadratura del cerchio. Ma se non la trova la sinistra chi altro può farlo?».

Corriere della Sera 27.7.06
Ernesto Che Guevara
Il Che nascosto
Quando Guevara attaccava Lenin e criticava Marx
di Dario Fertilio


L’AVANA - Il mito senza fine di Ernesto Guevara ricomincia da qui, dal luogo più ovvio eppure improbabile: una libreria fuori mano della capitale cubana. L’attrazione che esercita il Che su coloro che lo amano o lo detestano, magari senza conoscerlo - perché lo considerano un’icona della ribellione senza regole o dell’idealismo disumano - adesso riprenderà vigore con l’uscita di un nuovo libro, intitolato Apuntes críticos a la economia politica . Non scritto su di lui ma da lui, e dunque un nuovo capitolo della saga, un’occasione per discutere sui suoi diari inediti e tenuti segreti. L’uscita del volume, a cura del Centro cubano a lui dedicato, era stata annunciata - e il libro aveva fatto una fugace apparizione - in occasione del festival letterario che si è tenuto qualche mese fa all’Avana. Ma è rapidamente sparito dagli scaffali, proprio come avevano maliziosamente predetto i critici del regime castrista. Perché pubblicare gli inediti di Guevara a rate, scegliendo di volta in volta i brani meno compromettenti, e razionando il numero delle copie in modo da consentire di leggerle soltanto a un pubblico selezionato, è una tecnica sperimentata da queste parti.
Ed ecco apparire in sordina gli Apuntes críticos , con la proprietà dei diritti nelle mani dell’Editoriale de Ciencias Sociales e l’edizione internazionale riservata alla fidata casa editrice australiana Ocean Press. Nell’indice ci sono molti passaggi già famosi, come le «Riflessioni sulla transizione socialista», una «Sintesi biografica su Marx ed Engels» e soprattutto le famose «Preguntas», le «domande» impertinenti ed eretiche sul Manuale di economia politica della Accademia sovietica delle Scienze, che per prime avevano acceso curiosità e polemiche. Perché si sa, un Che Guevara coerentemente comunista, ma passato dall’adorazione ingenua dell’Urss alla critica pubblica e violenta del suo sistema di governo, è una di quelle vicende che segnano profondamente la storia politica. Quasi riproponendo in salsa caraibica il dissidio fra Stalin e Trotzkij, lo scontro fra il satrapo corruttore e il rivoluzionario permanente, e dunque permettendo di scorgere dietro alle maschere simboliche i volti reali di Fidel Castro e Che Guevara.
Non sorprende nessuno, dunque, il rapido passaggio e la fulminea sparizione degli Apuntes dagli scaffali delle librerie, la loro presenza solo teorica ed evanescente in cataloghi che nessuno ricorda, l’imbarazzo delle commesse che non sanno ritrovarne neppure una copia pur muovendosi all’interno di un’imponente bibliografia guevarista che generalmente occupa scaffali interi. Gli Apuntes críticos ?, domandano. Non sono quelli di un anno fa, o di cinque, o non si tratterà addirittura della mitica edizione in sette volumi pubblicata ai tempi eroici della rivoluzione da Orlando Borrego? Perché su quella favoleggiata raccolta completa, e soprattutto sul suo sesto volume, il più misterioso di tutti e accessibile - pare - soltanto a pochi eletti, circolano ipotesi non verificabili. Si ritroveranno le ultime copie al macero in qualche sotterraneo? Salteranno fuori dopo la morte di Fidel, si materializzeranno per incanto all’indomani del crollo del regime?
