giovedì 16 novembre 2006

Quotidiano.net 16.11.06
ALLARME PSICOFARMACI
'Si dà troppo Prozac ai bambini'
In 5 anni + 280% di prescrizioni: già 30mila sono sotto cura
Lettera aperta dell'associazione 'Giù le mani dai bambini' e di oltre 100 altre associazioni contro gli abusi di psicofarmaci. Secondo il ministero della Salute sono 700mila i piccoli a rischio di disturbi psichici


ALLARME PSICOFARMACI Roma, 16 novembre 2006 - In cinque anni sono aumentate del 280% le prescrizioni di psicofarmaci ai bambini italiani; negli Usa, dove i bambini in terapia sono oltre 11 milioni, l'aumento è stato del 150%.
Lo ha sottolineato l'associazione «Giù le mani dai bambini» e altri esperti di oltre cento associazioni in rappresentanza dei 230 mila addetti ai lavori di questo settore, in una conferenza stampa a Roma. In Italia era stato deciso di istituire un centro di eccellenza in ogni regione per prevenire gli abusi di psicofarmaci nei piccoli.

L'Emea (l'Agenzia europea per il farmaco) ha autorizzato la somministrazione di un farmaco molto discusso ai bambini già dagli 8 anni per 4-6 settimane di psicoterapia, ma ciò ha creato, in Italia, addirittura l'allontanamento di bambini dalla scuola.

In Italia sono già trentamila i bimbi che assumono psicofarmaci, secondo lo studio del «Mario Negri», ma potrebbero diventare settecentomila, secondo le stime del ministero della Salute che indica in questa cifra bambini affetti da disturbi psichici.
«Ciò vorrebbe dire, se il dato risultasse esatto ma io non lo credo - ha detto Luca Poma, portavoce di »Giù le mani dai bambini« - che ogni cento bambini italiani, nove sono candidati ad assumere psicofarmaci .Il che vuol dire che in ogni classe materna o media almeno 2,5 bambini dovrebbero essere curati con questi farmaci particolari».

Attenti però alle prescrizioni, sottolineano gli esperti: «Le troppe prescrizioni di psicofarmaci ai bambini - ha detto il professor Massimo Di Giannantonio, psichiatra dell'Università di Chieti - sono dovute alle diagnosi non corrette dei medici di famiglia e dei pediatri, ma anche da errori di neuropsichiatri infantili e psichiatri adolescenziali che credono che alla base del disturbo ci sia un fattore biologico curabile solo con farmaci».

Gli esperti, quindi, si rivolgono direttamente ai ministri Turco e Fioroni presentando una lettera aperta su un «decalogo di buone prassi»: un tavolo sul fenomeno delle prescrizioni indiscriminate degli psicofarmaci da utilizzare come ultimissima risorsa terapeutica e rafforzare tutte le strade alternative a ciò; e ancora, informazione alle famiglie sui rischi e anche un 'black box', cioè il riquadro nero sulle confezioni come quello per le sigarette, che evidenzi gli effetti collaterali più pericolosi.

Secondo un sondaggio su 1.600 italiani tra i 16 e i 65 anni, sugli psicofarmaci ai bambini, è risultato che il 97% ha detto 'nò, contro il 97,1% che ritiene che le diagnosi fatte con i questionari non sono affidabili.

mercoledì 15 novembre 2006

Repubblica 14.11.06
La voce dello straniero
Si apre oggi a Siena un convegno internazionale tra antico e moderno
La troiana Cassandra non capisce Clitennestra
Lo storico Erodoto descrive i trogloditi
Chi viene da un altro paese non ha solo vesti insolite ma parla in modo incomprensibile
I Greci preferivano paragonare quelle lingue ignote al verso o al gemito di un animale
di Maurizio Bettini


Sulla scena dell´Agamennone Cassandra è muta. Seduta sul carro che l´ha trasportata fino alla reggia - il luogo dove il re e lei stessa fra poco saranno assassinati - non sembra udire le parole che le rivolgono Clitennestra e il corifeo. «Forse come una rondine conosce solo un´ignota lingua barbara» commenta la regina. E poi «se non comprendi le mie parole» le dice «e non intendi, fatti capire non con la voce, ma con le tue barbare mani!» «Sembra che costei abbia bisogno di un buon interprete» le fa eco il corifeo «pare una bestia selvaggia appena catturata» «O forse è pazza e ascolta solo il delirio della sua mente!» conclude sdegnata la regina «non mi abbasserò a gettar via altre parole».
Agli occhi, o forse bisognerebbe dire alle orecchie, di Clitennestra, Cassandra oscilla dunque fra animalità e barbarie. La prigioniera Troiana è una rondine, una bestia selvaggia - il suo linguaggio è barbaro, barbari sono perfino i gesti delle sue mani. Ma dunque Cassandra è veramente una pazza, come vorrebbe la regina? No, è semplicemente una straniera che non comprende la lingua in cui le parlano e, a sua volta, ne parla una che gli altri non capiscono. Cassandra è veramente un paradigma della diversità, e lo è non per il suo abbigliamento, i suoi tratti somatici o il modo in cui si comporta, ma per il suo silenzio. In piedi su quel carro la prigioniera Troiana rappresenta la più drammatica delle alterità: quella vocale.
Quando ci si presenta, infatti, lo straniero non è soltanto avvolto da vesti insolite, non ha solo pelle, occhi o viso di colore diverso rispetto ai nostri: è soprattutto prigioniero di una «voce» che non ci appartiene e che lo separa irrimediabilmente da noi. Ma è poi veramente una voce, la sua? I Greci ne hanno dubitato, e spesso hanno concluso che la vocalità dello straniero rassomigliava piuttosto al grido di un animale, al cinguettio di un uccello o al farfugliare sconnesso del balbuziente. Il fatto è che lo straniero risulta sempre molto difficile da «pensare». Sembra così simile a «noi», eppure parla in modo incomprensibile, è identico e diverso nello stesso tempo. In quale categoria si può infilare un soggetto del genere? Visto che trovarne una appropriata è faticoso, meglio assimilarlo a qualcosa che si conosce già: all´animale, per esempio, ossia la creatura vivente che più si avvicina all´uomo senza esserlo; oppure all´essere umano menomato, inferiore, mal riuscito. Proprio come accade a Cassandra, anche se il suo non costituisce certo l´unico caso.
Ancora in Grecia, infatti, le profetesse che davano responsi oracolari a Dodona, in Epiro, venivano chiamate col nome di «colombe». Nell´antichità circolavano varie spiegazioni sui motivi di questa singolare designazione, ma Erodoto non aveva dubbi in proposito: le profetesse venivano chiamate così perché erano di origine egiziana, e dunque si esprimevano in una lingua diversa dal greco. Quando parlavano, queste «colombe» di Zeus davano insomma l´impressione non di proferire parole, ma piuttosto di cantare, anzi di tubare. Il paragone vocale con le colombe è abbastanza gentile, pur se gli antichi sottolineavano volentieri il fatto che questi uccelli, quando cantano, «gemono» in modo pietoso.
Per certo, però, agli Etiopi Trogloditi era andata peggio.
Erodoto, ancora lui, raccontava che nella corsa costoro sono i più veloci fra gli uomini. Si nutrono di serpenti e di lucertole, aggiungeva, e quando parlano usano una lingua che non somiglia a nessun´altra: stridono infatti, come se fossero pipistrelli. Dalle candide colombe siamo passati a volatili ben più sgradevoli e inquietanti. Nella descrizione di Erodoto i Trogloditi vengono dunque definiti (verrebbe quasi da dire: messi al loro posto) in base a due parametri fra i più spietati che esistano: come si parla e quel che si mangia.
Gli esseri umani non mangiano rettili, solo gli animali lo fanno; proprio come gli esseri umani non stridono, ma parlano. Simili a uomini, eppure tanto diversi da loro, agli Etiopi Trogloditi si addice più una voce di pipistrello che non il linguaggio umano.
Oltre ai Trogloditi, per i Greci esisteva anche un´altra categoria di persone, chiamiamole così, che squittiva invece di parlare: i morti. E´ Omero che li descrive a questo modo, ombre vane che svolazzano nell´Ade lanciando le loro strida. Chi ha perso la luce della vita, ha perduto per sempre anche il linguaggio, l´articolazione ha ceduto il posto ad un miserabile squittio. Provatevi dunque a dialogare con i morti! Achille cercò di farlo, quando l´ombra di Patroclo gli apparve in sogno, ma fu un´esperienza terribile e frustrante. Non si può parlare con chi non ha più il senno e, invece di rispondere alle domande che gli si fanno, squittisce alla maniera di un pipistrello. Il fatto è che anche i morti sono degli stranieri, soprattutto quando vorrebbero tornare nel mondo dei vivi. Direi anzi che i morti sono gli stranieri per eccellenza, così simili a noi - hanno vissuto qui fino a ieri, sono stati i nostri padri o i nostri amici - eppure così irrimediabilmente diversi, tanto quanto neppure un Troglodita potrebbe esserlo. Non è forse questo che più ci inquieta dello straniero, il suo mescolare alterità e identità in una sola persona? Ecco perché alla maniera di Cassandra o delle colombe di Dodona, anche i morti, identici e diversi, assumono voce di animale.
Altre volte allo straniero i Greci attribuiscono non la vocalità della bestia, ma quella del balbuziente, essere umano parlante sì, ma dalla lingua difettosa. Questo infatti significa il termine «barbaros», una parola che ha avuto così tanta (mal augurata) fortuna nelle civiltà successive. Chiamare «barbaros» uno straniero significa in pratica affermare quanto segue: costui non parla una lingua sconosciuta; costui sta semplicemente storpiando la mia. Se non fosse balbuziente, insomma, se fosse sano e normale, lo straniero parlerebbe come noi. La cameriera nera di Via col Vento, con i suoi strampalati «Biss Ohara» e «Sì badrona», non sembrava anche lei un po´ balbuziente? Un po´ stupida per certo. Proprio come il «vu´ comprà» che cerca di convincerci a comprare accendini con la sua fonetica zoppicante, o i bambini cinesi che farfugliano le tabelline alla scuola elementare. Prigioniero di una voce che non ci appartiene, allo straniero viene fatta indossare la maschera (sonora) di Tartaglia, e in lingua altrui cade ed incespica là dove, nella propria, correrebbe più spedito di un Etiope.
Che poi anche i confini fra animalità e barbarie (nel senso della balbuzie) sono molto più labili di quanto sembra. Difficilmente si penserebbe, infatti, che quando la Cassandra di Eschilo viene assimilata ad una rondine, non si evocano solo grida e cinguettii, ma anche lingue che si inceppano: invece è proprio così. E anzi, dietro questo paragone c´è addirittura il ricordo potente di un mito.
Si raccontava infatti che Procne, principessa ateniese, era andata sposa a Tereo re dei Traci. Ma costui si era innamorato della sorella di lei, Filomela, e l´aveva violentata; dopo di che, per evitare che potesse raccontare in giro quanto aveva subito, le aveva tagliato la lingua. Nel seguito della vicenda le due sorelle si vendicheranno di Tereo, uccidendo il figlio di lui e di Procne, Itùs, finché Zeus non trasformerà tutti quanti in uccelli. Filomela diverrà dunque una rondine, Tereo un´upupa e Procne un usignolo. I Greci immaginavano dunque la rondine come una creatura dalla lingua mozzata: un uccello balbuziente, che garrisce suoni smozzicati. Per questo il parlare di Cassandra, la rondine, è doppiamente barbaro, la profetessa Troiana è animale e balbuziente in un colpo solo - sventurata Cassandra, nessuno vuol rendersi conto del fatto che lei è semplicemente una donna alla quale, nella grande lotteria delle lingue, è toccata in sorte una parlata diversa dal greco.

