sabato 9 settembre 2006

Repubblica Commenti 9.9.06
Al di là del socialismo
di Sergio Chiamparino, Sindaco di Torino


Caro direttore, molte persone della sinistra, e fra queste mi colloco anch'io, pensano che occorra puntare a una rappresentanza politica al di là dei confini del socialismo. O, se si vuole, credono che per governare il capitalismo d'oggigiorno occorra fare ricorso a strumenti e forme della politica che non solo non rientrano tra quelli forgiati dalla tradizione socialista, ma esigono sostanziali innovazioni rispetto ad essi. Questa convinzione si nutre, com'è stato messo in risalto da molti interventi nella discussione che si sta sviluppando su Repubblica, della constatazione che la visione imperniata sui valori collettivi propri del socialismo, nelle sue varie determinazioni, e delle culture politiche che sul suo ceppo sono germogliate sia insufficiente per offrire una risposta di governo ai problemi della società contemporanea. Questo non significa affatto non riconoscersi nella grande, per molti versi straordinaria, lezione storica della socialdemocrazia europea, alla cui scuola è cresciuta la migliore sinistra; significa che il nuovo secolo pone domande alla politica cui non si può rispondere restando semplicemente nel solco di quella tradizione. Molti pensano che ciò dipenda in larga misura dal fatto che il sistema di valori cui le nostre società occidentali fanno riferimento siano molto più improntati all´individualismo che all'etica collettiva e della solidarietà predominante nel passato, quando il richiamo della morale socialista era più forte. Dal mio punto di vista la questione non sta in questi termini: anzi, sarei tentato di dire che se così fosse questa potrebbe essere una ragione per ostacolare il progetto. L'individualismo come valore non è da incoraggiare e non è da confondere con l'individuo, con il sistema di libertà e di diritti che lo devono accompagnare.
La scelta a favore del Partito Democratico – di una forma politica, cioè, che si ponga esplicitamente al di là dei confini del socialismo – non dipende quindi da una riscoperta dei valori e dei temi dell'individualismo, ma dalla necessità di configurare una rappresentanza politica corrispondente alla nuova base sociale cui la sinistra deve corrispondere.
Non c'è dubbio che il mio orientamento sia stato plasmato dall'esperienza amministrativa che sto conducendo a Torino negli anni cruciali della sua trasformazione. Forse nessun terreno è cosi propizio, in questa fase, alla sperimentazione politica al pari di una grande area metropolitana. Le aree metropolitane stanno facendo da catalizzatore delle migliori energie e risorse che innervano il cambiamento sociale. Il caso di Torino, in questa prospettiva, è emblematico. Nella geografia storica e politica della sinistra, non a caso Torino esercita una funzione difficilmente sostituibile: chi non ricorda che essa è stata il punto di riferimento delle analisi di Antonio Gramsci sulla città fordista? Ma Torino è stata anche la città del riformismo sindacale, di una tradizione che vede affiancati Angelo Tasca e Bruno Buozzi, oltre che una sorta di modello ideale per la sinistra operaista e conflittuale.
Alla fine del secolo scorso questa importante città industriale e fordista si è trovata costretta ad affrontare una trasformazione completa delle sue basi economiche, pena il rischio di un indifferibile declino. La società torinese doveva differenziarsi e complicarsi. Al posto della monocromia sociale dominante doveva subentrare una struttura sociale più mossa e composita. Insomma, si trattava di sostituire alla città-fabbrica un nuovo modello urbano, più variegato e misto nella sua composizione. Questo sforzo, su cui ha riflettuto di recente Giuseppe Berta (nel suo saggio Torino, Milano e la questione settentrionale, in "il Mulino", n. 4, 2006), mi ha persuaso della necessità di uscire, non solo da un´articolazione del sistema sociale a rischio di impoverire la dialettica economica e civile; ma anche dalla struttura delle forze sociali codificata nel "movimento operaio", in cui pure è avvenuta la mia formazione. Per la semplice ragione che quel modello sociale era pervaso da un senso di appartenenza collettiva che oggi è irriproducibile. Per esempio, essa contemplava, certo, il dialogo con componenti sociali come l´imprenditorialità, ma considerandole esterne a sé.
L'esigenza di un nuovo Partito nasce dunque anche, non secondariamente, dalla necessità di riformulare la forma della rappresentanza politica della società, corrispondendo, aderendo, maggiormente alla sua articolazione, alla sua differenziazione ed a quella del mondo del lavoro. Un partito che consideri "suoi" il lavoro dipendente e quello autonomo, l'operaio e l'imprenditore, il lavoratore della grande impresa e quello dei servizi. Un Partito "moderato" quindi? No. Un partito capace di usare la moderazione per contemperare la radicalità dei valori di riferimento con la realtà come essa è ed, al tempo stesso, di trovare i necessari compromessi fra l'apparente irriducibilità degli interessi a cominciare da quelli individuali. Ed un Partito capace di praticare la radicalità necessaria, sul piano dei diritti delle persone di cui nessun gruppo sociale è portatore esclusivo. Ed, al medesimo tempo, un Partito che obblighi i corpi intermedi della società ad assumere la rappresentanza complessiva dei propri associati, senza deleghe politiche ad alcuno dei propri interessi, capaci di essere sempre portatori di una visione generale, in cui collocare il soddisfacimento delle proprie istanze, di essere soggetti politici e non solo negoziatori. Ed, in quanto tali, di esser portatori oltre alla radicalità fisiologica del conflitto negoziale a quella che può scaturire dal confronto di visioni generali opposte.

il manifesto 9.9.06
INTERVISTA
Il manifesto di Pietro Ingrao
Novecento, il dubbio degli sconfitti
di Gabriele Polo


Intervista all'ex dirigente del Pci che pubblica la sua autobiografia, «Volevo la luna». Dalla critica del leninismo alla crisi della politica. Passando per la radiazione del «manifesto»: «Sbagliai, ma voi non avevate una proposta chiara per un nuovo soggetto politico»

La proposta del manifesto non mi sembrava chiara sul soggetto da mettere in campo. Per questo commisi l'errore di votarne la radiazione
«Volevo la luna», ardenti vicende e tormentati ricordi che intrecciano la storia personale con l'esperienza collettiva del comunismo italiano. L'autobiografia di un protagonista della politica italiana «Noi siamo stati sconfitti, ma abbiamo vissuto un'esperienza straordinaria. Oggi, a volte, l'orizzonte della politica mi sembra diventato più piccolo e angusto»

Guardarsi alle spalle per riflettere su una vita intensamente politica, per raccontare le virtù di un mondo ma soprattutto e impietosamente i suoi «peccati», gli errori. In una confessione pubblica che non cerca assoluzioni ma ragioni. Pietro Ingrao manda in libreria Volevo la luna (Einaudi, pp. 376, euro 18,50) più che un'autobiografia un percorso di ricerca in cui racconta se stesso «come parte di un soggetto che si sentiva protagonista del mondo e del suo cambiamento». Il soggetto è il movimento comunista - meglio, il comunismo italiano - che è il centro di tutta la narrazione. Con i suoi problemi aperti.
Il ripensamento autocritico è il filo conduttore di tutto il libro. Cosa hai voluto trasmettere con questo tuo lavoro?
La sensazione molto netta di una sconfitta di cui mi convinco alla fine degli anni Settanta, con la necessità di ragionare a fondo sulla nostra storia e sulla realtà, per riaggiornare le nostre categorie e riflettere sul soggetto politico. Dovevamo ridisegnare le nostre «mappe».
Vuoi dire che soltanto nelle sconfitte si può arrivare a scorgere le verità e a poterle dichiarare?
E' un'affermazione troppo secca, anche se forse per alcuni è così. Per me c'era il farsi strada della convinzione netta di una sconfitta concreta e drammatica. Pensa a che colpo fu per noi l'occupazione sovietica di Praga del 1968 che poneva fine a un tentativo di rinnovamento democratico del socialismo che noi in Italia sostenevamo. Tutto il nostro mondo era in subbuglio da tempo e noi eravamo un po' fermi nell'elaborazione. Con il '68-69, soprattutto in Italia, viene messo in discussione il concetto di rappresentanza - per quanto riguarda il sindacato nei metalmeccanici il processo è addirittura travolgente - e da lì sorge in me una domanda che riguarda l'agire politico in generale. Non solo cosa fa il Partito comunista italiano o cos'è l'Unione sovietica, ma proprio che cos'è la politica, più nel profondo la convinzione che il soggetto rivoluzionario sia, come scrivo nel libro, «un farsi del molteplice, l'incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto». E' qualcosa di più di una critica da sinistra dello stalinismo.
Il '68-69 sembrava essere una grande occasione che non annunciava nessuna sconfitta, anzi. Perché questa «occasione» non è stata colta dal Pci e, per esempio, non ti ha impedito di commettere - le parole sono le tue - un errore grave come la radiazione del gruppo del manifesto? Perché ha prevalso il primato della fedeltà all'organizzazione?
Perché io non credo al minoritarismo. Con i compagni del manifesto c'era e c'è sempre stato un grande rapporto di solidarietà e amicizia, ma mi è parso che non ci fosse da parte loro una proposta valida sul tema del soggetto politico. Mi ricordo le discussioni con loro. Io conoscevo bene il Pci e avevo detto a loro: «Vi mettono fuori». Ma entrando più nel merito non trovavo in quella che facevano una proposta chiara sul soggetto da mettere in campo. Purtroppo, per parte mia, commisi l'errore pesante e assurdo di votare la loro radiazione. Questo limite nella costruzione di un nuovo soggetto poltico l'ho poi ritrovata in voi del manifesto, compresa l'esperienza che ho vissuto nella Rivista degli anni '90. Un minoritarisimo di testimonianza che non mi ha mai persuaso.
Quindi la tua autocritica è essenzialmente etica, come di fronte a un peccato...
No, non faccio valutazioni morali. Fu un doppio errore, il mio. Il primo senza dubbio umano, abbandonavo i miei amici. Soprattutto la radiazione fu una scelta politicamente stupida, non apriva una discussione positiva, non faceva avanzare la coscienza comune valutando e comprendendo le ragioni del dissenso in campo.
Però allora ci fu una grande discussione nel Partito comunista, in tutte le federazioni, gli atti furono pubblicati...
Ma era già tutto stabilito dall'inizio, quella discussione fu solo una formalizzazione di una decisione già presa. Invece bisognava usare quella frattura per misurarsi con la crisi del leninismo. Tale era il nodo da affrontare.
A proposito di leninismo, sempre nel passaggio sul manifesto, tu parli di fare i conti «con il suo doloroso tramonto». Quel «doloroso» sembra quasi un lamento, come a dire che bisogna ammettere quel fallimento ma che si è in presenza di un'assenza di alternative, di fronte a un vuoto.
Dire che non c'era alternativa è troppo povero e alla fine inutile: ma sicuramente il cibo di cui ci eravamo nutriti non era più utilizzabile. Tutti sapevamo che nell'Urss non c'erano più interlocutori. Ma il vuoto di cui tu parli è più forte proprio in assenza di una riflessione sulla necessità di creare un nuovo soggetto che sia frutto della «molteplicità» di cui parlavo prima.
Il «molteplice» prevede un grande senso della democrazia non solo come serie di regole da rispettare, ma soprattutto come pratica, a partire dal rispetto del dissenso. Era proprio così impossibile, prima degli anni '70, permettere la manifestazione del dissenso fuori da ristretti gruppi dirigenti?
Di fatto è stato così. Chi dissentiva la pagava duramente, fino a metodi polizieschi, soprattutto nella vecchia guardia. Come scrivo nel mio libro erano tempi difficili...
Tempi difficili ma molto «pieni». Oggi magari sono più facili ma forse ti appaiono più «vuoti».
La domanda è provocatoria perché si potrebbe accusare un vecchio come me di nostalgia per la sua gioventù. Io però non voglio cancellare un grande fatto che ha segnato l'Italia: noi siamo stati sconfitti, ma abbiamo vissuto una stagione straordinaria, che ha fatto crescere un'esperienza di milioni di persone che hanno fatto politica cambiando il paese, democratizzandolo. E, poi, il nostro orizzonte non guardava solo all'Italia: eravamo parte di un «mondo» e di una pratica collettiva alta e vitale in tante parti del pianeta. Quando sono andato in Vietnam e sono sceso nelle città sotterranee costruite per sfuggire ai bombardamenti americani, io in quei cunicoli bui divisi da muri di fango mi sentivo in uno spazio aperto e illuminato da una lotta creativa. Oggi, a volte, l'orizzonte della politica mi sembra diventato più piccolo e angusto.
Ma allora il tuo dirti comunista ancor oggi, nonostante la sconfitta, gli errori e le autocritiche, è legato più a questo passato che all'oggi?
Noi - quelli della mia generazione - non siamo riusciti a trovare la risposta alla crisi indiscutibile del leninismo-stalinismo. E, prima di tutto per questo, siamo degli sconfitti. Però, da un lato in questo paese ci sono state milioni di persone che sono cresciute anche culturalmente nella lotta politica e che sono state una parte decisiva dell'esperienza democratica italiana; d'altro canto oggi continuo a vedere milioni di oppressi nei drammatici mutamenti della globalizzazione. E, poi, vediamo il riemergere apologetico della guerra come realtà pressante e distruttiva che dilaga nel mondo, mentre è stata cancellata dal vocabolario la parola disarmo: non c'è più nessuno che la pronunci, nemmeno voi sul manifesto. Non ti sembrano buoni motivi per continuare a dirsi comunisti e a lavorare per la costruzione di un soggetto politico su scala necessariamente internazionale?
Scusa la digressione: tu hai ammesso nel tuo libro gli errori che hai fatto rispetto al gruppo del manifesto. Quali errori commette oggi il manifesto nei confronti dei suoi lettori e della sinistra?
Ma perché mi fai questa domanda?
Perché ci interessa l'opinione di un lettore importante che è stato anche direttore di un giornale politico.
Va bene. Allora diciamo che a volte - scusa l'impertinenza - sembrate una setta aristocratica. E lo dico con tutto l'affetto possibile e l'interesse per quello che scrivete.
Torniamo al libro, al suo titolo, «Volevo la luna». La senti più lontana o più vicina di un tempo quella luna, metafora di un mondo diverso?
Ti ripeto che questo è un libro che racconta una sconfitta...
Ma non pensi che questa tua ricerca lunga una vita sia stata in qualche modo utile e fruttuosa?
Per gli altri non spetta a me dire. Per me sicuramente è stata utile e fruttuosa. La passione politica mi ha fatto capire il mondo ed è diventata un pane necessario. La «luna» mi sembra ora un po' più distante: non rispetto all'inizio del mio percorso, ma negli ultimi anni mi pare essersi un pochino allontanata. Io sono arrivato alla politica sotto la spinta di una necessità. Come tanti altri della mia generazione e della mia estrazione sociale avrei voluto fare altre cose - il cinema, per esempio. Poi sono stato spinto dagli eventi, a calci nel sedere; e la guerra civile spagnola è stato il momento di passaggio che mi ha trascinato nella lotta politica. Da lì è cominciato un cammino che mi ha riempito di cose straordinarie, che mi ha fatto uscire dal guscio dell'individualismo entrando in comunicazione con milioni di esseri umani. Questa è stata l'esperienza dei comunisti italiani. Però è andata in crisi la forma che ha storicamente assunto il soggetto politico. Questo oggi mi sembra pesante, persino doloroso, perché non vedo una risposta all'altezza degli eventi che sono maturati. La mia generazione ha pagato il prezzo di una forma restrittiva della molteplicità (ricordi il mio discorso di prima?) dell'attore politico. Qui è l'enorme, straordinario campo dell'innovazione. Il senso del mio libro, alla fine, si riduce tutto nel fornire il mio piccolo ragionamento per questa grande e nuova ricerca.

il manifesto 9.9.06
La vita di chi «Voleva la luna»


Una scelta di vita racchiusa in un 370 densissime pagine. L'esperienza, in una felice armonia tra pubblico e privato, è quella di Pietro Ingrao e il libro è Volevo la luna (Einaudi, euro 18,50). Un libro in cui il dirigente del Pci, l'ex-presidente della Camera ripercorre la sua militanza nel Pci, la lenta formazione di un'attitudine al dubbio maturata in una aspra militanza comunista. Un pezzo di storia del Novecento raccontata da chi, appunto, «voleva la luna». Ingrao, nel volume, guarda alla storia che ha alle spalle con sguardo impetoso. L'educazione sentimentale a Lenola, paese abbarbicato su uno dei «mammelloni» che diradano verso il mare di Sperlonga e Fondi. L'università a Roma, la scelta antifascista, l'entrata nel Pci, la tanto discussa scelta di partecipare alle organizzazioni fasciste per minare all'interno il regime mussoliniano. E poi la clandestinità, la lotta partigiana in città, infine la militanza nel Pci. Giornalista dell'Unità, funzionario di partito, il rapporto complesso con Palmiro Togliatti. Infine, le scelte difficili attorno all'invasione sovietica dell'Ungheria e la pubblicazione del rapporto Kruscev sull'operato di Stalin. Ed è su questo crinale che matura quell'attitudine al dubbio che segnerà, in seguito, la sua vita di militante. Attitudine al dubbio che emerge anche nei ricordi personali. Il rapporto con l'amata Laura, i suoi figli e figlie, gli adorati fratello e sorelle, gli amatissimi nipoti. Pietro Ingrao non si sottrae di fronte ai nodi irrisolti della storia del Pci di una vita «privata» così intrecciata con quella pubblica. E dunque l'XI congresso e la sconfitta politica degli «ingraiani». Una carrellata di ricordi, di rielaborazioni che giunge fino al Sessantotto, alla radiazione de gruppo del manifesto e oltre. Fino a quando il suo partito propone il compromesso storico. E dunque Berlinguer, la stagione dell'unità nazionale e della lotta armata, verso la quale Ingrao non nasconde il dissenso. E poi gli anni della controrivoluzione liberista vista dal punto prospettico di un'anomalia italiana che vuol cessare di essere tale. Ma anche il grande amore per la poesia, dove emerge con forza la passione intelletuale di chi, una sera d'estate, ama discutere fino a notte fonda di Montale, Ungheretti e Leopardi. Un libro che si consegna ai lettori per quello che è. Non una autobiografia, né un libro di memorie, bensì il prodotto di una pratica politica perché letteraria, una pratica letteraria perché politica. Fino a quando l'esercizio del dubbio non cancella quell'imprinting iniziale di «volere la luna».

