l'Unità 1.9.06
Umani? Si riconoscono allo specchio dei neuroni
di Beppe SebasteINTERVISTA con Giacomo Rizzolatti che, assieme a Vittorio Gallese, ha scoperto i «neuroni specchio», cellule che si attivano solo quando osserviamo un nostro simile. Una scoperta scientifica che è anche una rivoluzione etica e filosoficaIl pittore «apporta il proprio corpo», dice Valéry. E, in effetti, non si capisce come uno Spirito potrebbe dipingere. È prestando il suo corpo al mondo che il pittore cambia il mondo in pittura (...), il corpo operante e attuale, quello che non è un pezzo di spazio, un fascio di funzioni, ma un intreccio di visione e movimento». La citazione è di Maurice Merleau-Ponty, il celebre autore de La fenomenologia della percezione, tratta da una meditazione sul corpo, la visione e la pittura che porta al cuore dell’estetica la lezione della fenomenologia di Husserl. Ma porta anche al centro della vita vissuta, quella della fisicità e dei corpi, la filosofia, invitando la scienza a situarsi allo stesso modo nella «storicità primordiale» del (nostro) corpo sensibile, attuale e presente, il cui risveglio avviene soltanto quando con esso si risvegliano «i corpi associati», gli «altri», quelli «della propria specie, del proprio territorio, del proprio ambiente». Non stupisca allora questa citazione per introdurre una questione rigorosamente scientifica che da qualche tempo attrae anche i non specialisti, ovvero la portata della scoperta dei cosiddetti mirror neurons, o «neuroni specchio».
La scoperta, tra le più importanti degli ultimi anni nell’ambito della neurologia, si deve al gruppo di neuroscienziati che lavora nel dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma, diretto dal prof. Giacomo Rizzolatti, che dei neuroni specchio è co-scopritore negli anni ’90 insieme al più giovane Vittorio Gallese. I «neuroni specchio» sono cellule che si attivano quando osserviamo un nostro simile che compie una certa azione gestuale, quasi allo stesso modo che se fossimo noi stessi a compiere quell’azione e quel gesto. Se tra le ipotesi e le conseguenze teoriche dell’individuazione di queste cellule neuronali vi è addirittura la possibilità di toccare la radice biologica del sentimento dell’«empatia», già il fatto di provare che la conoscenza sia radicata nell’osservazione degli altri, e quindi non solo nel proprio corpo, ma in un contesto in cui un ruolo attivo lo rivestono i corpi degli altri, è sufficiente ad interessare non solo la scienza, ma anche tutte quelle discipline che dialogano oggi nell’ambito della «biopolitica». Come ha osservato Vittorio Gallese in un’intervista a Felice Cimatti (su il manifesto), «questo contributo delle neuroscienze può essere importante nel suscitare nuove riflessioni in ambito etico, politico ed economico. Perché ha messo in luce come la reciprocità che ci lega all’altro sia una nostra condizione naturale, pre-verbale e pre-razionale». Ecco come la scienza sembra oggi raccogliere non solo l’invito a situarsi che oltre mezzo secolo fa le rivolgeva, tra gli altri, Merleau-Ponty, ma anche la sfide che l’etica ha posto al primato dell’ontologia, rivendicando (si pensi a Emmanuel Lévinas) la priorità dell’altro (il prossimo) contro l’impersonalità dell’essere heideggeriano.
Il prof. Rizzolatti, ospite del Festival della mente di Sarzana, ha pubblicato di recente, in collaborazione col filosofo della scienza Corrado Sinigaglia, il volume So quello che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio (Raffaello Cortina Editore). In esso si racconta la storia di questa scoperta che, secondo il neuroscienziato statunitense Vilayanur Ramachandran, è paragonabile «per la psicologia a quello che il Dna è stato per la biologia». La loro esistenza mette in discussione i confini tradizionali, non solo scientifici ma filosofici, tra pensiero razionale e sfera emotiva, tra azione e percezione. Ma pongono anche al centro della riflessione scientifica la fisicità e la corporeità, in un’epoca in cui, tra dibattiti sulla fecondazione artificiale (o addirittura la clonazione) e revival della robotica, anche i problemi del nascere e dell’intelligenza sono spostati in una dimensione mitica che farebbe a meno dei corpi (e della sessuazione).