Repubblica 14.11.06
Lo spettacolo della seduzione e il dramma della psiche
Narcisisti e schizzati così trionfa l'apparenza
Alienazione Oggi, al pari degli schizofrenici, percepiamo il nostro corpo come qualcosa che costruiamo per renderlo corrispondente ai nostri ideali
di Umberto Galimberti


«Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza» scriveva Nietzsche, ponendo fine alla storia dell´anima che, ideata da Platone per costruire un sapere che non si fondasse sulla precarietà dell´esperienza sensibile ma sulla solidità dei costrutti della mente, era stata poi requisita dalla tradizione cristiana e rigiocata in scenari non più di conoscenza, ma di salvezza.
Oggi, col progressivo venir meno della fede nell´immortalità, in quella sorta di neopaganesimo, non necessariamente anticristiano, che caratterizza la modernità, il corpo riemerge dallo svilimento in cui era stato confinato per tutto il tempo dominato dalla storia dell´anima.
Ma questa riemersione è molto ambigua e per nulla emancipata dalla cultura dell´anima. Infatti, dopo aver declinato la "salvezza" nell´ambito più modesto, ma anche più concreto della "salute", per scongiurare la malattia e la morte non più accompagnata da speranze ultraterrene, il corpo recupera tutte quelle pratiche che un tempo erano dell´anima. Dal digiuno nelle forme ossessive delle diete spinte fino all´anoressia che così da vicino richiama le pratiche ascetiche, agli esercizi fisici che, nella loro ritualità e ripetitività, richiamano gli esercizi spirituali intrisi di sacrificio e mortificazione.
In questo modo il corpo diventa quell´istanza gloriosa, quel santuario ideologico in cui l´uomo consuma gli ultimi resti della sua alienazione. Parlo di "alienazione" perché oggi non "abitiamo" più il nostro corpo, ma, al pari degli schizofrenici, lo percepiamo come altro da noi, come qualcosa che dobbiamo "costruire" per renderlo il più possibile corrispondente ai canoni di salute, forza, bellezza che la nostra cultura diffonde perché si possa essere accettati e per autoaccettarsi. Non più il corpo come "veicolo", ma come "ostacolo" per essere al mondo, se non corrisponde ai criteri fissati dalla moda per essere guardati, appetiti e desiderati.
E tutto si ferma lì, nella clausura di un autismo narcisistico che non approda alla comunicazione, ma alla soddisfazione di essere oggetto di un desiderio che, ripiegandosi su se stesso, celebra la sua perversione.
Finita l´epoca in cui del corpo si sfruttava la forza-lavoro, oggi si sfrutta la forza del suo desiderio, allucinandolo con quei bisogni da soddisfare quali la bellezza, la giovinezza, la salute, la sessualità che sono poi i nuovi valori da vendere. Mobilitato nel processo di appetizione-soddisfazione, il corpo diventa l´oggetto del nostro quotidiano esercizio e sacrificio, per raggiungere quell´ideale che la moda propaga con un imperativo che più categorico non può essere, se è vero che mancare l´ideale fissato equivale, a dir poco, a una sorta di esclusione sociale.
Orientando il desiderio e incanalandolo verso gli imperativi della moda, il corpo finisce, a sua insaputa, col mettere in scena lo spettacolo della se-duzione in vista della pro-duzione. Tutta la religione della spontaneità, della libertà, della creatività, della sessualità gronda infatti del peso del produttivismo. Dai solarium per abbronzarsi alle palestre per tonificare i muscoli, dalle profumerie dove si vendono le creme più assurde alle saune, ai bagni turchi, ai centri benessere, è tutto un diffondersi di quella "economia libidinale" (per utilizzare in senso traslato una felice espressione di Lyotard) con cui il mercato sfrutta la nostra alienazione dal corpo, la distanza che noi avvertiamo tra come "è" e come "dovrebbe essere". E non è chi non veda che là dove c´è "dovere" c´è morale, e quindi regole di condotta, sacrifici, mortificazioni, rinunce.
Così abbiamo ridotto il nostro corpo a un manichino a disposizione della moda che ogni anno ci veste e ci spoglia con gli abiti che decreta, dove l´accessorio sta per primavera, il mantello sta per mezza stagione, il jeans sta per giovanile. Dove "basta un particolare per dare personalità", "un piccolo nulla per cambiare tutto". E così, conferendo al nulla un potere semantico che si irradia a distanza fino a significare qualsiasi cosa, la moda risolve a buon prezzo problemi di identità che pongono fine all´angosciante interrogativo: «Chi sono?».
Componendo diversamente i tratti vestimentari, in modo da apparire contemporaneamente "dolci e fieri", "rigidi e teneri", "severi e disinvolti", la moda offre ai nostri corpi, resi incerti dalle infinite possibilità di cambiamento che vengono offerte, un sogno di totalità, dove non è necessario scegliere, perché si può essere tutto contemporaneamente. E in modo democratico perché il particolare "non costa niente", per cui, nell´uguaglianza delle borse, la moda consegna ai nostri corpi un´identità (o una maschera) ogni giorno diversa nel rispetto della libertà dei gusti.
Come sempre accade si gioca a quello che non si osa essere. E attraverso la moda si può giocare al potere politico perché la moda è monarca, a quello religioso perché i suoi imperativi hanno il tocco del decalogo, si gioca alla follia perché la moda è irresistibile, alla guerra perché è offensiva, aggressiva e alla fine vincitrice. I suoi decreti non hanno una causa, ma non per questo sono privi di volontà, la sua tirannia produce un universo autarchico in cui i pantaloni scelgono da sé la propria giacca e le gonne la propria lunghezza per dei corpi ridotti a manichini d´appoggio.
Ma anche così abbelliti e costruiti i corpi inesorabilmente invecchiano, e non c´è più la fede nell´anima a garantire una speranza di sopravvivenza. Al suo posto subentra, allora, angosciante e ossessiva, la rincorsa a ritroso nel tempo, per recuperare i tratti della giovinezza perduta attraverso gli interventi chirurgici o gli artifici della cosmesi. E qui il danno che si produce non è da poco se i corpi che invecchiano hanno scarsa visibilità, se esposti alla pubblica vista sono soltanto corpi truccati, rifatti e resi telegenici per garantire un prodotto, sia esso mercantile o politico, dal momento che anche la politica oggi vuole la sua telegenia. La faccia del vecchio, infatti, è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si nasconde un volto, trattato con la chirurgia o con un eccesso di cosmesi, è una falsificazione che lascia trasparire l´insicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi alla vista con la propria faccia.
Nel suo disperato tentativo di opporsi alla natura, che vuole l´inesorabile declino degli individui, chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare continuamente all´erta per cogliere di giorno in giorno il minimo segno di declino. Ipocondria, ossessività, ansia e depressione diventano le malefiche compagne di viaggio dei suoi giorni, mentre suoi feticci diventano la bilancia, la dieta, la palestra, la profumeria, lo specchio. Se la vecchiaia non mostra più la sua vulnerabilità, dove reperire le ragioni della pietas, l´esigenza di sincerità, la richiesta di risposte sulle quali poggia la coesione sociale? La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, ed è per il bene dell´umanità, scrive Hillman, che: «Bisognerebbe proibire la chirurgia cosmetica e considerare il lifting un crimine contro l´umanità» perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, finisce per dar corda a quel mito della giovinezza che visualizza la vecchiaia solo come anticamera della morte.
Finché consideriamo ogni ruga, ogni capello che cade o incanutisce, ogni tremito, ogni macchiolina ematica sulla pelle esclusivamente come indizi di declino, affliggiamo la nostra mente tanto quanto la sta affliggendo la vecchiaia.
E allora il lifting facciamolo non alla nostra faccia, ma alla nostra mente e scopriremo che tante idee che in noi sono maturate guardando ogni giorno in televisione lo spettacolo della bellezza, della giovinezza, della sessualità e della perfezione corporea, in realtà servono per nascondere a noi stessi e agli altri la qualità della nostra personalità, a cui magari per tutta la vita non abbiamo prestato la minima attenzione, perché sin da quando siamo nati ci hanno insegnato che apparire è più importante che essere. E a questo dogma terribile abbiamo sacrificato il nostro corpo, incaricandolo di rappresentare quello che propriamente non siamo, o addirittura abbiamo evitato di sapere.

