venerdì 10 novembre 2006

l'Unità 10.11.06
Indulto
L’Amnistia Necessaria
di Giovanni Salvi


Di un legislatore che stabilisse improvvisamente di assegnare una stanza singola ad ogni paziente e di buttare fuori dell’ospedale i malati in soprannumero, tutti penserebbero che è fuori di testa. Ecco, ciò non avviene per la giustizia. Qui si è subito tutti d’accordo, trasversalmente, che le conseguenze delle scelte siano irrilevanti. Tutt’al più se ne discuterà dopo, quando gli effetti si saranno verificati e anche allora solo per adottare un nuovo e ancora più incredibile provvedimento. È quanto è accaduto, da ultimo, con l’indulto. La scelta se ricorrere o meno a questo strumento di clemenza è esclusivamente politica. A sostegno dell’indulto vi sono buone ragioni, soprattutto per le condizioni di vita disumane nelle carceri. Se il livello di civiltà di un paese si vede anche dalla maniera in cui tratta i detenuti, dobbiamo riconoscere che questo indicatore non ci favorisce.
Altrettante buone ragioni avrebbero sconsigliato il provvedimento di clemenza, prima tra tutte la richiesta di sicurezza dei cittadini (soprattutto in aree dove la situazione è davvero drammatica) e l’esistenza di un corpo di norme relative alla pena, che ne hanno ridotto drasticamente l'effettiva durata. Non è dunque questo il punto.
Quello che a mio parere è inaccettabile è che una decisione del genere sia stata presa senza aver valutato con attenzione le possibili ricadute e senza avere adottato i provvedimenti conseguenti. Su questo - e non sulla scelta dell’indulto - l’interlocuzione con il Csm e con la magistratura associata sarebbe stata di fondamentale importanza.
I dati che gli uffici giudiziari hanno, di loro iniziativa, posto a disposizione del governo e del parlamento, elaborati dal Csm, sono di straordinaria chiarezza. Non si tratta solo del fatto che una percentuale di coloro che sono stati scarcerati torni a delinquere. Ciò è connaturato a ogni provvedimento di clemenza. È l’aspetto che colpisce di più l’opinione pubblica ma è anche quello che, almeno in una certa misura, non è evitabile. Naturalmente un’accorta politica di assistenza successiva alla scarcerazione ridurrebbe questo rischio, ma l’assenza di politiche di reinserimento è una triste costante, difficile da sradicare.
Il fatto invece del tutto nuovo è che l’indulto sia stato deliberato senza una contestuale amnistia. Ciò si è voluto per evitare indiscriminati benefici e per consentire differenziazioni non solo per gravità dei reati, ma anche sulla base dei precedenti dei condannati.
In realtà, questa pretesa di rigore genera una serie di controindicazioni. La differenza tra l'indulto e l'amnistia è che il primo estingue la pena e il secondo il reato. In altre parole, per applicare l'indulto occorre fare il processo fino in fondo, con tutti i suoi gradi di giudizio e solo alla fine, dopo che la sentenza di condanna sarà divenuta definitiva, la pena sarà cancellata, con un ulteriore provvedimento del giudice. Ma se la pena che potrà essere inflitta nel massimo coincide con quella condonata, l’intero processo sarà inutile. Certo, sul certificato penale sarà comunque annotata una condanna, che sarà considerata un precedente e che impedirà di godere ancora del beneficio. Le vittime del reato, inoltre, potrebbero utilizzare la sentenza per ottenere il risarcimento del danno in sede civile. Quest'ultimo aspetto, in realtà, è molto meno significativo di quanto appaia e anzi, visti i tempi presumibili delle decisioni, potrebbe essere addirittura controproducente.
A fronte di questi vantaggi, veri o presunti, sta l'enorme aggravio di lavoro per l'amministrazione. Ciò che più sconcerta è che da oggi e per almeno due anni l’apparato giudiziario girerà a vuoto, per produrre sentenze in larga parte inefficaci, e perderà così ogni residua possibilità di dare risposta in tempi decenti alla richiesta di giustizia.Non va sottovalutato anche l’effetto demotivante sui magistrati, sulla polizia e sul personale amministrativo, cui già è chiesto di lavorare in condizioni inaccettabili.
D’altra parte è chiaro che l’effetto mediatico negativo dell'indulto si è già realizzato. Se era questo che si voleva evitare, è bene prendere atto che il messaggio politico che ne è risultato è opposto a quello forse immaginato.
Occorre avere coraggio. Se si è scelta la strada dell'indulto, si percorra anche quella parallela dell'amnistia. Si chiarisca subito e senza incertezze che essa riguarderà solo i reati già interamente coperti e con la stessa data dell’indulto.
Non ci sono strade alternative. Certamente non è praticabile quella di far sì che siano gli stessi magistrati, attraverso provvedimenti adottati dai dirigenti degli uffici o dal Csm a stabilire la morte per prescrizione dei reati per i quali si dovrà applicare l’indulto. Ciò scaricherebbe sulla magistratura, una volta di più, responsabilità non sue. Tocca al legislatore assumersi la responsabilità politica di queste scelte. Cercare vie traverse non fa che riproporre antichi metodi di supplenza, con tutte le conseguenze che ne derivano, anche di sovraesposizione.
L'amnistia sarebbe però accettabile dall’opinione pubblica e dagli stessi operatori della giustizia solo se si realizzasse una condizione. L’amnistia dovrebbe essere l’occasione per realizzare finalmente quella svolta, promessa nei programmi di governo, verso un impegno per l’efficienza dell’amministrazione e l’effettività dei diritti, che individui i valori intorno ai quali ricostruire l’idea stessa della giurisdizione.
L’eredità che il Ministro Mastella si trova a gestire è pesante. Il Ministro Castelli nel primo incontro con l’appena eletto Csm, nel 2002, lasciò di stucco l'intera assemblea, affermando che non era sua intenzione investire risorse in un’azienda in decozione e che prima era necessario por mano all’ordinamento giudiziario. Detto, fatto! Il risultato è sotto gli occhi di tutti. I segnali di ripresa (costituiti ad esempio dalla riduzione dei tempi dei processi, la cui inversione si era per la prima volta realizzata alla fine degli anni 90) sono scomparsi. In cinque anni non si è riusciti nemmeno a completare il reclutamento dei nuovi magistrati, previsti da una legge del 2000. Non meno gravi sono i danni di un sistema penale, divenuto debole coi forti e implacabile coi deboli.Sarebbe dunque ingenuo pensare che sia possibile invertire rapidamente la rotta: la macchina è pesante e molte sono le resistenze corporative, anche all’interno della magistratura. Non è solo un problema di risorse. Si tratta soprattutto di scelte politiche di fondo, per le quali sono necessarie maggioranze solide. È però possibile almeno dare subito segnali chiari e tra questi anche la scelta per porre la giustizia in condizioni di operare.

l'Unità 10.11.06
Socialismo? Troppe dichiarazioni di morte presunta
di Valdo Spini


Di socialismo possiamo parlare in molti modi: come teoria che aspira ad essere scientifica , come fatto politico concreto; come aspirazione etica. Non è utile confondere (a volte anche deliberatamente) i vari piani.
Il socialismo come tale è una parola che si manifesta apertamente nella prima metà dell’Ottocento con Robert Owen e i saint-simoniani. Ma, come disegno filosofico e politico, può essere fatto rimontare addirittura alla cinquecentesca Utopia di Tommaso Moro e ai successivi sviluppi di quel dibattito. Certamente, quel socialismo lì, non si afferma in modo statalista e programmatorio. Ma è con Marx e con i marxisti che il socialismo si propone come “scienza” , sia nell’economia politica elaborando una sua teoria del valore basata sullo sfruttamento del lavoro, sia nelle scienze sociali attraverso una teoria della dinamica sociale basata sull’allargamento crescente del proletariato dipendente . Quest’ultima, per i cambiamenti intervenuti, fu destinata a scontrarsi irrimediabilmente con la realtà sociale nella seconda metà del XX secolo caratterizzata dall’espansione di quello che Sylos Labini classificò come ceto medio.
Che questo significhi una condanna storica di ogni politica socialista interventista, sarebbe peraltro del tutto schematico. Diverso e più articolato per esempio deve essere il giudizio sulle politiche interventiste proprie del socialismo democratico e del laburismo, condotte nella ricostruzione seguita al secondo dopoguerra in vari paesi europei. Queste politiche furono condannate sia dai liberisti che dai comunisti stalinisti (per questi ultimi non si poteva programmare nei regimi capitalistici) , ma, secondo numerosi studi, dettero degli irrefutabili risultati positivi anche rispetto alla ricostruzione liberistica italiana e agli squilibri profondi che essa comportò.
In ogni caso è giusto quanto viene affermato e cioè che il 1989, la caduta del comunismo, avvenuta innanzitutto per motivi economici, si è portato con sé anche quella di un socialismo concepito come scienza, che voleva perseguire gli stessi obiettivi del comunismo con mezzi democratici invece che autoritari.
Oggi poi che la globalizzazione determina la caduta delle barriere di tempo e di spazio nell'economia per effetto della rivoluzione avvenuta nell’informatica, dobbiamo concludere che, in questo contesto, l’idea di programmazioni economiche di carattere nazionale, o comunque di politiche statalistiche nel vecchio senso del termine non sarebbe certo realistica.
Pure, il socialismo democratico, dato tante volte per spacciato ogni volta che subiva una sconfitta, ha tante volte deluso le sue dichiarazioni di morte presunta. Ha saputo adeguare i contenuti della sua azione politica, ma non ha sentito il bisogno di cambiare nome, e cioè l'identità valoriale, ai propri partiti. Ecco allora che il socialismo come fatto politico concreto è tuttora presente.
Infatti, se si va a vedere il sito del partito del socialismo europeo (PSE) vi si trovano le sigle di partiti di forza rilevante di tutti i paesi dell'Unione, che siano al governo o all’opposizione, e che si chiamano con i nomi tradizionali di socialista, socialdemocratico o laburista. Mentre invece, quando si va sul sito del partito democratico europeo (sì, perché un partito di questo nome, il Partito Democratico Europeo nella UE, esiste già e di esso sono copresidenti l’italiano Francesco Rutelli e il francese François Bayrou ) si trovano eurodeputati di soli cinque paesi ,tra cui la Margherita italiana . Questi eurodeputati , va ricordato, in sede di Parlamento Europeo sono andati ad aderire , insieme ai liberali tradizionali, al gruppo Parlamentare dell’ADLE (Alleanza dei democratici e Liberali per l’Europa).
I partiti socialdemocratici socialisti e laburisti europei hanno saputo, infatti muovendosi da sinistra, conquistare il centro sia per la loro capacità di affermare i diritti civili (”Il socialismo dei cittadini”, così lo chiama Zapatero) e le libertà individuali sia , pur nella revisione delle loro tradizionali politiche economiche, praticare nuove politiche di solidarietà e di comunitarismo laico, cui partecipano autorevolmente credenti e non credenti. Hanno saputo cioè rinnovarsi.
Noi italiani possiamo in proposito rivendicare Carlo Rosselli, forse il primo socialista esplicitamente post-marxista che già nel 1929 nello scritto «I miei conti col marxismo” affermava che «tra socialismo e marxismo non vì è parentela necessaria» e che nel “Socialismo liberale” scriveva “Il socialismo è liberalismo in azione”, aprendo una pagina del tutto nuova, che andava oltre il dibattito tra Bernstein e Kautsky.
Per Rosselli il socialismo aveva un contenuto non solo politico ma anche e soprattutto etico. Ed è questo che rende la parola socialismo ancora attuale, perché in essa è insita l'esigenza di una politica programmaticamente rivolta ad includere e a socializzare nel progresso economico, civile sociale e culturale anche chi ne è rimasto escluso; e questo in modo laico, e cioè con le armi della politica stessa. La parola democratico (usata come sostantivo, perché come aggettivo dovremmo condividerla tutti) è una parola nobilissima, ma rappresenta più una scelta sulle regole che devono improntare la dinamica politica e sociale che un ideale e un obiettivo di fondo. Nella parola socialista c'è qualcosa di più, c'è la coscienza che in una dinamica economico-sociale in incessante mutamento, a livello non più solo nazionale o continentale, ma anche a livello planetario, il problema del socialismo , cioè il problema di un'azione politica per la condivisione e per l’inclusione degli svantaggiati nei processi economici e sociali,si presenta e si ripresenta in termini continuamente nuovi ma non per questo meno significativi. Nella parola socialista vi sono dunque le ragioni della sinistra che vivono in una idea dello sviluppo che contiene dentro se stesso, nell'atto in cui si svolge, i meccanismi di regolazione per impedire alle disuguaglianze di diventare insostenibili socialmente, per garantire a tutti l’uguaglianza delle posizioni di partenza nell’istruzione, per assicurare le pari opportunità uomo-donna, per impedire la distruzione dell'ambiente. Senza contare che ogni politica democratica non può essere verticistica, basata su un liberismo cieco, ma di una saggia coniugazione tra spinta individuale ed etica della responsabilità collettiva. Certo, non esiste un'ortodossia in materia, ma direi che tutte le esperienze di governo socialiste, socialdemocratiche e laburiste in Europa (ivi compresa quella di Blair) si collocano dalla parte opposta rispetto allo slogan della destra, "meno tasse -meno stato". Basta vedere gli investimenti nella sanità e nell’istruzione del governo laburista inglese. Potremmo dire quindi, all'inverso di Giddens, che se la sinistra non è morta, non può morire nemmeno il socialismo democratico.
Nel concreto politico, perché oggi dovremmo avere allora un'ansia di rottura col socialismo europeo? Per metterlo in crisi? Non gioverebbe certo al bipolarismo. Per trovare un orgoglioso isolamento del centro-sinistra italiano all’insegna del «Primato morale e civile degli italiani» di giobertiana memoria? Sarebbe antistorico. Per trasformare il centro-sinistra italiano, come sostiene qualcuno, da schieramento prevalentemente laico addirittura a partito ispirato a valori cattolici? Questo significherebbe escludere in partenza una parte importante del centro-sinistra. Forse allora, per tutti noi dell'Ulivo, invece che caratterizzarsi in senso negativo verso il socialismo europeo (non moriremo socialdemocratici!) il problema è come costruire in Italia un moderno partito socialista liberale, veramente democratico nei metodi e nel funzionamento, aperto non a parole ma con i fatti alle varie provenienze, a credenti e non credenti (come avviene in tutta Europa). Un partito che parta da sinistra per allargarsi al centro e non viceversa (operazione quest'ultima che sembrerebbe invero di dubbia riuscita). E in tal modo, partendo dalla costruzione di un partito siffatto, poter dall’Italia influire veramente su uno schieramento, quello socialista europeo, che presenta interessanti esperienze di governo e comunque rappresenta una gran parte di cittadini del nostro continente di valori analoghi ai nostri.
Siamo sicuri che seppellire la parola “socialismo” e il grande significato etico e politico che essa porta con se e uscire programmaticamente e politicamente dall’ambito dei partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei possa rappresentare un elemento di stabilità della politica italiana e non, invece, l’'apertura di una fase tormentata e di squilibrio politico in ambito nazionale ed europeo?
Negli interventi di queste settimane non ho trovato molta traccia di questi interrogativi. Mi è parso, al contrario, di cogliere quanto meno un eccesso di disinvoltura nell'affrontare temi e questioni che richiederebbero una ben maggiore ponderatezza ed equilibrio. Allora, cerchiamo invece di sfruttare al massimo le potenzialità del rapporto (e quindi di porre anche problemi) a quel grande patrimonio politico che è il socialismo europeo, come del resto ci ha chiaramente invitato a fare il capogruppo del PSE al Parlamento europeo, Martin Schulz. Questa partecipazione al PSE va vista come una grande chance per l’Ulivo e per tutto l’Ulivo, non come patrimonio esclusivo di chi in Italia già si dichiara socialista europeo. Non facciamoci irretire dai cui prodest nostrali e guardiamo alto, ai grandi fenomeni europei e mondiali. Sarà questo veramente il modo di guardare in avanti e non di guardare indietro.

l'Unità 10.11.06
«Karl Marx sì, aveva visto giusto»
Pensava che il socialismo dovesse venire dopo il capitalismo e non installarsi al suo posto
È tempo di Marx, parola di Jacques Attali
di Bruno Gravagnuolo