Abbiamo posto a Giacomo Rizzolati alcune domande.
Come spiega il successo della scoperta dei neuroni specchio, che (potrei raccontarle qualche aneddoto), appare oggi addirittura di moda, e viene citato anche da artisti e altre persone che di solito non si occupano di scienza?
«Credo che abbia avuto molto successo proprio perché questa scoperta “avvicina” anche alcune arti alla complessità scientifica. Essa ci insegna che il vedere e l’agire, la percezione e l’azione, sono mescolati. E, soprattutto, che il nostro corpo è presente dappertutto. Dall’idea di individuo come puro spirito che osserva si passa a una concezione in cui il corpo ha un ruolo fondamentale: noi siamo quello che siamo perché agiamo, perché abbiamo delle mani, perché abbiamo delle relazioni. Ecco perché anche l’artista accoglie qualcosa di questa scoperta. Il teatro, ad esempio, da sempre ha molto a che fare con questo, perché l’attore ha a che fare soprattutto col corpo…".
«La conoscenza è legata al corpo, e di questo noi diamo prove neurofisiologiche, scientifiche. Quando vedi qualcuno far qualcosa risuona nel tuo cervello qualcosa che spinge a fare gli stessi movimenti, entri in risonanza con quello che fanno gli altri. Tutto questo rivaluta molto in effetti le filosofie di Husserl e di Merleau-Ponty, e non a caso infatti le nostre scoperte sono state inizialmente molto valutate in Francia, dove la tradizione filosofica sostiene questo pensiero».
In che modo i neuroni specchio modificano la nostra concezione della conoscenza e dell’apprendimento, e come interviene il problema dell’alterità?
«Noi abbiamo provato che abbiamo un meccanismo neuronale di base che ci permette di entrare in relazione con gli altri: accanto alla conoscenza razionale, intellettuale, c’è una conoscenza intima, diretta, di quello che uno fa; se un marziano interagisse con noi con strane contrazioni, noi non capiremmo cosa fa, perché non riconosciamo i suo gesti in una mappa esperienziale. Un esperimento fatto con le risonanze mostrava che se qualcuno fa certe azioni umane si attivano i neuroni specchio. Ma non si attivano viceversa se un cane abbaia, perché l’esperienza dell’abbaiare non rientra nel nostro patrimonio biologico e culturale. L’esperienza è parola chiave, e con l’esperienza si modifica il nostro patrimonio biologico.
«Un altro esperimento, a Londra, aveva accostato ballerini di danza classica e ballerini brasiliani di capoeira. Quando ballerini classici osservano danzare i classici si attiva di più il neurone rispetto all’osservazione dei ballerini di capoeira; e se un ballerino brasiliano vede danzare un ballerino maschio (per quanto gli uomini ballino con le donne e viceversa) la sua conoscenza dei gesti attiva in maggiore misura il neurone specchio. Questo significa dunque che l’alterità la mappo su me stesso, sul mio patrimonio motorio, e può accadere che essa interagisca con la mia coscienza e la modifichi, a differenza di un cane che abbaia che posso capire solo intellettualmente. L’empatia - parola che ha sfiorato e tuttora lambisce la questione dei neuroni specchio - avviene con ciò che è più vicino a noi. Tutto il resto, non meno importante, avviene come lavoro culturale».