Repubblica 14.11.06
Dai Greci a oggi: storia di un concetto
Noi, figure ridotte a semplici cose
di Mario Perniola


Ribellione. Il nostro corpo non è così remissivo e docile come lo immaginiamo. In esso si manifestano delle controvolontà
Riflessi Gli specchi, i ritratti, le fotografie, perfino i film ci rimandano l´immagine del corpo. Creano il canone occidentale della bellezza

A prima vista, sembra che occuparsi dell´anima sia caduto in disuso. È il corpo che tiene la scena; è il corpo l´oggetto d´ogni cura, riguardo, premura. Se ci si occupa dell´anima, lo si fa in fondo in funzione del corpo, per garantire la sua salute, il suo benessere, la sua obbedienza alla nostra volontà. Anzi pare che questa parola non ammetta il plurale: l´unica cosa che m´interessa è il mio corpo e tanto più mi piace, quanto meno si fa sentire come qualcosa d´autonomo e di separato da me, quanto più è lo strumento di cui io posso disporre senza ostacoli o resistenze. Cos´è la salute se non proprio questo dominio sul corpo? Non parlo solo delle malattie vere e proprie: ma anche di quelle controvolontà che portano a mangiare in modo spropositato oppure a digiunare, a dormire troppo oppure a restare insonne, ad essere consumato dal desiderio sessuale oppure a rifuggirlo, a percorrere impetuosamente strade e attraversare paesi oppure a rimanere chiusi in casa con le persiane serrate facendo credere a tutti di essere fuori. E mi limito alle controvolontà più semplici e comuni, che sembrano emergere dalla resistenza del corpo al nostro dominio su di lui.
Il rifiuto moderno di tutto ciò che si oppone alla nostra autonomia soggettiva, come i dispositivi disciplinari dei rituali, finisce con l´essere una ben strana condizione: in realtà, il nostro corpo non è così docile e remissivo come lo immaginiamo. Quelle controvolontà che si manifestano come resistenze al nostro supposto dominio su di lui sono appunto le dipendenze (nei confronti dell´alcool, della droga, del fumo, del sesso, dei tranquillanti, del cibo, del gioco...): esse ci richiamano ad una dimensione più opaca e più inorganica, più legata alle cose che non riesce a dissolversi nella totale ed incondizionata sottomissione all´anima. Fatto sta che questa prima concezione del corpo si esaurisce nell´anima senziente, ed è perciò un modo di esorcizzare la materialità del corpo, il suo essere una cosa che sente.
È stato il poeta francese Paul Valéry ad affermare che esistono almeno tre diverse idee del corpo. La prima è quella che ho già esposto: essa si risolve nel sentimento della nostra presenza. Questo corpo è informe e noi prendiamo coscienza della sua alterità solo quando qualche parte si oppone alla nostra volontà, come quando siamo malati.
Il secondo corpo individuato da Valéry è l´immagine che di lui ci rimandano gli specchi, i ritratti, le fotografie, i film. Esso è appunto forma ed è quindi connesso con le arti visuali. In questo senso, il corpo per eccellenza è quello umano che l´arte classica ha rappresentato in sculture che sono considerate come i canoni occidentali della bellezza. È quello che vediamo invecchiare fino al punto di ridursi in quella rovina in cui non vogliamo più riconoscerci.
Il terzo corpo per Valéry è privo di una qualsiasi unità. E´ il corpo fatto a pezzi dai ferri dell´anatomia. Questa idea del corpo sembra il risultato della tecnica chirurgica moderna. In realtà i Greci dell´epoca omerica non avevano una parola per nominare il corpo nella sua unità: il corpo era percepito come un insieme di membra, una pluralità di parti, come mostrano le raffigurazioni dell´arte vascolare arcaica, nelle quali sono messi in evidenza soprattutto i muscoli delle gambe e delle parti carnose.
Esiste tuttavia per Valéry l´idea di un quarto corpo, che si potrebbe chiamare indifferentemente corpo reale o corpo immaginario. Esso è per lui una costruzione concettuale non dissimile dalle nozioni elaborate dai fisici che spesso sono aldilà o aldiquà dei nostri sensi, della nostra immaginazione e perfino della nostra capacità di comprendere
È questa un´idea a prima vista piuttosto fumosa di corpo. Ma essa proviene dall´insoddisfazione nei confronti delle prime tre idee. Mi sembra che queste non pensino davvero il corpo in quanto corpo. Nella prima ciò che conta è l´anima della quale il corpo è solo lo strumento: va perduta così la dimensione di "cosalità" del corpo, a favore di una concezione spiritualistica il cui centro è costituito dalla coscienza individuale. Nella seconda ciò che conta è l´immagine la quale mi allontana, non meno dell´anima, dall´esperienza della corporeità. Infine la terza idea del corpo pensa le membra come entità autonome, che per gli antichi Greci erano mosse da forze esterne.
Tutte queste idee del corpo lo intendono come una incarnazione del vivente, un insieme di spiritualità e di vitalità. La parola tedesca Leib (corpo), affine a Leben (vita), esprime bene questo legame tra il corpo e l´esperienza di una sopraelevazione ideale. L´intuizione di un quarto corpo si muove in una direzione completamente differente. Essa scorge nella parola latina corpus qualcosa d´irriducibile ad una sublimazione estetico-spirituale, un aspetto più opaco, inorganico e "cosale", che si trova nella parola tedesca Körper; questo è un corpo non solo diverso, ma perfino opposto al Leib, una specie di controcorpo, se per corpo s´intende il corpo vivente. Fatto sta che il modello concettuale che suggerisce l´idea di un quarto corpo non è il corpo vivente, ma piuttosto la cosa, quindi non un oggetto, che implica l´esistenza di un soggetto (e perciò ci fa ricadere nella prima idea del corpo inteso come strumento dell´anima), ma proprio l´esperienza di una cosa che sente in modo impersonale.

Repubblica 15.11.06
Il Grand re-tour approda a Roma e discute sull'anima
Raffaello e l'Indemoniato
Cos'è la fede negli uomini praticanti ma non credenti
Redenzione e dannazione da Caravaggio a Pasolini
di Claudio Strinati


Il Grand Re-Tour organizzato nell´ambito della manifestazione "Torino capitale mondiale del libro con Roma" approda appunto a Roma (oggi e domani al Tempio di Adriano) dopo un programma convegnistico colossale, partito il 29 maggio di quest´anno da Catania, che si concluderà a Milano nell´aprile 2007. Ogni città ha un tema da sviluppare, appropriato alla sua storia. Roma ha quello delle Anime.
Redenzione e dannazione da Caravaggio a Pasolini. Questo accostamento è diventato ormai proverbiale data la competenza storico-artistica di Pasolini, allievo di Longhi, che visse il fatto figurativo con un coinvolgimento potente che lo spinse sia alla citazione, come ne La ricotta sia alla rievocazione filologicamente fondata come nel Decameron. Il tormento atroce dell´anima disperata che aspira dantescamente alla Redenzione è ovviamente caravaggesco e spetta, con la stessa forza, la stessa angoscia e la stessa cosmica potenza a un poeta come Pasolini. C´è qualche cosa di autenticamente romano in questo sconcerto che non conosce speranza, forse proprio perché curiale e talora ostentatamente popolaresco, nella sede stessa dell´ossequio burocratico a principi in cui nessuno può credere perché è arduo l´atto in sé del credere nella Fede, qualunque essa sia, ove intimamente e personalmente cercata.
Nelle arti figurative un tale disagio insuperabile del rovello religioso è emerso sul serio nella civiltà romana del Rinascimento e ha avuto le sue logiche conseguenze nelle generazioni successive fino al Caravaggio, interprete supremo di questa umanissima e insondabile situazione.
Fu, però, Raffaello Sanzio a trattare la questione della Fede negli uomini praticanti ma non credenti. Osò, infatti, affrontare l´argomento con una presa di posizione autonoma, sia pure su sollecitazione del cardinale Giulio de´ Medici che gli chiedeva di dipingere una grande pala d´altare per la cattedrale di Narbonne di cui era titolare, con la Trasfigurazione di Cristo, uno degli episodi più oscuri e preoccupanti dei Vangeli canonici. Raffaello osò quello che più volte nella sua vita di pittore papale aveva adombrato, cioè una interpretazione critica «coperta» delle Sacre Scritture in cui presumibilmente credeva ma senza vera convinzione dottrinale. Matteo (17) dice che Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse sopra un alto monte dove fu trasfigurato e conversò con Mosè e Elia, spiegando come il Battista fosse il novello Elia.
Scese poi verso la folla e un uomo gli disse che suo figlio era epilettico e posseduto dal Diavolo ma i discepoli del Redentore non l´avevano guarito. Cristo lo guarì e i discepoli chiesero: «perché noi non abbiamo potuto espellere il Demonio?», «perché avete poca Fede» rispose il Cristo. Raffaello doveva, dunque, raffigurare la Trasfigurazione. Era il 1519 e sarebbe morto l´anno dopo appena completata l´opera che ora è ai Musei Vaticani. Il dipinto, formidabile, non rappresenta solo la Trasfigurazione vera e propria ma anche la scena del fanciullo indemoniato nella zona sottostante. Cristo, però, non è presente in quella zona sottostante.
Il fanciullo indemoniato guarda verso l´alto e non vede nulla, restando immobilizzato nel suo stato di tormentosa dannazione. Nel quadro il miracolo sta avvenendo, certo, ma non è compiuto. Da appena due anni Lutero aveva scatenato il suo attacco senza precedenti contro la Chiesa romana prendendo spunto dalla questione della vendita delle Indulgenze che il papato consentiva e incoraggiava per finanziare i lavori di rifacimento di s. Pietro. Si vendeva la Redenzione, calpestando la dignità e la grandezza della lezione di Cristo. Lutero sosteneva la tesi che la Dannazione venisse proprio dalla Chiesa, strumento del Demonio e veicolo di condanna per l´Umanità. Si racconta che il cardinale Giulio de´ Medici avesse scelto di mettere in gara i due massimi pittori del tempo per scegliere l´opera più bella per la sua Cattedrale e chiese anche a Sebastiano del Piombo di eseguire una gran pala d´altare, con il soggetto della Resurrezione di Lazzaro.
Il cardinale chiese opere che avessero come protagonista il Cristo, in una Roma dove si faceva arte religiosa pressoché quotidianamente ma il personaggio del Cristo era scomparso dall´orizzonte dei pittori. Fu dunque una vera e audace novità quella di commissionare un´opera d´arte a destinazione chiesastica con il Cristo come argomento. Cristo era stato dimenticato e questo diceva Lutero. Il cardinale aveva indicato due soggetti iniziatici, la Trasfigurazione e la Resurrezione di Lazzaro, che trattano proprio la questione della speranza della rinascita e l´angoscia riguardante la volontarietà dei poteri del Cristo. Può Cristo interrompere il corso naturale della vita e della morte, in quanto Redentore dell´Umanità che attende il riscatto dal peccato? La tenebra più opprimente e terrificante incombe, infatti, sul quadro immane di Sebastiano del Piombo mentre Cristo e Lazzaro si confrontano gravati da un peso intollerabile. Le due cerimonie iniziatiche mostrano la faccia oscura e inquieta di una crisi irreversibile. Sono uomini di poca Fede quelli che lavorano sul tema sacro e lo dichiarano nel linguaggio artistico.
Né la Trasfigurazione né la Resurrezione di Lazzaro sono quadri integralmente bellissimi. La Redenzione è bellezza luminosa, nella tesi figurativa di Raffaello, mentre la Dannazione è l´oscurità e il male. Per la prima volta, forse, entrambi questi artisti non esitano a affrontare l´argomento del brutto, del duro, del difficile. I titani di Sebastiano, crollati sotto il peso della loro stessa energia, non sono meno incresciosi, dal punto di vista del linguaggio pittorico, delle crude e nitide figure nella parte inferiore della Trasfigurazione. Il miracolo non avviene e il senso di un «divino possibile» penetra nella materia più sorda e inerte. Piaccia o no anche questo è il Rinascimento romano.