BIOGRAFIE Parla l’economista che fu consigliere di Mitterand che ha scritto un volume dedicato al fondatore del socialismo scientifico divenuto un best seller in Francia: «La colpa del totalitarismo non è sua ed è stato frainteso»

Immaginava uno stato con la libera stampa e la giustizia indipendente, ma non erano le istituzioni il suo vero problema

La sua «Questione ebraica» non era affatto antisemita ma intravedeva nell’ebraismo un ruolo progressivo

Quattrocento pagine e passa su Marx, e un titolo che più hegeliano non si può: Karl Marx, ovvero lo spirito del mondo. Quattrocento, inclusi un colloquio con lo storico Eric Hobsbawm, bibliografia, indice dei nomi e un saggio di Massimilano Panarari, che ha curato l’edizione italiana. Ha del coraggio Jacques Attali, non c’è dubbio, a lanciare in mare questa piccola corazzata. Benché di Marx si torni poi a parlare in tempi di economia globale. Coraggio perché su Marx sono stati versati oceani di inchiostro, prima del 1883, data della morte a Londra, e da allora fino ad oggi. E qual è allora il senso di questo suo «remake»? Presto detto: biografare daccapo un personaggio «impossibile». Ciclopico, maniacale a suo modo, spiritoso, geniale, controverso, enciclopedico, profetico e persino «tenero». Uno di quei personaggi la cui inesausta curiosità divene appunto «spirito del mondo», senso della storia e di un’intera epoca. Catturati dalla provincia di Treviri a metà ottocento in Germania, ma capace di «avvolgere» la mente e le viscere di milioni di persone. Ancora adesso. Una biografia quindi che si inserisce nel solco dei grandi lavori di Mehring e Mac Lellan, e che rimescola la «miniera Karl Marx» per estrarne di nuovo una verità di fondo: Marx tallonatore e ombra critica del capitalismo. Sua verità inconfessata, e diagnosta che lo aspetta al varco. E che nel frattempo però lo celebra, nel darne il «de profundis». Insomma un «corpo a corpo» faustiano quello di Marx, una partita infinita che ancora si gioca, tra il Capitale e il suo contrario, tra il dominio della merce e la critica ribelle a quel dominio. Lotta costellata di errori e tragedie, a cui Marx non fu del tutto estraneo in verità. Ma che ancora continua, non certo tra polverosi volumi in soffitta, bensì nel vasto scenario del mondo. Battaglia non più in suo nome? Sì, eppure di quel nome anche lo «spirito del mondo nuovo» non sembra poter fare a meno. Sentiamo Attali
Professor Attali, l’impressione è che abbia voluto scagionare Marx dalle ricadute totalitarie. È davvero convinto che Marx sia senza colpe a riguardo?
«Il mio non è un saggio teorico, ma una biografia “obiettiva”, senza pregiudizi. Dalla formazione giovanile fino alle interpretazioni che gli hanno fatto dire il contrario di ciò che pensava. E Marx pensava che il capitalismo era molto migliore dei sistemi precedenti. Che il socialismo si sarebbe affermato “dopo” il capitalismo, e non al suo posto. E che il destino del capitale andava lasciato alla mondializzazione, prima di compiersi. E pensava anche che ideologia e cultura non sono determinate dai rapporti economici, e che la rivoluzione tecnologica è più importante della lotta di classe. Per Marx inoltre, la società socialista era talmente spostata in avanti nel tempo, da non poter essere descritta. E andava raggiunta tramite una “dittatura democratica del proletariato” che includeva la libertà di stampa e l’indipendenza della giustizia. Dunque l’opposto di ciò che gli venne attribuito».
La sua idea di democrazia, giacobina e russoiana, era alquanto assembleare e senza alternanza...
«Sì, ed è il vero punto deficitario delle sue idee politiche. A suo giudizio la democrazia connessa alla società soacialista sarebbe stata talmente naturale e conveniente alla maggioranza, da rendere superflua l’alternanza. Perciò non ne parla».
La lacuna è anche nell’analisi di fondo, che tralasciava pluralismo e conflitti a vantaggio di un processo uniforme e polarizzato, non le pare?
«Il punto però è che Marx non indaga le forme politiche e la presa del potere, bensì lo sviluppo del capitalismo che doveva seguire una traiettoria molto lunga e accidentata, prima di sfociare in una società liberata e dell’abbondanza. Capace di risolvere di per sé il problema politico».
Ma Marx non fu anche organizzatore politico instancabile, avversario di Bakunin e teorico della Comune di Parigi?
«La sua Internazionale doveva essere un attore politico mondiale, in parallelo allo sviluppo globale del capitalismo da accelerare. E non un partito o un semplice programma immediato. Ecco la dimensione giusta per capire il suo problema, che non era quello delle forme politiche socialiste, né delle relative istituzioni. Quando si accorse che l’Internazionale non marciava su questi binari, la sciolse».
Da un lato un Marx “alla Trotzky”, rivoluzionario mondiale, dall’altro alla “Kautzky”, sviluppista e scientista. Qual è il vero Marx per lei?
«Senz’altro era più simile...a Trotzky. E tutte le lettere e i documenti privati lo confermano. A suo avviso la rivoluzione era possibile solo in una prospettiva mondiale e non nazionale, e perciò Trotzky era il vero erede intellettuale di Marx. Quanto a Kautzky è uno dei falsificatori di Marx, una vicenda che comincia con Engels, prosegue con Bernstein e da Kautzky arriva a Lenin. Nondimeno anche Trotzky era profondamente segnato da quelle distorsioni, e da una rivoluzione, quella del 1917, che Marx non avrebbe approvato».
Finanza globale, riduzione degli operai, immigrazione mondiale. Su quale di questi punti la prognosi di Marx è stata efficace e su quale no?
«Non era un profeta, ma un analista di lungo periodo su base empirica. Su scala nazionale, le previsioni di Marx hanno fallito. Ma se ci si sporge sul mondo, ci appaiono adeguate. Marx non si applica sistematicamente alla finanza, benché ne intravede il ruolo. E però la finanza è solo un modo di ricostruire i margini di profitto, sempre esposti alla crisi, in un sistema che procede verso la terziarizzazione. Ma la terziarizzazione non soppianta affatto l’industria, bensì la esalta in altre forme. Tutto in altri termini diventa “industriale”. Anche i servizi. E la nostra non è una soacietà post-industriale bensì iper-industriale. In questo senso Marx funziona ancora. Così come funziona sullo scenario globale. Aveva previsto infatti che ci sarebbe stata una forte proletarizzazione dell’agricoltura e un forte travaso tra campagna e città, locale e globale. Ed è quello che accade oggi»
Come si manifesta in questa scenario la vecchia lotta di classe marxiana?
«Accanto ai lavoratori immigrati, ci sono gli addetti ai servizi, una classe operaia disseminata, l’esercito dei lavoratori dipendenti, atomizzati e precari. E dall’altra parte un capitale anonimo, frazionato, delocalizzato, finanziario e astratto. Il conflitto non è più polarizzato e shakespeariano, come lo immaginava Marx. Ma frastagliato e inafferabile, eppure ben presente e all’opera. Individuabile insomma. Oggi il capitale nella sua astrazione, e dentro il conflitto immateriale, risulta vincente».
Per la sinistra moderna deve contare di più la cittadinanza e l’immaterialità dei diritti, oppure la liberazione del lavoro?
«Sono due dimensioni inseparabili. Inscindibili dentro il conflitto più generale tra mercato e democrazia. Nel mercato c’è la lotta tra capitale e lavoro. Nella democrazia, quella tra destra e sinistra. Senza diritti non c’è liberazione del lavoro, e viceversa. Il punto però è che il mercato è globale e che la democrazia necessita di una proiezione altrettanto globale, universalista. Altrimenti non c’è che la regressione, impossibile ormai, alla dimensione nazionale e protezionista. Ecco perché la famiglia politica socialista europea e mondiale non può né deve estinguersi. Ma semmai espandere la propria agenda politica, all’altezza della globalizzazione. Cercando il punto di intesa tra lavoratori del primo mondo e quelli del sud del mondo, i cui interessi convergono: l’altruismo è necessario».
Parliamo del Marx personaggio controverso. Ad esempio era davvero antisemita la sua «Questione ebraica»?
«No. Malgrado esagerazioni Marx assegna all’ebraismo una funzione progressiva, di vessilifero del capitalismo. Il monoteismo ebraico per lui era la quintessenza del “religioso” e in quanto tale andava criticato, non in quanto ebraico. Come alienazione, connessa al capitalismo e al denaro. Dell’ebraismo Marx parlerà pochissimo, anche perché traumatizzato dalla conversione forzata del padre. Alla fine in lui ci sarà un recupero delle radici, attraverso la figlia Eleanor che ricomincia ad occuparsene».
Il nostro insigne economista Paolo Sylos Labini accusò Marx di cinismo machiavellico e sprezzo dell’individuo. Lei è d’accordo?
«Lo si può dire perché Marx era a modo suo un “ mostro”, di intelligenza, cultura, sottigliezza. Un uomo talmente posseduto dal senso della sua missione in terra, da tralasciare tutto il resto. Nulla resiste al fine che ritiene di incarnare. Benché, specie sul finire della vita, riscoprirà certi valori: il ricordo del padre, il dolore per i figli e la moglie morti. La riscoperta insomma del suo microcosmo familiare, su cui ripiega struggentemente prima di morire».
Infine, banale o perspicuo il rilievo di profetismo ebraico rivolto a Marx?
«In parte è banale, ma in Marx c’è senz’altro un’attitudine profetica, una visione scandita da fasi epocali, dal feudalesimo, al capitale, al socialismo e al comunismo. Parla come Ezechiele, ma con tutt’altra genialità scientifica!»

l'Unità 10.11.06
Mussi: nel futuro una sinistra unita e socialista
Il «manifesto» del Correntone: no al Pd
«Il gruppo dirigente dei Ds sta sbagliando»
di Giuseppe Vittori


NON È ANCORA la mozione congressuale ma una tavola di valori, in cui si enunciano i cardini del “nuovo socialismo”, si boccia senza appello il progetto del Partito Democratico e, nel nome di «una forte, autonoma sinistra di ispirazione socialista, parte del socialismo europeo», si fa appello a tutta la sinistra italiana perché «molte delle divisioni del passato non hanno più ragione d'essere».
La sinistra Ds scrive il suo manifesto «Per il socialismo del futuro» e, mentre si prepara all'assemblea nazionale di domani alla Fiera di Roma (con Mussi, Bandoli, Salvi e Spini) guarda già oltre il Partito democratico.
Scritto a più mani, sotto la regia del leader del Correntone Fabio Mussi, il manifesto parte da una critica al gruppo dirigente della Quercia e punta a spiegare che chi è contrario al Partito Democratico è tutt'altro che uno scissionista. «Il documento - è la premessa - nasce dalla consapevolezza delle difficoltà culturali e politiche che attraversano la sinistra italiana e la sua principale forza politica. La proposta del gruppo dirigente dei Ds di dare vita ad una nuova formazione politica che porterebbe al superamento del partito dei Ds ci vede nettamente contrari. Noi vogliamo difendere, sviluppare, rinnovare profondamente i Ds come grande forza di ispirazione socialista pienamente inserita nel Pse». La critica politica lascia il posto a sei pagine in cui si illustrano «i valori del nuovo socialismo: lavoro, pace, libertà, laicità, sostenibilità». Dai valori si passa al progetto politico, partendo dal no al Pd. «L'ipotesi di una “sinistra di centro”, che pure ha attraversato alcune forze del socialismo europeo, appare sempre più inadeguata ed è in discussione negli stessi paesi che l'avevano sostenuta. La proposta del Pd va oltre quell'ipotesi. Un partito che, già nel nome e nel simbolo, perde i riferimenti alla sinistra e al socialismo. Un partito che non ha corrispondenza in Europa».
A chi critica Mussi e compagni di non avere una proposta alternativa, il manifesto dà una risposta: «L’Italia, per oggi e domani, ha bisogno di una forte, autonoma sinistra di ispirazione socialista, parte del socialismo europeo, aperta ai movimenti e alle culture critiche che si sono formate fuori dal campo socialista tradizionale». Una forza di sinistra convinta che «l'Italia si governa con un'alleanza democratica larga», l'Unione, e assicura pieno sostegno al governo Prodi.
L'appello finale «a tutta la sinistra», se ancora non è l'annuncio di scenari futuri, è la porta aperta per l'unità a sinistra. «Ci rivolgiamo a tutto la sinistra italiana - sostengono le minoranze Ds - che condivide oggi la responsabilità di governo. Molte delle divisioni del passato non hanno più ragione d'essere. Occorre radicare in Italia, e offrire alle nuove generazioni una grande forza di sinistra, capace di affrontare la sfida di governo, collegata ad altre grandi forze del socialismo democratico dell'Europa e del mondo». La chiusa è un inizio: «Si può aprire un processo nuovo». E a processi nuovi pensa anche il leader della Quercia Piero Fassino che, dal sud America, dove si è recato per il consiglio dell'Internazionale Socialista, vede la discussione sulla collocazione mondiale ed europea del Pd «viziata da pregiudizi, tatticismi e qualche furbizia precongressuale», chiede pazienza per un processo politico da costruire e rassicura chi, nei Ds, teme un distacco dal Pse e dalla sinistra: «Non è così, vogliamo dar vita ad un Pd che unisca le diverse culture riformiste italiane e concorra a costruire un campo unitario progressista anche in Europa, perseguendo questo obiettivo insieme alla famiglia socialista».

l'Unità 10.11.06
Melandri: «Con gli stilisti combattiamo l’anoressia»
«Cattive modelle»: si cerca una soluzione più
morbida e condivisa rispetto a quella iberica
di Anna Tarquini


Basta con l’analogia magrezza fa bellezza. Anche l’Italia dichiara guerra alla taglia 38. La battaglia contro le modelle anoressiche che è partita dalla Spagna ma che ha coinvolto anche Francia e Inghilterra, adesso arriva da noi. Il ministro Melandri ha deciso di convocare i grandi stilisti e le più importanti griffe di moda per stilare una carta di autoregolamentazione. «Non si tratta di vietare per legge la taglia 38 come ha fatto Zapatero - spiega il ministro -. Le misure restrittive potrebbero rafforzare invece la resistenza e la chiusura delle anoressiche in quanto vissute come interventi punitivi».