Il vostro lavoro ha anche il merito di ricollegare l’intelligenza (la conoscenza) alla realtà del corpo, contro l’attuale deriva che di astrazione in astrazione lo rimuove. Non si dà intelligenza privata di corpo, e mi è capitato di dire (la formula è di Giuseppe O. Longo) che “nemmeno la matematica esisterebbe senza il corpo di un matematico”…
«La formula è molto felice ed efficace. Sì, se c’è un messaggio che vorrei lanciare riguarda proprio la corporeità, la difesa della corporeità e fisicità della conoscenza. Su un piano più ampio, questa scoperta dovrebbe contribuire ad eliminare l’individualismo sfrenato del mondo contemporaneo, basato sulla rivendicazione ossessiva dell’“io” e nient’altro. Mi viene in mente che il marxismo tradizionale - quello di Marx e Engels, per intenderci - che io ricordo bene, aveva un forte senso della collettività, della comunità, che oggi è scomparso anche negli orizzonti e nel patrimonio culturale della sinistra. Il marxismo tradizionale, al contrario della nostra attuale civiltà, era legato alla realtà sociale e biologica».
Repubblica Lettere 1.9.06
Che significa oggi essere socialisti
di Nerio Nesi
Pres. Ass. Riccardo LombardiCaro Direttore, Amato vede, come me, il pericolo che il socialismo liberale rischi di annullare, (soprattutto nella considerazione delle persone che riteniamo di rappresentare), la differenza tra Destra e Sinistra. E' un rischio grave, al quale egli peraltro non risponde in modo esauriente, soprattutto su un tema che a me pare fondamentale: la politica economica e in particolare la diversa concezione dello Stato che hanno la Sinistra e la Destra. Bisogna quindi porsi la domanda: cosa vuol dire oggi essere socialisti?
La revisione ideale di socialisti e socialdemocratici europei è stata sempre accompagnata da grandi progetti riformatori: i laburisti del dopoguerra elaborarono quattro leggi destinate a trasformare il sistema sociale britannico (salute, previdenza, pieno impiego e nazionalizzazioni); la socialdemocrazia tedesca, mentre abbandonava il marxismo, conquistava la compartecipazione aziendale e la contrattazione programmata dei salari; la prima vittoria di Mitterrand portò il suggello del "programma comune" francese; il Partito Socialista Spagnolo è stato l'artefice della trasformazione più radicale che un Paese europeo abbia vissuto nel dopoguerra.
In Italia, il Psi pose negli anni '60 i presupposti di un progetto che doveva tradursi nella riduzione progressiva delle posizioni di rendita e di monopolio, nel controllo pubblico dei grandi servizi di interesse collettivo, a cominciare dalla scuola, nella eliminazione delle sperequazioni fiscali, nella programmazione degli investimenti e nella realizzazione del pieno impiego, attraverso un vasto piano di lavori pubblici e il risanamento dei più gravi squilibri sociali e territoriali: tutti interventi che, nel linguaggio del tempo, venivano definiti "riforme di struttura".
Cosa rimane di tutto questo? E se tutto questo non è più "moderno" o "attuale", quali sono i valori e gli obiettivi, per il raggiungimento dei quali il socialismo del 2000 può accendere le fantasie ed alimentare le speranze?
Repubblica 1.9.06
Il senso del ripetersi degli avvenimenti celesti
Come è nato l'eterno ritorno
di Paolo ZelliniCoincidenze. Sono gli istanti in cui accadono fatti notevoli che riguardano stelle e pianeti a definire una struttura di tempo in termini di cicli o ricorrentiFilosofi. Nietzsche volle ispirare la sua teoria al movimento degli astri Ma la matematica ha dimostrato che non c'è ripetizione perfetta«Nulla al mondo è insignificante! Ma la prima cosa, e la più importante, in tutte le faccende terrene è il luogo e l´ora». Le parole dell´astrologo e matematico Seni, in una scena del Wallenstein di Friedrich Schiller, mettono in piena evidenza lo spazio e il tempo, le due fondamentali coordinate di ogni cosa, evento, azione o accidente che prenda forma e consistenza nel mondo del divenire. Ma spazio e tempo non sono soltanto forme del nostro apprendere: l´astrologo vuole alludere anche al fatto che tempo e luogo devono essere fissati con esattezza. Il suo tempo è quello dell´attimo decisivo, rispetto al quale ogni nostra decisione può rovesciarsi in errore o in tragedia. Quell´attimo decisivo corrisponde a un preciso avvenimento nel cielo: il sorgere di una stella, una congiunzione o un trigono di pianeti, il compiersi di un ciclo, un´eclisse o un tramonto.