Repubblica Almanacco 9.9.06
Chimere dal nulla spiegate da Emo
di Franco Volpi


Recensione a: “Quaderni di metafisica. 1927-1981” di Andrea Emo (Bompiani 2006)

Nell’agiata solitudine della sua biblioteca, dal profondo della campagna veneta, Andrea Emo deve aver fatto più volte questo pensiero: se il modo non si impegna in un’avventura metafisica, tutto è banale.
Giorno dopo giorno, per oltre cinquant’anni il filosofo “serenissimo” – così lo apostrofavano gli amici – ha tratto da quel pensiero l’ispirazione per annotare questi folti Quaderni di metafisica. Nel corso delle sue isolate meditazioni deve averlo accompagnato anche un’altra convinzione, tipica dei pensatori di razza: a volte il metodo migliore per avanzare è girare intorno allo stesso punto. E così, per pagine e pagine, lo vediamo trattare con martellante insistenza la problematica del Principio, dell’Essere e del Pensiero: inizialmente da allievo di Giovanni Gentile, che in questi quaderni però è citato una sola volta, poi radicalizzandola fino a rovesciarla in un pensiero del Nulla e della Negatività.
In che modo va concepito il Principio perché sia davvero tale? Come Essere o come Pensiero? Oppure come entrambi? E in tal caso, il Principio è perché pensa, oppure pensa perché è? Ovvero, precedendo sia l’essere sia il pensiero, non è né l’uno né l’altro? E allora come concepirlo? Come negazione di ogni determinazione? Come Nulla? E rispetto a tutto ciò, noi chi siamo? «Noi discendiamo nel Nulla, ci ribattezziamo nel Nulla», constata drasticamente Emo.
Davanti a sé, “luminosa come il marmo”, deve aver avuto la sentenza di Leopardi: «il principio di tutte le cose e di Dio stesso è il Nulla». E forse anche quella di Leonardo:«Infralle cose grandi che tra noi si trovano, l’essere del Nulla è grandissima». Altezze vertiginose, in cui uno si perde. Non Emo, che commenta con autoironia: la metafisica è un concentrato di chimere che il filosofo-cacciatore insegue. Chimere, però, che val la pena di sognare.

Repubblica Almanacco 9.9.06
Quando la filosofia diventa balsamo
di Massimiliano Panarari


Recensione a “La filosofia può curare? Luci e ombre della consulenza filosofica” di Pier Aldo Rovatti (Raffaello Cortina 2006)

Può la filosofia lenire il malessere dell’anima e i tormenti della vita? E’ questa la motivazione da cui muove la consulenza filosofica, la quale, tra singoli, aziende e laureati aspiranti a farne una professione, sta diventando anche in Italia un fenomeno sempre più significativo. A riflettere sulle molteplici e contraddittorie valenze della neonata disciplina nel suo La filosofia può curare? è Pier Aldo Rovatti (professore di Filosofia contemporanea a Trieste). Un esercizio filosofico intorno alla consulenza filosofica, intriso di spirito critico, ma senza nessuna avversione pregiudiziale e, anzi, con un dichiarato interesse simpatetico, a patto di scongiurare il rischio deleterio di una banalizzazione della filosofia.
Rovatti (già collaboratore del padre dell’antipsichiatria italiana, Franco Basaglia, stigmatizza la cultura e la società forzatamente terapeutiche nelle quali siamo immersi, e scrive un manifesto foucaultiano contro quella vera e propria “Ideologia angloamericana” che vede l’uomo, sempre e comunque, come un malato psichico. Compiti della filosofia sono, dunque, ancora una volta, il disvelamento e la lotta. Solamente una consulenza filosofica allevata alle armi della critica e alla scuola del sospetto (e non il pallido e inoffensivo counseling adottato dalle leadership aziendali) può avere un senso e risultare benefica. Assumendo le nozioni di “spaesamento” e di “rischio” non quali malattie, ma come la (paradossale) cura, essa diventa così capace di combattere la sorveglianza normalizzatrice istituita dai tanti poteri ordinatori per sterilizzare la critica dell’esistente.
Un piccolo libro coraggioso, sotto il segno di Socrate, contro i dispositivi disciplinari e soffocanti della cultura economicistica e dell’università odierna, con il ritmo di quella “respirazione-contro” che è la politica, e l’anima, del fare filosofia.

Libertà 9.9.06
Bellocchio: «Venezia? Un mare piatto»
Il regista piacentino, premiato col "Bianchi", non perde la vis polemica
di Daniela Bisogni


Venezia. Ieri alla Mostra di Venezia Marco Bellocchio ha ricevuto il Premio Pietro Bianchi 2006 da parte del Sindacato giornalisti cinematografici, un riconoscimento in passato assegnato a personalità del cinema come Loren, Sordi, Risi, Antonioni e tanti altri. Il regista piacentino era accompagnato da un affollato seguito, tra gli altri anche la sua compagna Francesca Calvelli e un gruppo di studenti della scuola di cinema di Bobbio.Con l'ironia che lo distingue ha commentato: «Come ne Il regista di matrimoni c'è chi muore e chi apprezza i premi, io apprezzo, ma non bisogna morire per i premi». Con lui a Venezia anche il suo attore di riferimento, Gianni Schicchi: «Sono venuto per rendergli omaggio e giustizia, visto che gli italiani si sono decisi a dargli un premio solo dopo i tre Globi d'oro della Stampa estera (miglior film, miglior attrice e migliore fotografia, ndr)». L'attore piacentino ha appena ricevuto un premio per 60 anni di carriera, lui che ne ha 67: «Mi ha fatto far la pace con me stesso. Io non ho mai cominciato a fare cinema e non ho mai finito, cioè voglio continuare ad esternare nella mia vita momenti di cinema. E quando mi sono esibito, su richiesta, dopo aver ricevuto il premio, mi hanno detto che so tenere ancora bene il palcoscenico».
Bellocchio ha così motivato la scelta de Il diavolo in corpo, proiettato dopo la premiazione: «Rappresenta la metà del mio lavoro, a 20 anni da I pugni in tasca, una ripartenza cui seguirono altri due film: La visione del sabba e La condanna. Diavolo in corpo è molto coerente con il mio lavoro, anche l'immagine della fellatio, come pure l'invito a Massimo Fagioli a venire a collaborare sul set. Mi trascinarono in tribunale, cercarono di interdirmi, dissero che fui plagiato. L'associazione degli autori, l'Anac e Francesco Maselli mi difese invocando il diritto d'autore».
Quale fu il problema?
«Ci furono tre fasi: la prima di sceneggiatura, che passò inosservata, poi ci fu la fase delle riprese in cui la guerra con Leo (Pescarolo, il produttore, ndr) si fermò. Poi ci furono gli avvocati, i processi e Pescarolo cercò di intervenire sul film, rimontando alcune scene. Il montatore fu leale con me, me lo disse, rivelandomi anche che vennero alle mani, ma questo faceva parte di un vecchio cinema».
Che accoglienza ebbe il film?
«Il film andò molto bene in Italia e in Francia e fu venduto in molti Paesi. In questo contribuirono lo scandalo e la censura. Quando andammo a far vedere il film in commissione censura, a Roma, in via Ferratella, oscurammo la scena della fellatio, che invece poi fu visibile per il pubblico. Una cosa all'italiana. Pescarolo era un vero produttore, vecchio stile, rischiava in proprio, la mia stima è rimasta immutata».
Con quel film manifestò un'attenzione nuova per l'universo femminile?
«Rinnovavo uno sguardo, anche un nuovo interesse per l'immagine femminile. Si può parlare di donne in tanti modi, anche in modo allusivo, sfuggente».
Ultimamente è cambiato anche il suo rapporto con la stampa?
«Per me è importante essere sinceri, invece in giro vedo molte difese...parlo del cinema in generale, vorrei conoscere meglio la verità».
Come è nato il film «Diavolo in corpo»?
«Venivo da Enrico IV che è un film meta-cinematografico e cercavo un progetto a rischio, anche se allora non sapevo quanto fosse a rischio. La scelta di Maruschka Detmers è stata casuale; guardando un film francese con Jane Birkin ho detto: «E' meglio "l'altra", per il ruolo naturalmente!».
Come vede il cinema italiano?
«Nel cinema italiano vedo poco il rischio, non parlo del rischio dell'ardito fascista che va incontro al nemico. Ma vedo piattezza, il mare piatto, come qui a Venezia, che è la cosa più pericolosa».
Che progetti ha per i cortometraggi realizzati a Bobbio e intitolati "Sorelle"?
«Non vorrei parlare di questo, ancora non è chiara la destinazione».
Rivela Schicchi: «Si tratta di quattro cortometraggi, protagonisti suo figlio Piergiorgio e Donatella Finocchiaro. Sono girati con la collaborazione degli allievi della Scuola di cinema di Bobbio, ognuno secondo le sue inclinazioni, più, ovviamente, i collaboratori di sempre di Marco, che sta pensando alla realizzazione di un film intero tratto dai cortometraggi».
Pensa di voler dare maggiore impulso al Bobbio Film Fest, dove recentemente sono venuti alcuni ospiti prestigiosi?
Bellocchio: «Il problema è legato alla mancanza di tempo; io ho già detto che ci vorrebbe un valido collaboratore?».
Come sta andando «Il regista di matrimoni», film che è stato anche venduto in molti Paesi?
«Sta circolando in vari festival internazionali, prossimamente sarà proiettato al Festival di Londra, New York, Montreal, ma io non lo seguo molto».
Perché?
«Quando si ha una certa età bisogna fare economia di tempo. Devo stare a casa a scrivere».

l’Unità 9.9.06
LE REAZIONI
Le memorie di Ingrao agitano il Manifesto
Quelli del Manifesto: «L’autocritica di Ingrao? Utile, ma se ci avesse pensato prima...»
di Bruno Gravagnuolo


Parlano alcuni esponenti del gruppo radiato dal Pci nel 1969 con il voto favorevole di allora dell’esponente comunista: Lucio Magri, Aldo Natoli e Luciana Castellina

Dunque Ingrao colpisce ancora e lascia il segno. E nelle pagine della sua autobiografia Einaudi (Volevo la Luna, in libreria il 12 settembre) sugli anni dal 1966 al 1969 rimette in questione tutta la sua condotta politica dentro il Pci. Due le autoaccuse. Aver piegato la testa dopo l’XI Congresso - quello del «non sarei sincero...» - e non aver imbracciato una vera lotta di «frazione», contro il «centro» di Longo e la destra amendoliana. E poi l’altra, bruciante ancor di più: aver tradito in seguito i suoi compagni di lotta del Manifesto.
Votando a favore della radiazione del gruppo dissidente: Rossana, Magri, Natoli, Parlato, Castellina (gli ultimi due radiati dalle rispettive sezioni e non direttamente dal Cc). «Un’azione assurda- così scrive Ingrao - perché nulla mi costringeva a quel gesto di capitolazione e si può dire di tradimento verso quei mie antichi compagni di lotta». Non basta. Poiché più in là l’autore parla addirittura di «viltà in cui mi associavo alla punizione dei miei compagni stretti di lotta», nell’illusione di potere salvare «quel mio partito», senza fare i conti sino in fondo con «gli errori e i limiti gravi del leninismo».
Parole pesanti, mai prima d’ora pronunciate e scritte così da Ingrao, ma ritagliate sullo sfondo di un’analisi più vasta: l’irrompere del neocapitalismo negli anni 60 e le possibilità di un’altra via, oltre gli assetti economici di allora. Sulle spalle di nuove lotte di massa, e di una nuova generazione di protagonisti sociali.
Come reagiscono oggi i reprobi di allora? Che pensano di questa crudele autocritica ingraiana a loro favore? Reazioni miste, dove si mescolano soddisfazione, stupore, malinconia e anche un po’ di rabbia.
Un po’ perplesso sulle prime Lucio Magri, «coautore» con Ingrao del famoso intervento all’XI congresso: « Ovviamente apprezzo molto quanto Pietro dice oggi, specie per la nettezza. E vorrei anche capire se il giudizio di Ingrao verte sul metodo o pittosto sui contenuti politici. Però intanto noi ingraiani non eravamo una frazione, affermazione che potrebbe dare argomenti postumi a quelli che ci radiarono. Eravamo una corrente d’opinione a fisarmonica. Con adesioni fluttuanti. Alcuni più decisi, altri meno. Volevamo spostare a sinistra il partito. Rinnovarlo in senso libertario da sinistra e inserirci nella grande crisi capitalistica di quegli anni». Trapela un timore in Magri. Che la critica di Ingrao finisca senza volerlo col mischiarsi con quelle di quanti vogliono liquidare in blocco il movimento comunista: «Ma voglio leggere con attenzione quel che scrive Ingrao, prima di dare un giudizio preciso...». Sì, ma cos’era Il Manifesto? «Un gruppo elastico che poi divenne rivista politica e frazione, ma solo dopo. Dopo che i sovietici ci attaccarono e dopo che nel Pci ci intimarono di tacere come corrente». Volevate uscire dal capitalismo?« Detta così è generica. Volevamo costruire un blocco sociale più ampio e combattivo, spostare i rapporti di forza. Indicare una prospettiva di alternativa oltre il capitalismo, anche se con molti abbagli, come quello sulla rivoluzione culturale cinese. Non aver fatto tutto questo ha significato il declino per il Pci, dal quale in realtà non intendevamo affatto uscire. E ha significato alla fine un epilogo triste: un Pds e poi un partito Ds che non è più nemmeno socialdemocratico. Almeno l’autocritica di Ingrao ci aiuta oggi a riprendere un filo...».
Più secco e sbrigativo Aldo Natoli, punito dopo l’XI Congresso con l’estromissione dalla sezione organizzazione. «È facile dire certe cose oggi - afferma - ma è tardi. L’errore di Ingrao fu gravissimo e irreparabile, viste le conseguenze, cioè la fine di una sinistra di massa. Non c’è dubbio, lì, in quell’errore, è la radice della sconfitta. Si rinunciò a fare di una corrente un vero gruppo organizzato capace di rilanciare il tema del superamento del capitalismo. Oggi invece dobbiamo ricominciare tutto daccapo. La non violenza di Ingrao? Astratta, un’elusione dei problemi. Forza e consenso sono inseparabili nella politica come insegna già Gramsci».
Ecco Luciana Castellina: «Fondamentale l’autocritica di Ingrao, benché in parte già nota. Ma anche noi scontavamo dei limiti. Sopravvalutavamo l’avversario, la sua capacità di rigenerarsi in società. Eppure quel Pci poteva ben rappresentare un’altra idea di comunismo, se Ingrao ci avesse davvero provato...».
E al manifesto quotidiano? Ieri non c’era traccia del libro di Ingrao (buco? disguido?). E interpellato Valentino Parlato dichiara di «non aver la volontà», per ora, di commentare Ingrao. Oggi sul giornale intervista del direttrore Gabriele Polo a Ingrao. Aspettando il giudizio di Rossana Rossanda...