Niente di tutto questo. Gli Apuntes sono stati pubblicati davvero quest’anno, e se si ha la pazienza di rincorrerli da una libreria all’altra, con l’aiuto della storica guida italo-cubana Giancarlo Guglielmi, alla fine può capitare d’essere premiati dalla fortuna. La caccia al tesoro termina infatti in una libreria periferica dell’Avana: qui una commessa identifica la sospirata copertina bianca con l’immagine di un macchinario industriale sotto il nome dell’autore in caratteri rossi e neri. E nell’indice, c’è la segnalazione dei brani inediti. Note sintetiche, con le quali il Che commentava su alcuni quaderni le letture che andava ultimando. Materiale non destinato alla pubblicazione, piuttosto giudizi e intuizioni che, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe certamente sviluppato in modo più approfondito. Non sono però gli unici brani mai pubblicati: oltre alle Note, ecco le registrazioni delle riunioni tenute come ministro dell’Industria, discorsi a braccio pronunciati nelle fabbriche, domande originali degli operai cui il Che rispondeva d’istinto, sicché ora il lettore ha la sensazione di riaverlo davanti a sé in carne ed ossa, persino con le amnesie, le ripetizioni e le espressioni gergali del caso.
Quel che si può dedurre dagli inediti è che Che Guevara, in realtà, era ancora più eretico e dissacrante, almeno in privato, di quanto ci abbiano fatto sapere le sue descrizioni più diffuse. Lo testimonia la durezza del giudizio che riserva al manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels: «L’enunciato è falso», «non è sparito l’antagonismo di classe nei diversi Stati socialisti». Il motivo di così gravi difetti? I due autori «conservavano qualcosa della pedanteria filosofica della sinistra hegeliana». Engels è nuovamente il bersaglio dei suoi strali polemici, soprattutto per l’Anti-Duehring: «Si nota chiaramente che questo libro tenta di uccidere le zanzare a cannonate». Anche su Lenin non è tenero: commentando un suo discorso al IX congresso comunista di Russia, del 1920, critica duramente l’idea di utilizzare uomini del vecchio regime solo perché possiedono competenza amministrativa: «è pericoloso cercare specialisti all’interno della classe sconfitta in una battaglia, ma non completamente vinta». Ancora, Guevara respinge così i giudizi di Lenin a proposito del ruolo del sindacato: «a suo giudizio servirebbe a tante cose, ma non lo spiega in forma convincente». E, cosa ancora più grave alle orecchie di Castro, estende la critica leninista al «disordine e alla confusione degli intellettuali russi» alla stessa Cuba: «Vale per tutti i Paesi sottosviluppati o che hanno perduto la bussola - osserva -. Anche Cuba ha sofferto dello stesso male». In generale, Che Guevara attacca ogni forma di ortodossia e tatticismo leninista, non gli piace che si parli di «arretrare per prendere nuovo slancio», «pagare i funzionari di partito meglio dei comuni lavoratori» o «riconoscere un certo carattere di interesse privato alle cooperative». Soltanto Mao Zedong, quando condanna lo «sfruttamento di un Paese socialista ad opera di un altro», incontra il suo plauso incondizionato. E così, di pagina in pagina, attaccando qui la tipica «condizione piccolo borghese del contadino» e là il concetto di profitto «come panacea di tutti i mali», il modo di ragionare guevarista appare in controluce in tutta la sua inquietante originalità: implacabile e demolitore, insofferente dei compromessi e delle debolezze umane, pronto a liquidare con la forza tutto quanto non si piega spontaneamente alle direttive. Una miscela esplosiva che soltanto oggi, quarant’anni dopo, il regime cubano ha deciso di lasciar filtrare dal limbo della censura. Ma i brani mancanti, i vuoti che rimangono tra uno e l’altro frammento sembrano fatti apposta per risvegliare curiosità, alimentare nuove ipotesi e rinfocolare polemiche.