Immaginando una corrispondenza tra cielo e terra, tra il moto degli astri e gli avvenimenti a noi più vicini, ci troviamo costretti fare i conti con la fondamentale ambiguità o incertezza dell´attimo. Il sorgere e il tramontare eliaco, la prima apparizione della Luna o di Marte, la congiunzione tra Giove e Saturno, sono infatti definibili soltanto in modo approssimato. Da una descrizione geometrica, da una cosmografia come quella di Keplero, che storicamente approntò l´oroscopo a Wallenstein, ricaviamo l´impressione che possa trattarsi di avvenimenti esattamente definibili; ma da una descrizione analitica, che operi con formule trigonometriche e tavole numeriche, equazioni e serie infinite, sappiamo che, in generale, valori numerici esatti non esistono e che dobbiamo invece accontentarci di approssimazioni per eccesso o per difetto. Con i numeri possiamo stare soltanto al di qua o al di là dell´evento, soggetti a un´ambiguità o amphibolia, nel senso dello stare attorno o dell´essere gettati da una parte e dall´altra rispetto a un istante che non riusciamo a definire esattamente. L´errore è quindi fatale e inevitabile: Wallenstein agisce troppo tardi; chi ne progetta l´assassinio agisce con troppo anticipo.
Ora, da tempi immemorabili, sono proprio gli eventi puntuali del mondo celeste, gli istanti in cui accadono fatti notevoli che riguardano stelle e pianeti, a definire una struttura del tempo in termini di cicli e ricorrenze. E può sembrare che il tempo scandito da continue ripetizioni imponga alla nostra esistenza, più di quanto saremmo disposti ad ammettere, ritmi e cadenze regolari. Anche Plutone, pur declassato ora dalla dignità di pianeta, è un esempio di questa vita circolare e continua a girare intorno al sole, compiendo la sua rivoluzione in circa 248 anni. Declassato o meno, bisognerà comunque continuare a tenerne conto se vogliamo ritornare all´antica domanda: possono gli eventi di questo mondo ripetersi nello stesso identico modo in cui sono già accaduti? Esiste e che senso ha l´Eterno Ritorno? La questione potrebbe andare oltre il mero calcolo di tempi, orbite o inclinazioni di pianeti e offrirsi a una cognizione di tipo diverso, pur correndo il rischio – come è stato detto – di assumere i tratti di un "ingannevole e beffardo mistero". Nietzsche avrebbe esteso il senso dell´eterno ritorno ben al di là dell´indicazione positiva di un ripetersi di avvenimenti celesti. «Tutte le cose diritte mentono», si legge nel suo Zarathustra; «Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo». Ma, rinunciando al mistero filosofico o poetico, ci si limiti ora a immaginare, nello spirito del più pedante contabile, un Demiurgo che tenti di realizzare un tempo ciclico con la massima precisione possibile. Avremo allora un ritorno all´uguale, nel senso più letterale, solo se una data configurazione di tutti i corpi celesti, fotografata in un certo istante, si ripeterà identica in un istante successivo, non importa quanto lontano nel tempo. La questione del ritorno all´uguale dipende allora, in modo stringente, dalla questione se i movimenti circolari risultano tra loro commensurabili, o multipli di uno stesso periodo assunto come comune unità di misura. Per questo motivo i filosofi del Medioevo che riflettevano sui concetti di libertà o di giustizia, di ordine o di contingenza, dovevano tener conto dell´idea di incommensurabilità elaborata fin dai tempi dell´Accademia platonica. Come si sa, i periodi di Giove e di Saturno stanno circa nel rapporto di 2 a 5; ovvero dopo circa 5 rivoluzioni di Giove i due pianeti ritornano quasi nella stessa configurazione iniziale. Ma questo non implica né che i periodi di Giove e Saturno sono commensurabili, né tanto