VIA LE TAGLIE 38 E 36, ma senza diktat. «Penso più che altro - spiega Melandri - a iniziative simboliche per promuovere modelli estetici ispirati a stili di vita più sani. «Personalmente ritengo che nell’approccio spagnolo ci sia un eccesso di dirigismo, ma senza dubbio l’iniziativa in sè è positiva».
Si dice che la Melandri, prima di annunciare gli «stati generali antianoressia» ieri durante un convegno sulla corretta alimentazione e l’attività fisica organizzato dalla Coop, ne abbia parlato a lungo appena pochi giorni fa con la regina della moda. A New York il ministro ha incontrato Anna Wintour, la potentissima direttrice di Vogue, quella che ha ispirato il film con Meryl Streep «Il diavolo veste Prada». Che deve averla convinta a non seguire linee drastiche, ma a trovare un accordo con gli stilisti più famosi del paese. Il problema anoressia e soprattutto il messaggio che le modelle anoressiche trasmettono alle adolescenti si fa sempre più serio. Alcuni dati. Dice l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che una donna è sotto peso quando il suo Bmi è inferiore a 18,5. La Spagna ad esempio ha deciso che una modella alta 1,75 non dovrà pesare meno di 56 chilogrammi. Giusto per rendere l'idea Gisele Bunchen entra per poco, mentre tra le escluse figurano Kate Moss, Naomi Campbell ed Esther Canadas (che non superano i 14). Se poi si guarda alla Francia dove recentemente - sempre sulla scia di Madrid - il ministro della Sanità ha iniziato un’analoga campagna i numeri fanno ancora più paura. Dice una ricerca ufficiale della Sanità francese che il 2 per cento delle ragazze tra i 12 e i 18 anni soffre di anoressia. Tra queste il 10% appartiene a un ceto sociale elevato e sempre il 10% del totale delle anoressiche francesi muore di questa malattia.
La moda spagnola ha già detto «no» alle modelle scheletriche. A volerlo è stata Concha Guerra, viceconsigliere per l’Economia e l’innovazione tecnologica della comunità di Madrid: un terzo delle modelle che si sono presentate alla Fiera Pasarela Cibeles sono state scartate. In Italia però gli stilisti non sono del tutto convinti. Se il presidente di Alta Roma Stefano Dominella si è detto immediatamente favorevole a una legge che dia regole al settore, gli altri stilisti hanno deciso di fissare un codice etico per le modelle. In questo modo si intende ridimensionare il problema delle modelle troppo magre ma il provvedimento rimane sempre appunto un «codice etico», con parametri fissati dal buon senso, niente a che vedere con una legge. E su questa base che si inserisce l’appello della Melandri che ha annunciato una serie di accordi con stilisti e grandi marchi di moda per adeguare le taglie a quelle realmente indossate dalle donne: mettere da parte, quindi, le taglie 36 e 38 e mettere fine all’analogia fra bellezza e magrezza. «Stiamo lavorando in questa direzione - ha detto il ministro - . Ho detto e ribadisco che desidero chiedere la collaborazione degli stilisti italiani per assumere insieme iniziative utili a contrastare il fenomeno dilagante dell'anoressia nel nostro Paese: lavorando quindi con gli operatori del sistema, sia sul piano dell’iniziativa simbolica, che su quello di una più convinta azione sociale, per promuovere modelli estetici ispirati a stili di vita sani».

l'Unità 10.11.06
EVA CAVALLI
«La malattia non si cura ingrassando le modelle...»
«Se il ministro Melandri ci chiamerà sarà un piacere collaborare con lei anche se non credo che il problema dell’anoressia nasca dal mondo della moda». Eva Cavalli, moglie e collaboratrice numero uno dello stilista fiorentino Roberto, conosce bene le modelle, ragazze giovanissime e magrissime. «Ve l’assicuro, non sono anoressiche. A 16 anni è facile essere magri».
Una vostra campagna pubblicitaria è stata realizzata con Kate Moss, modella magrissima...
Le dirò una cosa, Kate sembra tanto magra ma non lo è. C’erano alcuni nostri vestiti taglia 40 che le stavano stretti.
Quindi non ci sono modelle anoressiche?
Tra tutte le modelle con cui abbiamo lavorato ce ne saranno state una o due. Le altre mangiano, glielo assicuro. Sono magre per costituzione o perché sono poco più che adolescenti, a quell’età se fai sport non è difficile avere un bel fisico.
Lei è stata Miss Universo, aveva il problema della taglia?
No. Ricordo che la finale era a Santo Domingo e c’era un buffet pazzesco e che mi sono abbuffata senza ritegno.
Ci sono state anche sfilate con modelle in carne...
Sì, anche noi qualche volta abbiamo avuto modelle più formose ma non credo che se prendiamo ragazze più grasse l’anoressia sparirà. È una malattia grave e le passerelle temo possano fare ben poco.
Che si può fare allora?
Aiutare i giovani ad avere più fiducia in se stessi. La scuola e la famiglia possono fare la differenza.
Silvia Gigli

l'Unità 10.11.06
Anoressia e bulimia colpiscono due milioni di italiani

Due milioni i giovani italiani, soprattutto ragazze, con disturbi del comportamento alimentare. Con una novità: il picco di incidenza torna a salire tra i quarantenni. Se si esclude l’anoressia classica, che nel corso dei secoli ha interessato costantemente l’1% della popolazione, i casi in assoluto più frequenti sono le forme miste, prevalenti nelle ragazze tra i 12 e i 25 anni (in rapporto 10 a 1 rispetto ai maschi, in cui i disturbi sono in aumento), con una frequenza che oscilla, a seconda delle casistiche, dal 5 al 20%. Anoressia e bulimia nel 25% dei casi diventano cronici e offrono un margine di intervento e una probabilità di relativo successo sempre più ridotti.

l'Unità 10.11.06
In Spagna
Sfilate vietate alle modelle con massa corporea sotto a 18

La Spagna di Zapatero ha vietato (con legge) alle modelle eccessivamente magre di sfilare. Si è individuato un livello di magrezza al di sotto del quale «non si offre un’immagine sana». Il livello di «magrezza accettabile» è rappresentato, secondo il provvedimento spagnolo, da un indice di massa corporea pari a 18. Il che tradotto in cifre, può significare che a questo identikit corrispondano fanciulle alte 1,72 e dal peso di circa 53 kg. Una legge “rivoluzionaria” che ha fatto discutere sul ruolo dello Stato: fino a che punto può indicare un peso idoneo sotto il quale non è possibile - dal punto di vista delle modelle- lavorare?

il manifesto 10.11.06
Il Csm sfida l'Unione: amnistia dopo l'indulto
Approvata dal plenum del Csm una risoluzione sugli effetti dell'indulto. L'80% dei processi finirà nel nulla. Chiamato in causa l'intervento del governo: amnistia e criteri di priorità. Reazioni politiche Il ministro della giustizia Clemente Mastella esprime apprezzamento per il documento del Csm:«Dice cose onestamente corrette». Consolo (An) sbotta: «Era scritto sui muri che l'indulto avrebbe portato alla paralisi». L'Italia dei valori: «non sottovalutiamo allarme Csm».
di Alessio Marri


Il Csm provoca il governo: dopo l'approvazione dell'indulto è necessario un provvedimento di amnistia. Il rischio che corre il paese è il blocco totale della macchina giudiziaria. I procedimenti penali versano in condizioni «drammatiche», mancano risorse e personale. Questo in sostanza l'allarme contenuto del documento approvato all'unanimità durante il plenum del Consiglio superiore della magistratura. Il dibattito è frutto di una richiesta avanzata dal ministro di Grazia e Giustizia Clemente Mastella, che sollecitava l'organo autonomo della magistratura ad analizzare le ripercussioni dell'indulto sul sistema giudiziario.
Dopo aver sottolineato che fornire indicazioni al Parlamento non rientra nei ruoli affidati al Csm dalla Costituzione, il vice presidente del Csm Nicola Mancino ha sostenuto che la risoluzione si limita ad evidenziare come «i 17 provvedimenti di indulto della nostra storia repubblicana siano sempre stati accompagnati dall'amnistia». Amnistia e indulto vengono esposti come misure complementari, «un percorso unico che solo in questa occasione è stato diviso». Il Csm lancia quindi un duro monito al mondo politico: con l'indulto l'80% dei processi pendenti rischia di finire nel nulla, creando un impasse nel già fragile sistema giudiziario italiano. «E' strano - dice Mancino - che nonostante in Parlamento ci siano svariati grandi giuristi, nessuno di questi abbia previsto le drammatiche conseguenze dell'indulto sul sistema giudiziario».
Nel corso del plenum diverse sono state le considerazioni in merito alle modalità e agli sviluppi dell'indulto approvato nell'agosto scorso dal ministro Mastella. Secondo il Prof. Mauro Volpi all'estero ha destato molte perplessità l'indifferenza governativa nei confronti della mole di lavoro inutile creata dall'indulto, alla quale non sembra si voglia trovare soluzione. Troppo ampia poi la gamma di reati che possono giovarsi dello sconto della pena. Il Dott. Giulio Romano ha sottolineato invece come il provvedimento abbia colto di sorpresa tutte quelle associazioni e servizi sociali che avrebbero potuto occuparsi in maniera senz'altro più efficiente del reinserimento dei detenuti liberati. Una riflessione, questa, che Romano si auspica possa servire da esperienza per il futuro.
L'altra questione al centro del dibattito nel corso del plenum del Csm è stata la soluzione avanzata dal ministro Mastella per lo smaltimento delle pratiche giudiziarie pendenti: il Guardasigilli aveva infatti posto al vaglio del Csm l'opportunità offerta dall'art.227 del 1998 di istituire «criteri di priorità» per i procedimenti non interessati dall'indulto. L'organo di autogoverno della magistratura ha però constatato che tale indicazione risulterebbe anticostituzionale, poiché in aperto contrasto con l'obbligatorietà dell'azione penale. D'altronde accantonare un processo significherebbe certamente consegnarlo alla prescrizione, creando uno scenario di totale impunità. A questo proposito il Csm invoca un intervento legislativo. Livio Pepino di Magistratura Democratica, prospetta nuovi criteri di priorità, che indicano quali processi iniziare e non quali posticipare, rispettando così il principio di accertamento delle responsabilità. Pepino ha comunque sottolineato come nel documento non ci sia nessuna critica all'indulto, «una misura che il governo ha dovuto prendere coscientemente per contrastare il sovraffollamento delle carceri». Ezia Maccora, presidentessa della settima commissione, ha voluto attirare l'attenzione sulle prossime emergenze: una di queste sarà certamente la riformulazione della prescrizione voluta dalla ex-Cirielli, una norma che non fa altro che abbreviare i tempi di prescrizione senza risolvere le reali problematiche che rendono lentissimi i procedimenti penali italiani.
Nel frattempo dal mondo politico continuano a manifestarsi i malumori per l'approvazione dell'indulto. In merito al pentimento del ministro degli Interni Giuliano Amato, Mancino, ricordando che il provvedimento è stato approvato con l'80% dei consensi dal Parlamento italiano, ha detto: «Chi ha votato l'indulto ha meno titolo per parlare, la sofferenza è comune e proprio perché comune dovrebbe essere più lieve». Nonostante il ministro Mastella abbia espresso in giornata il proprio apprezzamento per il documento del Csm, non sembrano sussistere le premesse politiche per raccogliere i consensi necessari all'approvazione di un provvedimento di amnistia.

lastampa.it 10.11.06
IL DELITTO DI COGNE ALTRA IPOTESI: ANNAMARIA QUELLA MATTINA AVREBBE AVUTO UNA CRISI EPILETTICA CHE LE FECE COMPIERE ATTI AL DI FUORI DELLA COSCIENZA
«La Franzoni può aver ucciso nel sonno»
Ecco la perizia dei neurologi: colpì il piccolo Samuele senza accorgersene. Processo a una svolta
di Marco Accossato


TORINO. Annamaria Franzoni forse dormiva, quando, con tutta la sua forza, si è accanita sul piccolo Samuele. L’unica «registrazione» della sua mente dice che potrebbe essere nel sonno la soluzione al mistero di Cogne: buio totale nel cervello, violenza atroce nei muscoli. E l’ultima ipotesi su cui s’indaga nel mistero di Samuele Lorenzi. Il tracciato non regolare dell’elettroencefalogramma a cui è stata sottoposta la Franzoni a Sassari per conto della difesa potrebbe nascondere una parassonia, ossia un disturbo del comportamento nel sonno. Annamaria, cioè, può aver infierito così tremendamente sul figlio senza rendersene conto, perché «addormentata». Malgrado fosse in piedi e malgrado abbia compiuto un’azione tanto disumana e ripetuta. Esattamente come accaduto alcuni anni fa a Parks, in Canada, dove un imputato sonnambulo si alzò dal letto, uscì nel cuore della notte, guidò fino a casa della suocera e la uccise barbaramente. E fu prosciolto, perché «mentalmente non presente all’azione». Dormiva.

La perizia non è ancora stata depositata. Lo sarà lunedì prossimo. Ma in ambienti giudiziari circola sempre più insistentemente questa ipotesi. Una svolta al giallo. Basterebbe forse sottoporre la Franzoni a una polisonnografia per cercare qualcosa di più nella sua testa, ma lei ha da tempo dichiarato che non accetterà più alcun esame strumentale. L’unico elemento a disposizione è - e resta - così quel tracciato dell’elettroencefalogramma eseguito a Sassari a fine giugno, che il procuratore generale Vittorio Corsi acquisì in originale scatenando l’ira dell’avvocato Taormina: «Viola la privacy».

Il tracciato presenta alcune anomalie. Questo è un fatto. Non è lineare. Non ci sono picchi, ma neppure un andamento armonico. La richiesta di un parere esperto era nell’aria da mesi. Il giudice ha chiesto una perizia neurologica per sapere se il giallo di Cogne possa essere chiarito da ciò che si nasconde, appunto, nel tracciato dell’elettroencefalogramma fatto a Sassari.

Molti verdetti, soprattutto negli Stati Uniti, sono finiti con un imputato «salvato» da un disturbo del sonno. Apnee, insonnia, e parasonnie come il sonnambulismo, le crisi epilettiche e i disturbi del comportamento nella fase del sonno che inizia circa un’ora e mezza dopo l’addormentamento. Uomini e donne che si alzano dal letto, girano per la casa, compiono azioni complesse come preparare una tavola o addirittura accendere il gas, aprire una porta e uscire di casa, tutto e sempre nel sonno. Sonno patologico, sonno che non lascia ricordi. Come in un caso clamoroso, quello di un commercialista che negli Usa ha investito e ucciso una ragazza che aveva bussato al finestrino della sua auto ferma in una piazzola lungo una superstrada: l’uomo si era fermato per riposare, vide la ragazza, mise in moto l’auto, la investì, fece alcuni metri, torno indietro, passò nuovamente sul corpo con la vettura, poi viaggiò alcune miglia prima di essere fermato e arrestato dalla polizia. La polisonnia rivelò che soffriva appunto di disturbi del sonno, e che, mentre investiva la ragazza, era prigioniero di una parasonnia, quindi non cosciente, quindi non punibile.

L’interesse del giudice per il tracciato non regolare della Franzoni riguarda anche una possibile crisi epilettica che può aver colpito Annamaria quella mattina, quando il sangue di Samuele finì ovunque, nella stanza da letto dei genitori, e cominciò un giallo ancora irrisolto. Nelle crisi epilettiche del lobo temporale possono scatenarsi infatti crisi psico-motorie. Si crea un «restringimento della coscienza» e la produzione di automatismi comportamentali. «Stati crepuscolari», per dirla col linguaggio della neurologia: anche nell’epilessia, insomma, si possono compiere atti fuori dalla coscienza e oltre la volontà. Atti che possono essere persino disumani, confusi nello «stato crepuscolare epilettico».

Sono più che ipotesi. Su questo si concentreranno i prossimi interventi in aula, dal 21 novembre. E’ la strada verso la quale spinge il cervello di Annamaria Franzoni.

Apcom 10.11.06
CENTRO DI RICERCA FRANCESE: NEONATI SOMIGLIANO "SOLO" ALLE MAMME


Parigi, 10 nov.(Apcom) - Assomiglia più a mamma o a papà? Questa domanda ricorrente potrebbe presto diventare obsoleta: i neonati assomigliano totalmente alle loro madri, sebbene la maggior parte di loro affermi che il frugoletto è tutto il padre, in una manipolazione inconsapevole che mira a proteggere il bimbo nel momento in cui è chiaramente più vulnerabile: lo sostengono i lavori dei ricercatori del Cnrs, il Centro nazionale per la ricerca scientifica francese.

Che sia maschio o femmina non importa. I neonati fino a 12 mesi "assomigliano in modo marcato alla mamma", affermano i ricercatori dell'Istituto con sede a Montpellier, nel sud della Francia, in un articolo pubblicato questa settimana sul sito della rivista specializzata "Evolution and Human Behavior". Il viso del piccolino presenta "un relativo anonimato paterno", secondo il testo, che lo mette al riparo da eventuali dubbi sulla paternità ed è determinante per la loro sopravvivenza.

Questa rassomiglianza, che si inverte nella maggior parte dei bimbi verso i 2-3 anni di età, sembra essere il risultato di una evoluzione genetica della specie, che rende possibile o impedisce l'espressione dei tratti del viso a seconda che provengano dal patrimonio del padre o della madre in funzione dell'età del bimbo, secondo gli studiosi.

Repubblica 10.9.06
Quella sera a cena con Freud
Lo specchio di una società che sta conoscendo una profonda trasformazione
Escono i diari inediti e le lettere di Arthur Schnitzler: la storia di un grande scrittore

Esce oggi "Diari e Lettere" di Arthur Schnitzler (Feltrinelli, introduzione, traduzione e cura di Giuseppe Farese, pagg.573, euro 35): ne anticipiamo alcuni passi.

24/4/1880
Sabato sera. A primavera voglio del tutto stranamente fare un giuramento, non voglio dilungarmi nella descrizione dei sentimenti. C´est pour ça, que je veux seulement raconter d´une manière bien simple les événements du jour... [.].