Aprileonline 12.11.06
"Un processo nuovo"
di Emiliano Sbaraglia


Al Teatro della Fiera di Roma tutto esaurito per la presentazione del "Manifesto" proposto da quel popolo dei Ds che non vuole confluire nel Partito Democratico, nel nome del socialismo europeo e di una nuova sinistra italiana

"Oggi a Roma c'è una novità importante. Il Correntone non c'è più".
Comincia così Fabio Mussi questo pomeriggio al Teatro della Fiera di Roma, gremito in ogni ordine di posto, la sua presentazione del "Manifesto" elaborato dalla Sinistra Ds, una sigla che in questa occasione raccoglie tutte quelle energie all'interno dei Democratici di sinistra, che malgrado le pressioni dei vertici del partito non riescono ad accettare la scelta di aderire al Parito democratico senza una discussione profonda e sincera.

La relazione di Mussi è diretta ed efficace, mira al cuore della questione. "Nessuno osi chiamarci scissionisti; quello che chiediamo è democrazia, un fattore non di poco conto che ultimamente nel nostro ultimamente è venuto a mancare". Gli applausi della platea sono convinti. Ma il ministro non dimentica il ruolo istituzionale attualmente ricoperto, ricordando l'amicizia e il sostegno al governo Prodi, l'apprezzata politica estera intrapresa da Massimo D'Alema, e dedicando un passaggio anche alla sua battaglia interna all'esecutivo per il taglio ai fondi destinati all'università e alla ricerca. Qui gli applausi sono meno spontanei, l'argomento è di quelli che scottano; viene apprezzata la coerenza di mettersi in discussione, ma la posizione della signora Montalcini viene evocata non solo sul palco. L'attacco conclusivo però riaccende gli animi: "Non si può accettare la cancellazione della parola socialismo nel panorama politico italiano, laddove in Europa il socialismo è una realtà, di cui noi vogliamo far parte. Per questo proporremo una mozione al Congresso di primavera: per costruire un socialismo del futuro, per vincere il Congresso. Oggi si è aperto un processo nuovo".
Massiccia la presenza del sindacato, tanti i segretari confederali, ma anche i regionali e i dirigenti delle Camere del Lavoro. Gli interventi si susseguono, dalla giovane insegnante della scuola di Scampia ai giovani rappresentanti del precariato e delle coppie di fatto. Un dato importante: sono molte le donne che qui trovano lo spazio per esprimersi, Fulvia Bandoli è una di queste, e come al solito le sue parole sono precise quanto decise. I temi sono quelli del lavoro, dell'uguaglianza tra sessi, della lotta per la sopravvivenza della specie umana, sempre più minacciata da un mercato globale postideologico, del tutto indifferente ai rischi di una indiscriminata speculazione delle risorse vitali del pianeta.
Arriva il momento di Cesare Salvi, che in linea con quanto detto da Mussi sceglie come destinatari del suo discorso proprio il segretario Fassino e il presidente D'Alema.
"Come ricordato da Mussi, sia il presidente del Senato Marini che il vicepresidente del Consiglio Rutelli in questi giorni hanno apertamente escluso la possibilità di un ingresso del futuro Pd nel Pse, e io rispetto le loro decisioni. Per questo rivolgiamo due domande chiare al presidente D'Alema e al segretario Fassino, alle quali si può rispondere altrettanto chiaramente con un sì o con un no: il prossimo Congresso dei Ds sarà l'ultimo del partito? E il Partito Democratico entrerà nel Pse? Perché queste cose non si possono decidere dopo un Congresso già impostato unidirezionalmente, si devono discutere prima. E tutti insieme. Perché la posta in gioco è quella di una visione politica che punti alle prerogative ineludibili di un socialosmo moderno ed europeo, denso di storia e tradizione".
La chiusura di Salvi introduce la sorprendente riflessione di Giovanni Pieraccini, classe 1918, che ripercorre la nascita popolare del socialismo italiano, datata 1892, e i valori fondanti della Costituzione, riscuotendo l'ovazione di un parterre ammirato e commosso. In prima fila ad ascoltare c'è Reichlin (forse andato via troppo presto...), ma anche Tortorella, Cossutta, Migliore. La partecipazione collettiva si tocca con mano e indica che la giornata di oggi segna veramente un punto di partenza importante, dalle prospettive concrete. Un'impressione ricevuta e dichiarata anche da Valdo Spini, che ribadisce la diversità del progetto - Ulivo rispetto all'algida sovvrapposizione tra Ds e Margherita; da qui l'inevitabile impegno per la costituzione di un soggetto politico diverso, alternativo, che non perda di vista le fibrillazioni in seno a formazioni politiche teoricamente affini, come lo Sdi di Boselli in aperta rotta di coallsione con i radicali della Rosa nel pugno.
Il finale viene affidato a un'altra donna, Pasqualina Napoletano, che di socialismo europeo se ne intende. Anche dalla sua voce arriva l'appello per costruire una forza collettiva, che raccolga e rappresenti tutti coloro che una certa sinistra italiana non vogliono proprio lasciarla morire tra le pieghe di un progetto politico vacuo e ambiguo, fino ad ora destabilizzante più che funzionale agli equilibri della stessa attuale maggioranza.
Cala il sipario, tra proclami lanciati in libertà ("oggi è solo l'inizio...") e una palpabile soddisfazione di tutti.
La giornata al Teatro della Fiera di Roma ha dimostrato il desiderio condiviso di un cambiamento, la voglia di partecipare attivamente a un processo di rinnovamento politico, pur tenendo ancora sostanzialmente al di fuori del dibattito le eventuali prospettive di raccordo non tanto con il futuro Partito Democratico, quanto con le potenziali soluzioni possibili nell'eventuale costituzione di una Federazione della sinistra italiana, anch'essa rivolta all'Europa. Ma per oggi va bene così. Il confronto all'interno dei ds e all'esterno, con un nuovo progetto politico, può iniziare da domani.