meno che lo sono altri periodi. Il rapporto 2 a 5 è soltanto un´approssimazione, e soltanto di approssimazioni, in generale, possiamo disporre. In altri termini, un ritorno all´uguale, letteralmente inteso, si rivela impossibile perché si intromettono i numeri irrazionali, che hanno un numero infinito di cifre e non sono rappresentabili con una frazione. Di questo si ebbe consapevolezza critica almeno fin dai tempi di Avicenna. In seguito Leibniz avrebbe ragionato senza riferirsi ai pianeti, riducendo il problema del ritorno all´uguale a un puro calcolo combinatorio: il calcolo del massimo numero di frasi pronunciabili con un numero finito di lettere. Essendo il massimo finito, dopo un lasso di tempo abbastanza lungo, ogni frase, e l´evento corrispondente, si sarebbero ripetuti. Ma lo stesso Leibniz riconosceva che il grande Ritorno, o in termini cristiani l´Apokatastasis o Restitutio universale, non era dimostrabile a causa dell´infinito del continuo e dei numeri irrazionali. In tempi più recenti, la scienza del calcolo su grande scala, la teoria delle perturbazioni e lo studio dei sistemi dinamici hanno fatto capire come certe difficoltà riguardano non solo l´infinito, ma anche il finito molto grande. Non c´è quindi ritorno all´uguale, anche se numeri, figure e pianeti, con i loro movimenti ciclici o spiraliformi, consentono di approssimare i rapporti che procurano armonia e stabilità, come già suggeriva Platone nella Repubblica. Aiuta forse il calcolo anche a salvare miti ed enigmi?
Repubblica 1.9.06
Dall'antica Babilonia alla Grecia di Aristotele: come il cielo era studiato
Quei nomi di dèi che parlano di astri
di Enrico BelloneRelazioni. Quale rapporto razionale può esistere tra i racconti mitologici e forme di scienza rigorosa come la matematica e l'astronomiaMappe. Occorre capire come mai le prime descrizioni cosmologiche abbiano raffigurato pianeti e stelle come se fossero degli esseri viventiUna grande scrofa attende il passaggio sul fiume della barca che trasporta la dea Yaahu Auhu. Al quindicesimo giorno d´ogni mese la bestia attacca la divinità lucente, che muore e poi rinasce. A volte, invece, la scrofa ingoia tutta la vittima: così osserviamo, sulla Terra, una eclisse di Luna. La Luna è, infatti, un corpo vivente e mitico. Appunto, la dea Yaahu Auhu. Un'altra barca naviga sul medesimo fiume. A bordo, il dio Ra. Ovvero, il Sole. Anche qui, la divinità, che nasce ogni mattina, può diventare preda di un grande animale. Un serpente gigantesco, la cui lotta con Ra sta alla radice di spiegazioni sull´eclisse parziale o totale di Sole. Altre divinità prediligono la navigazione sul fiume. Sono i cinque pianeti visibili ad occhio nudo. Uno di essi è Venere, che è però doppia: la prima lampada che a sera si accende in cielo, e anche la prima luce mattutina, annunciatrice dell´arrivo di Ra.
Di che cosa stiamo parlando? Certamente di un fiume. Un immenso fluire di acque che circonda la Terra. Uno dei suoi rami è il Nilo, e infatti le descrizioni appena riportate sul muoversi dei pianeti, del Sole e della Luna risalgono ad antichi documenti egizi. Questi ultimi ci possono oggi apparire come miscele sconcertanti di opinioni insostenibili. Eppure, essi erano forme vere e proprie di sapere astronomico e cosmologico. Alle loro spalle stavano le conoscenze sul cielo che dopo il 2.600 avanti Cristo erano fiorite a Babilonia o nella mitica città di Ninive. Una fioritura che aveva comunque radici ancora più lontane, poiché aveva debiti con la scienza di quel popolo d´incerta origine che furono i Sumeri, i cui argomenti matematici risalgono al 3.500 a.C. e che, dopo un millennio, furono travolti da coloro che per l´appunto scelsero Babilonia come capitale.