28/4/1880. La guerra è dunque una necessità? Sembra quasi che sia così! Triste è però che sempre, da quando esiste il mondo, proliferano nuove generazioni di cattivi elementi e in definitiva la guerra osservata, con occhi liberi da pregiudizi, sarà stata inutile. Quell´altra specie di guerra - per possedere di più - sottoporre quella specie di guerra ad accurata osservazione, mi ripugna. La cosiddetta necessità politica è avidità e inganno ufficialmente sistematizzato. Più di tutto viene ingannato il proprio popolo - defraudato del proprio sangue, dei propri figli, della propria felicità. Ogni militarismo mi ripugna nel più profondo dell´animo. La terza specie di guerra, la rivoluzione - ma sono di nuovo giunto al problema socialista, questa serpe immortale, che si avvolge innumerevoli volte attorno al proprio corpo - ed è velenosa. Ci saranno rivoluzioni fin quando si avverseranno pensiero e sentimento, vale a dire finché esisteranno gli uomini. Mi si mette sempre un peso sul petto se oso affrontare questi enigmi, è l´influsso pernicioso della serpe. «Uno stato ideale sarebbe possibile, se gli uomini fossero macchine o dèi». - [.]

24/2/1881. Giovedì sera. - Da un po´ di tempo mi diverto di nuovo in società, molto bene ai balli e danzo con più passione che mai. [...] A casa alle sei. Ho sfogliato i giornali. Poco dopo sono andato in sala anatomica a fare l´autopsia di una giovane.
Confuso. [.]

30/11/1881. Mercoledì sera. - Secondo Leopardi la noia è «il più nobile di tutti i sentimenti umani», secondo Buffon l´ennui è il tiranno di tutte le anime pensanti... il più nobile sentimento umano... ah sì!. E´ molto comodo essere nobili, quando non si ha nient´altro da fare se non annoiarsi. E tuttavia la frase leopardiana ha un suo senso - poiché sentire veramente significa sentire nobilmente, e quando si sa di essere tormentati dalla noia e lo si confessa onestamente, allora è comunque meglio che ostinarsi a credere che ci si diverte... dal momento che nella peggiore delle ipotesi - abbiamo sempre noi stessi. Certo, se si fosse sempre sicuri di ciò. Ma io neanche mi cerco più veramente - poiché quello che vedo così, a distanza, mi fa sempre più dubitare di quest´uomo. Non aversi del tutto in pugno per nessuna cosa! - Da mesi, forse da anni, trascinarsi di qua e di là, di desiderio in desiderio, in modo costruito fino alla nausea con le parole... andare su è giù soltanto fra inizi... e nonostante le ali svolazzare per la deplorevole indolenza solo sulla polvere della terra. A meno che io - un autentico figlio del secolo - non sia venuto al mondo già con le ali tarpate. - Oh che nausea, che indescrivibile nausea, sempre di nuovo e sempre peggio, poiché sempre più di rado mi rinnovo con... non importa con che cosa. Ho bisogno di libertà... e, com´è naturale, di denaro per divertirmi... e soprattutto di un altro io.[.]

2/6/1889 Domenica. Che malinconia mi avvolge oggi! Un infuocato pomeriggio d´estate, sono solo a casa. - Ho preso in mano vecchie lettere, le lettere di Olga. Questa orribile sensazione che tutto, tutto impallidisce!. [.] Sì! La vita «dorata» si dissolve! Ancora qualche anno e addio giovinezza, da cui fin da piccolo mi ero aspettato chissà che! - E oggi! - Un medico senza ambulatorio! - Uno scrittore di mediocre successo! Un giovane con amoretti, ma senza amore! Le grandi avventure e le piccole stoltezze! Oh no, molto peggio! La grande avventura è svanita, come ogni futilità, solo la piccola stoltezza è diventata grande e non mi molla!.
Molto denaro e qualche donna, altre donne, e poi un po´ di sventatezza, ecco di cosa avrei bisogno! Poiché la cosa nauseante nella mia sventatezza è che essa non è vera!
- E´ malinconia mascherata! Non mi sono mai rallegrato fervidamente per qualcosa senza secondi fini. Sempre si aggiunge tutto il resto possibile! Io sono, no io non sono uno che sa vivere; godo da pasticcione, «entro a passi pesanti nella casa della gioia»; se voglio guardare il sole, ho bisogno di occhiali scuri. La bella idea che questa «disposizione di spirito» sia effetto di una giovinezza fuori della norma è ormai passata! Ho ventisette anni, e non c´è stato davvero alcun miglioramento. [.]

11/9/1894 [.] Ho cenato con Herzl e Ferdinand Gross (e Beraton) al Pschorrbru. In verità non sopporto molto Herzl; mi irrita quel suo parlare autorevole con gli occhi spalancati alla fine di ogni frase. [.]

1/12/1902 Mattina, ho incontrato Herzl. Occorre tutta la mia grande obiettività per non trovarlo del tutto insopportabile e per rimanere imparziale nei confronti del suo grande talento. - Supplemento natalizio, mi chiede se ho letto il suo romanzo (Paese vecchio nuovo), rispondo di no. [.]

19/5/1911 Stanotte è morto Gustav Mahler. Gli ho parlato una sola volta, nel tardo autunno del 1905 dai Rosé. L´ho visto l´ultima volta l´estate scorsa nella Karntnerstrae, l´ho seguito se il mio ricordo non m´inganna, per alcuni passi, perché mi interessava il suo modo di camminare. -

21/5 [.] Mamma a pranzo. Con lei la Quinta di Mahler. Che autobiografia! [.]

5/8/1914 Con Olga nel bosco. Aria magnifica! - In Hotel notizia della dichiarazione di guerra dell´Inghilterra alla Germania! - La guerra mondiale. La rovina mondiale. Notizie immani e mostruose - [.] Con Olga, Leo, Bella, Sankt Moritz. - Sugli avvenimenti. Viviamo un momento immane della storia mondiale. In pochi giorni l´immagine del mondo è completamente mutata. Si crede di sognare! Tutti sono sgomenti. [.]

16/2/1919 Giorno delle elezioni. Con Olga, poco dopo le sette in casuale compagnia degli Schmutzer, andiamo al seggio elettorale. Abbiamo dato il nostro voto ai candidati socialdemocratici - per quanto mi siano diventati antipatici il giornale dei lavoratori e tutto il partito col suo atteggiamento per un verso rivolto all´antisemitismo, per l´altro al bolscevismo. Ma si tratta di tenersi quanto più lontano è possibile dalla destra - e inoltre: procurare al Partito socialdemocratico una consistente minoranza, altrimenti disordini molto probabili. - [.]
16/6/1922 A cena dal professor Freud. (I suoi auguri per il mio compleanno, la mia risposta, il suo invito.) La moglie e la figlia Anna (che l´anno scorso ha impartito per alcuni mesi lezioni private a Lili). - Finora avevo parlato con lui solo qualche volta di sfuggita. - Egli è stato molto cordiale. Conversazione sui tempi dell´ospedale e del servizio militare, primari in comune ecc. - Sottotenente Gustl ecc. - Poi mi ha mostrato la sua biblioteca - opere sue, traduzioni, scritti dei suoi alunni; - diversi bronzetti antichi ecc. - Egli non esercita più la professione, ma forma solo gli allievi, che per questo scopo si fanno analizzare da lui. Mi regala una bella nuova edizione delle sue lezioni. - Mi accompagna a tarda ora dalla Berggasse fino a casa mia. - La conversazione si fa più calda e personale; - si parla dell´invecchiare e del morire; - egli mi confessa certe sensazioni alla Solness (che a me sono del tutto estranee). [.]

16/8/1922 Mattina sul Salzberg. Pensione Moritz; dal professor Freud; torna con figlia, figlio e fratello dal bosco con molti funghi. Altri parenti, la moglie - nel complesso undici. - Nella sua stanza mi parla del suo lavoro L´io e l´Es - che sarebbe stato influenzato da un suo allievo, Groddeck (autore del romanzo Lo scrutatore d´anime) - ; gli racconto il mio sogno; parliamo del mito dei concetti - trovo determinate analogie (relative solo al mito) fra le sue teorie e quelle di Arthur Kaufmann (che egli non conosce). - Mangiamo assieme: sua figlia, la signora Hollitscher; suo marito. - Conversazione tranquilla e divertente. Sulla sua bella terrazza (fa fresco, cielo nuvoloso). si parla di Mahler: egli mi racconta che lo aveva consultato a Leida (Olanda) - posso confermargli, come dopo questa consultazione (per effetto di questa?) l´ultimo anno di matrimonio - (e di vita) di Mahler era stato molto felice. - Racconto il ruolo che gli stagni (laghetti) hanno nelle mie ultime creazioni; - egli dice: «Questo è lo stagno dei bambini» - ; io metto in dubbio la necessità di tale definizione (tuttavia avverto come sempre un che di monomaniacale, anche di giocoso nel suo modo di considerare le cose). - . Con il suo carattere egli mi ha attratto di nuovo, e ho avvertito una certa voglia di intrattenermi con lui su ogni sorta di argomenti profondi della mia creazione (e della mia vita) - ma preferisco astenermi dal farlo.

Repubblica 10.11.06
Che cosa resta di quella tragedia
In Urss ottant'anni fa nascevano i campi
di Anne Applebaum


Nel 1926 il lavoro forzato e la reclusione di massa divennero un sistema
Oggi il mancato confronto con quella realtà agisce da ostacolo alla crescita civile

Dalla sommità del campanile del vecchio monastero Solovetsky, nella Russia settentrionale, si scorge ancora il profilo del campo di concentramento. Salendo lassù in una giornata limpida sono riuscita a vedere al di là dello spesso muro di pietra che circonda gli edifici del monastero del XV secolo, un tempo sede dell´amministrazione centrale del campo. A nord distinguevo la sagoma della chiesa in cima alla collina i cui sotterranei ospitavano le famigerate celle di punizione del campo.
Al di là delle colline e dei dock si estende la vasta superficie del Mar Bianco e il resto delle isole Solovetsky: Bolshaya Muksulmana, dove un tempo i prigionieri allevavano volpi per ricavarne pellicce, Anzer, che ospitava campi speciali per invalidi, donne con bambini ed ex monaci, Zayatskie Ostrov, sede del campo punitivo femminile.
Non a caso lo scrittore russo Alexander Solgenitsyn scelse di chiamare la sua storia del sistema dei campi di concentramento sovietici Arcipelago Gulag. Dopo tutto Solovetsky, primo campo specificamente ideato per i prigionieri politici, era un vero e proprio arcipelago, un carcere che crebbe espandendosi di isola in isola.
Solovetsky fece anche da modello a ciò che in seguito divenne noto come gulag. Anche se Lenin e Trotsky iniziarono a costruire campi di concentramento per prigionieri politici già a partire dal 1918, fu a Solovetsky che si procedette a meccanizzare e riprogettare il campo e fu lì che la polizia segreta sovietica iniziò a sfruttare il lavoro dei prigionieri a servizio dello Stato. E lo Stato ne andava fiero. In un articolo del 1945, un pezzo grosso del Nkvd, la polizia segreta sovietica, scrisse orgoglioso che «il lavoro forzato come metodo di rieducazione» iniziò a Solovetsky nel 1926. Quest´anno cade quindi l´ottantesimo anniversario della fondazione del Gulag.
L´origine del Gulag si può fare almeno in parte risalire al personaggio di Naftaly Aronovitch Frenkel, nato nel 1833 a Haifa, come risulta dalla sua scheda di prigioniero. Nel 1923 le autorità lo arrestarono per «transito illegale alla frontiera» condannandolo a dieci anni di lavoro duro a Solovetsky.
Come Frenkel sia riuscito a realizzare la metamorfosi da prigioniero a comandante del campo resta un mistero. Leggenda vuole che, giunto al campo, rimase sconvolto dalla mancanza di organizzazione che vi regnava tanto da scrivere una lettera in cui indicava con precisione le pecche di ciascuna delle attività produttive del campo, che includevano la selvicultura, l´agricoltura e la fabbricazione di laterizi. A quanto sembra un amministratore inviò la lettera a Stalin che convocò Frenkel a Mosca.
Sappiamo che Frenkel tentò di trasformare il campo in una fonte di profitto istituendo il famigerato sistema che destinava ai prigionieri razioni di cibo differenziate in accordo alla quantità di lavoro portato a termine, realizzando in pratica una selezione dei prigionieri in base alla capacità di sopravvivenza. Relativamente ben nutriti i prigionieri forti si rinvigorivano. Privati del cibo i prigionieri deboli si ammalavano o morivano. Il processo veniva accelerato dall´elevato ritmo di attività imposto.
Frenkel mandava i prigionieri a costruire strade e tagliare alberi fuori dal campo. Nel giro di pochi anni I prigionieri di Solovetsky lavoravano in tutta la regione. Stalin accolse questo corso con enorme entusiasmo e promosse l´espansione del sistema dei campi anche nel momento in cui fu chiaro a tutti che si trattava di un sistema non solo crudele, ma anche antieconomico. Impose l´esecuzione di progetti impraticabili, ferrovie attraverso la tundra, gallerie fino all´isola di Sakhalin, molti dei quali non furono mai completati. Inviò ai campi particolari "nemici" e rifiutò personalmente le loro domande di grazia spesso con la frase «fateli continuare a lavorare».
Oggi, a 80 anni di distanza, sappiamo quale fu il vero costo del sistema dei campi. Tra il 1926 e il 1953, anno della morte di Stalin, circa 18 milioni di prigionieri passarono attraverso il sistema del Gulag. Altri sei o sette milioni furono inviati al confino in località dell´estremo Nord. A milioni si ammalarono, a milioni morirono. I campi contribuirono a creare la paura e la paranoia che caratterizzarono la vita dell´Urss e distorsero l´economia sovietica, concentrando persone e industrie nel nord gelido e inabitabile.
Considerando l´orribile ruolo giocato dai campi nella storia dell´Unione Sovietica, ci si domanda come mai in Russia il retaggio del Gulag sia un tema così scarsamente dibattuto. Perché una data come l´ottantesimo anniversario della fondazione dei campi di Solovetsky non viene ricordata? Sorgono disseminati per la Russia vari monumenti a ricordo delle vittime del Gulag, ma non esiste un monumento nazionale o un luogo di lutto. Peggio, a quindici anni dal crollo dell´Unione Sovietica è assente qualunque dibattito pubblico sul gulag. Non è stato sempre così. Negli anni ‘80, all´inizio della glasnost in Russia, le memorie dei sopravvissuti del Gulag vendettero milioni di copie. Ma negli ultimi tempi i libri di storia che contengono simili "rivelazioni" ottengono recensioni negative o passano semplicemente sotto silenzio.
In un certo senso non è difficile spiegarne il motivo. In Russia, la memoria dei campi convive confusa con quella di un gran numero di altre atrocità: la guerra, la carestia e la collettivizzazione. La gente spesso mi chiede: «Perché i sopravvissuti dei campi dovrebbero godere di un trattamento privilegiato?». C´è chi poi associa il dibattito sul gulag alle riforme economiche e politiche degli anni ‘90, giudicate un pasticcio, e si chiede dove tutto questo abbia portato. Assai più significativo è il fatto che la Russia è attualmente governata da ex funzionari del Kgb, eredi diretti degli amministratori del Gulag. In realtà il presidente Vladimir Putin spesso si definisce un Chekista, il termine infame usato per indicare gli appartenenti alla polizia politica di Lenin, precursori del Kgb. Non è nel suo interesse sottolineare il fatto che era membro di un´organizzazione criminale.
Tragicamente il mancato confronto con il passato sta ostacolando la formazione della società civile russa e dello stato di diritto. Dopo tutto i capi del Gulag hanno mantenuto le loro dacie e le loro cospicue pensioni. Le vittime del Gulag sono rimaste povere ed emarginate. Agli occhi della maggioranza dei russi oggi è stata una scelta saggia collaborare in passato con il regime. Per analogia, quanto più si imbroglia e si mente, tanto più si è saggi.
Alcune delle ideologie del Gulag sopravvivono in senso profondo anche nell´atteggiamento sprezzante e arrogante che la nuova élite russa ha nei confronti dei poveri e della classe media. Se i ricchi non impareranno a rispettare i diritti umani e civili dei loro connazionali la Russia è destinata a restare una terra di contadini impoveriti e di politici miliardari, uomini che conservano i loro patrimoni nei caveau delle banche svizzere e hanno i jet privati in pista, pronti al decollo.
La mancata memoria del passato ha inoltre conseguenze più banali, di tipo pratico. Può servire a spiegare, ad esempio, l´insensibilità dei russi rispetto a determinate forme di censura e alla costante, opprimente presenza della polizia segreta, oggi ribattezzata Fsb. Il fatto che la Fsb possa intercettare conversazioni telefoniche ed entrare in abitazioni private senza mandato non turba più di tanto i russi. Né li turba l´inquietante orrore del loro sistema penale. Nel 1998 mi recai a visitare la prigione centrale della città di Arkhangelsk, un tempo una delle capitali del Gulag. Il carcere, risalente a epoca pre-stalinista, sembrava rimasto pressoché immutato. Le celle erano affollate e mal areate, i servizi igienici primitivi. Il responsabile del carcere si strinse nelle spalle. Era tutta questione di soldi, mi disse. I corridoi erano bui perché l´elettricità costava cara, i prigionieri restavano settimane in attesa di processo perché i giudici erano mal pagati. Non mi convinse. Se le prigioni russe hanno ancora l´aspetto che avevano all´epoca di Stalin, se i tribunali e le indagini penali sono una messinscena è in parte perché il passato non tormenta i giudici, i politici o le élite imprenditoriali russe.
Ma pochissimi nella Russia di oggi sentono il passato come un fardello o un dovere. Il passato è un brutto sogno da dimenticare. Come un grande vaso di Pandora chiuso in attesa della generazione successiva.
© 2006 Cicero
(Distributed by The New York Times Syndicate)