Corriere della Sera 9.9.06
«Belle Toujours»
De Oliveira: salvato dalle donne
Il maestro 97enne racconta le sue passioni (e 66 anni di matrimonio)
di Maurizio Porro


VENEZIA - Arriva de Oliveira, ha 97 anni fino al prossimo 12 dicembre, è il più vecchio regista su piazza e mai venuto al Festival. Quindi standing ovation e sei minuti e mezzo di applausi, la gente è felice di ritrovarlo in gran forma, baci e abbracci da Bertinotti sulla passerella rossa, tutti a sbirciare se finalmente è invecchiato. Macché, potrebbe sempre farsi un forte sconto sull' età. E la domanda è d'obbligo: l'elisir, il segreto? «Le donne - dice, ma non con malizia - Io e Buñuel siamo stati salvati dalla fiducia nelle donne: io sono sposato da 66 anni con la 88enne Isabelle». Accompagnato dal nipote attore Ricardo Trepa, il maestro portoghese racconta come, quando e perché ha girato questo magnifico Belle toujours, già nelle sale italiane, come un omaggio a Buñuel e allo sceneggiatore Jean Claude Carrière. «Perché Buñuel è oggi dimenticato, ma la sua cattiveria nel guardare il mondo, le bugie, il terrorismo, la perversità, sono cose di tutti i giorni. Lui non aveva fiducia negli uomini ma rispetto per il Mistero». Manoel parla e ricorda, segue un suo filo di memoria, cita Gesù, cavalca il tempo. Nel suo film Husson (sempre un magnifico Piccoli, che beve nella prima parte e mangia nella seconda) ricerca la sua bella ma invecchiata Severine che lo sfugge: le deve un segreto. Ricordate la scatola misteriosa del primo film? Qui la aprono e si sente un ronzìo. Zanzare? Tutto lì, il mistero? «No, non si sa, ma non c'è dentro nulla: il segreto della vita nessuno lo conosce». Bulle Ogier, attrice di Rohmer, nuova Belle de jour, all' ultimo non è venuta. Magari non voleva trovarsi fianco a fianco con l'altra «belle de jour» Catherine Deneuve, presidente della giuria veneziana, che ha rifiutato la parte. Non si sa perché: «Chiedetelo a lei - risponde ironico - ma io volevo resuscitare solo i personaggi. Agli attori lascio libertà: è lei che s'è inventata di dimenticare la borsetta alla fine ed è a Piccoli che è venuta l'idea di aprirla e di prendere i soldi». Nel film di grazia assoluta e di finta semplicità, Severine e il sadico Husson si ritrovano a cena a lume di candela: «Ma sono passati 38 anni e quindi hanno vissuto e possono giudicare se stessi e gli errori della propria giovinezza, la cui felicità si percepisce soltanto dopo averla perduta per sempre». De Oliveira (nella notte Ghezzi lo omaggia su Raitre) segue i comandamenti di Buñuel, che in realtà non ha mai conosciuto: «Ma qualche anno fa in Messico ho incontrato suo figlio e con lui abbiamo parlato molto. Luis, come me, pensava che certe cose non andassero fatte vedere al cinema, perché sono private, mai filmato un atto sessuale. Il mio film è un omaggio al suo genio, tanto che alla fine ho fatto apparire un gallo, idea che ho preso a prestito da lui». Sono 50 anni che Manoel viene alla Mostra di Venezia e ogni volta si ripete il rito: due anni fa il Leone alla carriera tra un film e l'altro, Film parlato e Il quinto impero, nessuno pensa che sia l' ultimo: ora progetta un'idea su uno scrittore portoghese. «Venezia è un luogo dove si privilegia la qualità del cinema, non la sua mondanità, anche se tutto cambia e quindi anche i film, che rimangono però sempre strumento di comprensione, tolleranza, democrazia. Per questo non mi piace gareggiare coi colleghi: non siamo a un incontro di boxe, siamo tutti diversi». Con Monicelli, con cui avrà sabato mattina un incontro ravvicinato, quasi 200 anni in due, condivide l'avversione per il termine Maestro: «Perché non lo sono, sono un grande allievo e continuo ad imparare ogni volta».
GLI STUDI Manoel Candida Pinto de Oliveira è nato a Oporto il 12 dicembre 1908, terzo figlio di un industriale. Studiò in Galizia presso i Gesuiti.
GLI HOBBY A vent' anni si dette all' automobilismo, partecipando a gare fino al 1940. E nel decennio successivo, si interessò di viticoltura.
CONFRONTI IL FILM DI IERI Bella di giorno ('67) è stato lo scandaloso successo di Bunuel, Leone d'oro a Venezia raccontando le nevrosi d'una moglie borghese che si prostituisce liberando sogni e fantasie sadomaso. Pasoliniana la morale: il sesso è in ostaggio della società repressiva. Un cliente ha una scatola del mistero, che conterrà? IL FILM DI OGGI Belle toujours riprende due personaggi scritti da Carrière (Sevèrine e il perfido amante Husson) e li fa incontrare nella Parigi di oggi. Cena a lume di candela per ritrovare il tempo perduto, ma non vengono svelati misteri. Conclusione bunueliana con una gallina , evocazione che ciascuno fa sua. Immagini fisse, potere invasivo d'artista. (m. po.)

venerdì 8 settembre 2006

l’Unità 8.9.06
Dall'autobiografia del leader, in uscita per Einaudi, anticipiamo due brani: l’autocritica per non aver portato alle estreme conseguenze la sua battaglia nel Pci e il rendiconto sui «Littoriali»
di Pietro Ingrao


Lo scontro nel partito si dilatò nell’ottobre del ’64, quando avevamo appena seppellito la salma di Togliatti. E scese in campo Amendola sostenendo che erano ormai superate sia la via sovietica, sia quella socialdemocratica, e ponendo l’obiettivo di un partito unico della sinistra. A me e ad alcuni fra noi - pure favorevoli da sempre a una unità d’azione con i socialisti - quel discorso parve un ripudio della connotazione comunista e - concretamente - una marcata svolta a destra.
Subito la polemica infuriò nel partito e nei gruppi di intellettuali a noi vicini. Romano Ledda, un giovanissimo che dirigeva allora Rinascita, accusò Amendola di cedimento. E presto si delineò una spaccatura aspra fra una destra e una sinistra, che mi chiamò a una difficile funzione di leader.
Purtroppo in quel partito - per tanti aspetti nuovo rispetto ai grandi modelli dell’Est - il confronto aperto, l’esplicitazione del dissenso erano ancora eventi visti con allarme: giudicati pericolosi e colpiti da pesanti scomuniche. Presto la sinistra cosiddetta «ingraiana» fu oggetto di un attacco duro. E Amendola, quando attaccava, non era dolce. Ricordo come fosse ora un incontro fra noi due nella grande sala del Comitato centrale: sulla porta, prima dell’inizio della seduta. E Giorgio, rosso di collera, che mi annunciava repliche pesanti e punitive se non mi ritiravo dalle mie posizioni. Gli risposi con una parolaccia.
Longo, che era il nuovo segretario, parve in principio porsi fuori dalla mischia: anzi ad aprile scrisse per Rinascita un articolo che ci parve di apertura al dialogo. Presto però mutò posizione e si schierò al fianco di Amendola. Tanti anni dopo - quando si era ormai ritirato nella sua casa di Genzano, in grave sofferenza, e io andavo periodicamente a incontrarlo - un giorno mi disse (senza che io gli avessi posto domande), riferendosi a quel tempo così duro: «Mi avevano fatto credere che tu volessi diventare segretario». Gli risposi con la frase di rito: «Erano tempi difficili...»
Allora quel conflitto interno, che era sembrato a un certo punto placarsi, riprese più violento nel Comitato centrale del settembre del ’65. E infine esplose all’XI congresso del partito, che si aprì nel Palazzo dell’Eur il 25 gennaio del ’66. Ormai gli ingraiani erano considerati chiaramente una frazione, e fummo presentati dagli «amendoliani» come una pericolosa eresia, quasi come un tradimento. Ed era vero che eravamo ormai una «frazione»: quel nome così usato - per aderire o maledire - nel vocabolario universale del movimento comunista.
Ricordo nitidamente il giorno in cui preparammo, nella mia casa di via Balzani, l’intervento che avrei pronunciato al congresso l’indomani. Era con me Lucio Magri, un compagno di grande valore, che mi era strettamente vicino in quella lotta. Lavorammo insieme a stendere quel mio testo, pesando con cura ogni parola. Terminammo di lavorare insieme alle due di notte, e io ero convinto che all’angolo della strada di casa mia ci fosse un compagno della cosiddetta «vigilanza» a controllare chi in quell’ora veniva da me: come in funzione di poliziotto di Botteghe Oscure. Non era così: era un’assoluta stupidaggine la mia. Lo ricordo solo a memoria delle tensioni e anche delle convinzioni sbagliate che in quei giorni drammatici giravano nella mia testa.
Dormii poche ore: di primissima mattina mi recai all’Eur, per far leggere a Longo il testo del mio intervento. Longo lesse e non fece obiezioni. Seppi dopo che - parlando con gli amendoliani - aveva detto loro: si rimangia tutto. E si sbagliava.
Intervenni verso la fine della mattinata: c’era un silenzio assoluto nella sala. Mentre parlavo avvertivo quasi materialmente il filo della comunicazione.
Alla fine del mio discorso direi che tutta quella massa di compagni scattò in piedi nell’applauso: e furono per me minuti indimenticabili. Nella tribuna della presidenza invece tutti i presenti rimasero assolutamente immoti sulla loro sedia: molti con le mani ostentatamente ferme sulle ginocchia. Non mi turbai: vivevo l’emozione di quel consenso del popolo comunista, e quando salii in macchina per il ritorno a casa ero ormai tranquillo e disteso. Mi accadeva sempre così: l’ansia grande alla vigilia della prova, e poi la calma quando mi trovavo nella mischia.
In macchina avevo al mio fianco Laura, che mi teneva la mano, e mia figlia Celeste. Feci una strigliata ala fanciulla eccitata da quel clamore che aveva visto esplodere, e naturalmente scambiai qualche breve parola di commento con mia moglie, che mi poneva alcune domande sugli sviluppi possibili: e non era proprio ottimista. Come volesse dire: «So quello che ci aspetta». A casa mangiai in fretta un boccone e presto ripartii per l’Eur, dove nella commissione politica mi attendeva la tempesta.
La riunione si aprì con un attacco aspro di Franco Calamandrei, che non mi aspettavo. Poi seguirono a valanga gli altri, quasi tutti per condannare.
L’intervento più efficace forse fu fatto da Laconi, che sollevò una sottile questione di metodo, di stampo - come dire? - oligarchico. Mi accusava di non aver parlato di quel mio dissenso prima, nella commissione politica: come se quella frattura e quella polemica tra noi non fossero già note da tempo, e alla luce del sole.
L’attacco più violento però venne nell’aula, e Pajetta e Alicata furono i più aspri: Pajetta con il suo sarcasmo pungente, Alicata invece con il tono allarmato di chi difende il movimento operaio da una aggressione ai suoi fondamenti, lanciarono l’appello grave ai princìpi.
Fui condannato anche da Berlinguer (credo che quell’intervento gli sia stato chiesto esplicitamente da Amendola). Enrico parlò con misura, e tuttavia partecipò a quel rito di condanna. Quel suo schierarsi con la repressione del dissenso mi dispiacque molto.
Nella commissione che si tenne a chiusura del congresso, prevalse un pesante atteggiamento di condanna nei miei riguardi. Alicata sviluppò un nuovo attacco furente, in cui mi accusava quasi di tradimento, e chiese la mia esclusione dal gruppo dirigente. E la vicenda mi pesò molto, anche se non mutò nulla nella considerazione che io avevo di lui.
Ci furono anche dei silenzi che mi dispiacquero. Per fare solo un esempio, Trentin non prese la parola e invece io tenevo molto alla sua valutazione. Probabilmente c’erano in lui riserve sulla povertà della mia analisi degli sviluppo che viveva quel capitalismo di metà secolo. Ma è vero che io cominciavo soltanto allora una prima lettura della mutazione che si apriva nel mondo.
Apprendevo. Scrutavo: come se iniziassi allora a varcare il cancello della fabbrica moderna. Era per me come una nuova alfabetizzazione, una verifica sul campo di quelle mie agre letture dei testi di Marx, di Gramsci... E in quel viaggio mentale fui aiutato molto dai miei compagni di frazione: la Rossanda prima di tutto, e Lucio Magri, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina (quanti incontri nella sua casa gentile, sotto lo sguardo protettore di quella sua mirabile madre).
Seguivo invece da lontano la ricerca di Panzieri e Libertini. Panzieri morì presto, come per un destino crudele che lo stroncò nel pieno della sua ricerca originale, e la sua riflessione forse oggi è troppo dimenticata. E da posizioni diverse entrarono con forza nel dibattito figure anche molto diverse come Tronti, Fortini, Umberto Cerroni. Guardando ad esse avvertivo l’avanzare di una nuova generazione, segnata dalla convinzione che era necessaria una lettura nuova della lotta di classe nel mondo ormai in quel secondo mezzo secolo.
Vivevo con più sicurezza lo scontro per la libertà del dissenso: non solo perché la mia distanza dallo stalinismo era ormai grande, e s’era assolutamente sbiadito l’entusiasmo religioso con cui avevo visitato Mosca e la Piazza Rossa nei primissimi anni Cinquanta.
In quella mia rivendicazione di libertà del dissenso c’era non solo il drammatico stimolo che era venuto dalle rivelazioni sui delitti di Stalin, ma una convinzione più profonda che aveva anche a che fare con una riflessione sull’esistere. Mi muoveva non solo la tutela della libertà di opinione, ma ancor più la convinzione che il soggetto rivoluzionario era un farsi del molteplice: l’incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto. E il frazionismo era paradossalmente necessario per la crescita di un’unità reale di classe e di popolo. L’unanimismo cominciava a sembrarmi più che un errore, un assurdo. Se mai era singolare che per tanto tempo io avessi tardato a comprenderlo. E infine la repressione di quel volto dell’esistere mi appariva impossibile.
Ma l’errore mio più grossolano allora fu un altro; non parlai apertamente e pubblicamente alla mia «frazione» chiamandola alla lotta col suo nome, perché questo sicuramente noi eravamo: una «frazione di partito» come ce n’erano tante in quasi tutti i partiti dell’Occidente e anche altrove, e quasi tutte avevano agito e agivano alla luce del sole, anche Lenin.
Sbagliai perché più avanti la lacerazione interna avvenne lo stesso. Presto la vidi avanzare senza che riuscissi o sapessi intervenire, e forse fu qui la vera sconfitta dell’«ingraismo».
Vennero le punizioni. Fu un miracolo che io fossi incluso nel neonato «ufficio politico», il nuovo organo affiancato alla segreteria, ridotta apparentemente a una struttura burocratica di lavoro, ma di fatto ancor più organismo di governo effettivo del partito.
I miei compagni di frazione furono tutti allontanati dai loro luoghi di lavoro. Luigi Pintor, che scriveva per l’Unità e che era, senza alcun dubbio, uno degli editorialisti più bravi in Italia con la sua scrittura asciutta e pungente, fu mandato a fare non so bene che nella patria Sardegna. La Rossanda fu allontanata dalla direzione della sezione culturale e spedita a lavorare alla Camera; Aldo Natoli fu rimosso dal suo compito nella sezione di organizzazione e praticamente emarginato. E così fu per altri ingraiani. Né io seppi difenderli.
Ma l’errore mio più grave venne più tardi, nel 1969: quando quei compagni diedero vita a il manifesto, un mensile singolare e coraggioso.
Non capii bene se essi avessero misurato fino in fondo le conseguenze dell’iniziativa. Ma nonostante le mezze parole, le concessioni vaghe, le espressioni turbate o compunte di via Botteghe Oscure - dove Berlinguer già era insediato praticamente come segretario - io ero convinto che il gruppo dirigente quegli eretici del manifesto li avrebbe espulsi dal partito. Lo dissi brutalmente e tenacemente ai miei amici.
Ma sbagliai gravemente nello schierarmi: quando - giunti allo scontro in Comitato centrale - votai a favore della radiazione del gruppo del manifesto: e fu davvero un’azione assurda perché nulla mi costringeva a quel gesto di capitolazione e si può dire di tradimento verso quei miei antichi compagni di lotta.
L’errore di quella mia decisione stette non solo nella viltà in cui m’associavo alla punizione dei miei compagni stretti di lotta, ma nell’illusione che quel mio partito si potesse salvare senza fare i conti sino in fondo con gli errori (i limiti gravi) del leninismo, o più ancora: col suo ormai palese e doloroso tramonto.

Il partito chiese che mi iscrivessi ai sindacati fascisti
Vinsi nei Prelittoriali di Roma la gara di poesia e quella di critica teatrale. E ad aprile del ’34 andai a Firenze ai Littoriali nazionali
di Pietro Ingrao


Dopo il crollo del fascismo sui giornali romani di destra furono ricordati quei Littoriali, e io fui chiamato in causa duramente come un «poeta del regime» che ora si ammantava di comunismo. Avvenne nel ’45 o nel ’46, quando era da poco capocronista a Roma nella nuova «Unità», ed ero tutto preso dall’apprendimento di quel nuovo mestiere.
L’attacco mi colse come un fulmine: un giornale di destra («Il Tempo» mi pare) uscì con la notizia che io avevo partecipato ai Littoriali fascisti con quella poesia che esaltava Littoria (e che poi era giunta nella prova nazionale al terzo posto, dopo Leonardo Sinisgalli e Attilio Bertolucci). Emergeva una mia macchia, una denuncia di collaborazione col regime.
Avvampai di vergogna, dissi ai dirigenti del partito che ero pronto a lasciare il mio posto e mi adoperai a spiegare il che e il come di quella vicenda in camicia nera, evocando il mio impegno nella cospirazione clandestina, i mutamenti nella mia zucca, eccetera, eccetera. Togliatti rispose brevemente: lascia perdere questi scocciatori reazionari, resta al tuo posto.
Soffrii molto. E invece quell’accusa era sciocca non solo per la fonte maligna da cui veniva. Che altro avrei dovuto fare se non andare a conoscere i miei coetanei, nell’occasione curiosa e straordinaria dei Littoriali che per i suoi calcoli e tornaconti il regime mi forniva? E cominciare - io ragazzetto di provincia - almeno a salire più in su di Roma, in quell’Europa arroventata? E interrogare e interrogarci, sì, tra di noi giovanissimi, fosse pure sotto il fascio littorio, sulle cose roventi che accadevano allora nel mondo, a un passo dalla nostra febbrile iniziazione?(...)
Adesso i miei contemporanei, venuti dopo di me, hanno scoperto che Giame Pintor partecipò - nel ’42 mi sembra - a un convegno che si tenne a Monaco, quando Hitler insanguinava il mondo. E a me lo stupore di costoro suscita altrettanto stupore. Ma davvero essi ancora non sanno, non hanno capito in tempo che vivemmo, e gli incastri e il fango in cui si dovette mettere le mani per «resistere»? Nel gruppo comunista clandestino, di cui feci parte a Roma, a un certo punto fu deciso che io dovevo iscrivermi ai sindacati fascisti!. E provarmi a divenirne un dirigente: per incontrare gli operai là, in quelle concrete organizzazioni fasciste e capire che cosa essi pensavano in quel momento, e se mai mi fosse stato possibile, costruire un filo esile di una relazione più larga: sì, proprio dentro quelle organizzazioni che avevano per stemma il fascio littorio. Poi quel progetto cadde. Ma quel frugare dentro le organizzazioni fasciste continuò e fu necessario e fecondo.
Nel ’35, partecipai ai Littoriali che si tennero a Roma: ancora con una poesia (forse meno brutta e affidata a una vena di idillio campestre). In quella sala dei Littoriali romani si avvicinò a me un giovane. Mi disse il suo nome, che mi lasciò basito: Antonio Amendola, figlio di Giovanni Amendola, ucciso dai fascisti: quel cognome tragico che avevo udito dalla bocca di mio padre mentre parlava con mia nonna dopo il delitto Matteotti. Provai un’emozione intensa. Pietro Ingrao

l’Unità 8.9.06
Il romanzo di un politico che vuole la luna
di Bruno Gravagnuolo


L’affascinante storia di un ragazzo di Lenola che avrebbe voluto fare il poeta o il cineasta e che invece fu trascinato dalle bufere della Storia verso l’impegno a favore dei più deboli. Dalle radici garibaldine al Pci