Ho parlato di miscele sconcertanti. Che rapporto razionale può infatti esistere tra racconti di scrofe o serpenti ghiotti di divinità lunari o solari e forme di scienza rigorosa come la matematica o l´astronomia? Esistono forse vie culturali per passare dai calcoli sui moti dei pianeti e dalle osservazioni accurate del cielo stellato o dei moti solari alla mitologia e all´astrologia?
Esistono, e come. L´idea centrale, per fare una prima mappa dove siano segnate quelle vie, sta nel capire come mai le prime descrizioni cosmologiche abbiano raffigurato pianeti e stelle come esseri viventi, ed abbiano sistematicamente accoppiato tali vitalità a esseri divini. Come distinguere in modo netto tra il moto di un essere dotato di vita e il moto di Venere o Marte? Per noi, la distinzione sembra ovvia: impariamo nelle scuole che Saturno non ha l´anima e non è dotato di intelligenza. Per chi invece studiava l´universo alcuni millenni or sono, la faccenda era molto più intricata. Chi volesse dedicare un poco di attenzione al comportamento di un pianeta come Marte si accorgerebbe che esso percorre, in mezzo alle stelle, orbite piuttosto strane e con velocità variabili. Periodicamente, per esempio, il suo cammino è retrogrado: torna "indietro" per un poco, e poi riprende a camminare in "avanti". Per usare un linguaggio antico, è un "errante". Perché?
Domanda non ingenua: ha assillato gli scienziati sin dai tempi dei Sumeri. Una soluzione ammissibile, ed effettivamente accettata da molte civiltà antiche, consiste nell´immaginare che tutti i corpi – celesti, animali o vegetali – facciano parte di una comunità universale, e tra loro continuamente interagiscano. Così le grandi costellazioni, o la più comune Luna, hanno poteri, e li esercitano sugli altri enti del cosmo. Ebbene, perché stupirci delle credenze che erano popolari a Ninive, Babilonia o Tebe, visto che l´odierno uomo tecnologico presta non poca attenzione agli oroscopi? I poteri dei pianeti e delle stelle sul nostro vivere sono reali per milioni di individui che consultano l´oroscopo con una attenzione non diversa da quella con cui ascoltano le previsioni metereologiche.
Fatta questa precisazioni sui poteri intrinseci ai pianeti precopernicani, va subito chiarito che la scienza precopernicana era una grande scienza. La matematica e la geometria furono trionfanti, nello studio del cielo, per millenni. Un trionfo garantito dalla stupefacente capacità di previsione dei comportamenti osservabili del Sole, della Luna e dei cinque pianeti visibili senza telescopi. L´associazione narrativa dei pianeti con divinità e l´attribuzione di poteri al Sole o a Saturno erano strettamente connesse con l´impiego di strutture razionali centrate su teoremi geometrici e proposizioni matematiche.
E quei trionfi ebbero il loro peso quando, a partire grosso modo dal 600 a.C., sorse la cultura dei Greci. La vetta dell´astronomia greca ha indubbiamente il nome dello scienziato Eudosso. Il quale, però, era nato in Asia Minore ed aveva studiato astronomia ad Eliopoli in Egitto, per poi approfondire le proprie conoscenze in matematica, in medicina, metafisica e musica sotto l´influenza dei pitagorici e di Platone.