Repubblica 10.11.06
INTERVISTA AD ALEXANDER SOLGENITSYN: I MIEI ANNI NEL GULAG
Come sono diventato testimone dell'orrore
di Daniel Khelmann

Quello che mi toccò in sorte mi fornì una chiara visione su tutto ciò che bolscevismo e comunismo significavano e mi permise di approfondire la nostra esistenza

Il fascino ispiratogli dalla storia russa ha determinato il lavoro e la vita di Aleksandr Solgenitsyn.
Nel corso di una vita dedicata alla lotta contro la censura e all´aperta denuncia dei regimi oppressivi e corrotti, la statura del premio Nobel è diminuita e cresciuta in maniera alterna, con l´ascesa e la caduta dell´Unione Sovietica e seguendo il capriccioso umore del pubblico. Ora appare come un´ironia, ma Solgenitsyn, che adesso ha ottantasette anni, è stato, secondo il suo biografo Michael Scammell, un fervente marxista da giovane.
Lei ha ribadito spesso qualcosa che all´apparenza è paradossale: un sollievo per essere stato spedito al Gulag, per il fatto che il destino le sia, per così dire, stato imposto. Ha scritto di provare terrore al pensiero di quale tipo di scrittore sarebbe diventato senza il gulag. Quale tipo di scrittore sarebbe diventato?
«Mi lasci accennare prima al ruolo decisivo che il Gulag ha avuto nella mia vita di scrittore. Già nel 1936, all´età di 18 anni, desideravo, in effetti, descrivere e commentare in maniera approfondita la Rivoluzione russa del 1917, la rivoluzione che mise fine al governo autocratico dello zar Nicola II, consentendo ai bolscevichi di prendere il potere poco dopo. Solo questo mi avrebbe già impedito di diventare uno scrittore sovietico leale. Ma quel che mi è toccato in sorte nel Gulag ebbe un grande effetto sulle mie convinzioni e sui miei punti di vista nel corso degli anni. Mi fornì una chiara visione dettagliata su tutto ciò che il bolscevismo significava e sul comunismo sovietico e fu questo, in conclusione, a permettermi di penetrare in maniera approfondita nelle condizioni della nostra esistenza».
In più di un´occasione lei ha scritto che la triste esperienza del ventesimo secolo doveva essere vissuta dalla Russia in qualche modo in quanto rappresentante dell´umanità. Dall´altra parte il suo romanzo La ruota rossa tratta ripetutamente dell´evitabilità della catastrofe e di quanto facilmente la storia avrebbe potuto prendere un corso totalmente differente. Pensa veramente che questa enorme sofferenza sia stata necessaria o sussiste anche la possibilità che sia stata completamente inutile?
«Considerando la storia del mondo nel suo insieme, penso che se la Rivoluzione russa non fosse avvenuta, il mondo sarebbe stato scosso inevitabilmente da una qualche altra rivoluzione analoga, una sorta di seguito della Rivoluzione francese del diciottesimo secolo, che a sua volta innescò rivoluzioni in molti altri paesi europei. Questo perché l´umanità nel suo insieme doveva pagare per aver smarrito un senso auto-imposto dei limiti, una moderazione auto-imposta riguardo ai suoi aneliti e alle sue richieste, per l´avidità assoluta dei ricchi e dei potenti - sia singoli individui sia interi Stati - e per l´inaridimento dei sentimenti di benevolenza umana».
Molti pensatori e scrittori occidentali hanno attivamente sostenuto la dittatura sovietica. Fondamentalmente, sono state soltanto la sua ferma posizione e le ripercussioni che essa ha avuto a livello mondiale a suscitare un cambiamento al riguardo. Anzi, proprio questo fu il motivo che la portò a rifiutare un incontro con il filosofo e scrittore francese Jean-Paul Sartre quando egli visitò l´Unione Sovietica. Ci fu veramente un "tradimento degli intellettuali", come lo ha definito il filosofo francese Julien Benda, un tradimento, dunque, da parte degli intellettuali dei valori dei Lumi?
«L´appoggio diffuso tra i pensatori occidentali alla dittatura comunista iniziato con gli anni Trenta è un segno e una conseguenza della decadenza dell´umanesimo secolare: ne soffriamo ancora e continueremo a soffrirne nel futuro».
Nessun altro scrittore dopo Voltaire, ha avuto, probabilmente, un impatto politico pari al suo... Le fa piacere? Ci sono ancora delle cose che vorrebbe completare?
«In molte occasioni ho sollecitato le potenze occidentali a evitare l´equazione tra il comunismo sovietico da una parte e dall´altra la Russia in quanto Paese e la storia russa. Ma, purtroppo, molte potenze occidentali non si sono preoccupate di fare questa distinzione. E le politiche delle potenze occidentali, anche dopo il crollo della dittatura sovietica, sono poco cambiate nella loro ferocia verso la Russia. Questo è profondamente deludente. Gli eventi in Russia partire dagli anni Novanta hanno, tuttavia, preso un corso anche peggiore. Prima che potesse esserci una ripresa nazionale, sia morale sia economica, le forze occulte hanno immediatamente acquisito una posizione di vantaggio; i ladri più privi di princìpi si sono arricchiti saccheggiando indisturbatamente le ricchezze del Paese e sedimentando il cinismo e il danno morale già perpetrati. Questa è stata una catastrofe per la Russia nel suo complesso.
«Soffro molto di fronte a queste trasformazioni. Come potrei parlare di "soddisfazione"? E ora che ho 87 anni, e in più il mio stato di salute è cagionevole, non ho la forza di esercitare una vera influenza per gli anni a venire».
Infine, la domanda inevitabile: come sarà il futuro della Russia? Democrazia o uno Stato autoritario sul modello cinese?
«Sono molto preoccupato per il futuro della Russia. Non mi azzarderò a fare previsioni. Le sue domande riguardano più che altro l´ordine sociale. Questo è di estrema importanza, anche se l´ordine morale conserva la prevalenza.
«Per quanto riguarda la sperata democratizzazione della Russia, ho presentato il mio modello già nel 1990 in un saggio intitolato La ricostruzione della Russia, un piano per una costruzione graduale di strutture democratiche, cominciando dall´autogoverno locale per finire con il governo centrale.
«L´attività dell´autogoverno locale in molti paesi occidentali è un modello che invito i miei compatrioti a emulare. Il mio paradigma è diverso dal sistema partitico parlamentare che domina in Occidente. Non vedo come una cosa positiva l´esistenza di partiti politici la cui unica preoccupazione è salire al potere, la considero negativamente. La mia proposta non è stata accolta con simpatia finora. Ma anche così, preferirei una futura democrazia russa di questo tipo, piuttosto che una versione presa in prestito dall´Occidente».

© Cicero e Alexander Solgenitsyn, 2006
Distribuzione The New York Times Syndicate
(traduzione di Guiomar Parada)


Repubblica 10.11.06
PERCHÉ NEL REGIME DI PUTIN NON SI FANNO I CONTI CON LA STORIA
NELLE SCUOLE IN RUSSIA DOVE LA MEMORIA TACE
di JURIJ SAMODUROV

Un mese fa un eminente dirigent si è rivolto ai maestri di Mosca con una lezione su ciò che nel nuovo anno scolastico è prioritario nell´insegnamento

La Russia esiste e vive in una strana situazione perché non capisce che cosa le è accaduto. Solo cinque anni fa noi (non la maggioranza del popolo, però in parecchi) pensavamo che nel 1991, nel nostro Paese, si fosse verificata una rivoluzione democratica.
Più tardi si pensava che essa non fosse riuscita. Ora abbiamo il dubbio che gli avvenimenti del 1991 non siano stati affatto una rivoluzione democratica. Ancora più rapidamente, negli ultimi quindici anni, sono cambiate le idee del popolo russo sul periodo sovietico della nostra storia.
Tutto questo ha lasciato un´impronta inconfondibile sull´insegnamento e nello studio della storia dell´epoca sovietica. Nelle scuole dell´obbligo russe, ad esempio, la tragedia umana e politica del Gulag, non esiste. Nei manuali scolastici di oggi non c´è alcun giudizio chiaro sulla società e sullo Stato sovietici. Non vengono nemmeno descritti, non se ne parla: non è chiaro quando emergeranno le prime riflessioni e come saranno le considerazioni di uso generale. Non essendo un insegnante, parlo da esterno: ma il mio parere è abbastanza fondato. È fondato soprattutto sulla mia esperienza di lavoro nella giuria del concorso per maestri di scuola, intitolato "Lezione sul tema: storia delle repressioni politiche e resistenza alla libertà negata nell´Urss", promosso dal Museo e Centro civile "Andrej Sakharov". Il concorso si tiene da quattro anni e vi partecipano 250 maestri di 25 regioni del nostro Paese. Il Centro Sakharov ha promosso e organizzato questo concorso perché in Russia il tema del Gulag e delle repressioni politiche viene ancora sistematicamente nascosto e praticamente non è analizzato.
Basta dire che anche nei programmi scolastici delle superiori, approvati dal ministero dell´Istruzione, a questo tema non riservano più di due ore, mentre nei manuali raccomandati dallo stesso ministero gli si dedicano un paio di generiche paginette.
Come membro della giuria ho visto circa 150 video delle lezioni e posso dire che la maggioranza dei maestri si limita ai racconti di repressioni nell´epoca sovietica le cui vittime furono certe persone, certi gruppi di popolazione e certi strati sociali. In sostanza basano il loro insegnamento sullo studio di documenti che elencano cifre ed episodi del fenomeno e fanno capire agli allievi che le repressioni furono una cosa crudele e disumana. Pochissime però sono state le lezioni in cui è stato posto e analizzato il problema principale: se le repressioni, il sistema del Gulag, fossero legali secondo la Costituzione Sovietica. Nessuna analisi, invece, sull´attività delle strutture del potere di Stato nell´Urss, sulla loro responsabilità giuridica e storica per le repressioni politiche. Nemmeno iniziata, in Russia, una riflessione sulle conseguenze storiche e sugli effetti di lunga durata del sistema del Gulag. Tali domande i docenti russi ancora non le pongono e non le fanno discutere.
Nonostante il concorso si svolga sotto il patrocinio dell´Istituto dell´Istruzione aperta di Mosca, dell´Accademia russa per l´aggiornamento professionale dei lavoratori dell´istruzione pubblica, e in collaborazione con una serie di direzioni regionali dell´Istruzione, l´atteggiamento al tema del concorso, da parte dei presidi e della maggioranza degli insegnanti, è più che ansioso. Alcuni maestri, soprattutto quelli che vengono dalla Siberia, mi hanno chiesto senza equivoci di mimetizzare in qualche modo l´argomento Gulag, eliminando ogni accenno alle repressioni.
Sostengono che la schiavitù comunista, le repressioni politiche e la resistenza alla mancata libertà nell´Urss, scatenino le reazioni negative e l´ostilità dei loro colleghi e dei presidi. È una cosa che non sorprende, vista la situazione politica attuale in Russia.
Un mese fa un eminente dirigente del sistema di aggiornamento professionale degli insegnanti si è rivolto ai maestri di Mosca con una lezione su ciò che nel nuovo anno scolastico deve diventare prioritario per i docenti di storia. Ha concluso che l´essenziale è insegnare ai giovani il patriottismo, basandosi sui modelli positivi della storia dell´Urss. Alla lezione era presente un´addetta al nostro museo. Lei ci ha poi raccontato che cosa intendeva quel dirigente: i progressi nella creazione e nella difesa dello Stato sovietico, la vittoria nella Grande Guerra patriottica e l´eroismo in guerra, i progressi nello sviluppo dell´industria, della scienza e della cultura, il lavoro pieno di abnegazione di ingegneri, operai, scienziati dirigenti industriali, maestri, medici, eccetera. Ignorato l´altro genere di patriottismo civile: gli aiuti agli affamati nella regione del Volga; la solidarietà durante la carestia criminale in Ucraina; la lotta per la sopravvivenza e la conservazione della dignità umana durante gli interrogatori nelle carceri, nei lager e nell´esilio; il sostegno altruistico ai compagni di reclusione; l´eroismo nel corso delle ribellioni e degli scioperi nel Gulag; la lotta eroica dei dissidenti contro il regime sovietico. Tutto ciò, ossia la resistenza umana al sistema Gulag sotto l´Urss, non è stato citato come un modello di comportamento patriottico. Non si è raccomandato di studiare e di parlare di tali storie nelle scuole.
Il grande limite delle lezioni di storia, così come la insegnano oggi nelle scuole dell´obbligo russe, è che fra gli insegnanti ci sono molti specialisti entusiasti dell´elaborazione dei programmi, ma nessuno disposto a fornire una risposta alla domanda fondamentale del presente pedagogico: che cosa i giovani russi devono sapere, e perché, sui crimini contro l´umanità del regime sovietico? In sostanza questo problema non è stato ancora affrontato. Ma senza aver elaborato risposte concrete al "buco nero" del Gulag, la società russa non può aspettarsi progressi nell´insegnamento e nello studio della storia sovietica.
Personalmente, credo che i giovani del mio Paese debbano sapere in che cosa consistevano i crimini contro l´umanità dello Stato e della società sovietica. Solo così possono diventare sostenitori consapevoli e convinti della creazione in Russia di uno Stato democratico fondato sul diritto. Ed essere nemici, responsabili e decisi, del nuovo autoritarismo.