A volte sono i dettagli a svelare l’arcano di una vita. Perché nei dettagli come sapeva Goethe, abita Dio, o il diavolo, a seconda dei punti di vista. E la cosa è tanto più vera nel caso dello splendido racconto autobiografico di Pietro Ingrao, Volevo la Luna, che Einaudi si appresta a mandare in libreria a giorni. Il dettaglio sta in poco più di tre righe che fanno capolino in una breve nota introduttiva all’inizio del libro. E le tre righe, precedute da dubbi e interrogativi sulla verità della memoria, sono queste: «Una delle cose che mi è piaciuta sempre nella vita - e che avrei fatto senza annoiarmi - è sedermi in un caffè a guardare il fiume di persone che scorre nella strada, chiedendomi chi sono, cercando di immaginare ciò che a loro capita o che hanno in animo». Ecco, il senso di Volevo la Luna, è tutto lì, come racchiuso in nuce in questa piccola confessione. Perché? Perché il «dettaglio» va al cuore della personalità del narratore e ce la svela ben prima che la narrazione si snodi come romanzo di una vita in cui l’indocile esistenza di un adolescente di Lenola (un «pischello», dice a volte di sé Ingrao) giunge a mescolarsi con le tempeste del Novecento. E a giocare un ruolo di primo piano nella storia della democrazia e del comunismo italiani. Qual è infatti il fascino del «romanzo», il «passo» e il ritmo che lo rendono intrigante, «inconcluso» e imprevedibile? Non solo lo sfondo di storia sociale che c’è dietro, commovente e senza enfasi, intriso di echi alla Verga e di terragni abbandoni poetici. Né solo l’inatteso degli incontri, con luoghi e figure grandi e piccole del quotidiano o dell’epoca. È la continua emozione inaugurale di una vocazione alla libertà. All’esperienza del concreto. Alla lotta. E a all’abbraccio con la diversità dell’Altro, che pur rimane sempre altro, diverso, nella sua insondata dignità. Insomma il bello di Volevo la luna è nella genesi di una certa idea di politica. Politica come parte, solo come parte, ancorché primaria, di una scelta attiva di conoscenza intesa come voglia di mondo. Voglia di bellezza, di relazioni, di ricordi. Di emozioni condivise con gli altri. In altre parole Volevo la luna è la chiave d’accesso al comunismo stesso di Pietro Ingrao. Un rendiconto esistenziale del perché mai si fece comunista e del perché comunista lui lo è ancora. Testardamente, e senza pentimenti, malgrado l’acre autocritica che qua irrompe senza infingimenti nel racconto (dal 1956, al «tradimento» verso i compagni del Manifesto nel 1969). In questo senso il libro è un censimento dei «ricordi fondativi», delle «mischianze», e delle molle emotive che spinsero quel ragazzo nato nel 1915 in strada. Sui sentieri del secolo. Strappandolo all’«incastro delle parole», alla magia delle poetiche del novecento, al cinema. Mischianze di incontri e molle emotive che il secolo e il mondo di quegli anni mettevano in cortocircuito. Lasciando a Pietro Ingrao quella via d’uscita e non altre, per vivere il mondo: la politica. Ma politica appunto, come intensificazione della vita. Dubbio, problema, rabbia e anche fedeltà, mai rinsecchita in rito o praticaccia. Ed eccoli i capisaldi emotivi, i segnavia.
La terra madre, Lenola, e la genealogia familiare garbaldina che in guisa di saga predisponeva all’incontro con gli umili e i reietti dalla storia d’Italia. Poi la dimestichezza con la parola, che per Ingrao fu sempre vibrazione di emozioni corporee e materiali, la stessa che da sempre, violinista mancato, insegue nella musica. E il cinema. Con i linguaggi delle avanguardie: dall’espressionismo all’ermetismo. E i i tanti piccoli e grandi maestri: contadini, insegnanti, operai, compagni di un’Italia sperduta e rurale. Gli amici, conosciuti ai Littoriali e no: Antonio Amendola, Bruno Sanguinetti, Salinari, Trombadori, Bufalini, Rodano. Littoriali baldanzosamente (e naturalmente!) praticati fino al rovesciamento di prospettive in quell’Europa violentata dalla morte di massa e dalla guerra. E poi certo Togliatti, quel sodalizio ambivalente e filiale, tramite cui Ingrao, non senza contrasti, consolida in sé l’idea di un comunismo nazionale, che tiene insieme «Municipi e continenti». E ancora, il giornalismo, la nostra Unità, «l’arte del fare», giornale o lavoro politico che fosse, e stando «nella mischia» con gli altri. Rompendo gabbie di alto e basso, di cronaca, costume, idee, arte. Ben prima che i i giornali borghesi lo facessero, e in quell’Italia segnata da Scelba Pio XII e Tambroni, con il corteo di morti proletari. Infine una nota ancor più profonda: «la furia delle figlie», e Laura amatissima. Insomma il «femminile», che Ingrao rivela avergli dato una misura più profonda e umana delle cose. Resterebbe da dire della politica-politica, delle autocritiche, e degli errori di cui Pietro ha già parlato tante volte. Anche su questo il libro non delude e trascina. E magari torneremo a riparlarne. Qui in breve conclusione citiamo un solo punto: il «revisionismo» di Ingrao. Aspro, sincero, mai reticente. Giunge ormai a mettere in questione tutta la tradizione comunista. A partire da Lenin. Ma senza tradire di una virgola la giusta passione da cui anche gli errori germinarono.

l’Unità 8.9.06
La cronaca della stesura di «Volevo la luna»
Nascita e fioritura di un libro dalle radici della saga familiare
di Giuseppe Cantarano


La lunga gestazione e i dubbi: «A chi vuoi che interessino le mie vicende?»

Non volevo scrivere un saggio storiografico e neanche abbandonarmi alla poesia

Ho avuto il privilegio, nell’ultimo decennio, di frequentare molto da vicino Pietro Ingrao. Nel suo piccolo appartamento di Roma e nel grande casolare di pietra, nella sua ciociara Lenola, non so quante lunghe discussioni abbiamo fatto insieme. In estate, quando andavo a trovarlo a Lenola, nei pomeriggi bruciati dal sole - la mattina immancabilmente la trascorreva a fare i bagni a Sperlonga con Laura - spesso lo trovavo seduto ad attendermi, nella frescura del suo orto. Assorto a leggere o rileggere - nel silenzio nel quale risuonavano solo le cicale - qualche raccolta di poesie. E con la presenza affettuosa, premurosa della sua amata Laura.
Quelle e volte che andavo a prenderlo per portarlo con me da qualche parte in una qualche iniziativa politica o culturale, Laura si raccomandava di non farlo stancare troppo e di riportarlo a casa non troppo tardi. Solo una volta, mi ricordo, Laura venne con noi. Ingrao era stato invitato all’Università di Urbino per concludere un convegno internazionale su Marx. Quel giorno, mentre eravamo a pranzo nella trattoria degli studenti, da un tavolo accanto al nostro si alzò un vecchio signore dalla figura autorevolmente imponente e aristocratica. Venne a salutare con deferenza Ingrao e Laura. Chiesi a Ingrao chi fosse. Si trattava del grande critico, nonché rettore di quella università, Carlo Bo.
Sono tanti gli episodi che potrei raccontare. Vorrei ricordarne solo qualcuno. Quando nell’ottobre del 2002 lo accompagnai - con il figlio Guido e Pietro Barcellona - in Spagna presso l’Università di Barcellona, che gli aveva conferito la laurea honoris causa. Venne vestito con l’antico abito accademico delle solenni cerimonie. All’inizio non ci pensava lontanamente di indossare quei «paramenti liturgici», come li chiamava ironicamente lui. Ma alla fine, dovette accettare. Era il protocollo. Sorrideva divertito, per quella buffa e «spagnolesca» teatralità. E in quei «paramenti» l’ho visto commuoversi, quando alla fine del suo appassionato e rigoroso discorso contro la guerra, in un’aula magna gremita, venne salutato con un interminabile scroscio di applausi.
E poi c’è l’ultimo incontro struggente - al quale ho assistito - che Ingrao ebbe con Padre Benedetto Calati. Priore camaldolese del monastero di Monte Giove. Pochi mesi prima della sua morte. Due universi distanti, quelli di Ingrao e di Padre Calati, spezzato letteralmente in due dalla vecchiaia e dallo studio. Eppure, sorprendentemente vicini. Nel monastero sui colli di Fano, Ingrao venne invitato, quella volta, per parlare dell’idolatria. Erano seduti l’uno accanto all’altro, i due vecchi. Si erano conosciuti da pochi anni. Ma sembravano dei fratelli. Non solo per l’intimità reciproca che mostravano. Ma per quello che dicevano. Quando giunse l’ora di congedarci, si abbracciarono e si accarezzarono con tenerezza. Con gli occhi pieni di lacrime. Capivano che si trattava, quasi certamente, del loro ultimo incontro.
E poi c’è il nostro intenso lavoro sul nonno garibaldino, Francesco Ingrao. Pietro affidò a me le carte ingiallite che conservava di quel giovane rivoluzionario siciliano di Grotte. Un paese agrigentino di zolfatari. Dove organizzò, nel 1868, una insorgenza anarco-socialista. Inseguito da un mandato di cattura, si rifugiò a Lenola. Dove viveva suo zio medico, anch’egli un cospiratore antiborbonico lì rifugiato per sfuggire agli arresti. A Lenola Francesco si innamorò di sua cugina, Marianna. Che poi sposò. E Francesco divenne, molti anni dopo, sindaco di Lenola.
Spesso mi confessava che avrebbe voluto scrivere lui, un giorno o l’altro, l’affascinante storia di suo nonno. Ma il «gorgo» della politica, come mi diceva, lo trascinava sempre altrove. E così volle che fossi io a occuparmene. Dopo lunghissime discussioni e ricerche, ne nacque un libro, che pubblicammo nel 2001 con Sellerio. Andammo anche a presentarlo a Grotte. Tutto il paese organizzò una grande festa, per quella occasione. Gli venne anche conferita la cittadinanza onoraria. E durante la cerimonia vidi ancora i suoi occhi, velati di lacrime.
Si può dire che Voglio la luna sia lo sviluppo narrativo del precedente scavo autobiografico relativo alle sue radici siciliane e risorgimentali. All’inizio dell’impresa editoriale, a dire il vero, era un po’ riluttante. Non era del tutto persuaso dell’utilità di scrivere una sua autobiografia. A chi vuoi che interessino - mi diceva - le mie vicende, la mia storia? E soprattutto ai giovani - teneva a precisare - cosa vuoi che dica una storia che parla una lingua diversa, lontana, che proviene addirittura da un altro secolo?
Poi si mise al lavoro. Un lavoro lungo. Spesso interrotto dalle solite «correnti» che lo trascinavano inevitabilmente nel gorgo della politica. O interrotto da altri meticolosissimi esercizi di scrittura, come quelli poetici, ad esempio. Non riusciva a trovare - mi diceva un po’ seccato - un appropriato registro narrativo. A quel flusso prorompente della memoria non riusciva a conferire una forma. Doveva semplicemente raccontarsi e attraverso il racconto di sé, raccontare un pezzo importante della storia del Novecento. Ma gli sfuggiva sempre lo «stile», diciamo così.
Non doveva scrivere un «freddo» saggio storiografico. Ma non doveva neanche lasciarsi sedurre dalla tentazione in cui talvolta lo induceva la sua ermetica lingua poetica. Quando, alla fine dell’ultima stesura, gli ho chiesto se si ritenesse soddisfatto dello «stile» adottato, venendo per un attimo meno alla sua proverbiale modestia, mi ha risposto di sì. Lui, che è stato sempre tormentato da mille dubbi. Proprio quel Pietro Ingrao, sempre inquieto e alla ricerca. L’Ingrao novantaduenne che da ragazzino è sempre stato introverso e «lunatico».
Il vecchio padre nobile della sinistra italiana che da fanciullo, nelle tiepide e profumate primavere di Lenola, dopo la scuola se ne andava in solitudine nei prati colorati dai rossi papaveri. E pancia all’aria e con le mani dietro la nuca, se ne stava per ore a contemplare l’azzurro del cielo e a indovinare le figure delle nuvole. E quando rientrava a casa, la mamma bonariamente lo rimproverava dicendogli: Pietruzzo mio, buono a nulla, ma possibile che non hai altro da fare?
Già, il «fare». Quell’Alta febbre del fare - così suona il titolo di una bellissima raccolta delle sue poesie - dalla quale non è riuscito più a guarire. Quel «fare» che egli ha raccontato con tonalità seducenti in questo suo libro. Quel «fare» che, in alcuni passaggi della sua vita, non solo ha avuto un’alta febbre, ma si è presentato con un volto tragico. E quando quel volto tragico del fare novecentesco faceva di nuovo irruzione nella sua memoria durante la stesura del libro, interrompeva per giorni il lavoro di scrittura. Perché avvertiva ancora il tumulto delle emozioni.
Sono stati diversi i momenti nei quali Ingrao ha preferito sospendere il suo racconto. Penso alla guerra di Spagna, che spaccherà letteralmente la sua vita. Oppure all’alleanza tra Hitler e Mussolini. Che allontanerà definitivamente il giovane Ingrao - che partecipò ai Littoriali di Firenze con una brutta poesia su Littoria, consegnata personalmente a Montale - dal regime. O ancora, ai drammatici fatti di Ungheria. Quando, giovane direttore dell’Unità, compie quel clamoroso errore, tante volte da lui rievocato, del celebre Da una parte delle barricate.
Ricordo, di quando me ne ha parlato ancora con angoscia. Della burrascosa telefonata che fece a Togliatti, dopo la notizia dell’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest. Quando si recò, quella sera, a casa del segretario a Montesacro per esporgli timidamente le sue idee. E del suo turbamento, quando Togliatti gli rispose seccamente: oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più.
Più volte ha riscritto le parti riguardanti il drammatico XX Congresso del Pcus o quelle dedicate alla sua battaglia per il dissenso all’interno del partito, che lo vide protagonista nel celebre «duello» con Amendola. E più volte ha riscritto la parte finale, che si conclude con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, quando Ingrao è presidente della Camera.
Le sue memorie si fermano qui. E non per ragioni strettamente editoriali. Certo, sono stati apportati dei tagli. Alcuni capitoli risultavano talvolta inutilmente troppo lunghi. Ne abbiamo discusso. E abbiamo discusso della sua decisione irremovibile di non proseguire oltre, nel suo racconto.
Tante volte gli dicevo che se è vero che quel pezzo di storia recente di cui non parla, nella sua autobiografia, è nota e stranota, è però altrettanto vero che nella sua autobiografia, almeno per sommi capi, un po’ la dovesse raccontare quella «cronaca» recente dentro cui è scritta la sconfitta storica del comunismo. Ma mi ripeteva che ne aveva parlato e straparlato già abbastanza, in articoli, saggi, interventi. Quando finalmente il manoscritto è stato consegnato, gli ho chiesto se fosse soddisfatto di come era complessivamente venuto il lavoro. E con il suo solito timido sorriso, mi ha risposto: tu sai bene, Peppe, che come avviene in questi casi, io non ho più alcun potere di intervenire sul libro. La parola ora passa ad altri. Come dire: il compito che, come uno scolaretto, mi è stato assegnato l’ho svolto. Ora attendo il vostro giudizio.
La parola, insomma, passa ora ai lettori. Che potranno respirare, dalle pagine di questa affascinante biografia, la passione intellettuale e politica di un ragazzino che perdeva tempo a scrutare le nuvole nell’azzurro del cielo di Lenola. E che, a più di novant’anni, non ha mai smesso di stupirsi delle cose del mondo. E non ha smesso di cercare, ancora e nonostante tutto, sempre l’impossibile.