Anche per Eudosso i pianeti sono entità da trattare con estrema raffinatezza, facendo leva sulla geometria. Nella cui cornice razionale il cerchio è una figura di perfezione assoluta: tutte le stelle cosiddette fisse, infatti, si comportano come se fossero incastonate in una sfera che ruota uniformemente attorno ad un asse, così che noi, ancorati sulla Terra, non possiamo fare a meno di vedere ciò che si vede, e cioè il regolare spostarsi delle costellazioni. I moti strani dei pianeti, del Sole e della Luna con Eudosso, cessano d´essere strani: con una raffinata composizione di moti circolari uniformi le stravaganze planetarie sono ricondotte all´ordine e all´armonia. In tutto bastava aggiungere, alla sfera delle stelle fisse, altre 26 sfere.
Le divinità non erano più indispensabili. Bastavano i teoremi. Le nostre conoscenze su ciò che davvero sosteneva Eudosso non sono del tutto esaurienti. Ci restano, più che altro, testimonianze indirette. Ma sicuramente sappiamo che nei millenni intercorsi tra la grande bestia che divora la Luna e le sfere di Eudosso il fondamento della conoscenza sui pianeti è la razionalità matematica, accoppiata alla tenace osservazione dei moti celesti. Anche le più mitiche storie cosmogoniche ci parlano, tutto sommato, di una evoluzione culturale nelle cui trame il mondo dovrebbe essere armonioso e rifuggire dal caos. Molti secoli trascorrono dalle 27 sfere di Eudosso al primo abbozzo che Copernico tracciò, in un manoscritto, del proprio sistema. Vale allora la pena di rileggere le ultime parole di quel manoscritto: «In tal modo, dunque, bastano 34 circoli per spiegare l´intera struttura dell´universo, così come la danza dei pianeti». D´antica data è la modernità.
La Repubblica 10.7.06, pag. 30, sezione COMMENTI
Se la sinistra incontra il pensiero cattolico
di ALDO SCHIAVONEIn che termini si pone oggi il rapporto fra i valori e le idee che orientano la sinistra italiana, e quelli che ispirano il pensiero cattolico più impegnato in senso riformatore? Siamo innanzi a uno scarto destinato ad allargarsi con sempre maggior evidenza, o è realistico lavorare a una sintesi tale da reggere il peso di una formazione politica comune? E in quest' ultima, se nascesse, cosa resterebbe autenticamente di sinistra? Al fondo del dibattito sul partito democratico si agita - più o meno inespresso - anche un serio problema culturale, peraltro affiorato in queste settimane da un' altra prospettiva, in apparenza solo storica ma in realtà tutta politica: quella del tramonto - annunciato come definitivo - del cosiddetto "cattocomunismo" di togliattiana e berlingueriana memoria: un cattivo auspicio per nuovi incontri. Evidentemente, la risposta alle nostre domande dipende anche da cosa intendiamo, dal punto di vista delle persuasioni e delle scelte intellettuali, per "sinistra": identificazione ormai assai nebulosa, che ha dalla sua in molti casi più le ragioni del cuore e della memoria, che non quelle di un' analisi e di un progetto definiti. Ed è una difficoltà spiegata da molti elementi: una congiuntura internazionale culturalmente non favorevole, che dura da decenni, non meno della confusione con cui fu compiuto in Italia, in modo tardivo e affannoso, il superamento della "tradizione comunista". In una simile situazione, a me non pare che vi siano fedeltà da preservare con particolare tenacia. Non ho mai amato la metafora delle "radici", cristiane o socialiste che siano. Le identità moderne sono onde, non alberi; le nutrono il mare e il vento, non la terra: ogni giorno vi si rimette tutto in gioco, e nulla si custodisce, se non nella trasformazione. Dobbiamo saper mescolare le carte del nostro passato: l' unico modo per tenerle davvero in ordine. Non avrei esitazione ad affermare perciò che intorno ad alcune grandi questioni ideali la storia intellettuale europea e italiana - per come comincia ad apparirci, oltre lo schermo delle barriere ideologiche attraverso cui l' avevamo finora interpretata - contenga nuclei di pensiero