Corriere della Sera 27.7.06
«Bella di giorno» torna senza Deneuve Dopo 39 anni de Oliveira firma il sequel. La diva ha rifiutato il ruolo
di Maurizio Porro


Cose buffe del cinema. Cose strane. Nel '67 Buñuel vinse il Leone d'oro a Venezia con l'ultimo capolavoro surreale Bella di giorno , rifiutato da Cannes, con la Deneuve nei panni di una bionda signora di lusso, un'insoddisfatta moglie borghese che dalle 2 alle 5 del pomeriggio si dedica coscientemente alla prostituzione anche con i migliori amici di famiglia. Oggi, 39 anni dopo, un altro grande regista, il portoghese Manoel de Oliveira, 97enne maestro sempre più simile per cinica saggezza allo spagnolo don Luis, torna alla Mostra, secondo valide indiscrezioni, con Belle toujour , il seguito del precedente film. In cui l'antico amante e amico del marito cerca la vecchia fiamma che se ne sta segregata in un albergo a Parigi e riesce alla fine a strapparle una cena riservata a lume di candela in cui si spiegheranno ma non si capiranno. La donna gli confesserà la sua inadeguatezza all'educazione giudaico-cristiana, gli dirà che è del tutto cambiata, che forse si ritirerà in un convento per espiare lo scandalo della vita passata, che la belle de jour è definitivamente scomparsa. Così come la sua filosofia sessuale che bisogna amare un uomo per godere l'amore di un altro: parlano due lingue diverse, si lasceranno con un mistero in atto (cosa disse Piccoli al marito?) mentre compare sulla porta una gallina, tocco bunueliano.
E ancora uno scherzo del destino è che sarà proprio madame Deneuve, la presidentessa della giuria al Lido, a vedere, giudicare quest'opera che la riguarda da vicino, perché fu quel personaggio a darle il successo mondiale (ma ha rifiutato la proposta di riprendere il ruolo, ritenendo conclusa la sua esperienza con quel personaggio). Dicono che de Oliveira abbia fatto un film breve e magistrale, a macchina ferma, saggio e sublime.
Come mai questo sequel? «Più che un seguito, volevo fare un omaggio a due grandi artisti del cinema, il sorprendente Buñuel e lo sceneggiatore Carrière che lavorarono allora su un libro di Kassel. Io riprendo due personaggi della storia, la protagonista Severine e Husson per far loro rivivere il trauma ancora da chiarire e immagino così che l'uomo insegua dopo tanti anni la donna dei suoi sogni sessuali».
Segno che de Oliveira ha molto amato quel film («in ogni senso, non c'è emozione che non passi per l'intelletto»), e pensa che la presenza al Lido della Deneuve sia solo un caso singolare. Se Bulle Ogier, attrice di Buñuel e di Rohmer, fa la belle de jour invecchiata e pentita, Michel Piccoli riprende il suo vecchio personaggio che ama stazionare ore al bar, dalle 2 alle 5, per non stare solo con la sua anima e sarà uno dei seduttori più impenitenti della signora che ama fantasticare: «La sua - osserva de Oliveira che lo riprende volentieri in dialogo con un barman che gli serve whisky di continuo - è una fuga tramutata in vizio». Famosa nel film di Buñuel la scena in cui un cliente porta nel postribolo una scatola misteriosa ed erotica di cui non vediamo l'interno. Nel film di oggi ce l'ha Piccoli, la apre e si sente un forte ronzio di mosche o zanzare. Che cosa sono? «Vorrei saperlo anch'io», scherza de Oliveira. Sono due personaggi di disarmante complicazione, specie il magnifico Piccoli? «Proprio così, anch'io per i miei film cerco ora l'essenza nella semplificazione del complicato».
Nonostante l'età quasi centenaria, de Oliveira gira un film dopo l'altro («ora giro la storia di Eca de Queiroz, che introdusse il realismo nella letteratura portoghese») ed ancora ha voglia di festival. «Da un punto di vista cinematografico devo molto alla Francia e all'Italia, due paesi che conservo nel cuore». Ma torniamo alla catarsi del sesso, ai peccati della Bella di giorno: voi considerate peccati quelli di Severine? «Credo che Buñuel, come noi, avesse questa percezione: l'infedeltà e il piacere masochista sono perversioni peccaminose». E' straordinario il suo stile, con la macchina ferma riesce a fare cinema al quadrato, mai teatro. «Io dò movimento alla macchina da presa solo quando il contesto lo richiede, mai per capriccio. Curiosamente l'inquadratura è sempre fissa e anche quando si muove sono in realtà gli oggetti che si muovono nell'immagine».

L’autore
CHI È Manoel de Oliveira è nato a Oporto il 12 dicembre 1908, terzo figlio di una famiglia della borghesia industriale. Ha cominciato a fare cinema negli anni 30. Ma è solo dopo la morte di Salazar, nel 1970, che il suo talento viene riconosciuto: la scomparsa del dittatore gli consente il ritorno in Portogallo
I FILM Il suo primo, vero film è Passato e presente (1971), mentre il suo capolavoro è La divina commedia (1991). Una segnalazione merita anche Un film parlato (2003).
BELLE TOUJOUR
Trentanove anni dopo La bella di giorno di Luis Buñuel, de Oliveira ha girato un eccentrico sequel: «Più che un seguito, un omaggio a un grande artista»



Liberazione 27.7.06
Cresce il divario tra aspettative e realtà: sempre più ragazzi con disturbi mentali
Il nostro incubo quotidiano si chiama Sogno Americano
di George Monbiot


Se questo fosse l’Iraq, o la Somalia, o la Cecenia, l’andamento non sarebbe difficile da capire. Ma questa è la Gran Bretagna, durante il più lungo periodo di pace interna e di prosperità della storia moderna. Dopo 36 trimestri successivi di crescita e bassa inflazione, con alto tasso di occupazione e bassa probabilità di essere assassinati nel proprio letto, dovremmo essere le persone più felici, serene, meno preoccupate che abbiano mai vissuto. Ma qualcosa è andato storto.