Repubblica 8.9.06
Il comunista che voleva la luna
L'autobiografia è anche una severa resa dei conti con i ritardi del Pci e le reticenze di Togliatti
"Quando Mao annunziò milioni di morti, nessuno di noi osò replicare"
di Simonetta Fiori


Roma. «E pensare che giocavo bene a tennis», dice il novantunenne Pietro Ingrao, mentre avanza con passo lento nella sua frugale casa, dritto come un fuso e una memoria che sfiora il prodigio. «Il battito asciutto della pallina sul campo aveva per me un effetto terapeutico. Bastavano pochi colpi per cancellare comitati centrali, riunioni di direzione, interminabili segreterie...».
Di match point è costellata anche la sua vita. È stato uno dei grandi capi del comunismo italiano, ha attraversato la storia del Novecento quasi sempre in prima linea - la cospirazione antifascista, la guerra, l'Unità clandestina, poi le istituzioni repubblicane nel loro sorgere tempestoso - , ha incontrato personaggi come Stalin, Mao e Che Guevara, ma la sua esistenza appare segnata da una vena d'inquietudine mai appagata. Volevo la luna è l'efficace titolo dell'autobiografia che racconta con passione e severità il romanzo d'una vita intensa e forse mai pienamente risolta (Einaudi, pagg 384, euro 18,50, in uscita il 12 settembre). Un feuilleton ottocentesco, nei primi capitoli, con la storia degli avi garibaldini che cospirarono contro i Borboni e quel romantico incesto tra nonno Francesco e la splendida cugina Marianna da cui trae origine la progenie Ingrao. Se c'è una trama segreta, in Volevo la luna, va cercata nell'intima ribellione che anima costantemente il protagonista. Sin da bambino, quando figlio dei signori di Lenola, l'agiato ceto agrario del basso Lazio, partecipa ai rituali borghesi però dolendosi della distanza del mondo contadino. O da ragazzo, nei primi anni Trenta, lettore di Joyce e Kafka contro le semplificazioni sommarie della cultura ufficiale, e ancora studente dei Littoriali, ma con i primi germi del dissenso antifascista. Più tardi la scelta di vita comunista, anche questa segnata da dubbi, perplessità, insofferenza verso leformule teologiche del credo sovietico. Fino al dissenso esplicito negli anni Sessanta, con quell'epilogo da eretico verso gli stessi eretici: è rimasto storico il voto con cui Ingrao radiò gli ingraiani dal suo partito («La cosa più sbagliata ma anche la più assurda. Fu più forte il richiamo della chiesa comunista»).
Da cosa nasce questa inquietudine?
«Fin da piccolo, ebbi l'abitudine di interrogarmi sulle cose. Vivevo tra i contadini, ma ne avvertivo la distanza. Non erano nostri pari. In certo modo lì ebbe origine la mia riflessione sull'oppressione di classe e sul mondo diviso fra sfruttatori e sfruttati».
La sua critica verso Togliatti è molto nitida. Sono descritte le sue durezze, i protratti silenzi, la lunga e insopportabile soggezione a Mosca. Insomma, una resa dei conti senza reticenze.
«Sì, il suo percorso fu più complesso e contraddittorio di quanto sia stato scritto, come di errori e contraddizioni è disseminato il mio. Ma tra noi c'era anche un rapporto umano molto forte, coltivato nei lunghi anni della mia direzione dell'Unità. Da gran rompiscatole, non mancava di farmi avere continuamente i suoi bigliettini, più o meno di questo tenore: "ma che cavolo volevi dire?". Quando parlava alla Camera c'era un rito: dopo l'intervento, veniva in redazione per rivedersi il testo, parola per parola. Sudatissimo, c'era qualcuno che l'asciugava. E intanto lui correggeva parole e virgole, secondo fissazioni bizzarre. Era persuaso che si dicesse "arme", non "arma". Così scriveva Missiroli, che a lui piaceva molto. Io storcevo il naso».
Qualche volta però lei scelse di non interpellare il segretario.
«Fu all'indomani del XX Congresso, al principio del 1956, dopo le rivelazioni di Krusciov sui crimini di Stalin. Togliatti aveva il testo del rapporto segreto, ma al rientro da Mosca non ne fece parola: né con noi né con i giornalisti che l'attendevano all'aeroporto. E sulle denunce dello stalinismo tacque anche al Comitato Centrale di marzo, dove ebbe solo accenti apologetici per l'Urss. E noi dell'Unità costretti a stare zitti, mentre nel mondo si scatenava la bufera. Quando sulla stampa americana comparve il misterioso rapporto, mi feci coraggio e, senza interpellarlo, pubblicai un resoconto».
E Togliatti?
«Laconico, come sempre. "Hai visto?", gli domandai trepido. "Ho visto", fu la risposta».
Finì lì?
«No, l'evento più pesante fu a Livorno, nell'aprile successivo, durante l'assemblea generale in vista delle elezioni comunali. Nella relazione Togliatti non fece nessun accenno al tema dello stalinismo. La nostra protesta assunse forme diverse. Al momento dell'applauso, Pajetta e Amendola stesero le mani sul panchetto per sottolineare che non applaudivano. Nel discorso conclusivo, Togliatti fu ancora muto sul "rapporto segreto". Aggiunse solo alcune brevi amarissime parole sulle tempeste che aveva attraversato».
Avevate un rapporto confidenziale. Si è mai lasciato andare sulle nefandezze di Mosca?
«No, mai. Aveva avuto una vita tragica, se ne avvertiva l'eco anche nei silenzi. Solo una volta lo vidi esplodere corrucciato. Fu durante un incontro con D'Onofrio, che si doleva col segretario per un trasferimento non desiderato. Lo gelò: "E allora cosa avrei dovuto fare io quando diceste sì a Stalin che non voleva farmi tornare in Italia?"».
Anche Nilde Iotti era reticente?
«No, con Nilde si parlava più serenamente. Mi confessò una volta il sospiro di sollievo che lei e Palmiro avevano tratto sul treno che li allontanava dalla frontiera sovietica. Stalin era ancora vivo».
Nel 1961 la leadership di Togliatti sembra sbandare. Lei racconta di un'aspra riunione del Comitato Centrale, che però lasciò una traccia scritta mitigata.
«I suoi ripetuti silenzi sullo stalinismo lasciarono molti di noi amareggiati. L'attacco partì da Amendola, seguito da Natoli, Chiaromonte, Alicata, Salinari, io stesso. Togliatti replicò con toni ancor più brucianti. S'accomiatò con una minaccia: se volete farmi la lotta, sono pronto».
Era stato Franco Fortini, incontrato casualmente nel 1940, a parlarle per primo delle purghe staliniane?
«No. Sapevamo già da tempo. Ma ci fu un colpevole silenzio. Il mito di Stalin scavalcava tutto. L'evento che sconvolse il nostro gracile gruppo romano fu nel 1939 lo sciagurato patto Ribbentrop-Molotov. Antonio Amendola, Lucio Lombardo Radice e io stesso fummo duramente critici. Aldo Natoli esitò: e fu strano perché Aldo era tra i più rigorosi e i più maturi fra di noi».
Della cospirazione antifascista, lei dà un ritratto assai poco eroico, restituendone anche fragilità e cedimenti.
«Eravamo esseri umani che imparavano - passo a passo - la lotta sociale in un momento molto difficile. Nel nostro piccolo vivevamo anche vicende amarissime. Antonio Amendola fu colpito da un grave disturbo psichico. Fummo costretti - per ragioni di sicurezza - ad interrompere i rapporti con lui. Fu una storia dolorosa: io da Antonio avevo appreso quasi tutto».
Con Amendola aveva partecipato anche ai Littoriali.
«E per questo Antonio s'era beccato una condanna furente dal fratello Giorgio, confinato a Ponza, che solo dopo avrebbe compreso l'importanza di quei nostri incontri: furono per noi occasione di maturazioni preziose, laboratori di coscienza antifascista. Senza i Littoriali sarei rimasto un pischelletto di provincia. Eppure nell'immediato dopoguerra subii un processo dalla stampa di destra: ma come, hai scritto un inno fascista a Littoria e ora fai il comunista? Fu Togliatti a dirmi di fregarmene di quegli "scocciatori reazionari"».
Sessant'anni dopo, più o meno si parla delle stesse cose. Ma ripensando a quella stagione, cosa la mosse a partecipare ai Littoriali?
«Il desiderio di stare nel clamore. Ho amato troppo l'applauso».
Quanto ancora ha contato l'amore dell'applauso nella sua vita successiva?
«Ahimé, sempre. Eh, la vanità... Però con una riserva costante: l'interesse e il rispetto per il dubbio. In fondo questa mia autobiografia è un libro sulla possibilità di dubitare, negata per troppo tempo nel Pci. Credo che la grande tragedia del comunismo e la ragione della sua sconfitta abbia origine anche in questo: nel monolitismo, nell'unanimismo forzato, in un'idea imbalsamata di classe, nell'adesione acritica al catechismo di Lenin e Stalin».
Lei ricorda con disagio il discorso pronunziato da Mao a Mosca nell'autunno del 1957.
«Sì, è come se lo rivedessi ora: un omone imponente, che ci accolse con grandi pacche sulle spalle. Profetizzò un radioso avvenire a prezzo di milioni di vite uccise. Nessuno ebbe il coraggio di obiettare. A peggiorare le cose, provvide il compagno francese Duclos, con una pesante filippica contro di noi. Chiesi a Togliatti se era il caso di replicare. Rispose con un "no" rabbioso. Poi in macchina proruppe in invettive da trivio, come mai l'avevo sentito».
Nel libro ci si imbatte in parole proibite come "frazionismo".
«Sì, il frazionismo allora era un termine maledetto, ma invece sarebbe stato necessario e vivificante. L'avessi sostenuto all'epoca, sarei finito nel rogo».
Però negli anni Sessanta lei dà avvio a una sorta di frazione. Per poi decidere insieme al Partito a favore dell'espulsione dei suoi stessi fratelli.
«Non so dire altro che uscii di senno. Io pure avevo assorbito un fondo chiesastico che mi indusse all'errore fratricida. Uno sbaglio grave, non solo per il tradimento verso quei compagni, ma anche perché annullava il principio del dissenso: un nodo che per me divenne vitale per la costruzione di un soggetto rivoluzionario articolato e molteplice».
La sua autobiografia è anche una toccante dichiarazione d'amore per sua moglie Laura Lombardo Radice, un misto di rigore e dolcezza.
«Sì, siamo stati molto uniti nella vita. E io ho avuto un dono enorme da lei. Anche quando con grazia ironica usava tirarmi le orecchie, per aprirmi gli occhi. Ricordo quando le feci leggere la Dichiarazione programmatica che Togliatti mi aveva sollecitato per il congresso del partito, nel dicembre del 1956. "Mi sembra il rosario della Madonna di Pompei". Avvampai di rabbia, ma aveva ragione lei».
Sfilano nel racconto tanti volti femminili. Perfino Alida Valli, la più amata della vostra generazione.
«La incontrai al Centro sperimentale di cinematografia, che frequentai alla metà degli anni Trenta. Era bellissima, ma fredda e un po' altera».
A un certo punto lei confessa che era "quasi innamorato" di Marcella Ferrara, allora segretaria di Rinascita.
«Non rimasi insensibile al fascino di Marcella, donna di gran temperamento. In quegli anni - ma non vorrà scrivere anche questo? - le richieste sentimentali non mi mancavano. Il nostro non era un partito né di freddi né di casti».
Se c'è un'immagine che si staglia nel libro, è la grande scalinata che conduce allo studio di Togliatti. Cos'è che non le piaceva di quella scala?
«La vastità, lo sterminato numero di gradini. Era una delle cose assurde di Botteghe Oscure. Quando, circa alla metà degli anni Cinquanta, fui chiamato in Segreteria - posto nevralgico di potere - mi perdevo nel saliscendi dell'immenso palazzo, tra ampi corridoi e riunioni interminabili. Non ero tagliato per quella vita. Tra lo stupore di molti, decisi di lasciare».

Repubblica 8.9.06
Quei silenzi su Stalin
Dall'autobiografia di Pietro Ingrao, "Volevo la luna" (Einaudi), anticipiamo alcune pagine


Nel 1950 fui chiamato a un convegno del Cominform che proponeva l'esame di due giornali: l'Unità e l'organo ufficiale del partito comunista cecoslovacco il Rudé Právo: insomma due bandiere della stampa comunista. (...) Avemmo una prima seduta nella capitale rumena, ma solo per i saluti di circostanza: ricordo come mi strinse il cuore l'immagine di quella capitale desolata, delle vie semivuote, in cui si leggeva ad occhio nudo la pesante indigenza. (...) Ricordo il ritualismo gelido di quelle discussioni, e il giudizio di quei relatori che non concedeva nulla a dubbi e a differenze: e sembrava perfino meccanico nel rito dell'elogio al Rudé Právo e della critica dura all'Unità. La condanna trascendeva la linea politica. Si allargava al costume. Vennero condannate anche le immagini di donne seminude a cui quell'Unità ahimé indulgeva. Uno degli ultimi giorni, mi capitò di incontrare Michail Suslov: alto, magro, stretto in un'impeccabile divisa militare. (...) Volgendosi verso di me chiese a D'Onofrio: come ha accolto questo giovane compagno le critiche che gli sono state rivolte? D´Onofrio cercò di mitigare il nostro malcontento, io farfugliai qualche parola. (...) Tornato in Italia mi recai subito nella mite e trascolorante penisola sorrentina, in cui Togliatti era convalescente. (...) Togliatti ascoltò come se sapesse già tutto. E quando aggiunsi che naturalmente era libero di cambiare il direttore di quel giornale messo sotto accusa a Bucarest, mi rispose con una frase secca: "Continuate a fare come state facendo". E il colloquio finì.
***
A Mosca tra il 17 e il 31 ottobre del 1961 s'era tenuto il XXI congresso del partito. E Togliatti era andato a parteciparvi. A novembre, al suo ritorno, vi fu la riunione rituale del Comitato centrale, e il segretario tenne un rapporto informativo sul congresso di Mosca. Fu una relazione davvero infelice; e ancora oggi non so spiegarmi perché quel capo riferì in quel modo scolastico e sommariamente laudativo su un tema che ancora bruciava nella testa dei compagni. Presentò della situazione in Urss un quadro assolutamente apologetico (...). Nel Comitato centrale si scatenò la rivolta. Parlò quasi subito Amendola: respinse le riserve di Togliatti sulla rimozione della salma di Stalin e sul mutamento del nome a Stalingrado; e subito tornò alla vicenda nostra denunciando il silenzio che da noi era calato sulle cruciali questioni del XX Congresso (...). Poi andò alla tribuna Natoli e con un intervento breve e senza veli avanzò addirittura la proposta di un congresso straordinario del partito. E, nella critica aspra, seguirono Chiaromonte, Alicata, Salinari e io stesso: tutti invocando consenso a una nuova tappa della riflessione sullo stalinismo. Era una sconfessione larga e senza veli del rapporto del segretario.
Togliatti rispose in modo brevissimo e furente; respingendo violentemente le critiche, che egli interpretò seccamente come un attacco ingiusto alla sua direzione personale. Finì la sua replica con una minaccia. Se volete farmi la lotta, io sono pronto: risponderò in prima persona. I riflessi di quello scontro furono forti. E Togliatti stesso dovette rendersene conto, perché nelle sue conclusioni dichiarò che avrebbe chiesto la non pubblicazione delle sue dichiarazioni (il che però aggravava ancora di più la vicenda: come se i suoi critici chiedessero il silenzio, quando invece era vero il contrario).

Corriere della Sera 8.9.06
L'autobiografia del decano del comunismo italiano. «Ecco tutti gli errori di Berlinguer»
Ingrao e il Manifesto: da me viltà e tradimento
di Aldo Cazzullo


L'AUTOBIOGRAFIA In «Volevo la luna» anche critiche a Berlinguer: «All'XI congresso del Pci ci condannò credo su richiesta di Amendola»
Ingrao si confessa «Io vile e traditore sul caso Manifesto»
Il bilancio del decano del comunismo italiano «Sull'Ungheria ho commesso l'errore più grave»

«Votai a favore della radiazione del gruppo del "manifesto": e fu davvero un'azione assurda perché nulla mi costringeva a quel gesto di capitolazione e si può dire di tradimento verso quei miei antichi compagni di lotta». Sono le parole più amare delle 372 pagine in cui Pietro Ingrao, il decano del comunismo italiano, racconta la sua vita, sotto il titolo Volevo la luna: come da richiesta infantile al padre, e come da decennale e vano percorso politico. Un'autobiografia attesa da anni, pubblicata da Einaudi, in cui Ingrao si spinge oltre, con passi significativi, sulla linea della revisione della storia comunista, e anche della propria vicenda personale. Non ci sono grandi novità sul piano storiografico, rispetto al libro scritto nel 2004 con Antonio Galdo e all'intervista concessa al Corriere nel marzo 2005 per i suoi novant'anni, in cui già aveva avuto critiche per Mao, Castro, Che Guevara, Togliatti, oltre che per se stesso. Ma ci sono parole nuove, più profonde, più dure, per dire l'angoscia a proposito dei gulag, della linea del Pci sull'Ungheria, dell'occasione perduta dopo la rivelazione dei crimini staliniani; e gli errori diventano talora «tradimenti», come nel caso appunto del «manifesto».
Ingrao è spietato con se stesso. Dopo la sconfitta all'undicesimo congresso, «i miei compagni di frazione furono tutti allontanati dai loro luoghi di lavoro. Luigi Pintor, uno degli editorialisti più bravi d'Italia, fu mandato a fare non so bene che nella patria Sardegna. La Rossanda fu allontanata dalla direzione culturale e spedita a lavorare alla Camera, Aldo Natoli fu rimosso (…). Né io seppi difenderli. Ma l'errore mio più grave venne più tardi», quando Ingrao vota per la loro radiazione: un errore che «stette non solo nella viltà in cui m'associavo alla punizione dei miei compagni stretti di lotta, ma nell'illusione che quel mio partito si potesse salvare senza fare i conti sino in fondo con gli errori del leninismo, o più ancora: col suo ormai palese e doloroso tramonto».
Orgoglioso di essere stato e di essere comunista, il protagonista non cela i suoi dissensi di allora e di oggi con i segretari generali del Pci. Prima Palmiro Togliatti, poi Enrico Berlinguer.
Togliatti è raccontato nella sua intelligenza e nella sua cultura, ma anche nel suo cinismo. È lui a vietare a Ingrao, direttore dell'Unità, di dare notizia dei crimini di Stalin rivelati da Krusciov; fino a quando, nella prima e unica ribellione al capo, Ingrao disobbedisce e pubblica. È lui a ostinarsi a non parlarne in pubblico, neppure al convegno pre-elettorale del partito, e a sedare così la protesta di Ingrao: «Non mi avete chiamato a parlare sulle amministrative?». Quando, dopo la ribellione di Poznan repressa nel sangue, Togliatti manda all'Unità un durissimo editoriale dal titolo «La presenza del nemico», il direttore confessa «un forte turbamento», ma non osa muovere obiezioni. Nei giorni d'Ungheria, Ingrao commette poi «l'errore più grave della mia vita politica, un editoriale che condannava la rivolta e aveva un titolo roboante: "Da una parte della barricata a difesa del socialismo"». Ma quando i carri armati entrano a Budapest, Pietro vaga disperato per Roma sino alla casa di Togliatti, che invece sorride: «Io oggi invece ho bevuto un bicchiere di vino in più». «Non ebbi il coraggio di replicare — annota Ingrao —. Mi limitai a dire che non condividevo il suo giudizio. Ma avevo in testa pensieri che poi incisero su tutta la mia vita».