Libertà 14.11.06
Bellocchio, pronta la scuola di regia


Piacenza - Prende corpo il sogno di Marco Bellocchio di proporre a Piacenza una scuola di regia cinematografica sull'onda dei seminari estivi che da diversi anni il cineasta piacentino tiene a Bobbio sotto l'etichetta di Farecinema.
Sono aperte infatti le iscrizioni, che si chiuderanno il 18 novembre, al corso di regia, che verrà realizzato proprio a Bobbio, con la direzione dello stesso Bellocchio. Il corso ha l'obiettivo di mettere in grado gli allievi di concepire ed analizzare una sceneggiatura e progettarne la realizzazione, programmare e dirigere la realizzazione della rappresentazione e delle riprese, progettare e collaborare alla realizzazione del montaggio delle scene girate.
Il progetto, che ha una durata globale di 500 ore è suddiviso in quattro fasi: "Dal soggetto alla rappresentazione", "La rappresentazione e le riprese",
"Il montaggio" e "Edizione, distribuzione e promozione dei prodotti cinematografici e teatrali".
Il corso rientra in un progetto finanziato dalla Regione Emilia-Romagna tra quelli riguardanti figure di alta professionalità nell'ambito artistico e sarà realizzato dal Centro Itard in collaborazione con il Comune di Bobbio e l'adesione della Provincia di Piacenza.
L'attività didattica prevede momenti d'aula che saranno condotti da esponenti di spicco della cinematografia italiana, nella scia di quanto già sperimentato nei laboratori estivi che hanno visto la collaborazione di sceneggiatori come Stefano Rulli, Domenico Starnone, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia, Vincenzo Cerami, registi emergenti e affermati come Fulvio Ottaviano, i Manetti Brothers, Piergiorgio Gay, Edoardo Winspeare, Francesco Maselli, Francesca Comencini, Mimmo Calopresti, Emanuele Crialese, Franco Battiato.
Sono previsti anche momenti di esercitazione dove gli allievi sperimenteranno la propria creatività, producendo praticamente ciò che viene concepito in aula e verificandolo poi con i docenti: una vera e propria "scuola", come la intendevano i grandi artisti del Rinascimento, dove il fare esperienza è al centro della crescita professionale e l'insegnamento è legato alla condivisione di esperienze con maestri che hanno realizzato opere importanti.
Il progetto è finanziato dalla Regione tramite il meccanismo dei voucher. Il costo per partecipante è di 8.000 euro. Chi sarà selezionato, tra quelli che avranno chiesto di partecipare, riceverà un finanziamento dalla Regione che coprirà 5.600 euro. Il resto dovrà essere versato dal partecipante come quota di iscrizione.
Il corso è riservato a 15 allievi che saranno selezionati, tra chi avrà richiesto di partecipare, da una commissione formata dagli organizzatori e da esperti.
Per chi voglia intraprendere questa difficile professione è un'occasione unica per sviluppare le competenze necessarie nel rapporto con maestri del cinema.
Il corso inizierà il 13 dicembre e fino al 17 avrà luogo il primo stage con la presenza di Bellocchio e di uno sceneggiatore che spiegheranno il meccanismo del corso ai partecipanti.
Sostanzialmente si tratta di 7 stage di 5 giorni l'uno, da tenersi a Bobbio, che comprendono lezioni delle varie materie e verifiche del lavoro fatto. Queste lezioni, cui prendono parte i docenti che saranno scelti nei prossimi giorni, sono intervallate dal project work, un ciclo di 6 stage da dicembre a maggio in cui i partecipanti lavorano in gruppi e autonomamente ai loro progetti.
Per informazioni e iscrizioni ci si può rivolgere alla sede centrale di Itard Piacenza, in via Amaldi, 5
(tel. 0523-754619, fax 0523-751473, www.itard.it). Ovviamente un occhio di riguardo sarà rivolto ai parteicpanti che risiedono in regione.
red. sp.

l'Unità 15.11.06
Sul Vaticano non si può scherzare
Don Georg, segretario del Papa, contro Fiorello e Crozza: la smettano subito
Anche i cardinali Poupard, Kasper e Tonini all’attacco: rispetto per Ratzinger
Dopo l’Avvenire ormai è una crociata contro la satira. E la destra si accoda
di Roberto Brunelli


Voi ridete pure, ma sappiate che il Vaticano vibra di rabbia. In campo ci sono ben tre porporati, il segretario personale del Papa e una bella fetta del mondo politico. Oggi, per la precisione, questa rabbia ha il volto duro di padre Georg, segretario personale di Benedetto XVI. Sotto attacco gli sberleffi, le risate sguaiate, le reiterate battute rivolte a lui e al Papa da alcuni professionisti italiani dell’irrisione. Altrettanto duri i cardinali Poupard, Kasper e Tonini. I colpevoli sono Fiorello, Maurizio Crozza, Luciana Littizzetto.

L MESSAGGIO È SEMPLICE ed efficace: la Chiesa non può esser soggetta a satira. L’altro giorno era stato il quotidiano della Cei, l’Avvenire, a scagliarsi contro quella che definiva una «satira fallimentare non priva di vigliaccheria». Ieri è toccato a lui, padre
Georg Gaenswein, segretario particolare del pontefice, bavarese, 50 anni, già docente alla Pontificia Università della Santa Croce, a lanciare i suoi strali: padre Georg spera che quegli sberleffi irriguardosi che inondano i teleschermi e le radio italiane dalle frequenze di Radio2, di La7 e di Rai3 «smettano subito».
Trasmissioni che il sacerdote però ha ammesso di non aver mai visto. «Né le guarderò mai», aggiunge. Anzi, «queste cose non hanno livello intellettuale e offendono gli uomini di Chiesa». E a chi gli chiede se il Papa medesimo abbia fatto dei commenti al riguardo, il sacerdote risponde: «Un commento del Santo Padre o una sua qualunque reazione sarebbe davvero troppo onore per questa gente». Amen.
Una dichiarazione che pare aver rafforzato un malumore già diffuso nelle stanze vaticane. Addirittura, a prendersela con Fiorello & co, sempre a video e radio spente, c’è anche il cardinale Paul Poupard, presidente del pontificio consiglio per la cultura: dice che ci sono «valori che non si toccano» e parla di «cose che offendono non soltanto un cristiano o un credente, ma una persona». Il cardinale Walter Kasper arriva a temere che «si distrugga tutto», e che a forza di satira sul Papa si finisce per creare «una società del ridicolo». Chiude Ersilio Tonini: «La satira deve portare con sé il rispetto: quella vera ha dei valori da mettere in risalto, quella stupida colpisce in alto per sentirsi grande, ma non capisce che prendere in giro il Papa non è segno di grandezza». Conclusione secca e senza possibilità d’appello: «Sono anime grette e niente di più». Di nuovo: Amen.
Par di capire, insomma, che la Luciana Littizzetto che chiede in regalo il calendario di padre Georg, o l’imitazione di Ratzinger ad opera di Crozza e le battute di Fiorello sul solito padre Georg rampante e modaiolo precipiteranno il mondo contemporaneo nell’anarchia. Non a caso è proprio dall’Avvenire che partono ulteriori strali. Interpellato all’uopo dal Tg2, il direttore del giornale della Cei, Dino Boffo, si scatena: «Credo che questa satira volgare nasconda una punta di vigliaccheria: si bersaglia un uomo che non può difendersi per la natura stessa della sua alta missione... certo, i diritti della satira sono fuori discussione, ma la satira ha anche dei doveri che si incontrano con il diritto dei cittadini a essere rispettati nei sentimenti più profondi. Mi chiedo se oggi c’è bisogno di una satira che offende il paese. Ne risente il sentimento stesso della democrazia».
I tre responsabili di tanto sfascio cuturale e sociale per ora sono chiusi nel silenzio. E mentre il direttore di Radio2, Sergio Valzania, nel cercare di arginare l’ondata di piena cerca di minimizzare («È tutto un misunderstanding!»), la destra si mette l’elmetto: Forza Italia, con Angelo Sanza, arriva a dichiarare che bisogna prendere «esempio dall’Islam per difendere le nostre radici», e conclude parlando di «satira inopportuna e diseducativa». Pasqualino Giuditta, Popolari-Udeur, chiede «più moderazione». «Un po’ più di rispetto» lo chiede anche Giorgia Meloni di An, e il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa parla di «satira sgarbata che offende i credenti». Ma neppure la Margherita ama che «gli artisti, i comici in particolare» dicano ciò che vogliono: sostiene Donato Mosella che essi debbono «darsi delle regole». Massimo Donadi, dell’Italia dei Valori, esclama: «Serve misura!».
Tocca ad uno sconsolato Carlo Leoni, vicepresidente Ds alla Camera, ricordare che «nelle società moderne evolute» la satira è «una delle forme attraverso le quali, da sempre, si esprime la libertà di pensiero e di critica». Il «giovane socialista» Francesco Mosca fa una battuta: «Don Georg si faccia una risata». Capezzone si augura che «non sia necessaria una bolla papale per continuare a fare satira».
Voi ridete, ma al caustico vignettista Vincino non viene tanto da ridere. «Qui si dimentica che l’Italia nasce con la lotta contro lo Stato della Chiesa. I giornali di fine ‘800 e inizio secolo erano pesantissimi al riguardo. Negli anni passati abbiamo fatto satira più pesante su Wojtyla, con Il Male, con Cuore, su Tango». E ora che la satira e la libertà d’espressione sono sotto attacco che pensa di fare? «Noi dobbiamo fare la nostra parte. Anzi, siamo troppo delicati, bisogna andarci molto, molto più pesanti e molto più a fondo». La benedizione di padre Georg, però, se la può scordare.

l'Unità 15.11.06
Indulto: il Dap sballa i numeri, la destra si scatena
L’amministrazione penitenziaria spara: uscite quasi 30mila persone. Prodi dice: «Numeri falsi»
E in serata Mastella ammette: «In un ufficio del ministero hanno mischiato pere e carciofi»


17.449 sono i detenuti usciti dal carcere per effetto dell’indulto, un numero perfettamente in linea con le previsioni fornite dal governo in luglio al momento dell’approvazione della legge di concessione. Eppure, per almeno tre ore, ieri pomeriggio si è assistito ad
una furibonda grandinata di accuse partita dai banchi dell’opposizione in virtù di cifre diffuse nel primo pomeriggio dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia che fissavano a quota 29507 il totale di coloro che erano usciti dal carcere per l’indulto. E a nulla erano valse le perplessità su quei numeri espresse persino dal sottosegretario alla Giustizia Luigi Scotti nel corso della riunione della commissione Giustizia della Camera: dal centrodestra il «tiro al piccione» si è scatenato con una violenza inaudita, con la Lega a far da capopopolo. Arrivando persino ad accusare il governo, ed in primis il premier Prodi, di aver ingannato gli italiani con le stime presentate a luglio e smentite poi dai dati del Dap.
Peccato che quei dati, come poi dimostrato da via Arenula, erano frutto di un errore marchiano di calcolo che ne aveva completamente falsato la consistenza. Esattamente quello che esponenti della maggioranza (su tutti il diessino Massimo Brutti e Peppino Di Lello di Rc) avevano subito denunciato in commissione. Ed era toccato a Prodi in persona, da Algeri, intervenire per spiegare che quei dati «non erano esatti» e che comunque era singolare che fra coloro che accusavano il governo ci fossero anche quei partiti che l’indulto lo avevano votato. «Dichiarazioni imbarazzanti», le aveva bollate l’ex sottosegretario forzista Jole Santelli, mentre Alfredo Mantovano (An) chiedeva al premier di riferire in aula sulle conseguenze dell’indulto. «L’unico a non essere esatto è Prodi - rincarava la dose l’ex ministro Castelli - hanno mentito agli italiani».
Peccato che i dubbi espressi erano in realtà più che fondati ed era proprio il ministero della Giustizia a smentirli con una nota diramata in gran fretta in serata. «L’ultima rilevazione statistica - spiegavano infatti da via Arenula - faceva attestare le immediate scarcerazioni a 15750. Tale stima è stata confermata, perché il numero dei definiti che hanno immediatamente fruito dell’indulto si aggira intorno alle 15500 unità. A costoro si sono poi aggiunti circa 2000 reclusi che hanno via via maturato il fine-pena per l’applicazione del beneficio. Il numero complessivo delle persone che sono state scarcerate perché hanno beneficiato dell’indulto - è scritto nella notte - dunque pari a 17.449 unità, ed ha confermato in pieno la stima effettuata». A causare l’errore, infatti, era stato un dato (quello relativo alle persone sottoposte a misure cautelari che avevano riacquistato la libertà) che senza motivo era stato sommato al computo. Un errore, come volevasi dimostrare. Perché, come ha spiegato il ministro della Giustizia Mastella, «non si possono sommare le pere con i carciofi». «Un’ingenuità tecnica degli uffici di un sottosegretario - ha spiegato Mastella - ha creato un equivoco immediatamente chiarito. La polemica della Lega è pretestuosa. Anche perché qualunque dato relativo all’indulto è frutto di una legge approvata a stragrande maggioranza dal Parlamento».ma.so.