Un rapporto pubblicato recentemente dalla British Medical Association indica che c’è stato un costante aumento di disordini mentali tra bambini e ragazzi tra i 5 e i 16 anni. Ad oggi, il 9,6% di loro - quasi uno su 10 - soffre di problemi psicologici «persistenti, gravi e che influenzano le sue funzioni giornaliere». All’incirca «1,1 milioni di ragazzi sotto i 18 anni... si avvarrebbero dei servizi di uno specialista». Non penso che sia un’esagerazione descrivere tutto ciò come una catastrofe sociale.

Che sta succedendo? La Bma (British Medical Association) non ne è sicura. Suggerisce che un fattore potrebbe essere la dieta, in particolare una possibile deficienza degli acidi grassi Omega 3. Osserva che mentre non c’è stato aumento nel numero di ragazzi tra gli 11 e i 15 anni che consumano alcool, il consumo tra coloro che bevono è però raddoppiato in 14 anni. Ha scoperto che per i bambini che vivono in condizioni di povertà è molto più probabile sviluppare disordini rispetto a coloro che hanno genitori più ricchi. Ma visto che la povertà infantile sta diminuendo, ci si aspetterebbe che questo significhi anche una diminuzione dei problemi psicologici.

Il Bma indica anche il mutamento della vita famigliare. Ma un altro rapporto sullo stesso argomento, pubblicato dalla Nuffield Foundation nel 2004, ha scoperto che «cambiamenti evidenti nei modelli famigliari... non sono stati la ragione principale dell’aumento dei problemi comportamentali».

Lo stesso studio contiene anche una delle affermazioni più sensazionali che abbia mai letto: «La crescita nei problemi di salute mentale sembra essere associata al miglioramento delle condizioni economiche». Al crescere del Pil diventiamo più disturbati. Tra altre possibili cause, si dà la colpa alle crescenti pressioni scolastiche, ai cambiamenti nella relazione con altri bambini e ad una diminuzione nelle limitazioni e nelle regole imposte dai genitori. Ma tutto questo, si ammette, sono «ipotesi non verificate».

Visto che l’ipotesi di ciascuno è buona come quella di chiunque altro, mi sento autorizzato ad azzardarne una tutta mia. Accetto che questo è un problema complesso, e che vi sono indubbiamente molte cause. Ma propongo che una di esse sia la sindrome di Willy Loman.

Willy Loman è il personaggio del dramma di Arthur Miller “Morte di un commesso viaggiatore”. Egli è lacerato dal divario tra le sue aspettative - la promessa, comune a tutti, di fama e fortuna - e la realtà. Anche se il suo modesto potere declina e la sua carriera va in pezzi, egli crede che può ancora essere il numero uno. Si era soliti chiamarlo Sogno Americano. Adesso è l’incubo di ciascuno di noi.

Una ricerca pubblicata in aprile dall’economista Tom Hertz ha mostrato che gli Stati uniti hanno uno dei più bassi livelli di mobilità intergenerazionale del mondo ricco. Un bambino nato in una famiglia povera ha l’1% di probabilità di diventare, crescendo, membro del più ricco 5 per cento, mentre un bambino nato in una famiglia abbiente ha il 22 per cento della stessa probabilità. Un altro studio, pubblicato dal Business Week, ha trovato che nel 1978 il 23 per cento dei maschi adulti i cui padri appartenevano al quartile della distribuzione di ricchezza più basso sono passati al quartile più alto. Nel 2004 la stessa cifra era del 10 per cento. Ma la realtà e la pubblica percezione viaggiano in direzioni opposte. Un sondaggio per il New York Times pubblicato nel 2005 ha mostrato che l’80 per cento degli interrogati pensava che fosse possibile per gente povera diventare abbiente lavorando sodo. Nel 1983 la cifra era solo del 60 per cento.