La condanna di Berlinguer
Berlinguer, di cui pure si riconosce il «forte fascino», entra in scena quando all'undicesimo congresso, quello della sconfitta degli ingraiani, «partecipò al rito di condanna. Credo che l'intervento gli sia stato chiesto esplicitamente da Amendola. Quel suo schierarsi con la repressione del dissenso mi dispiacque molto» (così come il silenzio di Trentin). Quando poi Berlinguer divenuto segretario lancia il compromesso storico, cui Ingrao è contrario, «tra di noi non si avviò nemmeno un brandello di discussione. E d'altra parte io ero allora solo uno sconfitto». Altri «errori» di Berlinguer vengono annotati a proposito della solidarietà nazionale e del caso Moro, su cui si chiude il libro. Straordinari sono i passi da cui emergono i toni foschi e plumbei del comunismo: dalla riunione di dirigenti e giornalisti «in un'antica villa nei boschi maestosi attorno a Bucarest dalle lunghe stanze un po' buie», dove il direttore viene contestato pure «per le immagini di donnine seminude a cui
l'Unità — ahimè! — indulgeva»; alle notti di vigilia dell'undicesimo congresso, quando Ingrao era «convinto che nell'angolo della strada di casa mia ci fosse un compagno della cosiddetta "vigilanza" a controllare chi in quell'ora veniva da me, come in funzione di poliziotto di Botteghe Oscure». Salvo poi precisare: «Non era così, era un'assoluta stupidaggine la mia».
La stessa severità è applicata agli avversari. A cominciare dal Duce «giustiziato» e appeso per i piedi («tempo dopo la mia compagna mi disse i suoi dubbi e una nausea dinanzi a quella efferatezza. Reagii con asprezza. Respinsi la pietà»). Duri i giudizi sulla storia della Prima Repubblica (il piano Solo è definito «la vigilia di un putsch militare») e i suoi protagonisti. Giuseppe Saragat: «Per i suoi interventi tra il burbanzoso e il saccente finì per trovare collocazione nelle righe finali della rubrica dell'Unità "Il dito nell'occhio", quelle dedicate al "fesso dell'anno"». Giovanni Leone: «Uomo contestato che poi divenne persino fastidioso perché alla Camera mi telefonava più volte al giorno, per spiegarmi quanto fossero ingiusti (a suo avviso) i pesanti attacchi che allora subiva, e chiedendomi consigli che io non sapevo o non volevo dare». Mario Scelba: «Violento uomo d'ordine, capo rabbioso della repressione». Di Oscar Luigi Scalfaro (con cui ai tempi della presidenza della Camera «nacque un'amicizia che è durata calda e tenace fino all'oggi») è ricordata un'intervista, «forse a Montanelli», che segnò «un attacco ingiusto e per certi aspetti diffamatorio nei miei riguardi». Andreotti è raccontato mentre nell'aprile 1948 sussurra gelido al cronista dell'Unità: «Dica al suo direttore che a Lenola (il paese di Ingrao ndr) ha preso 17 voti». Romano Prodi non è nominato ma evocato nel passaggio su «un gruppo noto di intellettuali democristiani che si raccoglievano ogni tanto per divertirsi insieme, e quella volta avevano scelto di tenere una seduta spiritica: quei buontemponi avevano chiesto a qualche spiritello notizie su Moro».
L'autocritica non riguarda gli anni del fascismo, tanto meno la vittoriosa partecipazione ai littoriali, con una «brutta poesia». Ingrao ribadisce quanto già detto su quell'episodio, occasione di incontro con altri giovani che diventeranno presto «cospiratori antifascisti»; e quando dopo la guerra Il Tempo ripubblica quei versi, è Togliatti a dirgli di non darsi pensiero. «Mi stupisco dello stupore», scrive ora Ingrao a proposito delle recenti polemiche sulla partecipazione di Giaime Pintor a un convegno a Monaco nel '42: «Davvero essi ancora non sanno, non hanno capito il tempo che vivemmo, e gli incastri e il fango in cui si dovette mettere le mani per "resistere"?» (nel suo caso, l'iscrizione al sindacato fascista per diventarne dirigente e contattare operai, «progetto poi fallito»). Dopo la Liberazione, «mio padre si mosse per ottenere la cancellazione dei reati che pendevano su di me dai tempi della cospirazione antifascista. In verità io gli avevo detto che di quelle imputazioni non m'importava nulla, anzi le consideravo un onore. Ma lui voleva una specie di rivalsa dei dolori patiti. E la cancellazione venne subito».

La Resistenza e il Sessantotto
Pagine di fuoco sono dedicate alla Resistenza nella Roma occupata, cui segue l'arruolamento nell'esercito che risale la penisola ma si ferma nelle retrovie: «Non partecipai ad alcun urto armato. La cronaca di quella epopea a noi soldati fermi a Siena giungeva a lampi, a strappi e non avevamo notizie riguardanti l'evento assolutamente inedito: la Resistenza partigiana». E pagine di simpatia ai limiti dell' entusiasmo sono dedicate al Sessantotto e alla militanza delle figlie: Celestina aggredita dai fascisti, Renata colpita a Valle Giulia dalla polizia («la sera aveva i segni crudeli delle manganellate sul giovane corpo»), Chiara partita a Parigi per il Maggio (cui la famiglia invia denaro e una lettera tramite Oreste Scalzone), il genero Marco che lancia sanpietrini contro i poliziotti: «Non so se mi sentii un po' disertore» scrive l'ex presidente della Camera. Che è critico con Pasolini, schierato invece con i poliziotti: una «evidente civetteria», prova di «quanto fosse debole ancora, nel mio paese, la percezione del livello della lotta in campo in Europa».
Civettuolo è talvolta anche il libro di Ingrao, scritto con stile curatissimo ed efficace, pieno di dettagli, personaggi e annotazioni a cuore aperto: il corteo caricato dalla cavalleria guidata da D'Inzeo «tra gridi e pianti delle compagne», l'America amata in Melville e Chaplin ma odiata in Vietnam (su quella guerra, «straordinaria resistenza di popolo, ardita combinazione di partigianeria e di eserciti», non c'è ombra di revisione), lo zio crudele che lo sorprende mentre giovinetto si masturba («di colpo mi scoprì seminudo, col piccolo membro maschile drizzato. Disse qualcosa di volgare che mi fece bruciare di vergogna. Fino a quando mio nonna levò un urlo e lo cacciò: e poi mi fece una lieve carezza senza parole»), la dolce storia dell'incontro con la moglie Laura (vero contraltare umano e politico), le vicissitudini di «giovane maschio reazionario e parassitario», che ama «rotolarsi (con la figlia) all'infinito, nel letto, pizzicandola e sbaciucchiandola», ma non aiutare nelle faccende domestiche. E quando la moglie è in clinica a partorire, lui telefona dalla stazione e detta imperioso: «È una femminuccia? Si chiamerà Celestina, come mia madre».

La Stampa 8.9.06
Esce martedì «Volevo la luna», autobiografia - confessione dello storico leader del Pci: la politica, la vita privata, il sogno deluso di un mondo migliore
Ingrao, il ragazzo del secolo scorso
Dopo la Rossanda, il libro dell’ultimo dei comunisti
di Riccardo Barenghi


Il bambino testardo una sera d’estate decide che non vuole fare la pipì nel vasino. I genitori insistono ma niente, il bambino non demorde. Allora il padre gli promette un regalo, qualsiasi regalo. Il bambino accetta, fa pipì, poi guarda il cielo: «Voglio la luna». Ma il padre non può dargliela e il «fanciullino» si arrabbia: «E io rivoglio la piscia mia!»

Nasce così Volevo la luna (Einaudi, pagg. 376, euro 18,50) che uscirà martedì. Un titolo, cioè una metafora politica visto che il libro l’ha scritto Pietro Ingrao: la luna allora è la Rivoluzione, il Comunismo, anzi un mondo che attraverso il comunismo sarebbe dovuto diventato migliore, più giusto. A questo obiettivo Ingrao ha dedicato tutta la sua vita, ma oggi che ha superato i novant’anni si guarda indietro e vede che quella meta era come la luna, irraggiungibile. Di metafora in metafora, viene da domandarsi (e domandargli) se il grande vecchio del comunismo italiano oggi chieda anche la restituzione della sua vita che ha «sacrificato» in cambio di un regalo che non ha avuto.

Una domanda impertinente alla quale Ingrao risponderebbe di no. Anzi risponde di no proprio col libro che ha scritto. Se tornasse indietro rifarebbe quello che ha fatto, quella «scelta di vita» - come la chiamò il suo compagno-avversario Amendola - Ingrao non la mette in discussione, lui non si è mai pentito di essere stato comunista, né si pente in queste pagine. Orgoglioso, a volte entusiasta di questa sua militanza così lunga e profonda. Ma spesso critico, autocritico, perfino sofferente di fronte ai grandi e drammatici fatti che hanno segnato la storia della sua «fede». D’altra parte, non è la prima volta che mette in piazza quel ha maturato nel corso del tempo, tanto che una sua poesia pubblicata esattamente vent’anni fa recita lapidaria: «Pensammo una torre / Scavammo nella polvere».

Ecco, oggi Ingrao ci ripropone in prosa la torre che ha pensato e la polvere in cui ha scavato, alla ricerca di una luna che non ha mai trovato. Lo fa senza veli né ipocrisie, scrivendo il suo secolo attraverso brevi capitoli tematici nei quali intreccia la vita e la passione politica con la vita personale, gli ideali con i sentimenti, il nonno garibaldino, le confessioni fatte al prete sui suoi «atti impuri», la scoperta della poesia e dell’antifascismo, la guerra, l’innamoramento con Laura. Le quattro figlie che nascono una dopo l’altra mentre finisce la guerra, mentre il Pci viene sconfitto insieme al Psi nel ‘48, mentre scoppia la battaglia contro la legge truffa nel ‘53, con il deputato Ingrao che riceve una manganellata sulla testa dalla famigerata celere di Scelba e rientra sanguinante in Aula. Mentre muore Stalin e sale al potere Kruscev, che tre anni dopo compirà due atti politici enormi e contraddittori (la denuncia dei crimini del suo predecessore e il soffocamento nel sangue della rivoluzione ungherese). Mentre incontra leader comunisti sparsi per il mondo, Mao gli fa una grandissima impressione e Castro lo lascia deluso. E mentre gli nasce il figlio maschio, che chiama col suo nome da clandestino, Guido: «E Togliatti mi chiese con un ghigno: “Perché quel nome tedesco"?».

Togliatti appunto, l’uomo che ha segnato di sé la vita del Pci. È il leader, anzi «quel capo» come viene chiamato spesso nel libro, e con lui il giovane direttore dell’Unità ha un rapporto stretto, privilegiato, un legame profondo. Ma un rapporto anche difficile, almeno così emerge dalle pagine del libro. Ne viene fuori il ritratto di un uomo ovviamente di grandissimo livello politico (culturale un po’ meno, Ingrao rileva le sue «fissazioni duramente lontane dal pensiero e dalla letteratura del Novecento»), ma che spesso si comporta in modo liquidatorio o addirittura sprezzante, a volte utilizza il suo sarcasmo, altre volte la sua autorità per evitare le questioni più scottanti o per schierare il Partito dove il Partito non vorrebbe stare. Così accadde col XX congresso del Pcus di cinquant’anni fa, quello del Rapporto segreto di Kruscev sui crimini di Stalin, così con la rivolta polacca degli operai di Poznan, così con l’Ungheria, così anche nel ‘61 quando fu sempre la reticenza su Stalin - il Rapporto era uscito ormai da cinque anni e Togliatti ancora non ne parlava - a provocare una ribellione di tutto il gruppo dirigente. Da Amendola a Ingrao, da Pajetta ad Alicata, da Chiaromonte a Natoli, da destra a sinistra tutti si schierarono contro il leader. Il quale rispose sfidandoli: «Se volete farmi la lotta, io sono pronto: risponderò in prima persona».

Ingrao non mette certo in dubbio la statura politica di Togliatti e gli dedica un sincero omaggio nel ricordo della sua morte. Ma per il resto è un susseguirsi di comportamenti, discorsi e prese di posizione che lo sconcertano nel modo e lo trovano in dissenso nel contenuto. Anche Ingrao commette errori, lui stesso ne sottolinea molti tra cui il «più grave della mia vita», l’editoriale sull’Ungheria intitolato Da una parte della barricata a difesa del socialismo. La parte era quella sovietica. Tuttavia l’autore non nasconde il suo tormento, come se, mentre scriveva quell’editoriale, non fosse d’accordo con quel che scriveva. La disciplina di partito e la fedeltà al Capo facevano miracoli. Ma il Capo no, quei tormenti, se li aveva, non li lasciava trapelare. Tanto che una sera di quelle, Ingrao andò a trovarlo a casa e «gli dissi subito il mio sgomento per quella invasione. Togliatti mi rispose asciuttamente: “Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più"».

Parecchi bicchieri deve aver bevuto «quel capo» per digerire tutto quel che accadeva nell’impero comunista. Anche se infastidito e resistente alle pressioni sovietiche, anche se paladino dell’autonomia del Pci tanto da provocare non pochi dispiaceri al Pcus, pubblicamente e nel Partito ha sempre fatto una scelta di campo. Si doveva stare con l’Urss perché «il nemico era alle porte». E qualsiasi rivolta contro il potere sovietico, per quanto fosse giusta e pure agita da comunisti, faceva il gioco del nemico, il capitalismo, l’Occidente, l’America. Ecco perché bisognava schierarsi su quella barricata che tanto fece e ancora fa soffrire Ingrao.

La sua storia però non finisce con Togliatti, anzi fu proprio dopo la morte del segretario che lui raggiunge il momento più alto della sua vita politica. Quando, cioè, diventa il leader della sinistra del Partito, praticamente il capo di una frazione (così venivano chiamate le proibite aggregazioni interne) che apre lo scontro. Vogliono un Pci più libero dal legame con Mosca, più aperto all’esterno, più di sinistra nella lettura della società. Rivendicano il diritto al dissenso. Ma perdono contro Amendola, Alicata, Pajetta, alleati col segretario Longo. Il leader della sinistra esce sconfitto dall’XI congresso del ’66, l’applauso della platea, oggi si direbbe una standing ovation, non può cambiare i rapporti di forza.

Vennero altri strappi, con Mosca sull’invasione di Praga nel ’68 (Ingrao stilò il comunicato di condanna insieme a Cossutta), col gruppo del manifesto, radiato col voto favorevole del loro maestro (e, anche qui, l’ammissione dell’errore). E dunque gli studenti, gli operai del ’69, i ritardi che Ingrao vedeva nella politica del Partito. Berlinguer, il compromesso storico, il terrorismo, la fine di Moro.

Anche il libro finisce con Moro, anzi l’anno dopo: quando Ingrao rifiuta di fare il presidente della Camera per la seconda volta e lascia il posto a Nilde Iotti. Mancano gli anni Ottanta (e infatti non compare Napolitano, che aveva sostituito Amendola come leader migliorista, diventando così l’antagonista dell’autore). Soprattutto non c’è l’89, il crollo del Muro, la morte del comunismo, la svolta di Occhetto, lo scontro interno - guidato da Ingrao stesso - contro quella svolta. Un’assenza pesante ma voluta. Forse perché, nonostante la battaglia che fece per tenerlo in vita, il comunismo che aveva tanto cercato Ingrao lo considerava morto dieci anni prima, definitivamente sconfitto. In Urss imperava Breznev, in Afghanistan i suoi carri armati e la luna era ormai tramontata.