Liberazione 15.11.06
Contro Crozza, Fiorello e Littizzetto in campo il segretario di Ratzinger
Vaticano come l’Islam estremo
“Vietato scherzare sul papa”
di Fulvio Fania


Città del Vaticano. Vade retro Crozza. E poi Fiorello. E ancora Littizzetto e l’intera brigata dei comici che si permettono di fare satira sul papa. E che non risparmiano neppure il suo segretario. E’ proprio lui, preso di mira da una caricatura radiofonica che ne enfatizza la fama di prete bello e sportivo, a reagire con durezza aggiungendo così un bel po’ di fuoco alle polveri già sparate dal quotidiano dei vescovi Avvenire. I due corsivi apparsi sabato scorso sul giornale della Cei, che tra l’altro facevano seguito alle severe reprimemde dell’associazione cattolica degli spettatori Aiart, indicavano l’avvio di una vera e propria campagna contro la satira da parte della chiesa in Italia. Adesso don Georg Genswein, che è tedesco e soprattutto segretario di Benedetto XVI, la fa balzare urbi et orbi. «Queste trasmissioni non sono accettabili», sentenzia il più stretto collaboratore di papa Ratzinger, «spero davvero che smettano». E precisa che devono smettere «subito». Più che sperarlo sembra quasi ordinarlo. Eppure don Georg, quegli spettacoli, dice di non averli mai visti e anzi promette che non li guarderà mai. Ciò non gli impedisce di «prendere atto della polemica» e di bollarli senza remore tra le «cose che non hanno livello intellettuale e offendono uomini di chiesa». Uomini di chiesa, mica soltanto il papa. Genswein conclude che «vuole dimenticare» questa faccenda ma in quello stesso istante la fa esplodere ancora più grande.

Qualche cardinale di Curia gli va dietro. Il “ministro” vaticano per la cultura Paul Poupard, il quale essendo francese preferisce seguire le tv d’Oltralpe, giudica la satira su Benedetto XVI un «fenomeno di degrado». «I credenti soffrono - afferma - se il papa viene trattato male». Il cardinale Walter Kasper, connazionale di Ratzinger, gli fa eco: «Una certa autorità va rispettata, altrimenti si distrugge tutto» e l’autorità del pontefice, oltre che religiosa, è «morale».

La Sala stampa vaticana, invece, preferisce trincerarsi dietro un no comment. «Non credo che diremo nulla al riguardo| - afferma padre Federico Lombardi. Meglio non amplificare ulteriormente le dichiarazioni di don Georg, il quale non è nuovo a lasciarsi andare a confessioni in libertà. Non ha forse aggiunto lui stesso che Ratzinger ha evitato giudizi sull’argomento e che «qualunque reazione papale farebbe troppo onore a questa gente», cioè ai disprezzati comici?

Ma una certa voglia di censura cova nei sacri palazzi e trova alimento nel confronto con l’Islam. “Avvenire” cavalca questo argomento. In un suo editoriale Giuseppe Della Torre, rettore della Lumsa, ha accusato Crozza e compagni «di una certa vigliaccheria» perché se la prendono col papa e lasciano stare i musulmani.

Alla irritazione di sempre per la satira considerata come “anticattolica” le gerarchie aggiungono le tensioni del presente. E’ come se Crozza e Fiorello finissero nel tritacarne di contraddizioni in cui è incappata la stessa Chiesa.

Una vignetta danese che raffigurava Maometto come terrorista ha infiammato la protesta del mondo islamico. Di fronte a questo episodio Benedetto XVI ha ripetuto in diverse occasioni che non si devono offendere i simboli e i sentimenti religiosi altrui. La sua critica all’Occidente comprende appunto una presunta tendenza a deridere la fede e comunque a fare a meno di Dio. E se c’era una cosa che Ratzinger teneva a comunicare con i discorsi pronunciati in Germania era proprio che l’Occidente dovrebbe riconoscere il valore pubblico della religione e che senza farlo non potrà essere compreso dal resto del mondo, che è invece caratterizzato da una forte identità religiosa. Però alla fine, quasi per contrappasso, è stato proprio Ratzinger a suscitare nuovamente le ire islamiche con una sua citazione dell’imperatore Paleologo che descrive Maometto quale portatore di cose cattive e disumane.

D’altra parte se non si possono prendere in giro i simboli religiosi della divinità, ciò deve comprendere sicuramente anche la figura del papa?

Era già successo che del pontefice fosse proibito ridere. Un tempo la censura radiotelevisiva bloccava i comici alla fonte, poi fu Benigni a inciampare nelle condanne curiali per il suo famoso “Wojtylaccio” e ancor più per le sue frecciate contro la morale sessuale proclamata dal papa. Ora Benigni, forte dei suoi cantici del Paradiso dantesco, va ospite d’onore anche tra gli invitati della diocesi di Terni, e la Chiesa lo ha definitivamente assolto per essere stato a suo tempo frainteso. Acqua passata, dunque. Solo per lui. Ora tocca agli altri.

Le critiche di “Avvenire” mescolano le censure di principio ai giudizi estetici, che ovviamente sono sempre opinabili. Il Ratzinger di Crozza, magari un po’ lontano dal personaggio e dai suoi punti deboli reali, viene usato dal quotidiano dei vescovi come pretesto per concludere categoricamente: «Se questo è il circo, giù le mai dal papa e se proprio dovete allungarle fatelo con delicatezza». Tuttavia il segretario di Benedetto XVI non digerisce neppure l’efficace caricatura con cui Fiorello e Baldini lo beffano ogni giorno su Radiodue: un avvenente prete, cinquant’anni indossati ottimamente, che ama il tennis e lo sci, e si dimentica perfino del papa in Turchia perché per quei giorni ha fissato una vacanza sul Mar Rosso. Probabilmente anche dietro le compassate mura vaticane qualcuno ha riso per quelle scenette. Il “bel” Georg ovviamente è stato un facile richiamo per la stampa rosa, però non tutti in Vaticano hanno apprezzato la lunga intervista che il segretario del Papa ha rilasciato all’edizione tedesca di “Radiovaticana” in occasione del suo cinquantesimo compleanno, un testo personalissimo anche sui suoi umani sentimenti giovanili verso le ragazze, prima di farsi prete.

Più seria è la pressione che diversi esponenti del centro-destra sono stati subito pronti a rilanciare per una censura delle satire sul papa. «Satira inopportuna», sostiene Angelo Sanza per Forza Italia, invitando a «prendere esempio dall’Islam per difendere le nostre radici». Addirittura. Più soft il commento della parlamentare di An Giorgia Meloni: «C’è satira e satira - sostiene - ma quella sul papa non è bella». Alla tentazione di cucire le bocche scomode replica il segretario del Prc Franco Giordano che dichiara: «La satira è libertà di espressione. Chi ha un ruolo pubblico non può sottrarsi e lo dico con tutto il rispetto; la satira non deve offendere ma la libertà resta il principio sovraordinato».

Liberazione 15.11.06
In difesa dei comici attaccati dal segretario di Ratzinger in campo colleghi e professionisti. Curzi: «La satira è sacra»
«Perché non si fa una bella risata?»
di Castalda Musacchio

«Don Georg? Si dovrebbe fare una risata. Dovrebbe conoscere la storia e sapere che da Gioacchino Belli in poi la satira nei confronti del Santo Padre rientra nella migliore storia del nostro Paese. Del resto non ci sembra proprio che la satira nei suoi confronti e di quelli del Santo Padre sia mai scaduta in volgarità». In definitiva “viva Fiorello, viva Crozza, e viva la Littizzetto”. Ora, che i giovani socialisti insorgano è un dato quasi scontato. Sta di fatto che non poteva che suscitare subito una fiammata di polemiche, all’indomani dell’anatema lanciato dall’Avvenire contro le gag papali di Crozza su “La7”, la discesa in campo del segretario personale del Pontefice, don Georg Genswein. In definitiva la sua posizione è piuttosto chiara. Basta con la satira su Papa Ratzinger «spero che smetta subito». «Ho preso atto della polemica - spiega Genswein all’Adnkronos - e spero che trasmissioni di questo tipo terminino: d’accordo la satira, ma queste “cose” non hanno livello intellettuale e offendono uomini di Chiesa. Non sono accettabili». Queste “cose” a cui si riferisce il segretario del papa riguardano anche lui, padre Georg. La stessa Littizzetto ne fa spesso oggetto di attenzione a “Che tempo che fa” su Raitre anche se spesso e volentieri ironizza su Ratzinger e più spesso e più volentieri ancora sul cardinale Camillo Ruini ribattezzato “Eminence”. Del resto lo stesso Ratzinger viene ancora ben imitato da Fabio Fazio che sempre su Radio due si allena a sparare ai piccioni «che fencono qui a tare fastidio a cente che lafora».