Repubblica 10.11.06
L'ombra del compagno Mao
Esce un saggio di Federico Rampini sul leader cinese
L'ambigua vicenda di un capo carismatico carico di colpe
di Adriano Sofri


Fu enorme il fascino esercitato sugli occidentali
Il suo Libretto fu un bestseller secondo solo alla Bibbia
La povertà condivisa faceva piacere alle masse contadine

La mummia di Mao, tenuta agli arresti nel mausoleo della Tienanmen, impedisce al suo spettro di girare per la Cina, e di tirare i piedi ai suoi successori. I quali si contentano di conservargli una pensione onoraria da Padre della Patria, e sorvolano sul resto. Il resto è il comunismo, salvo il monopolio del Partito, e i milioni di morti che è costato. Ben altre cifre eccitano la Cina di oggi, esaltanti come in una frenetica seduta di Borsa, e i milioni di morti sono anche loro in arresto da qualche parte, senza mausoleo. Fra le cifre iperbolicamente tragiche di ieri e quelle iperbolicamente euforiche di oggi c´è, a far da frontiera e da cerniera, quella che chiameremo la «soluzione trenta per cento» di Deng Xiaoping, sull´operato di Mao: «70 per cento giusto, 30 per cento sbagliato».
Federico Rampini la cita più volte, quella commemorazione percentuale, immutata ormai dal 1981, che serve a tenere insieme un riconoscimento degli "errori" di Mao con la sua consacrazione extraterrestre: innocui l´uno e l´altra. Rampini, che si mostra inesauribile corridore della nuova Cina e amatore appassionato dell´antica, questa volta lega i suoi racconti col filo della presenza e dell´assenza di Mao, con la sua ombra, esorcizzata più che interrogata dai cinesi di oggi. La maggior parte dei quali ha troppo da fare: avere idee, lavorare, arricchirsi, fare con una specie di ingordigia le cose che si fanno in convalescenza da una malattia mortale. Un´attendibile ricerca (americana, del resto) assegna ai cinesi il primo posto nella classifica della soddisfazione per il proprio presente e dell´ottimismo sul futuro.
Ce ne sono (i contadini soprattutto, e i vaganti delle megalopoli) che ricordano con nostalgia il tempo di Mao, se non altro perché la povertà universale è meno insopportabile del confronto con la ricchezza altrui. Gli uni e gli altri trovano però il tempo per il pellegrinaggio al mausoleo o alla casa natale di Shaoshan, attirati da una curiosità o da una venerazione. Non più, secondo la battuta ricordata da Rampini, metà per piangerlo e metà per sincerarsi che sia davvero morto, e non torni più. Non è successo in Cina finora - dunque non succederà più, non allo stesso modo - qualcosa che equivalga al XX congresso del Pcus e al Rapporto segreto di Crusciov sul «culto della personalità e gli errori del compagno Stalin». Il libro di Rampini ("L´ombra di Mao", Strade Blu Mondadori, 15 euro, pagg 291) si interroga su questa differenza, per i cinesi di oggi e per gli occidentali già "filocinesi", essi stessi per lo più evasivi rispetto a quel passato. Fra la morte di Stalin e il XX congresso trascorsero tre burrascosi anni di rese di conti. Mao è morto da trent´anni. Dice Rampini: se un visitatore trovasse sulla mia parete a Pechino un ritratto di Mao si meraviglierebbe poco, o niente: ma sarebbe sconvolto se trovasse su una parete tedesca un ritratto di Hitler.
Una domanda analoga ispirava la pungente biografia di Stalin scritta da Martin Amis, Koba il terribile (Einaudi 2003): com´è possibile che gli intellettuali ricordando il loro passato stalinista ci facciano su una risata, ciò che parrebbe loro inconcepibile a proposito di Hitler? Naturalmente, le biografie delle persone (e delle generazioni) vogliono la loro parte. Chi è passato attraverso la propria speranza, la propria illusione, il proprio errore e la propria colpa sarà riluttante alle comparazioni e ancora più alle assimilazioni, si aggrapperà alle distinzioni. Il nazismo non è il comunismo, il comunismo sovietico non è il comunismo maoista... Hitler non è Stalin, Stalin non è Mao... (Anzi: Mao sembrò l´anti-Stalin). Il lager non è il gulag, il gulag non è - già, come si chiama? Non l´abbiamo ancora imparato abbastanza, vero? Il laogai? Anche il gulag, c´era voluto un bel po´... Questione di tempo, dunque, di attenuanti, di prescrizione?
Dirò fra un momento che cosa ne pensi: dopotutto si tratta anche di me. Rampini non è affatto indulgente né col comunismo cinese del tempo di Mao, né con la sua prosecuzione-capovolgimento nella Cina illiberale di oggi. Ha interrogato molti testimoni delle tragedie, soprattutto della cosiddetta Rivoluzione culturale, e conosce la bibliografia più recente e sfrenata. Il Mao. La storia sconosciuta, di Jung Chang e Jon Halliday (Longanesi 2006, ma l´edizione originale è del 2003), raccoglie novecento pagine di nefandezze e imposture raccapriccianti. Rampini si sottrae alla riduzione di Mao a un mostro. Oltretutto, quella che un tempo era la storia dei grandi uomini - e dei grandi criminali - vista con gli occhi del cameriere, ora è vista con l´occhio del medico curante o con quello ancora più clinico della guardia del corpo. E se nessuno è un grand´uomo per il proprio cameriere, ancor meno può esserlo per la propria guardia del corpo: «imperatore sadico e debosciato, barbone sudicio e impudico»... Tutto vero, osserva Rampini, e però «fino all´ultimo, egli conserva la capacità di rappresentare una pulsione antigerarchica e antiautoritaria, la rivincita della periferia sul centro».
Quali ombre cinesi hanno adescato soprattutto la sinistra occidentale? A parte il fanatismo più liturgico e dogmatico - «Servire il popolo», o i partiti marxisti-leninisti - ne indicherei due: la povertà, e il volontarismo. Rampini li ricostruisce bene: i Piedi Scalzi (quando toccò all´Iran furono anche lì i Senza Scarpe), il pugno di riso, le pantofole, le uniformi per tutti. La povertà rivendicata e vendicata ha una irresistibile forza di seduzione, e ogni rivoluzione popolare si sogna come un ritorno alla povertà originaria. La povertà è l´origine. L´epopea della povertà cinese arrivava in omaggio a quelli di noi che nel ‘62 studiavano le mappe di confine fra Cina e India, con i calendari illustrati e i segnalibro di piume colorate di Guozi Shudian. Esotico e cristiano insieme, come quello dei vietcong coi sandali, il richiamo si sarebbe appannato solo con l´accendersi delle lotte operaie da noi, l´Indocina rimpatriata nell´officina di Agnelli. Tornò, più grave - ma anche più dubbioso e presto spaventato - l´abbaglio della Rivoluzione culturale, l´idea di una ribellione contro autorità e burocrazia, una rivoluzione nella rivoluzione. Si trattò di una infamia senza eguali, della persecuzione universale, della devastazione della memoria e della bellezza.
E veniamo al secondo punto, più trascinante, che Rampini rievoca attraverso la denuncia precoce del sinologo belga Simon Leys: il volontarismo, l´idea che la competenza scientifica e tecnica siano secondarie se non dannose. (Alla testa della Cina di oggi, ricorda Rampini, sono Hu Jintao e Wen Jabao, due ingegneri...). Il volontarismo fu il segno della ribellione giovanile degli anni Sessanta in Occidente, che muoveva dallo scandalo morale: la fame, lo spreco, il razzismo, la guerra, la confusione fra scienza e determinismo. «Mao si rifiuta di ascoltare gli economisti, né vuole importare tecnologie straniere». Quel primitivismo scambiato per umanesimo: rimettere al centro l´uomo, rifarlo nuovo, e il demenziale altoforno da villaggio. Era questo il Mao che piaceva, quello degli inediti, dei pensieri semplici (sono insidiosi i pensieri semplici, possono essere il semplicismo demagogico o la nettezza evangelica: guai a sbagliare). La fede sposta le montagne, e anche il popolo cinese, «se continuerà a scavare». Il Libretto rosso, ricorda Rampini, è il secondo bestseller assoluto dopo la Bibbia. La Cina, come oggi i paesi arabi, sembrava rinnegare il proprio passato. Needham aveva un bel ricordare i primati cinesi nella storia della scienza, era il momento dell´ «energia rivoluzionaria al posto dell´energia elettrica» (Leys). Sono tentato di dire che l´invasamento iconoclasta delle Guardie rosse, ebbe, in nome dell´Ideologia, un significato affine a quello incarnato oggi, in nome della Religione, dal jihad islamista... Si capisce la restaurazione: né bianco né nero, il gatto acchiappa il topo, e si autocertifica rosso.
Un orizzonte si è chiuso, con la fine del comunismo cinese, l´idea di un progresso capace di accorciare chirurgicamente certi passaggi, ma tenuto ad attraversare le fasi successive: schiavitù, lavoro servile, accumulazione originaria e forza lavoro libera e proletaria, capitalismo sviluppato e forze produttive soffocate dai rapporti di produzione, fino alla maturazione del socialismo e all´inconveniente provvisorio della dittatura proletaria, con vista generosa sul comunismo, fine della divisione del lavoro ed estinzione dello Stato. Tutto l´itinerario è andato a quel paese, e in modo travolgente nell´Asia prima giapponese poi cinese. La Cina di oggi non si accontenta di questo carnevale dell´economia, ma sembra smentire la speranza che una libertà del mercato sia destinata a spezzare la camicia di forza del dispotismo politico.
Può darsi che si tratti di una questione di tempo: ma ne è passato già molto, e la Cina è un altro mondo. Sia i suoi capi che certi pensatori "realisti" occidentali proclamano che è la democrazia a non conciliarsi con la realtà cinese. Relativismo oltranzista, se non facesse un po´ ridere l´idea di relativizzare i tic politici del primo paese del pianeta per popolazione, e fra non molto per tutto il resto. All´idea che la democrazia non faccia per la Cina, Rampini non abbocca affatto, e chiama a testimoni i giovani di Tienanmen. Anzi, pensa che la "demaoizzazione", compiuta nei fatti ma elusa di diritto, debba andare insieme a un esame di coscienza del paese intero, qualcosa di paragonabile a ciò cui si è costretta la Germania. Benché la Cina appaia per il momento meno intenzionata a conquistare il mondo che a comprarlo, il maoismo comunista mutato in nazionalista «può diventare rapidamente xenofobo, intollerante, aggressivo... ».
Vivo Mao, si fabbricarono otto miliardi di spille da giacca. Gli studenti di Tienanmen 1989 eressero una specie di statua della Libertà, con una torcia in mano, ricorda Rampini, proprio dirimpetto al faccione di Mao. La chiamarono Dea della Democrazia.
Durò poco, ma chissà. La Cina è vicina. Vicinissima.

Repubblica 10.11.06
La giustizia sull'orlo del baratro
di Giuseppe D'Avanzo


Il governo e la maggioranza hanno davvero una qualche idea per la giustizia? L´Esecutivo è nato sei mesi fa. Al primo vagito si prese subito atto che il neonato accusava un importante deficit culturale. Non comprendeva che, nei labirinti della caotica giustizia italiana, andava dispersa una chance di modernizzazione del Paese. Avremmo dovuto voler integrarci con impegno testardo nello spazio comune di libertà e sicurezza della realtà europea. Al contrario, eravamo e siamo sempre più lontani dalle regole degli altri (che non abbiamo e, quando le abbiamo, non siamo in grado di farle rispettare: le "condanne" europee del nostro sistema giudiziario sono lì a documentarlo).
Bene, niente modernizzazione, niente stagione nuova. Si poteva sperare che nel programma del governo – al di là delle intenzioni di facciata – ci fosse almeno la prospettiva di un tempo migliore, la cocciuta volontà di rendere più effettivi i diritti dei cittadini razionalizzando il sistema (distribuzione delle risorse umane e materiali; modalità del loro impiego; priorità nella destinazione delle risorse; più qualità professionale; riforma di un processo in crisi di efficienza, risultati e credibilità: un ordigno perverso che sanziona prima dell´accertamento delle responsabilità e, quando accerta le responsabilità, non le sanziona). Al contrario, si è preferito soprattutto «creare un clima» che attenuasse il conflitto tra poteri dello Stato (governo, Parlamento, magistratura) e addolcisse i rapporti tra la politica e le toghe. Un obiettivo che Clemente Mastella, politico sapiente e ministro scaltro, ha conquistato in soli cento giorni.
Il dialogo tra politica e magistratura è senza dubbio migliorato. Dopo gli anni tempestosi regalati dal governo Berlusconi, è un buon risultato, una premessa essenziale, un buon punto di partenza per mettersi al lavoro. Ora però, se si fa un passo indietro e, dalla scena dei poteri pubblici, si scende in platea tra i cittadini per vedere il qualcosa che si è fatto, lo spettacolo è deprimente. La giustizia - come funzione dello Stato e servizio al cittadino - appare più scassata. Più impotente. Più insensata.
È stata approvata in fretta e furia, per demagogia e necessità (le carceri scoppiavano), una legge di indulto senza predisporre alcuna misura di accoglienza e reinserimento delle persone scarcerate. Gli "indultati" dovevano essere 13.000, si è scoperto che sono 24.500 (1.570 già di nuovo in carcere). La precipitosa iniziativa parlamentare sollecita ora, in un circolo vizioso, ripensamenti politici, insicurezza pubblica, qualche spirito forcaiolo creando un clima che impedisce scelte politiche utili a correggere una legislazione criminogena (droghe, immigrazione) e garantire il buon esito di quel perdóno con l´associazionismo, il privato sociale, il sostegno a misure di opportunità per chi esce dal carcere. Ma quel che è peggio, l´indulto è sabbia nel già singhiozzante motore della giustizia italiana. Otto processi su dieci saranno inutili (l´indulto cancella la pena e non il reato e, quindi, i processi vanno celebrati lo stesso). Per evitare questo cammino nel nulla bisognerebbe, come suggerisce il Consiglio superiore della magistratura, un parallelo provvedimento di amnistia (sarebbero cancellati anche i reati e quindi gli inutili processi). Quadro ed equilibri politici non sembrano, al momento, consoni ad accompagnare, come si è fatto in altre diciassette occasioni, l´indulto con l´amnistia. La macchina della giustizia girerà così a vuoto. In attesa che si fermi del tutto con i tempi della prescrizione previsti dalla berlusconiana Cirielli. La Corte Costituzionale, come si sa, ha imposto che la "prescrizione dimezzata" debba essere applicata anche ai processi di primo grado e, con ogni probabilità, presto sarà imposta anche nell´appello e in Cassazione. Senza voler essere pessimisti ad ogni costo, si può dire che i giudizi, sopravvissuti all´indulto, moriranno di "Cirielli".
Per evitare che la giustizia diventi un´apparenza e l´Italia un "paradiso penale", converrà che il governo si scuota dalla sua inerzia e inserisca la crisi dell´organizzazione giudiziaria e del processo penale e civile nell´agenda delle sue iniziative legislative. Mastella ha già messo le mani avanti. Riforme di «ampio respiro» non ce ne saranno. Bene (anzi, malissimo), ma che almeno le «limitate innovazioni legislative» a portata di mano vedano la luce. Alcune possono essere "a costo zero" o a costi contenutissimi (Mastella si duole, a ragione, delle scarse risorse). Il processo potrà essere salvato restituendo standard europei alla prescrizione e ritrovare maggiore speditezza con una nuova disciplina delle notifiche, delle impugnazioni, della contumacia. L´organizzazione giudiziaria può recuperare maggiore efficienza con il riordino delle circoscrizioni giudiziarie. Nuove leggi su stupefacenti e immigrazione, anziché creare reati e insicurezza sociale, potrebbero contenerli. Non è molto. Anzi, è quasi niente. È salvare il salvabile. Ma che almeno questo, nel breve-medio periodo, lo si faccia.

Repubblica 10.11.06
Pisapia: il 70 per cento di chi sconta tutta la pena in galera torna a delinquere
"Il carcere spesso non serve pene alternative più efficaci"
di Liana Milella


Per molti reati più utile prevedere i lavori socialmente utili o quelli finalizzati al risarcimento dei danni. Cambieremo la Cirielli

ROMA - Meno carcere, più pene alternative. E la legge Cirielli sulla "prescrizione breve" sostituita da regole che non servano a chi le sfrutta per evitare il processo. Giuliano Pisapia presiede la commissione per la riforma del codice penale e anticipa le soluzioni per garantire la certezza della pena chieste da Amato.
Di Pietro dice sì a «un´amnistia selettiva». È d´accordo?
«Lui lo dice solo adesso, io lo sostengo da anni. Un condono di due anni e un´amnistia per i reati bagatellari erano stati approvati dalla commissione Giustizia della Camera a gennaio. Purtroppo Ds e Margherita hanno fatto marcia indietro sull´amnistia e quindi Forza Italia e Udc hanno detto no all´indulto creando la situazione che poi ha portato a luglio al voto sul solo indulto».
Amato insiste: ci vuole più «certezza della pena». La sua ricetta?
«È indubbio che la certezza della pena elimina il senso di impunità che è il presupposto di nuovi reati. Ma bisogna uscire dalla logica per cui l´unica pena è quella carceraria, e prevedere per i reati non gravi sanzioni diverse. Sono più efficaci, verrebbero effettivamente scontate, porterebbero a una calo dei tempi del processo perché eviterebbero impugnazioni finalizzate solo alla prescrizione».
In concreto?
«Per molti reati è più utile prevedere sanzioni come i lavori socialmente utili, o quelli finalizzati al risarcimento del danno, o ancora misure interdittive come la sospensione della patente di guida piuttosto che della licenza commerciale o dai pubblici uffici. Ciò evita l´ingresso in carcere, ma viene eseguito effettivamente ed è un deterrente efficace rispetto a nuovi reati. In più le vittime verrebbero almeno in parte subito risarcite».
Ma non contrasta con la "voglia di carcere" di molti cittadini?
«La richiesta di carcere è comprensibile ma si è dimostrata effimera e inefficace. Quando si sconta l´intera pena in carcere, il detenuto finisce col ritornare a delinquere. Questo non è buonismo ma una saggia politica contro il crimine che ovunque ha dato esiti positivi. In Italia il 70% delle persone che hanno scontato la pena in carcere hanno commesso nuovi reati, mentre chi ha usufruito di misure alternative ha un tasso di recidiva del 3 per cento».
Il segretario dell´Anm Rossi sostiene che Cirielli e prescrizione sono un´amnistia strisciante. Mastella annuncia cambiamenti. Ci state lavorando?
«Trattiamo il sistema delle sanzioni e di conseguenza interverremo sulla prescrizione eliminando i danni che già ha creato e ancor più creerà la Cirielli, ma senza tornare al passato del codice Rocco che prevedeva un meccanismo tale per cui ogni anno si prescrivevano oltre 200mila reati».
Cosa prevedete di fare?
«Le circostanze attenuanti non possono incidere sui tempi di prescrizione dimezzandone i tempi. Ci vuole un tetto massimo proporzionato all´entità della pena prevista per il singolo reato allungando i tempi fino alla metà in caso di atti interruttivi. La prescrizione dovrebbe essere sospesa per ogni rinvio non motivato da esigenze processuali. Ma la cosa più importante è accelerare i tempi del processo: serve un nuovo codice penale che preveda come reato solo le condotte che offendano concretamente un bene giuridico in modo da far diminuire le impugnazioni dilatorie ed evitare la prescrizione perché a quel punto la sentenza definitiva arriverà in tempi ragionevoli».