l’Unità 8.9.06
Per andare oltre l’«Italianistan»
di Luigi Manconi


La vicenda della Consulta islamica e, in essa, del ruolo dell'Ucoii sembra conclusa: e positivamente. Il modo in cui ci si è arrivati non è, indubbiamente, tra i migliori, ma tant'è: se ne sono viste di peggio. E si può aggiungere che si tratta - per la società, la cultura e la politica italiane - delle prime vere prove di integrazione (in qualche modo, i test più impegnativi): e, dunque, dilettantismi e approssimazioni sono nel conto. Fa sorridere, ad esempio, che l'opposizione di centrodestra chieda l'espulsione dell'Ucoii dalla Consulta islamica se solo ricordiamo (sono passati appena pochi mesi, via) che la presenza in quell'organismo dello stesso presidente dell'Ucoii, Mohammed Nour Dachan, fu voluta - assai opportunamente - dall'allora ministro dell'Interno, Giuseppe Pisanu. E fa venire il latte alle ginocchia che Roberto Calderoli (e chi, sennò?) chieda - tanto per fare il ganassa - «l'espulsione dei musulmani dall'Italia». E quei cinquantamila cittadini, italiani da sempre, nati in questo paese da genitori italiani, e che si sono convertiti all'Islam (come altri alla Madonnina di Civitavecchia o al Gran Mogol), dove li mettiamo? In Mauriziana?
Dopo di che, accadono vicende tragiche che sembrano rimettere tutto in discussione, far precipitare la situazione in cupi scenari barbarici e, infine, radicalizzare lo «scontro di civiltà» in una versione tanto più crudele quanto più domestica e claustrofobica. Kaur P., giovane vedova indiana, residente regolarmente in Italia, regolarmente titolare di un lavoro stabile e di una casa in affitto, nella bassa modenese, si è tolta la vita - secondo il Corriere della Sera - per sottrarsi a un matrimonio non voluto. Approfondendo i fatti, si scopre, poi, che le cose sono terribilmente più complicate. Non solo: ogni suicidio fa storia a sè e le motivazioni di una simile scelta sono in larga parte imperscrutabili e indicibili. E, tuttavia, quella storia ci parla di questioni che ci riguardano direttamente: tanto più perché si collegano alla vicenda, di poco precedente, della giovane pakistana, uccisa dai propri familiari perché temevano che «diventasse come le altre» e andasse a vivere con un italiano.
Di fronte a simili tragedie, la volontà di comprendere viene dopo - anche solo un attimo dopo - il giudizio morale. È del tutto evidente che - a proposito di quei fatti - nessuna giustificazione è non dico proponibile, ma nemmeno pensabile. Al contrario: quanto accaduto deve aiutare ad affrontare le contraddizioni, e le fatiche, della convivenza con criteri limpidi e rigorosi. Punto di riferimento inequivocabile e insuperabile è il nostro ordinamento giuridico e il sistema di valori cui si ispira. La conseguenza è una sola: il nostro Stato può/deve garantire autonomia e spazi adeguati per la pluralità di culture, stili di vita, forme di relazione, espressioni religiose, consuetudini alimentari, che gli stranieri coltivano. Fino a che - si badi: fino a che - quella pluralità di opzioni non arrivi a confliggere, appunto, con l'ordinamento giuridico e i valori che lo qualificano. Per capirci: nelle mense scolastiche e in quelle aziendali si deve arrivare ad assicurare la possibilità di un menù che rispetti le regole alimentari di altre confessioni religiose; e già in alcuni contratti di lavoro è previsto un'organizzazione del tempo e del riposo settimanale, che tenga conto delle attività di culto.
Ma è quello stesso ordinamento giuridico di riferimento a imporre, pena sanzioni adeguate, il rispetto del principio della parità tra uomo e donna e la traduzione di tale principio in garanzie conseguenti (per le scelte individuali di vita così come per l'educazione dei figli).
Queste drammatiche vicende di cronaca rivelano, pertanto, tutte le opportunità e, insieme, i limiti e i rischi e i costi dell'integrazione possibile. Quelle donne, grazie alla loro esperienza nel nostro paese, possono arrivare ad affermare la propria autonomia; ma quel processo di integrazione lascia fuori - ai margini e ostili - altri che, contro quella volontà di emancipazione, operano attivamente e talvolta violentemente. Ora, è del tutto evidente che questioni di tale natura e contraddizioni così laceranti, non si risolvono solo con la severità della legge e, tanto meno, con i buoni sentimenti; e non ci si pone al riparo dai costi, spesso elevati, di quei meccanismi di inclusione attraverso le più nobili dichiarazioni di intenti o la firma di impegni formali. Il primo a saperlo (e meglio di tanti altri) è proprio Giuliano Amato; dunque, la sua richiesta all'Ucoii di sottoscrivere una «carta dei valori» equivale alla proposta di un «patto di cittadinanza», che può sancire l'inclusione di nuovi soggetti all'interno di un sistema di regole. Ovvero di diritti e di doveri. Va da sè che si tratta di un atto simbolico: ma quanto più esso sarà reso solenne e ne sarà enfatizzato il significato, tanto più la rottura di quel patto risulterà onerosa per chi vorrà violarlo; e sarà tanto più «costoso» il sottrarsi ai limiti e ai vincoli che, per converso, il godere di opportunità e diritti comporta.
Infine, va ricordato che la situazione italiana, anche dopo la riforma del Concordato, registra una condizione di forte disparità tra la religione cattolica e le altre confessioni; da questa situazione di disuguaglianza deriva la necessità delle «intese», che - non a caso - mirano a regolamentare, ma ancor prima a riconoscere e garantire, le religioni diverse da quella cattolica: anche quando - come nella maggioranza dei casi, peraltro - riguardano cittadini italiani, da sempre cittadini italiani. È questo che impone norme, e anche politiche e istituti, destinati a tutelare le confessioni religiose e le pratiche di culto non solo per il singolo individuo ma anche per le comunità di fede.
In ogni caso, per tornare alla questione degli stranieri, e per rispondere alle perplessità manifestate dai Radicali italiani, va precisato che - certo - la Consulta non è un organismo di rappresentanza democratica dei musulmani presenti nel nostro paese, ma nemmeno un casuale assembramento di individui. E se è vero che l'integrazione degli stranieri deve avvenire, com'è ovvio, su base esclusivamente individuale e corrispondere a un patto tra lo Stato e la singola persona, resta ineludibile la necessità di riconoscere diritti e garanzie, spazi pubblici e prerogative per identità e tradizioni, confessioni e culti, che risultano minoritari: e destinati, di conseguenza, a patire esclusioni e a subire discriminazioni.

Aprileonline 8.9.06
Cambiare da sinistra, cambiare la sinistra
A Pesaro domani l’assemblea della sinistra ds. All’ordine del giorno due proposte: un manifesto politico e una Fondazione culturale
di Gianni Zagato


"Cambiare da sinistra, cambiare la sinistra". Può apparire un gioco di parole, in realtà è il presente e il futuro del nostro Paese che questa frase evoca. Cambiare il Paese e cambiare la politica. Non sono due sfide separate o parallele, non c’è un “prima” e un “dopo”, la partita è la stessa. Di questo discuteremo domani a Pesaro, alla festa dell’Unità, nell’assemblea nazionale della sinistra dei ds. Ora l’Unione governa l’Italia, dopo aver vinto una durissima campagna elettorale il cui esito, giocato sul fil di lana, non è stato quello atteso, specie dopo il voto regionale dello scorso anno. Il rischio di declino, di declassamento sulla scena europea e internazionale verso cui l’Italia è stata portata da Berlusconi è così serio e profondo che solo un’azione di governo netta, risoluta, duratura può davvero invertire la rotta. In tre mesi qualcosa di nuovo c’è stato e si è visto.
I segni di disagio, di malessere, anche di acuta delusione che avvertiamo in non poca parte di quell’elettorato che ha premiato Prodi e l’Unione, non devono mettere in ombra altri segni che si sono manifestati nell’azione di governo, segni che già costituiscono una risposta ai cinque anni di declino berlusconiano. Non era ancora finito il rito di giuramento dei ministri che subito la scelta laica, europea, moderna di Mussi sulle staminali ha fatto giungere alla comunità scientifica internazionale, al mondo della ricerca, alle ricadute che i suoi esiti hanno sulla concreta vita quotidiana delle persone, la notizia che l’Italia ora c’è. Poi è arrivato il decreto Bersani, poi ancora l’azione diplomatica e politica di D’Alema nella vicenda mediorientale. Queste sì sono “tracce” che ben si vedono e di cui merita parlare.
Diverso, dobbiamo dirlo con chiarezza, è il provvisorio giudizio che fin qui possiamo dare, che danno gli elettori che pur ci hanno votato, sul carattere “sociale” dell’azione del governo. La vicenda della legge finanziaria, che ci accompagnerà nei prossimi mesi con il suo carico non solo di numeri ma anche di insidie, ci dice prima di tutto una cosa: buona parte di cui si sta discutendo e su cui ci si appresta a decidere non è esattamente la stessa parte che sta scritta nel programma con cui l’Unione ha ottenuto dagli elettori fiducia per il governo. Questo è un nodo delicatissimo, che a tutte le parti in causa conviene sciogliere ben presto e nel segno della coerenza tra il programma elettorale e l’azione di governo. Si dovrebbe mettere da parte, proprio a partire dalla scelte “sociali” dell’azione di governo, non solo ogni continuismo con il governo precedente, ma anche uno schema che nel nostro Paese si ripete imperterrito ormai da troppi anni. Quello per il quale in Italia cambiano i governi ma quando si apre il capitolo “economia” la discussione torna ad essere sempre la stessa: come aggiustare i conti dell’oggi e con quali tagli. Quasi mai una simile discussione - che certo ha una sua fondatezza – avviene però in un contesto che sappia indicare un nuovo progetto sociale del Paese, una qualità nuova dello sviluppo economico, produttivo e ambientale. Insomma, una visione nuova della società e di ciò che prima di tutto la rende tale e cioè il grado di equità sociale che la segna.
“Tracce” di quel progetto sociale di cui l’Italia ha bisogno nel programma dell’Unione si potevano riscontrare. Fin qui, la vicenda della Finanziaria non le ha ancora messe in luce. Siamo ancora in tempo? Siamo in tempo per tradurre nei numeri e nei conti di una legge dello Stato quanto scritto nel Programma? Ad esempio che scuola, università, ricerca scientifica e tecnologica sono le principali leve dello sviluppo del paese e che dunque lì prima di tutto si deve investire? Che il nodo gordiano del lavoro precario, tema decisivo forse più di altri in campagna elettorale, va ora sciolto e risulta per noi difficile immaginare che possa semplicemente sparire dalla legge finanziaria?
Che si può fare quell’intervento sulle rendite, di cui appunto c’è “traccia” nel programma elettorale dell’Unione? Che rapporto c’è – chiediamo – tra il consistente trasferimento di risorse all’industria che questa finanziaria si appresta ad attuare e il dato di Bankitalia che indica per il 2005 una crescita delle imprese superiore al 34% ma che rileva, al contempo, la perdurante arretratezza tecnologica, la creazione di lavoro industriale sempre più precario, la dimensione sempre più piccola e marginale dell’impresa italiana di oggi?
E’ Mediobanca a dirci che la ricchezza destinata ai salari è scesa negli anni dal 70 al 43 per cento, mentre quella riservata agli azionisti è salita nello stesso periodo di otto volte tanto. La crescita delle disuguaglianze aumenta nel nostro paese fino a raggiungere ormai i livelli americani. Ecco perché chiamare in causa il tema della “povertà” in un paese nel quale 7 milioni di italiani vivono ancora oggi con una pensione inferiore ai 500 euro mensili, vuol dire chiedersi se non vi sia un altro modello sociale, diverso da quello per il quale “crescere” equivale a tagliare sempre e comunque la spesa sociale. A meno che sotto e dietro i numeri della finanziaria, spesso così diversi tra il tavolo del ministro dell’economia e i tavoli degli altri ministri di governo, non finisca per spuntare prima o poi l’idea che lo stato sociale “comunque" vada ridotto e ridimensionato.
Cambiare da sinistra, dunque. Ma anche “cambiare la sinistra”, il modo e la forma di esercitare l’azione politica. Un cambiamento che riguarda ognuno di noi, i valori di riferimento a cui ci ispiriamo, la coerenza tra il programma che ci diamo e l’agire politico che esercitiamo, il rapporto laico che sappiamo far vivere nella società di oggi tra la politica e l’etica.
Equità sociale, modello di sviluppo economico del paese, qualità della politica. Oggi è il tempo delle scelte. Un Manifesto per la sinistra italiana e una Fondazione politico-culturale, sono queste le due proposte che Fabio Mussi avanzerà domani ai dirigenti dell’Area della sinistra Ds. Cerchiamo di essere coerenti. Un anno fa a Firenze, ci siamo interrogati sulla “Sinistra che verrà”. C’era ancora il governo Berlusconi, e ci animava il giusto “dovere patriottico” di sconfiggerlo. Tutti insieme, a fatica, ci siamo riusciti. Oggi, proprio nella fase iniziale del nuovo governo e nella indeterminatezza crescente di un partito democratico che fin qui ha finito per indebolire la forza politica e il profilo identitario dei Ds, diciamo che ci vogliono idee, proposte, valori, programmi e scelte. Per cambiare da sinistra e per cambiare la sinistra.

Apcom 07-09-2006 20:50
LAZIOGATE/ CANCRINI: STORACE HA PORTATO A DEGRADO GRAVISSIMO
"An partito senza responsabilità nell'amministrazione"


Roma, 7 set. (Apcom) - "La giunta Storace ha portato ad una situazione di degrado gravissimo". E' quanto ha dichiarato Luigi Cancrini del Pdci a margine di un incontro dedicato proprio al Laziogate in corso alla festa nazionale della Rinascita della sinistra.
Secondo Cancrini l'ex governatore del Lazio ha commesso un errore gravissimo e cioè "pensare che per governare basti solo l'appartenenza o la vicinanza politica. Non è così. Servono le competenze. Storace, ma in generale An, ha promosso in luoghi di direzione persone senza competenze adeguate".
"In Alleanza Nazionale - ha aggiunto Cancrini - partito che non ha mai avuto la responsabilità nell'amministrazione, c'è stata molta leggerezza: tante le persone che si sono infilate dentro a vari incarichi senza alcuna vigilanza. Ma la cosa più grave fatta da Storace è stata quella di immaginare una trasformazione basata sul 'privato alla Formigoni' ci sono state drammatiche ingenuità. Ora si tratta - ha concluso - di riportare piano piano la situazione alla normalità".

Apcom 07-09-2006 20:49
FINANZIARIA/ CANCRINI: VA DESTINATO 5% SPESA ASL A SALUTE MENTALE
"Riprediamo Veronesi: legge Basaglia va finalmente attuata"

Roma, 7 set. (Apcom) - La legge Basaglia va difesa, ma contemporaneamente va attuata a livello territoriale. A sostenerlo è lo psichiatra ed esponente del Pdci, Luigi Cancrini.
"Per attuare questa legge - ha spiegato Cancrini, oggi protagosnita di un dibattito sulla sanità alla Festa di Rinascita a Roma - devono esserci sul territorio i servizi che ancora mancano. Penso che una soluzione potrebbe essere quella di creare, a livello locale, delle comunità, al massimo di 15-20 pazienti, dove queste persone possono stare, facendo un percorso psicoterapeutico, e un lavoro che duri nel tempo".
Secondo l'esponente del Pdci il rilancio della psichiatria in Italia va fatto proprio su questa strada, sulle piccole comunità, aiutando questi pazienti a riprendere in mano la propria vita. "Un elemento interessante che potrebbe essere inserito nella prossima Finanziaria - ha spiegato Cancrini - è quello già sviluppato nel 2001 dall'allora ministro della Sanità, Umberto Veronesi, e cioè la decisione di dedicare il 5% della spesa sanitaria di ogni Asl alla salute mentale. Penso che questo sia un aspetto importante che dovrebbe avere il giusto posto nella Finanziaria".

Apcom 07-09-2006 20:36
FINANZIARIA/ CANCRINI (PDCI): NECESSARIO RIVEDERE FONDO SOCIALE
L'esponente Pdci a dibattito sulla malasanità del Lazio

Roma, 7 set. (Apcom) - E' necessario rivedere il Fondo Sociale, storicamente inadeguato e regredito tra il 2001 e il 2006. A sottolineare questa necessità è Luigi Cancrini del Pdci, a margine di un dibattito dedicato alla malasanità del Lazio, in corso questa sera alla festa nazionale dei Comunisti Italiani.
"La sanità - ha detto Cancrini - spende attualmente il 6,70% del Pil, per il sociale, secondo quanto previsto dalla Finanziaria del 2006, vale a dire quella di Berlusconi, si spende lo 0,09%. Per me questo è folle. La riduzione, in questi ultimi anni - ha aggiunto - è stata drammatica. Ora c'è la necessità di capire che queste cifre andrebbero aumentate di oltre 6 volte per andare incontro alle esigenze reali dei servizi".
Cancrini ha quindi spiegato di aver presentato, per la prossima Finanziaria, una proposta a questo proposito e cioè di "andare per il fondo sociale allo 0,2% del Pil. Il problema - ha continuato Cancrini - è che ci sono molti Comuni dove i servizi sociali sono inesistenti. Ecco che è necessario rifinanziare questi servizi e crearli laddove non ci sono".
L'esponente dei Comunisti Italiani ha inoltre aggiunto di aver presentato un'altra proposta, già recepita all'interno del Dpef, riguardante il rifinanziamento della legge 285, quella riguardante cioè l'assistenza ai minori. Tra i progetti che Cancrini si è posto nell'ambito della Finanziaria c'è, inoltre, quello riguardante il privato-sociale che secondo l'esponente del Pdci "sta morendo per i ritardi nei pagamenti". Le rette - ha spiegato - spesso vengono saldate con enorme ritardo. Ecco perché ho proposto che, a distanza di 60 giorni dalla fatturazione, si calcolino gli interessi".
"Porterò - ha concluso Cancrini - all'attenzione della Finanziaria anche altri due punti per me importanti: quello riguardante le previsioni di pesa relative alla psichiatria e alla tossicodipendenza e l'attuazione della riforma relativa alla medicina penitenziaria".