Che fare? Mettere un bavaglio ai comici?
«Preciso subito una cosa - interviene il segretario Usigrai Carlo Verna - non conosco bene la polemica suscitata da questi attacchi e penso sia anche meglio; ma, e lo dico da cattolico, resto dell’opinione che la satira sia sacra. E’ un diritto, uno dei diritti della democrazia che è alla base di un paese come il nostro. Poi è necessario ancora parlare di queste cose? Mi sembrano davvero “cose” fuori luogo che non appartengono alla nostra cultura. Quello della satira resta un diritto inviolabile e francamente non mi sento neppure di condividere lo spazio per aprire una polemica. Con la Littizzetto io mi diverto moltissimo».

E chi non si diverte con la Littizzetto? E con Fiorello? Su “Viva Radio Due” c’è sempre quel finto padre Georg palestrato che gioca dentro San Pietro.
«La satira - continua ancora Carlo Leoni, vicepresidente della Camera (Ds) - è una delle forme attraverso le quali, da sempre, si esprime quella libertà di pensiero e di critica, giustamente così cara alle società moderne ed evolute».

E le posizioni restano le stesse per lo meno all’interno dell’Unione. Si defilano i moderati cattolici della Margherita. E per bocca di Donato Mosella per esempio (Dl) lasciano intendere che in fondo in fondo ciò che dice padre Georg non è esattamente così sbagliato.
«Ridere, si sa, fa bene - nota Mosella - ma occorre che gli artisti, i comici in particolare, si diano delle regole. Fare satira scegliendo come bersaglio il Santo Padre, penso non faccia ridere molti. E’ solo segno di cattivo gusto e poco rispetto per la figura del Pontefice e anche per milioni di cristiani». Posizione non molto dissimile dal suo collega (anche se dell’Udeur) Pasqualino Giuditta. «Nessuno, tanto meno il Vaticano, vuole fermare la satira. Il problema è quando questa diventa accanimento e sconfina nel ridicolo». In difesa diretta di Fiorello non ha mancato di intervenire Sergio Valzania, il direttore di Radio Rai: «Mi stupisce - commenta Valzania - che i cattolici, sofisticati esperti di comunicazione, non capiscano. La parodia di padre Georg è benevola, un sorriso non può mai essere negativo: da teologo la penserebbe così pure Benedetto XVI. E poi questi ragazzi, la Littizzetto che è una persona dolcissima, o Fazio, vengono tutti da scuole cattoliche, Fiorello l’altro giorno recitava l’atto di dolore, Marco Baldini ha uno zio prete». E chi la satira l’ha sempre fatta, come Vincino, annota che a ognuno spetta il suo. «Noi - chiosa - dobbiamo fare la nostra parte. Anzi - aggiunge - siamo troppo delicati, bisogna andare molto, molto più pesanti e molto più a fondo. Ci stiamo dimenticando che l’Italia nasce con l’anticlericalismo, con la lotta contro lo Stato della Chiesa. I giornali di fine ’800 e inizio secolo erano pesantissimi sulla Chiesa, sui preti, sulle scuole cattoliche. Poi - spiega - tanti anni di Democrazia Cristiana ci hanno fatto dimenticare il nostro Dna. Dovremmo esercitare il nostro diritto al libero pensiero». Eppure qualcuno teme che ci potrebbero anche essere dei ripensamenti in Rai o toni meno “liberi”. E tanto per frenare ogni nube scura che si potrebbe profilare all’orizzonte a chiudere la polemica sollevata dal “caso Georg” è lo stesso Sandro Curzi, consigliere di amministrazione Rai. «Sono sempre stato rispettoso della satira. E credo che dovrebbe essere accettata da tutti. E polemizzare sulla satira è un atteggiamento pericoloso. Rappresenta sempre un elemento di fondamentalismo. Di “puro” fondamentalismo. E quando c’è il fondamentalismo di mezzo non si va davvero da nessuna parte».

c.musacchio@liberazione.it

martedì 14 novembre 2006

L’Unità 14.11.06
Il gioco dentro Rc
Vertici «di governo»
Liberazione «di lotta»
Sansonetti: «I giornali criticano il potere...». Ma in «nome
del programma» il partito prepara il prossimo pressing
di Angela Bianchi


SI SONO DEFINITI le sentinelle di Prodi, quasi i suoi pretoriani. Comunque gli alleati più leali. Eppure non passa giorno che Rifondazione comunista non metta al Governo i suoi paletti, i suoi se e i suoi ma. Dall’Afghanistan al Mose fino al Tfr. E tra poco ci
saranno le pensioni. «Noi chiediamo solo il rispetto del programma», rispondono dall'ultimo parlamentare alla più alta carica istituzionale. Quello stesso programma che pure Bertinotti, l'altro giorno, ha detto di non essere «così ingenuo da ritenerlo una Bibbia». «Però - ha subito precisato - gli elementi essenziali devono essere salvaguardati». E Rifondazione è sempre lì a ricordarli, pedissequamente, punto dopo punto. Anche se ripete: «Noi non faremo mai cadere Prodi». «Anzi - aggiunge Giovanni Russo Spena - noi siamo gli unici a difenderlo». E il dissenso in Consiglio dei Ministri di Paolo Ferrero sul Tfr, dopo quello sul Dpef? E l'astensione in Commissione al Senato sul pacchetto Lanzillotta sulle liberalizzazioni dei servizi pubblici? «Siamo il secondo gruppo della maggioranza e nessuno ci può trattare come la truppa che vota e non fiata», risponde il presidente dei senatori di Rifondazione ricordando, invece, i tanti sì detti, come quello sull'Afghanistan, che «tanta fatica ci è costato».
Anche al governo, però, che ha mediato fino all'ultima parola per convincere i Malabarba, i Foschini e i Turigliatto: al Senato, bastano tre voti per andare in minoranza. Ma le «sentinelle» giurano e rigiurano che «da loro» Prodi non ha nulla da temere, che sono altre le spine al suo fianco, perché per loro il governo «durerà cinque anni». Ma intanto il quotidiano di partito, «Liberazione», non passa giorno che non lanci i suoi strali dando voce ai Cremaschi di turno, a coloro che - come il leader della Fiom - non perdono mai occasione per lanciare frecciate contro Palazzo Chigi. Poi, però, affida alla penna della senatrice Rina Gagliardi denunce complottarde dei poteri forti contro la sinistra al governo. Quella sinistra che scende in piazza con i Cobas e si arrabbia se qualcuno glielo rimprovera. E che punta il dito contro «Rutelli, Fassino e Cofferati» che a fischiare il governo, invece, non ci sono andati. «I giornali per vocazione sono di opposizione, di critica al potere. E noi esercitiamo il nostro diritto/dovere a criticare l'ala più riformista di questo governo», rivendica il suo direttore Piero Sansonetti annunciando per oggi un nuovo affondo di Cremaschi. Sarà pur vero: il giornale, ancorché di partito, fa il suo mestiere.
Ma quando l'ha esercitato sull'Afghanistan, gli stessi vertici di Rc non l'hanno apprezzato. Perché si sa, a soffiar sul fuoco il rischio è che ci si bruci. E tenere assieme la Rifondazione di lotta e quella di governo è un funambolismo pericoloso. Sull'Afghanistan, Prodi alla fine l'ha scampata. E sulla Finanziaria? «Noi siamo stati gli unici a difenderla, tutt'al più sono stati altri ministri ulivisti, come Rutelli, a dire che era sbagliata», rilancia Russo Spena. Però poi anche lui si lascia sfuggire che su ticket e su qualcos'altro al Senato bisognerà discutere, «emendamento su emendamento»: ci sono, infatti, sempre tre senatori rifondaroli, stavolta con la Emprin al posto di Malabarba, ad avere qualche mal di pancia.
E quando arriveremo alle pensioni? «Ogni giorno ha la sua pena», rispondono in coro. Appellandosi subito dopo al programma, imparato quasi a memoria: come la Bibbia.

L’Unità 14.11.06
IL LIBRO «Tenebre su tenebre», nuovo libro di Ferdinando Camon, è una raccolta di frammenti su guerra e pace, sesso e famiglia, fede e politica
Nuovi matrimoni: se la filosofia del «single» contagia anche chi è in coppia
di Ferdinando Camon


Si parla di scrittura e di psicoanalisi, di famiglia e di sesso, di guerra e pace, di religione e di politica. Si parla per frammenti, alcuni fulminanti come epigrammi, altri riflessivi come piccoli saggi. Parla di tutto questo e di molto altro il nuovo libro di Ferdinando Camon Tenebre su tenebre (Garzanti, pp. 366, euro 18) di cui, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo alcuni stralci sul tema dei single.