Repubblica 10.11.06
Picasso
A Palazzo Grassi da sabato 11 novembre
La pittura la ceramica l'amore gli anni felici di Antibes
di Paolo Vagheggi


Duecentocinquanta opere esposte a Venezia in una rassegna intitolata "La joie de vivre"
Realizzate tra il 1945 e il '48, rievocano un tempo breve ma intensissimo dell'artista

VENEZIA. Il mare, l´assiolo e François Gilot. Picasso amava il mare. L´assiolo è un uccello rapace notturno simile a un piccolo gufo, un amico. François Gilot è la donna di cui s´innamorò alla fine della Seconda guerra mondiale. Il mare, l´assiolo e François Gilot hanno attraversato e segnato la mitica storia di quest´artista tra il 1945 e il 1948
Tutto cominciò nell´estate del 1945. Picasso stanco di stare a Parigi dopo gli anni di clausura della guerra partì per il Sud, s´avviò verso il Mediterraneo con la vecchia Hispano-Suiza, verso la Provenza dove a Ménerbes l´attendeva una casa che non aveva mai visto ma era di sua proprietà, che aveva ricevuto da un negoziante di colori in cambio di una piccola natura morta. Non è un aneddoto. Picasso poteva ottenere tutto ciò che voleva semplicemente disegnando o dipingendo. E in quella villetta cominciò la grande avventura della Costa Azzurra, il tempo dei soggiorni a Cannes, Golfe-Juan, Antibes, gli anni che da sabato 11 a Venezia racconta la mostra allestita nelle sale di Palazzo Grassi, "Picasso, La joie de vivre, 1945-1948".
Fu un periodo felice e assai complicato, segnato dalla fine della relazione con Dora Maar, che l´aveva seguito in quel primo viaggio, e dall´inizio della storia d´amore con François Gilot, da cui ebbe due figli, Claude e Paloma, di poco preceduto dall´iscrizione al Partito comunista francese, avvenuta nell´ottobre del 1944, seguito dall´esecuzione de La colomba, ancor oggi simbolo di pace in ogni angolo del mondo.
Forse per quella colomba una scintilla s´accese davanti al mare di Antibes, in un salone dello Chateau Grimaldi, oggi Musée Picasso, da dove provengono molte delle opere esposte a Venezia, forse nella terrazza del castello, platea spettacolare dove sul finire dell´estate del 1946 maturò La joie de vivre, un dipinto dove il giallo solare, l´azzurro rafforzato dal nero, il marrone bruciato, il verde mediterraneo, evocano le frastagliate scogliere di Cap d´Antibes. Profuma di libertà quest´opera: si alza dalle vele della barca sullo sfondo, dai capelli ondeggianti e dal sensuale corpo femminile, una sorta di "donna fiore" che tra caprette dai sorridenti volti umani danza su un terreno dorato, trascinata dal flauto di un centauro e di un´ambigua creatura azzurra ritta su un´altura.
Quando la realizzò, da pochi mesi Picasso viveva con François Gilot, amore e musa più volte ritratta. Ma era ospite di amici. Le stanze erano piccole. Un giorno, l´8 settembre del 1946, raccontò a un gruppo di amici, fra cui Romuald Dor de La Souchère, direttore del museo Chateau Grimaldi, il disagio che provava per la mancanza di spazi, di grandi superfici per dipingere. «Superfici - esclamò La Souchère - gliene posso offrire io». Le stanze di un intero piano dell´edificio erano vuote. Picasso si trasferì velocemente pur avendo pochi colori e pochi materiali tanto che al posto della tela usò anche il fibrocemento, su cui poi eseguì La joie de vivre.
Fu la prima di una serie. Vi furono molti altri quadri popolati di semidei, esseri cornuti, satiri, ninfe e capre. Non tutta la sua pittura, come attesta l´esposizione di Palazzo Grassi che presenta 250 opere, fu però idillica e pastorale. Oltre al ritratto della Gilot vi sono anche nudi assai geometrici, austere ma armoniche nature morte, alcune ben più grandi di quelle che aveva dipinto fino a quel momento, pescatori, ricci di mare e una civetta. È l´assiolo, il rapace di questa storia. Era penetrato nel castello e si era ferito. Picasso dopo averlo medicato fu beccato a un dito ma riuscì ad addomesticarlo. Si appollaiava sulla sua spalla. E l´artista lo disegnò, lo dipinse, lo modellò.
Fu in quei mesi che Picasso si fece accompagnare a Vallauris, un villaggio a un paio di chilometri da Antibes, famoso per le ceramiche. Visitò le fornaci dei coniugi Ramiés, una coppia che cercava di far rinascere l´antica attività. La prima volta si limitò a modellare qualche figura nella creta lasciando ad altri la cottura. Col trascorrere degli anni esplose una vera passione. Dalle sue mani uscirono centinaia di ceramiche: figure imparentate con le statuette della Grecia arcaica, piatti con fauni, pesci, con i tori, le corride, colombe, civette, gufi, ovvero l´amato assiolo di cui a Venezia sono esposte cinque diverse rappresentazioni.
Quando l´inverno del 1947 costrinse Picasso a rientrare Parigi, dove portò anche l´assiolo, lasciò nel castello 23 dipinti e 44 disegni, il primo nucleo del Museo Picasso ora chiuso per restauri e le cui opere sono per questo a Palazzo Grassi.
Quello di Picasso, come narrano tutti i biografi, non fu un vero regalo. Detestava separarsi dalle sue opere, si irritava davanti alla proposta di una donazione formale. Restarono "temporaneamente" e lì si trovano ancor oggi, in quelle terre che videro i primi passi del figlio Claude, l´esecuzione dell´immenso Ulisse e le sirene, e che furono anche scenario di furibondi litigi coniugali.
Olga, la prima moglie, nell´estate del 1947 comparve a Golfe-Juan. In spiaggia sedeva accanto a Picasso e la Gilot, li seguiva per strada finché un giorno l´artista furibondo, la schiaffeggiò. Forse anche per questi fastidi Picasso cominciò ad allontanarsi dalla spiaggia, tornò a Vallauris per verificare la sorte dei piccoli oggetti che aveva modellato l´anno precedente. Fu preso da un crescente entusiasmo. Se l´inverno parigino era stato marcato dalle litografie eseguite nel laboratorio di Mourlot l´estate lo fu dalle ceramiche. Alla fine della stagione ne aveva modellato duemila. Qualche mese più tardi ne depositò 77 nel castello, cinquantuno delle quali datate 1947 e quattordici 1948.
Anche quelle ceramiche sono una prova della "gioia di vivere" di Picasso, di un momento intenso e felice.

Repubblica 10.11.06
Picasso
Quando la vita diventa arte

L'allegria incantata e sognante delle calde estati in Costa Azzurra
di Fabrizio D'Amico

Una manipolazione eccitata trasforma la materia grezza in figure immaginarie di un mondo popolato da uomini, semidei e animali mai visti
La sua nuova vocazione è la ceramica, una scoperta quasi casuale avvenuta nel 1946 durante una breve visita all´atelier Madoura dei coniugi Ramié
Dopo gli anni della guerra vissuti a Parigi è con Françoise Gilot la nuova compagna che l´artista ritrova quel Sud che aveva da sempre amato
Le foto di Michel Sima, ora a Palazzo Grassi, lo ritraggono al lavoro nel Castello Grimaldi È un uomo solare nel pieno delle sue forze che guarda al futuro

VENEZIA. "Picasso, La joie de vivre, 1945-1948" è la storia di un grande quadro, di un tempo breve ma intensissimo nella vita del maestro di tutte le avanguardie del XX secolo, e di una vocazione nuova che allora lo prese: la ceramica. Aveva più di sessant´anni quando la guerra era finita; ed era finalmente circondato da un successo che proprio quando il conflitto iniziava, nel novembre del ´39, New York, con un grande rassegna che ripercorreva la sua opera dagli esordi a Guernica, aveva definitivamente reso mondiale. Un successo e una fama universali che non erano venuti senza essere fortemente attesi, preparati nel corso degli anni Trenta da una lunga serie di retrospettive allestite quasi ovunque in Europa.
«Un artista ha bisogno del successo. E non solamente per poter vivere, ma soprattutto per realizzare la propria opera», dirà; confessando con queste parole non una vanagloria narcisistica, ma la necessità per lui d´una sorta di continua scossa elettrica che fosse capace di preservarlo dalla stanchezza, dall´abitudine, slanciandolo, ormai non più giovane, verso un nuovo rischio. Le fotografie dell´amico Michel Sima - oggi in mostra a Palazzo Grassi, accanto ai dipinti, ai disegni, alle ceramiche di quel tempo - che lo ritraggono al lavoro in quegli anni nel castello Grimaldi di Antibes, lo dicono d´altronde così: un uomo nel pieno della sua forza, che guarda il futuro.
Aveva allora al suo fianco una giovane e bella donna, pittrice, Françoise Gilot: l´ennesima della sua vita, che aveva conosciuto a Parigi nel ´43, compagna di Picasso dal ´46, madre dei suoi figli Claude e Paloma negli anni immediatamente seguenti. E´ con Françoise (che si separerà nel ´53 da Picasso; il quale, a sua volta, non tarderà ad avviare la sua relazione con Jacqueline Roque) che fa ritorno a quel Sud che aveva da sempre amato, dopo i cinque anni di forzato distacco impostigli dalla guerra (durante la quale era sempre voluto rimanere a Parigi, rifiutando tanti approcci tentati dagli occupanti, e fiancheggiando la resistenza: ed anche di questo si nutrirà il suo mito nell´immediato dopoguerra). Cap d´Antibes, Golfe Juan, finalmente Antibes, dove il conservatore del locale museo gli mette a disposizione quello spazio per dipingere che allora mancava a Picasso. E´ il primo passo per la costituzione, che si realizzerà negli anni seguenti grazie alle generose donazioni dell´artista, di una collezione (che oggi, concessa in prestito nella sua interezza, e integrata da altre opere coeve, costituisce il cuore della mostra di Palazzo Grassi, a cura di Jean-Louis Andral) unica, quella appunto del Castello Grimaldi di Antibes, intitolato poi a Picasso stesso.
La densissima attività di quel suo tempo provenzale si pone come una grande parentesi aperta entro gli anni lunghi del dopoguerra, anni compresi fra i due celebri capolavori più dichiaratamente "politici" di Picasso, il Carnaio del ´45 e il Massacro in Corea del ´51, entrambi legati sul piano anche delle opzioni di stile a Guernica. Una stagione, dunque, segnata dall´impegno politico a fianco del partito comunista francese, e in sostegno delle grandi battaglie, che si speravano combattute per la libertà e la pace fra i popoli, ovunque nel mondo.
Entro quegli anni e quelle vocazioni ad un´arte di impegno e di denuncia che fortemente caratterizzarono allora la figura di Picasso soprattutto in Francia e in Italia (nel ´48, proprio nell´anno che costituisce il limite finale della mostra di oggi, la sua presenza alla Biennale di Venezia che riapriva i battenti dopo la guerra - con una sala personale introdotta in catalogo da Guttuso - ebbe anche il senso di offrir testimonianza dell´azione in tal senso del maestro spagnolo), sorgono, o risorgono, parallelamente - scaldate dal clima dolce del sud della Francia, dove Picasso passava le mattine a "far la lucertola al sole", nei ricordi di Françoise Gilot, e il pomeriggio al lavoro - altre ossessioni, altri fantasmi, altri temi. Il corpo, il nudo, il volto; una mitologia piegata a nuovi sogni; e la storia dell´arte, la vicenda delle immagini infinite che premono dal passato, calando in esse come una sonda, memore; il tema, infine, del "pittore e la modella", che quasi ogni altro sembra assommare in un´ultima allegoria di simbiosi e insieme di conflitto, e che lo accompagnerà sino alla fine.
Picasso, nato nel 1881, s´avvia adesso ai suoi settanta anni: ma ama, ha figli, ha incontinenze, furori, passioni sempre nuove. Fra queste, prima e caratterizzante questo suo tempo, la ceramica: largamente e giustamente rappresentata in mostra. La scopre quasi per caso nel ´46, durante una visita all´atelier Madoura di Suzanne e Georges Ramié, a Vallauris. Tocca allora - ed è quasi, per lui, la prima volta - la terra, modellando alcune statuette di creta. Poi lascia quelle sue prove, non ancora passate al forno, dai Ramié. Ma l´anno dopo, attirato dal loro ricordo, torna sui suoi passi: nasce così un rapporto che durerà lunghi anni, fino ai primi dell´ottavo decennio del secolo, intenso talora, rarefatto qualche altra volta, ma mai in tutto accantonato: un rapporto con un modo e un fare antichissimi (anche questo, certo, l´affascina), con la terra e con gli ingobbi, con gli ossidi e gli smalti. Un´idea governa la ceramica: l´idea della perenne metamorfosi delle cose, dei corpi, dei volti che vi raffigura; della metamorfosi come possibilità di una vita eternamente ridonata alle sue figure ogni volta che in esse sia instillato un senso nuovo e inatteso, una forma o una destinazione d´uso diversi da quelli che ne avevano accompagnato la nascita. Nate dalla contaminazione di forme canoniche (un vaso, una brocca, i suoi manici…), esse diventano, nella manipolazione eccitata di Picasso, corpo e ventre, braccia e collo, coda o becco di cento figure immaginarie di un mondo popolato da uomini, animali mai visti, immaginari semidei.
E´ una contaminazione di forme che tocca parimenti (e ad un suo diapason dopo la stagione surrealista - che anche in questa nuova età lascia peraltro una sua memoria) la pittura, ed ovviamente il disegno. Contaminazione, anche, di vicende secolari o millenarie (precolombiane ed egizie, romane ed etrusche, classiche, espressioniste e barocche: provenienti da ogni secolo e da ogni latitudine) che d´improvviso si ritrovano convocate tutte assieme dallo sguardo vorace di Picasso, senza più ordine e gerarchia, strette a convivere l´una accanto all´altra, a scambiarsi un sorriso complice o ad alzare la voce per sovrastarsi reciprocamente. Con questa foga, questi nuovi talenti e sogni, nella vasta aula che ha finalmente a disposizione al castello Grimaldi, pone mano anche al dipinto cruciale di quegli anni: La joie de vivre che dà titolo, ed è il cuore della mostra di oggi.
E´, in esso, una carola eccitata e gioiosa di esseri a mezzo fra umani ed animali a intrecciarsi attorno alla figura centrale femminile, i lunghi capelli al vento, che attira gli sguardi invaghiti di chi, attorno, suona per lei. Françoise, certo, ancora. Quarant´anni sono passati, mentre Picasso pone mano nel 1946 al suo quadro, dal celebre capolavoro di Matisse che porta lo stesso titolo, e con il quale il maestro francese - l´unico che Picasso sentì sempre come suo pari, e di cui fu a tratti persino geloso - era uscito dalla divisione "scientifica" dei colori, inaugurando la sua più alta maturità. L´abbraccio sensuale dei nudi nella terra dell´oro è, in Matisse, esplicito; ma in Picasso, ora, non è minore la felicità incantata e sognante. E i suoi corpi nati dall´iperbole - spezzati e ricomposti come le forme di uno dei vasi che, negli stessi giorni, Picasso rompeva e riassemblava in cerca di una ancora sconosciuta "figura" - sono traversati dalla gioia: una gioia ogni volta rinnovata dalla sorpresa e dall´incanto della scoperta; senza che mai un sospetto d´accademia, di ripiegamento su modi già usati, venga a sfiorare questi anni di Picasso: che un´altra volta ha trovato la sua immagine, senza la fatica del cercare; che porta sul volto, come sempre, quello che Ramié ha ben descritto allora come «il sorriso della voglia».