Hertz ha notato che «tra i paesi ad alto reddito pro-capite per cui sono disponibili stime confrontabili, solo il Regno Unito aveva un tasso di mobilità più basso degli Stati uniti». In aprile la fondazione Joseph Rowntree ha pubblicato uno studio che mostra che i cittadini del Regno Unito che oggi hanno 30 anni hanno il doppio di probabilità di rimanere nella stessa classe economica dei loro genitori, rispetto a persone nate 10 anni prima.

Anche qui, la diminuzione di mobilità è accompagnata da un aumento di aspettative. In gennaio il Learning and Skill Council ha trovato che il 16 per cento degli adolescenti intervistati credevano che sarebbero diventati famosi, probabilmente tramite l’apparizione in uno spettacolo come “Il Grande Fratello”. Molti di loro la vedevano come una prospettiva migliore rispetto al conseguimento di una qualifica; l’11 per cento di loro, si è scoperto, «se ne stanno senza fare nulla “aspettando di essere scoperti”». Il Learning and Skill Council ha affermato che la probabilità di essere scelti da “Il Grande Fratello” e di diventare di conseguenza ricchi e famosi, è di uno su 30 milioni. Ma la promessa che ci viene fatta è che può accadere a chiunque. Gli adolescenti sembravano credere che potesse succedere a tutti.

E questo è sicuramente ciò che nella nostra economia ora funziona. Una vasta industria si dedica a vendere alla gente immagini di se stessa che non hanno nessuna relazione con la realtà. Di queste la più ovvia (e questo non è certo un argomento originale) è la celebrazione della magrezza estrema proprio quando l’obesità infantile sta diventando un’epidemia.

Il titolo del numero di questo mese della rivista per ragazze Sugar è “Ottieni senza sforzo questo corpo da bikini”. Gran parte delle pagine sono dedicate al corpo o a celebrità. Un articolo sulla compagna di Theo Walcott, Melanie Slade, mostra come lei stia per cambiare la sua vita modesta in ville, macchine sportive, stazioni termali e compere a Bond Street. Il suo ritratto di tipica “sposa celebre” contiene un allegato per “parenti brutti”. Una donna grassa viene irrorata con della crema autoabbronzante da un artista del trucco, che sta «cercando di rendere la bruttezza fotogenica».

Un paio di lettrici cercano di ribellarsi a questi sogni impossibili, ma vengono stroncate. «Dopo aver letto “Come essere sexy come Christina Aguilera”», scrive una ragazza, «ho capito: come può una ragazza dire di essere un individuo, ma sembrare di plastica?». Il redattore risponde: «Lei ha un approccio individuale alla moda, all’immagine, all’atteggiamento - questo è il motivo per cui noi pensiamo che lei sia eccezionale». In un’altra lettera si chiede: «Perché c’è sempre una celebrità sulla copertina di Sugar? Anche le persone che non sono delle celebrità sono persone, e le lettrici reagirebbero meglio vedendo la sorella più grande della propria amica piuttosto che una star che invidiano!». A lei viene risposto: «Dalle nostre ricerche risulta che la maggior parte di voi preferirebbe vedere in copertina una celebrità».

Uno dei disturbi che sta crescendo più in fretta, dice la British Medical Association, è l’autolesionismo: farsi tagli o bruciature, strapparsi i capelli, inghiottire veleni. E’ più comune nelle ragazze che nei ragazzi: una ricerca ha mostrato che l’11,2 per cento delle ragazze ha commesso un atto di questo tipo. Se le ragazze aggrediscono o cercano di cancellare il proprio corpo, è sicuramente perché gli è stato insegnato ad odiarlo.

Il divario tra ciò che ci dicono che dovremmo essere e ciò che siamo sta crescendo. Mentre le aspettative dei ragazzi perdono contatto con la realtà, essi sono lacerati tra la loro vita interiore all’insegna della fama e fortuna, e la monotona realtà che la loro mente non vive più. La pubblicità (e gli affari che la sostengono) non è il rumore di un bastone in un secchio di rifiuti, come diceva Orwell, ma piuttosto la carota che continua a far muovere l’asino. Non ti sarà mai permesso di avvicinarti abbastanza per mangiare, per quanto forte tirerai. E’ difficile che un’economia guidata dall’insoddisfazione possa fallire nel far crescere la malattia mentale.