cattolico e di elaborazioni socialiste che possiamo provare a tenere finalmente insieme entro il medesimo orizzonte. Mi limiterò a due esempi. Il primo riguarda un essenziale punto di principio: la praticabilità e l' attualità di una critica all' ordine capitalistico del mondo. Oggi la Chiesa cattolica mantiene una preziosa finestra aperta in questa direzione - preziosa, perché ci salva dalla dittatura del presente, sotto cui ogni sinistra perde l' anima. La Chiesa può farlo perché il fondamento del suo discorso non è economico, e non presuppone la contraddizione di classe fra capitale e lavoro, ormai resa residuale dalla potenza istituzionalizzata della tecnica (come Marx stesso aveva in qualche modo previsto, ai margini estremi del suo pensiero). Ma si basa piuttosto su un assunto di carattere etico, che critica l' esistente - l' onnipotenza del mercato - in nome di qualcosa che assomiglia - che possiamo sempre più avvicinare - a una morale universale dell' emancipazione umana, che agisce come un dispositivo di contestazione e di speranza. So bene che nell' insegnamento cattolico molto spesso i motivi anticapitalistici si confondono con quelli di una critica pregiudiziale della modernità, e che ciò apre un problema delicato, che arriva sino al rapporto fra storicità e destino. Ma credo che la sinistra debba tornare a guardare senza complessi in questo nodo: il fallimento del comunismo non fa dell' ordine capitalistico la fine della storia. Bisogna ritrovare una misura condivisibile - razionale, ma non solo economica - del mondo. E questa ricerca ha una sua microfisica, che ci coinvolge qui e ora, già nel governo delle nostre città, delle nostre istituzioni, del nostro paese. Il secondo punto, connesso al primo, si riferisce al rapporto fra etica e politica. Devo confessare tutta la mia insofferenza per la polemica sul relativismo che ha riempito le pagine dei nostri giornali. Secondo una deformazione inammissibile, si è presentato il relativismo etico come un frutto avvelenato della sinistra, e si è attribuita la difesa dell' universalità e dell' assoluto al pensiero conservatore guidato dalla tradizione cattolica, dimenticando però che la rivendicazione di diritti universali "naturali" è il cuore dell' illuminismo franco-kantiano con i suoi esiti giacobini, mentre tutta una tradizione conservatrice e storicista, da Herder a Croce, ha sempre difeso il carattere transeunte di ogni costruzione storica, etica compresa (un libro di Zeev Sternhell sull' "anti-illuminismo", appena uscito in Francia, sarebbe un buon esercizio di lettura: la modernità è un ben complesso groviglio). Da un punto di vista cognitivo, l' approccio relativistico e probabilistico è il culmine della scienza moderna, ed è l' unico che aiuta a comprendere la struttura dell' universo, e dunque la sintassi di Dio. Ma quanto più la natura, indagata in modo adeguato, perde il carattere ideologico di regno della certezza e dell' eterno - e dunque quel valore di disciplina e di vincolo che le avevamo attribuito (se è specchio di Dio, ebbene, Dio non è questo) - e presenta come il suo tratto più autentico la propria illimitata manipolabilità da parte della tecnica, tanto più abbiamo bisogno di sostituire in modo persuasivo la sua dileguata funzione normativa ed esemplare. E non possiamo farlo altrimenti che con un' etica centrata intorno al valore universale della specie, e delle infinite potenzialità che essa contiene ed esprime nella storia (un segno di Dio?) attraverso la singolarità e l' eguaglianza delle vite. Insomma, la costruzione di un integrale umanesimo morale, le cui regole siano in grado di orientare, attraverso la politica e il suo progetto, la tecnica e l' economia. Il primato di un rapporto fra etica e politica mai sperimentato finora può diventare il retroterra di un nuovo schieramento. Ma questo richiede un lavoro enorme, che nessuna delle tradizioni oggi in campo può sperare di condurre da sola. Bisogna dunque farsi leggeri, e prendere il volo, insieme.