Repubblica 10.11.06
L'ipotesi del Max Planck Institute: "I nostri antenati hanno cominciato ad aiutarsi guardandosi"
Negli occhi il segreto dell'Uomo così parliamo con lo sguardo
Gli scienziati: ecco la chiave della nostra evoluzione
di Elena Dusi


"In rapporto al corpo sono enormi, più di quelli di un grande gorilla"
"Per i nostri antenati armati di arco e frecce erano uno strumento di caccia prezioso"

ROMA - Quando un uomo volge lo sguardo alla Luna, un altro uomo lo segue alzando gli occhi al cielo. Lo scimpanzé invece continua a guardare per terra. Alla ricerca di un indizio che riassuma la nostra essenza umana, gli scienziati sono andati a scovarlo dritto negli occhi. Il linguaggio silenzioso degli sguardi, che tanto fa parte del nostro modo di scambiarci messaggi maliziosi e non, per gli antenati armati di arco e frecce rappresentava uno strumento di caccia prezioso. E una chiave (probabilmente non la sola) che ha spinto la nostra evoluzione su un sentiero diverso rispetto a quella dei primati.
«Uno dei misteri centrali dell´evoluzione è quando gli uomini abbiano iniziato a cooperare fra loro» si è chiesto Michael Tomasello, ricercatore del Max Planck Institute per l´antropologia evolutiva. La risposta - pubblicata nel numero di ottobre della rivista Journal of Human Evolution - Tomasello l´ha trovata in quegli occhi «così ben visibili all´interno del viso» e che con il tempo e l´irrobustimento delle relazioni sociali si sono arricchiti di milioni di sfumature espressive.
«Gli occhi umani - spiega il ricercatore tedesco - sono colorati in un modo da rendere evidente sia la loro presenza che la direzione dello sguardo. A differenza dei primati, la sclera è completamente bianca e il contrasto fra l´iride colorata e la pelle chiara è unico fra le specie animali». Gli occhi umani, poi, sono sproporzionatamente grandi in rapporto alle dimensioni del nostro corpo. «La parte esterna e visibile - prosegue Tomasello - è più ampia perfino rispetto a quella del più massiccio gorilla».
L´esperimento condotto al Max Planck ha messo a confronto le abilità visive di un gruppo di bambini di 12 e 18 mesi e di alcune specie di primati (scimpanzé, gorilla e bonobo). Ognuno di essi veniva messo di fronte a un antropologo che alternativamente sollevava la testa verso il soffitto oppure alzava solo lo sguardo, mantenendo fissa la posizione del capo. I primati rivolgevano gli occhi verso l´alto solo nel primo caso, dimostrando di essere in grado di comprendere il linguaggio del corpo, ma non quello visivo. I bambini invece reagivano addirittura con maggiore frequenza quando a spostarsi erano solo gli occhi, rimanendo più indifferenti rispetto ai movimenti della testa.
«Non ci deve stupire: il gioco di sguardi che si stabilisce fra un bimbo e la mamma è uno dei fenomeni più spettacolari del nostro sviluppo» spiega Pier Francesco Ferrari, biologo dell´università di Parma e autore di studi sul linguaggio degli occhi sia nei bambini che nei cuccioli di scimmia. «Già tra 9 e 15 mesi - spiega - i bambini imparano a seguire la direzione dello sguardo altrui. Si tratta di un comportamento semplice e automatico nella nostra specie, su cui si innestano successivamente competenze molto più complesse. Crescendo, gli occhi per noi diventano uno straordinario strumento di dialogo e interazione».
La teoria avanzata da Tomasello - secondo cui il segreto della specie umana è nello sguardo - è stata ribattezzata "ipotesi dell´occhio cooperativo" e spinge l´antropologo tedesco a domandarsi quando, nel corso della nostra storia, si siano sviluppati organi della vista così grandi, orizzontali ed evidenti con la loro iride colorata. Ferrari ci tiene però a restringere il fossato che separa uomini e scimmie raccontando di una specie - i cebi - che «quando si accoppiano si fissano intensamente, suggerendo che il loro atto non abbia come unico scopo la riproduzione».

Liberazione 10.11.06
L’organo di autogoverno dei magistrati: «Impossibile separare i due provvedimenti». Mastella: «Documento apprezzabile». Amato: «Il problema è la certezza della pena»
Il Csm: «Dopo l’indulto l’amnistia». Destra furiosa
di Frida Nacinovich

Se l’indulto scatena terremoti (amplificati da quasi tutto il sistema dei media), figuriamoci l’amnistia. Il Consiglio superiore della magistratura fa un ragionamento semplice semplice: i due provvedimenti sono sempre andati di pari passo nella storia repubblicana. Impossibile separarli, ne va della tenuta del sistema giudiziario nel suo complesso. In un paese normale potrebbe essere l’occasione per sedersi intorno a un tavolo e discutere, confrontarsi, cercare una via d’uscita. Ma l’Italia non è un paese normale, così la destra della Casa delle libertà (o di quel che ne rimane) parte lancia in resta all’attacco dei comunisti che salvano i delinquenti mettendo a repentaglio la sicurezza di un intero paese. E sì che perfino Antonio Di Pietro, uomo di legge ed ordine, da ex magistrato parla di amnistia necessaria. «Amnistia selettiva», s’intende. Secca la replica del guardasigilli Mastella: «Da Di Pietro vorrei sapere una volta tanto quando finisce la Salerno-Reggio Calabria». Ma fra i due colleghi di governo, si sa, non c’è mai stato un gran feeling. Anzi, si trovano vicendevolmente antipatici.

Il plenum del Csm approva all’unanimità una risoluzione che lancia l’allarme sugli effetti dell’indulto, visto che farà finire nel nulla - cioè con sentenze non eseguibili perché riguardanti pene condonate - l’80% dei processi pendenti, e rilancia la questione dell’amnistia, per non far girare a vuoto la macchina giudiziaria. Il documento descrive una «situazione drammatica» emersa dalle audizioni al Csm dei procuratori generali e dei presidenti delle corti d’appello dei principali distretti giudiziari. Solo un numero di procedimenti «esiguo» e che oscilla tra il 3% e il 9% del totale riguarda reati non coperti dall’indulto. Per questo «è ragionevole prevedere - scrivono i consiglieri di palazzo dei Marescialli - che un’aliquota prossima all’80% dei procedimenti attualmente pendenti per reati commessi sino al 2 maggio 2006 si concluderà in caso di condanna con l’applicazione di una pena interamente condonata», cioè con un nulla di fatto.

La risoluzione è in risposta a una sollecitazione del ministro della Mastella, che a settembre aveva chiesto al Csm di verificare la possibilità di indicare ai responsabili degli uffici giudiziari «criteri di priorità per la trattazione dei processi», dando la precedenza a quelli non toccati dall’indulto, proprio per evitare alla macchina giudiziaria di girare a vuoto. Una possibilità che, secondo il Csm, non c’è, perché va al di là dei suoi compiti. L’esigenza posta dal ministro potrebbe essere «stabilmente e correttamente soddisfatta solo mediante un appropriato intervento legislativo». » a questo punto che Palazzo dei Marescialli pone in qualche modo la questione dell’amnistia, ricordando che questo provvedimento ha sempre accompagnato «i 17 indulti concessi nel periodo repubblicano». E non si tratta di un caso.

Nicola Mancino, vicepresidente del Csm, ci tiene a precisare: «Non abbiamo suggerito la strada dell’amnistia perché non è nostro compito, ma se Mastella si tiene lontano non allontana da sé le problematiche relative all’organizzazione della giustizia». Da parte sua il guardasigilli apprezza il documento dei magistrati: «Dice cose onestamente corrette». La palla però passa al Parlamento che, con l’80%, ha votato l’indulto. Insomma bisognerebbe riflettere, discutere, cercare una via d’uscita. Invece i nazional alleati vedono rosso, caricano come tori infuriati. Ecco Maurizio Gasparri: «Dal grido di allarme del Csm non deve scaturire la possibilità di una amnistia, ipotesi da respingere, ma semmai la riflessione sulle conseguenze catastrofiche dell’indulto, e vedere se non sia il caso di revocarlo. L’Italia ha bisogno di sicurezza. Non di norme pro-delinquenti». Inutile far notare all’ex ministro berlusconiano che i casi di recidività hanno riguardato solo il 5% degli “indultati”. Una percentuale bassissima. Ma da quell’orecchio An proprio non sente. A riprova, ecco Alfredo Mantovano: «Dopo il disastro dell’indulto sarebbe folle fare il bis con l’amnistia». Meglio rilanciare le care vecchie parole di ordine, rigore e disciplina, piuttosto che affrontare i problemi interni al partito. Perché se la Casa delle libertà non c’è più, anche An non sta molto bene. Le ultime raccontano che Francesco Storace ha chiesto al presidentissimo Fini di dimettersi. Niente di meno.

Ormai la litania forcaiola è partita, così bastano tre parole del ministro Amato per scatenare le furiose reazioni dei leghisti. Dice Giuliano Amato: «Davanti all’indulto un ministro dell’Interno se non soffre non è un buon ministro dell’Interno». Ettore Pirovano, senatore del Carroccio, attacca: «C’è poco da soffrire ormai la frittata è stata fatta e rimediare non sarà facile». Figli del dio Po e nazional alleati insieme, secessionisti e ipernazionalisti a braccetto, succedono cose del genere quando in Italia si parla d’indulto. Hanno un altro atteggiamento Forza Italia e Udc, che l’indulto lo votarono. La ex Casa delle libertà sembra essere diventata la casa delle divergenze parallele.

Liberazione 10.11.06
I giudici dicono che l'indulto senza amnistia costringe le procure a lavorare per anni su processi inutili
Il Csm: "Ora serve l'amnistia"
Livio Pepino spiega perché, e critica il governo
di Stefano Bocconetti


Non hanno chiesto il suo varo, ma solo perché l’organismo non elabora proposte. Non dà suggerimenti. Però, se si segue il loro ragionamento lì si arriva: amnistia. Ieri il Csm ha approvato un dettagliatissimo documento che fa il punto sull’indulto. In due parole, l’organo di autogoverno dei magistrati ha spiegato che da qui ai prossimi anni, giudici, avvocati, tribunali dovranno essere impegnati in processi che sono destinati a concludersi con condanne che comunque sono già state condonate. E allora, dice il Csm, non ha molto senso varare un provvedimento che si limita a svuotare le carceri ma costringe la giustizia a fare i processi. La logica vuole che assieme all’indulto sia varata l’amnistia, che estingue il reato oltre che la condanna. Che non obbliga, i magistrati, insomma, a processi inutili. Che così, magari, potrebbero dedicarsi a compiti più importanti. Livio Pepino, ex segretario di Magistratura democratica, giudice a Torino è membro del Csm.

Allora, dottor Pepino, qual è il senso del vostro documento?
Abbiamo denunciato l’inevitabile sofferenza a cui andrà incontro il sistema della giustizia penale, in conseguenza dell’indulto.

E infatti molti avversari di quel provvedimento, si sono rifatti vivi. “attaccandosi” alle vostre parole per l’ennesima campagna contro l’indulto.
Sfido chiunque a trovare nel documento una sola parola critica nei confronti dell’indulto. Noi abbiamo detto un’altra cosa: abbiamo detto che, in base ai nostri dati, l’80, addirittura il 90 per cento dei processi in corso riguardano pene già coperte dall’indulto.

Ottanta/novanta per cento dei processi. In termini di anni, che significa?
Significa che nei prossimi quattro, cinque anni la stragrande maggioranza delle attività giudiziarie sarà svolta per qualcosa che avrà un valore relativo.

Che non servirà a nulla, insomma.
Neanche questo è vero. Perché per esempio credo sia importante in ogni caso arrivare alle sentenze sui processi per corruzione, per esempio. Ci saranno le sentenze anche se le condanne non saranno eseguite. Certo, si lavorerà, bisognerà continuare a lavorare per quei processi che chiamo di interesse sociale. Ma si tratta davvero di poca, pochissima cosa, rispetto alla montagna di attività che abbiamo davanti.

E allora?
E allora ci siamo limitati a constatare che in tutte le precedenti diciassette occasioni in cui è stato varato l’indulto, questo provvedimento è stato accompagnato dall’amnistia. Stavolta no, non è stato così. E chiunque può capire che si apriranno una serie incredibile di problemi.

La vostra scelta per l’amnistia, comunque, ha solo motivazioni “tecniche”, se così si può dire?
Nel Consiglio ci sono state valutazioni diverse, com’è naturale che sia. Ma il documento mi sembra chiaro, inequivoco. Abbiamo segnalato al Parlamento l’incongruenza di un provvedimento. E francamente mi sembra un segnale significativo, assai significativo.

Tanto che qualche vostro critico - da destra - già l’ha definita una posizione “politica”. Cosa risponde?
Vede, io credo che tutte le scelte che riguardano la giustizia siano scelte complesse. Che chiamano in causa una pluralità di attori. Il Csm è ben consapevole di non essere la terza Camera, come pure ci hanno accusato, ma di avere un ruolo diverso. Assai diverso. E nel documento siamo rispettosissimi delle prerogative del Parlamento. Ma questo non impedisce, non deve impedirci di denunciare problemi, di esprimere volontà, pareri. Di entrare in qualche modo nel dibattito pubblico. Sarà la politica, sarà il legislatore, poi, a doverne tenere conto. A decidere.

Lei parla della politica, dei legislatori. Proprio ieri sul nostro giornale, però, il senatore di Rifondazione Di Lello spiegava che «in questo clima forcaiolo sarà difficile tornare a parlare di amnistia». Anche se a suo modo di pensare sarebbe la soluzione più giusta. Che ne pensa?
Non sono d’accordo. Perché si parte da un’affermazione sbagliata. Io invece sono convinto che una volta tanto, in occasione della discussione sull’indulto ci sia stata la possibilità di aggredire il nodo vero: quello di una diversa politica penale. Lasciar cadere il tema dell’amnistia significa rinunciare definitivamente a quell’obiettivo.

Scusi, ma come definirebbe l’obiettivo di una «diversa politica penale»?
Con parole molto semplici: con una politica penale che non abbia più il suo centro tutto e solo nelle logiche repressive.

Questa sua filosofia sembra già ispirare molti atti del governo Prodi. Si metterà mano alla legge Bossi-Fini a quella sulle droghe. Non basta?
Non basta, che cosa? Sono mesi che si parla di mettere mano a queste leggi davanti ad una popolazione carceraria che al 50% è fatta da persone condannate per reati connessi alla droga o alle norme sull’immigrazione. Sono passati sei mesi ma non c’è un disegno di legge che sia uno.

Insomma, è deluso.
Lasci perdere le definizioni che lasciano il tempo che trovano. Anch’io so benissimo quanto sia difficile, complesso il cammino parlamentare - in questo Parlamento - di proposte innovative nel settore della giustizia. So perfettamente quanto sia delicato sostituire meccanismi nel sistema penale. Ma in sei mesi, si sarebbe potuto almeno avviare il progetto, avviare quel percorso. Invece siamo agli annunci, quando va bene. E nelle carceri continuano a restare migliaia di persone legati a piccoli reati per droga e immigrazione.

Le rifaccio la domanda, chiedendole stavolta di essere un po’ più esplicito: è deluso da questi primi sei mesi di centro sinistra sulla giustizia?
Le rispondo così. Molto è cambiato dal punto di vista del clima. E non è poca cosa, dopo quello che i giudici e un po’ tutti gli operatori della Giustizia hanno dovuto subire negli anni scorsi. Non credo di dover ricordare che cosa è stato per noi l’ultimo quinquennio. E il cambiamento di clima, il dialogo con i magistrati è sicuramente qualcosa che tutti abbiamo apprezzato. Ma questo riguarda il metodo. C’è poi il merito. E qui stiamo ancora aspettando il cambio di stagione. E le assicuro: questa non è solo la mia opinione. Ma di tanti colleghi che incontro. Certo, io caratterialmente sarà insofferente, più insofferente degli altri, ma le assicuro: tutti vogliono di più.