Repubblica 8.9.06
La funzione moderna del socialismo
di Alfredo Reichlin


Non considero un caso se si è aperta sulle pagine di Repubblica una discussione sul futuro della sinistra. È vero che viene avanti una spinta politica e una tendenza culturale ancora confusa ma che fa leva in qualche modo sulle cose: le grandi cose nuove dell´Italia e del mondo. La quale tendenza pone una questione alla quale non si può rispondere con un'alzata di spalle. Riconosce che è tempo di elaborare un pensiero diverso, e anche critico verso l'ondata conservatrice e ultra-liberista di questi anni. Al tempo stesso, però, non si limita più – come di solito – a contrapporre il riformismo socialista all´estremismo. Essa muove dalla convinzione che nel mondo di oggi l'insieme di quella cosa che è stata la sinistra storica (cioè l'espressione di quel vasto movimento reale che si è ispirato alle idee del socialismo) è storicamente superata. In sostanza fa leva sul fatto che la vecchia simbiosi sinistra-socialismo non è più scontata. Questa è la novità. E infatti non è più scontata. E qui sta la forza di questa posizione. Sta nel fatto che la sinistra è obbligata a dare una risposta nuova alle sfide della società moderna che, in effetti, ne rimettono in discussione i fondamenti.
Sono quindi le cose nuove del mondo che ci impongono una riflessione. La quale a mio parere (apro una parentesi) confermerebbero la necessità di dar vita a un soggetto politico nuovo e più largo della vecchia sinistra. E, tuttavia ne condiziona la natura e la ragion d´essere. Perché finalmente emerge il vero discrimine. Voglio dire che se la vicenda del partito democratico non è la spia di una crisi della democrazia dei partiti, e perciò della democrazia stessa e non rappresenta, di conseguenza il rischio di approdare a una sorta di formazione populista e plebiscitario anche la sua costruzione non è separabile dalla necessità di rispondere (a suo modo) a quelle nuove sfide. Perciò io non capisco certi silenzi. Se si pensa che basti muoversi sul terreno della politica corrente, ci si inganna. Altri parleranno alle nuove generazioni le quali leggeranno il silenzio come la rinuncia, dopo il Novecento, cioè dopo il secolo delle classi e dello Stato, ad affermare una nuova funzione storica della sinistra e il suo ruolo essenziale per ciò che riguarda la soluzione dei giganteschi problemi del mondo di oggi.
La sinistra non è una categoria dello spirito ma una forza storica, quello strumento politico e ideale che si era andato costruendo a partire dal conflitto sociale nato dalla rivoluzione industriale. Dopotutto è una funzione. Esiste oggi questa funzione? E quale è? Io risponderei che, se è vero che la cultura politica e il patrimonio della sinistra storica non sono più sufficienti, la domanda da porsi è se le cose, le grandi cose del mondo, sono tali - a leggerle bene - da richiedere non l'eutanasia ma la fondazione di un nuovo pensiero. Un pensiero che io chiamo socialista perché il suo orizzonte va al di là dell'ordine esistente e non ha paura di misurarsi con il fenomeno dominante dei nostri tempi e che si riassume nel fatto che è finita l'occidentalizzazione del mondo e che, quindi, un problema molto nuovo e grande (un problema di civiltà) è in discussione. E ha l'ambizione di parlare alle grandi masse umane non solo dell´Occidente ma dei paesi nuovi. Il quale pensiero ha bisogno di una nuova forma-partito ma non di dissolversi all´interno di una combinazione elettorale. Penso quindi a un riformismo più avanzato ma anche più realistico rispetto a una visione troppo riduttiva quale ci è stata proposta da Anthony Giddens. E per restare al problema italiano mi sembra evidente che la nascita di un nuovo soggetto politico e la sua affermazione non può avvenire rimanendo nel "cielo della politica" oppure nel mondo dei sentimenti evocato da Veltroni. Perché non basta dire in astratto con chi vogliamo farlo questo partito, bisogna dire anche contro chi. E dire "contro chi" significa affrontare dure lotte e fare i conti non solo con il primitivismo di una certa sinistra ma con le attuali forze dominanti e anche con tanto conservatorismo che è in noi.
Il socialismo è parola vaga ma i problemi che si pongono chiedono qualcosa che allude a un nuovo universo concettuale. Sono stati versati fiumi di inchiostro sulla mondializzazione in una disputa tra chi la condannava in quanto fattore di nuove e più profonde disuguaglianze, e chi invece ne metteva in luce (e io tra questi) gli effetti positivi in termini di sviluppo economico, di riduzione dell'area della povertà, di strumento per l'entrata in scena di nuovi protagonisti (Cina, India, ecc.). Ma questo grandioso fenomeno storico va ormai valutato per gli sconvolgimenti che sta creando alla vita sociale, e perfino – direi – nel modo di essere dell'uomo moderno. La politica è in forte ritardo. Sembra ancora attardarsi nella vecchia disputa tra statalisti e mercatisti. Ma i fatti ci dicono un´altra cosa. E' ormai in atto una nuova trasformazione del capitalismo per cui è proprio la natura dello Stato e dei mercati che sta cambiando. Si va formando una nuova classe globale, planetaria, fatta di finanzieri, grandi manager, fruitori di nuove rendite. Il denaro fatto con il denaro da parte di chi governa il denaro anche se non produce nulla. Per dare un'idea di come tutto ciò abbia ormai ben poco a che fare con quello che finora è stato il mercato, Gallino ci ricorda che i fondi pensione, fondi di investimento e assicurazioni rappresentano quasi il 50 per cento del capitale mondiale. Il che significa che il grande capitale è controllato non più da una miriade di imprenditori e di padroni delle macchine ma da una nuova, molto ristretta oligarchia finanziaria la quale dispone di risorse colossali di cui però non ha la proprietà. Un vetero-marxista direbbe che si stanno creando le basi materiali non per più liberi mercati ma per una sorta di neo-socialismo sia pure reazionario. Ma la forza di questa oligarchia è che dietro di essa ci sono milioni di piccoli azionisti, risparmiatori, lavoratori di ogni genere interessati alla pensione e ai rendimenti di piccoli capitali e di contratti assicurativi. Quasi un nuovo blocco sociale, completamente diverso e molto più esteso di quello classico tra "produttori".
Gli effetti di tutto ciò sull'architettura complessiva della società moderna sono sconvolgenti soprattutto per il fatto che questa forma di capitalismo finanziario globalizzato non solo non conosce frontiere ma nemmeno i vincoli sociali e statali che condizionavano i poteri dell'economia quando i mercati erano regolati dagli Stati nazionali. E' questo il trionfo del mercato? Io ne dubito.
Misuriamo bene gli effetti di questa assoluta libertà di spostare i capitali laddove il rendimento – comunque perseguito – è massimo. Da un lato, è vero, si sono create le condizioni per la accumulazione di grandi ricchezze e quindi per creare sviluppo. Dall'altra parte, però, si è affermata una legge "oggettiva", alla quale non solo il lavoro operaio ma i ceti medi non possono più sottrarsi, secondo la quale un "Dio ascoso" chiamato "liberismo" (che poi consiste nella assoluta supremazia di una ristretta oligarchia, che Jospin paragona per la sua distanza abissale dai comuni mortali alla vecchia aristocrazia francese prima della rivoluzione) a decidere lei la più grande e sconvolgente redistribuzione del lavoro su scala mondiale, riducendo anche il lavoro occidentale a un mondo senza diritti. Il che è tanto più ingiusto e assurdo nel momento in cui il lavoro diventa sempre meno semplice erogazione della forza fisica e sempre più impiego della intelligenza. E la vittima non è solo il lavoro dipendente. Noi stiamo assistendo a una specie di tramonto delle borghesie nazionali. Con tutto quello che la borghesia ha significato nella cultura occidentale, nei valori dominanti, nella affermazione di un senso dello Stato e delle responsabilità.
E' chiaro, quindi, perché tutto il vecchio impianto su cui si era costruito il pensiero del socialismo non regge più. Ma tutto ci dice anche che la "storia del socialismo non è finita". Ce lo dice il mondo in cui viviamo il quale ci appare sempre più come una trama complessa di relazioni in continua evoluzione. E se è vero che questa evoluzione è sempre più condizionata dall'azione dell'uomo moderno e dall'uso che egli sta facendo di una scienza che scavalca tutti i vecchi limiti, questo vuole dire che la natura in cui viviamo è sempre meno solo un rapporto tra cose. E' sempre più un rapporto tra gli uomini e tra questi e la natura. Anche da qui il bisogno di un nuovo pensiero politico. Dopo Machiavelli e l'autonomia della politica non più legittimata dalla Chiesa, dopo la rivoluzione francese e i diritti del cittadino, dopo la scoperta marxiana che la struttura giuridica non è separabile dai rapporti di produzione, è arrivato il momento di capire che non è più sostenibile una politica che non prenda coscienza di questa trama sempre più complessa di relazioni, essendo questa la condizione per governare il sistema in cui viviamo. Se i laici così come i cattolici non assumono questa nuova dimensione storica, se una grande forza riformista moderna non assume come suo compito questa necessità di "stare insieme", pena la rovina comune, finiremo tutti con l'essere arruolati in qualche guerra tra religioni. Non voglio ripetere il vecchio dilemma socialismo e barbarie. Ma le cose nuove del mondo non dovrebbero troppo illudere i fautori della "morte del socialismo".


VENERDI 8.9.06 - ULTIM'ORA - CINEMA VENEZIA: CONSEGNATO A BELLOCCHIO IL PREMIO BIANCHI

Il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani (SNGCI) ha consegnato stamane il Premio 'Pietro Bianchi' 2006 al regista Marco Bellocchio, nel contesto della Mostra del Cinema di Venezia. A seguito della cerimonia, è stato proiettato un film scelto dallo stesso Bellocchio per rappresentare la sua carriera, 'Il diavolo in corpo' con Maruschka Detmers, che venne accolto nel 1986 come un film scandalo, la cui copia è stata messa a disposizione per la proiezione veneziana dall'Istituto Luce. Il premio, intitolato alla memoria di uno dei padri della critica cinematografica italiana, è il riconoscimento con il quale i giornalisti cinematografici tradizionalmente festeggiano a Venezia i protagonisti del miglior cinema italiano. Il 'Bianchi' è stato negli anni assegnato ad attori come Alberto Sordi, Sophia Loren e Nino Manfredi, a produttori come Dino De Laurentiis e Goffredo Lombardo, e autori come Mario Soldati, Cesare Zavattini, Alessandro Blasetti, Mario Monicelli, Luigi Comencini, Giuseppe De Santis, Francesco Rosi, Dino Risi, Ettore Scola, Paolo e Vittorio Taviani, Carlo Lizzani, Bernardo Bertolucci, Michelangelo Antonioni. (08 Settembre 2006 - ore 13:59 Repubblca Metropoli / segnalato da Barbara De Luca)

Liberazione 8.9.06
Ingrao: Voglio la Luna
di Rina Gagliardi


Già nel titolo si respira un’allegoria: Volevo la Luna, così si chiama l’autobiografia di Pietro Ingrao, Einaudi editore, da oggi nelle librerie. Allusione scoperta alla vita “utopica” di un uomo del tutto speciale, che ha attraversato quasi per intero il ventesimo secolo, ha occupato posizioni di vertice nella vita politica italiana e nella sinistra, ma non ha mai cessato di cercare e ricercare, con lo sguardo rivolto sempre in alto - e in lungo. Ma anche, forse, rivendicazione di un’identità - non lo hanno accusato tante volte, specie negli anni passati, di essere, come politico, “astratto”, “sulle nuvole”, appunto “lunare”? Poi, a pagina 167, si può leggere l’origine concreta di questa scelta di titolazione: il piccolo Ingrao, un po’ capricciosamente, si rifiuta di fare pipì nel vasino prescritto. Il padre lo convince con una promessa: ti farò qualsiasi regalo tu mi chieda. Quando il bambino Pietro, a missione compiuta, domanda il suo regalo, si staglia in quel momento nel cielo «una maestosa luna d’argento»: così domanda in dono, nientemeno che la luna. E alla notizia che no, non la potrà mai avere, strilla come un ossesso: «Rivoglio la mia piscia!». Quanti altri uomini illustri della Repubblica sarebbero capaci di raccontare, con tanta sofisticata arguzia, di se stessi “fantolini”?

E’ solo uno dei passi di una lunga ed emozionante narrazione. Ogni capitolo, abbastanza breve e circoscritto, è dedicato ad un fatto identificante, la struttura, così, pur abbastanza rigorosamente cronologica, diventa quasi “circolare” - ogni volta è come un nuovo inizio. Sono 372 pagine che ti prendono come d’incanto, e ti portano dentro il corso di una vita, tra la prima guerra mondiale e la fine degli anni settanta del secolo scorso. Una vita tanto densa da ritmare, nelle sue scelte e nei suoi passaggi principali, la storia di questo Paese, dal fascismo alla Resistenza, dal Pci alle prime grandi crisi dell’Est (la rivolta polacca, Budapest, il XX congresso del Pcus), dal luglio ’60 al biennio degli studenti e degli operai nel ’68-69 - fino al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro, che chiude la fallimentare stagione del compromesso storico, su cui il racconto vero e proprio si chiude. E contemporaneamente, non sembri un paradosso, questa è anche la vita di un uomo “semplice”, sensibile, ricco di affetti personali, vocato, nelle sue intime fibre, ad un’esistenza contemplativa, forse perfino oziosa, capace di gustare il silenzio di notti solitarie e di cieli stellati, in perfetta solitudine.
Ho pensato, scorrendo le pagine di questo libro, che in realtà non c’è alcun paradosso: solo chi sa stare con se stesso, fino in fondo, può comunicare davvero con gli altri, può trovare il suo “prossimo”. Ecco qui, chissà, uno dei “segreti” della personalità di Pietro Ingrao: un solitario che ha vissuto tutta la sua vita all’insegna dell’incontro. Una fittissima rete di incontri umani, e di ritratti ora appena schizzati, ora tenerissimi (come quello dedicato alla “luminosa” Laura, compagna di Pietro per sessant’anni) cosparge il suo racconto: dove prendono vita, senza gerarchie, dall’oste dell’“Osteria della Rivazza” a Mao Tse Tung, da Alicata all’“indiavolatissima” prima figlia Celeste. Una folla umana, variegatissima, guardata con amore e interesse. Frutto, certo, della scelta di consacrarsi alla politica attiva, ma forse anche di una curiosità naturale, “animale”, “premoderna”. E forse anche per questo, Pietro è stato un leader così sui generis - così non confondibile con il ceto politico che pure ha attraversato, conosciuto, interloquito: perché una parte di lui alla politica, ivi compresa la politica maggiore e più alta, non è mai appartenuta. Nessun politico “normale” scriverebbe, come lui ha fatto, un libro nel quale la cura della parola è così intensa e tormentata, o la punteggiatura segue regole così desuete (l’uso quasi maniacale dei due punti), o la tornitura delle frasi così studiata. E chi avrebbe il coraggio di esprimere, a larghi tratti, tutta la nudità dei propri dubbi, a volte senza traccia di alibi o di autonobilitazioni? «Questa domanda è tornata quando sono passato ad un altro fare: alla trama della politica, che - pur essa - suppone l’ambire ad una sapienza sul “generale”: addirittura sull’esito degli universi umani. Che mi trascinava a quella pretesa? Una vanità? O un’inquietudine sul senso, un dubbio che segnalava la grave incertezza del tempo, i tuoni della tempesta che stava investendoci?» (p.50)
***
Certo, per la generazione di Ingrao la politica è stata una attitudine “imposta” dal tempo, dalla necessità di resistere al fascismo, alla barbarie della guerra, alla devastazione civile e culturale dell’Italia. Fuori da questo contesto imperativo, chissà, Pietro avrebbe potuto essere altro - un avvocato scontento, come volevano i suoi, un brillante regista e\o un poeta “postermetico”, come avrebbe desiderato lui (ed in parte ha fatto). Il suo itinerario intellettuale di formazione (così singolarmente coincidente con quello di tanti giovani che, tanto tempo dopo, negli anni ’60, scoprivano Joyce e Kafka, il grande cinema d’autore, da Chaplin a Dreyer, l’avanguardia artistica, e quello straordinario intreccio di “richiami” tra un autore e l’altro, uno scrittore e un pittore, che era poi l’immersione nella “modernità drammatica” del ‘900) lo destinava ad esser comunque parte della “classe dirigente”, nel senso lato del termine. Non potendo più di tanto sfuggire a questo destino, Ingrao ha deciso, alla fin fine, di diventare un dirigente comunista: di stare “da una parte” netta e precisa della barricata, della storia, del Partito. Ora che questa vicenda - la lunga vicenda del Pci - è conclusa, è dietro le nostre spalle, si capiscono meglio il perché e il “come” di questa scelta: che era a suo modo totalizzante, anche per un dirigente speciale come Pietro, che aveva attraversato le durezze della clandestinità e della disciplina e conosciuto sul campo l’ebbrezza di giornate come il 25 luglio 1943 (il suo primo comizio a Milano) e come il 25 aprile 1945. Perché quell’editoriale sull’Unità (“Da una parte della barricata e in difesa del socialismo”) che condannava senz’appelli la rivolta ungherese del ’56? Perché quella “repressione” dei dubbi di fondo che affiorarono sull’Urss e sulle sorti stesse del socialismo? Perché, molti anni dopo, quel voto in Comitato centrale che approvava la decisione di radiare - cacciare via dal partito - i ribelli del Manifesto? Perché insomma, in vicende pur diverse tra loro, e di diverso peso storico, l’uomo di partito ha prevalso sull’intellettuale critico? Ora Ingrao afferma di essersi sbagliato e di aver sbagliato. «Mentre si dispiegava quell’urto sanguinoso» scrive sui fatti d’Ungheria «io vissi l’errore più grave della mia vita politica…Purtroppo in quello scritto era gravemente falsa la rappresentazione dei fatti…». Come definire questa ed altre affermazioni, non certo inedite, ma nel libro rese con accenti più netti e sincero rammarico? Un’autocritica? Un “pentimento”? Nulla di tutto questo, o di ciò che comunemente s’intende con questi sostantivi. C’è sofferenza, nella ricostruzione personale e storica di Pietro. C’è la confessione aperta di non aver capito, di non aver colto, allora, la portata reale degli eventi. E di non aver avuto il coraggio, l’audacia (la libertà?) di opporsi, o di andare a fondo nei dubbi. A sua discolpa Pietro non invoca - mi pare - l’argomento più logico: la difficoltà, in quei tempi, di schierarsi contro l’Urss e rimanere comunisti. La pratica “impossibilità” di avere ragione, da soli, contro il partito, anche quando il partito aveva torto. E la paura - aggiungo io - di precipitare in una solitudine politica insopportabile: non la solitudine del filosofo-contadino, capace di elaborare in forma lirica “il dubbio dei vincitori”, ma quella, affatto diversa, dell’intellettuale risospinto, suo malgrado, in quella classe di “signori” che, fin dall’infanzia di Lenola, aveva in fondo imparato a disprezzare. In realtà, non c’è nulla di assolutorio, in questa interpretazione: il nodo teorico e storico delle scelte compiute, nel dopoguerra, dal gruppo dirigente del Pci resta in parte significativa irrisolto. Ingrao, semplicemente, offre col suo racconto tasselli preziosi, a mezza strada tra il ricordo - la crudezza dello ieri - e la ricostruzione consapevole e dolente del presente - dell’oggi. Sarà per questo che il ritratto di Togliatti che compare nei capitoli più politici risulta (è risultato alla mia prima lettura) abbastanza “antipatizzante”? Quel grande capo del Pci che, ad un Ingrao affranto per i carri armati sovietici a Budapest, risponde che “oggi berrà volentieri un bicchiere di vino”, rivela un lato cinico, realpolitiker, che ce lo fa sentire molto distante. Forse, è vero che l’“ingraismo” non è, nient’affatto, uno sviluppo pur creativo e di sinistra del togliattismo. Forse, anche per Pietro il rapporto politico e personale con Togliatti è, a tutt’oggi, un problema aperto.
***
A tutt’oggi, a novantuno anni compiuti, Ingrao ci regala questo straordinario percorso di sé. L’ultimo capitolo, rompendo l’ordine cronologico, lo dedica a Nuto Revelli e al suo “Disperso di Marburg”. Un cavaliere che, in un alba del lontano ’44, in una valle del cuneese dove infuriava la lotta partigiana, scompare nel nulla - e a cui poi Revelli cercherà invano di dare un nome, un volto. Affascinato da questo racconto, Ingrao vuole chiudere così il suo libro: «Penso al percorso che trascinò anche me nell’urto di guerra, io nemico dell’ignoto cavaliere, giunto a quel contrasto nella convinzione che l’isola in cui ritrarsi fosse impossibile, non esistesse. Questo è stato il percorso di cui racconto in queste pagine». Pietro, e se l’isola fossi tu, fossimo tutti noi che ancora la stiamo cercando?