Single e sposati
Il matrimonio inabilita alla solitudine. Per chi esce dal matrimonio il pericolo è la pazzia.
Il salto tra la vita da soli e la vita in coppia (il salto nel matrimonio e nella famiglia) cambia la scala delle reazioni emotive: la ragazza, la donna sola, continua a passare dalla gioia alla sofferenza, dalla felicità all’angoscia, ma la moglie, la madre, di fronte a una disgrazia, a una sventura cade nella pazzia.
La famiglia collega le vite dei suoi membri, ma non distribuisce in maniera uguale gioie e dolori: i dolori e le preoccupazioni vanno tutti da una parte sola.
Partner liberati
Quando un matrimonio è sbagliato e si rompe, la prima scoperta che fanno i partner liberati è quella del corpo e del tempo. Le donne lo raccontano nei diari: «Adesso mi alzo quando voglio, giro nuda per la casa, tutto lo spazio è mio, ascolto musica, telefono, entro nella vasca, faccio scorrere l’acqua, e il suo tepore mi dà forza. Una sensazione inesprimibile. Sono padrona di me». Conosco tante donne separate che per prima cosa si son levate la fede dal dito, e subito dopo han fatto capire: «Un amante sì, un marito mai più». L’amore (e il sesso) del single è diverso da quello della coppia: il single ama sé stesso.
Se il vecchio mito di Platone ha un senso (l’essere umano diviso originariamente in due, la parte maschile che va in cerca della parte femminile), il vero single, il single felice, è l’uomo non-diviso. Sta bene così. Se rientra in una casa e sente il televisore acceso, corre. Se sente la voce di un bambino, torna indietro.
Single a cena
Se c’è un single libero, che una sera non sa dove andare, e una coppia lo porta con sé a una riunione con altre coppie, tutti lo accettano. Un single in un gruppo è un jolly.
Tutto cambia se l’intruso è un disaccoppiato, un single per forza, uscito da una coppia rotta: allora le coppie si chiudono a riccio, non gli danno confidenza, lo sentono come un pericolo, una carica magnetica che può scaricarsi dove nessuno se l’aspetta. La più amara scoperta delle donne piantate dal marito è di venir abbandonate dagli amici.
La vecchia ostilità borghese-cattolica versi i single nasce da questa visione: il single come nemico della famiglia, la sua presenza nella società come immorale, diseducativa per i figli, disturbatrice per i genitori. Scopo di una buona società borghese-cattolica è disincentivare i single.
Coppia e single
La morale della coppia dice: «Cos’hai, se non hai nessuno? La filosofia del single risponde: «Cos’ha, se non hai te stesso?».
Per secoli non esisteva che la morale della famiglia, e il single era sentito come un senza eredi, quindi senza senso. L’imperatore Augusto aveva messo una tassa sui non-sposati. Adesso è la filosofia del single che entra nella vita di coppia. Il matrimonio non è più l’annullamento di uno nell’altra. Dopo quindici, venti anni di vita in coppia, i partner cercano di riacquistare, un po’ alla volta, abitudini, manie, esigenze, indipendenza di quand’erano soli. Tra la morale della coppia («Ho un altro) e la morale del single («Ho me»), se ne cerca una terza, che le unisca ambedue.

Liberazione 14.11.06
Intervista a Pietro Ingrao. Il presidente della Repubblica ha torto e ha ragione Bertinotti: non c’è dubbio che le nostre truppe erano in Iraq non con compiti difensivi e dunque violavano la Costituzione
«Sono amico di Napolitano ma sull’Iraq sbaglia»
di Stefano Bocconetti


Pietà per le vittime. Per i militari di Nassirya, per i civili che morirono in quell’attentato di tre anni fa. Pietà per tutte le vittime, di tutte le guerre. Per le vittime di tuti i terrorismi. Ma anche la riaffermazione che i soldati italiani non avrebbero dovuto essere lì, in Iraq. A combattere una guerra «vietata» dalla nostra Costituzione. Fin qui il Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, l’altro giorno. Poi, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che commemorando le stesse vittime di Nassiriya ha detto altre cose. Ha detto che quei soldati «erano lì, in Iraq, per garantire i valori fondamentali della nostra Costituzione». Due tesi diverse, opposte. E sui giornali è scoppiata la bagarre. Sul conflitto fra istituzioni, sui dissensi in politica estera, eccetera, eccetera. Perdendo un po’ di vista però il punto di partenza: l’Iraq, la missione italiana - ora conclusa - al seguito di Bush. E allora, nel tentativo di capire bene cosa ci sia dietro questa ennesima polemica, abbiamo sentito Pietro Ingrao.

Una premessa: ma hanno davvero ancora senso le commemorazioni? Le commemorazioni ufficiali?
Secondo me, sì. Certo, a volte quelle commemorazioni hanno qualche elemento di retorica. Ma io penso che sia un modo per ricordare grandi eventi, che hanno segnato una comunità, le persone. Insomma, credo che sia naturale ricordare alcuni fatti che hanno emozionato, sconvolto, addolorato un paese. Se poi in queste occasioni si fanno discorsi giusti o no, questa è un’altra questione.

Siamo arrivato così al punto. Le parole di Napolitano, il suo offrire uno sponsor postumo all'aventura militare in Iraq, non ti sembrano eccessive?
Sono semplicemente parole che non mi convincono. Il Capo dello Stato afferma che i soldati italiani erano in Iraq in base al nostro dettato costituzionale. Secondo me invece l’articolo 11 della Costituzione dice altre cose.

Insomma, sei deluso da Giorgio Napolitano, si può dire così?
Stimo e sono amico del Capo dello Stato. Non condivido ciò che ha detto a proposito della presenza militare italiana in Irak. All’articolo 11 della Costituzione si legge un’affermazione elementare chiara, che l'uso della guerra è permessa solo a scopo difensivo. L’azione militare italiana in Iraq invece non è stata, e non è guerra difensiva. Viola quell’articolo della nostra Costituzione.

Era legittima, allora, l’affermazione di Bertinotti?
Sì: non solo leggittima, credo fosse doverosa. Del resto, in un’altra fase, anch’io ho criticato aspramento il Presidente dell Repubblica. Allora al Quirinale sedeva Carlo Azeglio Ciampi. A mio avviso non seppe o non volle garantire il rispetto dell’articolo 11. Eppure era in discussione una questione cruciale. Ho apprezzato e condiviso la posizione assunta da Bertinotti.

E’ inutile, però girarci attorno: le parole di Napolitano sono condivise anche da “pezzi” dello schieramento che è al governo. Del "tuo" schieramento.
E me ne dispiace. E trovo grave che su una questione di tale portata nelle forze di centrosinistra non si sia aperto un dibattito.

Allora? Che fare?
Riprendere questa grande questione. E- al di là di questo - reimporre nell'agenda politica il nodo che è squadernato davanti agli occhi di tutto il mondo: come si esce dal pantano dell'Iraq. Rilanciare anche in Italia una discussione che agita tutti, da un capo all'altro del mondo. Anche negli USA: come mettere fine alla “guerra preventiva”, voluta e imposta da Bush? Lo stesso Presidente degli Stati Uniti tenta di superare il terribile impasse annunciando che la fase impersonata da Rumsfeld è chiusa. Ma a Bagdad il cielo continua a bruciare, ogni giorno.

Sostieni che la discussione deve essere rilanciata adesso, subito?
Sì. Il tema è bruciante, è cogente. E se c’è dissenso fra organi di governo, fra strutture dirigenti di questo paese, oltre che fra i due schieramenti, credo che sia un bene che se ne discuta pubblicamente.

Eppure molti hanno criticato il Presidente della Camera sostenendo che era uscito dai suoi compiti. Dal suo ruolo. Tu che ne pensi?
Di che cosa dovrebbe occuparsi allora un dirigente istituzionale di questo paese? E in più - credo sia doveroso sottolinearlo - l’attuale Presidente della Camera, l’ha fatto in modo sobrio, misurato. Chi polemizza con Bertinotti su questo è perché non vuole rispondergli nel merito.

L’ultima cosa. Anche tu, quando sei stato Presidente della Camera, sei stato attaccato con argomenti simili. Come ci si sente?
Sono stato in quel seggio per tre anni, dal ’76, anni drammatici e terribili per il nostro paese. E anch’io sapevo che non potevo tacere. E con le mie limitate forze ho parlato.

Liberazione 14.11.06
Antigone: «Depenalizzazione dei reati e amnistia per carceri più umane»
Mastella, Prc e Verdi favorevoli al secondo atto di clemenza che eliminerebbe i processi inutili. L’associazione: «Ma servono riforme strutturali»
di Laura Eduati


Ci si accapiglia sull’indulto, figurarsi sull’amnistia.

A pochi giorni dall’allarme lanciato dai magistrati (il 90% dei processi in corso è inutile perché avrà come risultato la scarcerazione del colpevole), il vicepresidente del Csm Nicola Mancini spiega che «si poteva fare contemporaneamente un’amnistia mirata e un indulto non con un abbuono di tre anni». E dunque, a cose fatte, occorrerebbe un’amnistia per cancellare i reati e quindi i processi - come si è sempre fatto. «Ma il Csm non è una terza camera», specifica Manconi, e spetta insomma al Parlamento discuterne.

Fosse semplice. Perché il problema, appunto, è digerire l’indulto. Eppure tra le voci favorevoli si annovera quella di Mastella, che però si rimetterà alle Camere, accanto a Rifondazione Comunista e Verdi. «Amnistia, selettiva e tale da prevedere il risarcimento per le parti lese, e la riforma complessiva del sistema penitenziario», è la ricetta proposta dal capogruppo al Senato del Prc Giovanni Russo Spena.

«Siamo tra i pochi sostenitori dell’indulto dopo l’indulto. E ora sosteniamo anche l’amnistia», afferma il presidente di Antigone Patrizio Gonnella alla presentazione del IV rapporto sulle 208 carceri italiane. Dal giorno dopo il provvedimento di clemenza, votato il 29 luglio, ognuno ha cercato di distanziarsene probabilmente per cavalcare il dissenso dell’opinione pubblica.

Ma la percezione popolare è falsata, spiega il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi: «La recidiva fisiologica è del 73%, la recidiva dopo quest’indulto è stata di appena il 5%». Russo Spena si dice «scandalizzato» da chi, come alcuni organi giudiziari e il ministro Di Pietro (contrario all’amnistia, ndr), fa una correlazione tra una realtà difficile come Napoli e l’indulto. «Stiamo arrivando ad una ossessione securitaria molto grave. E’ chiaro che la camorra si batte troncando i suoi malaffari e i suoi rapporti con le amministrazioni, non certo impedendo l’indulto».

Manconi dà ragione ad Antigone: all’atto di clemenza devono seguire necessariamente le riforme alla Bossi-Fini (legge sull’immigrazione), alla Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze e alla ex Cirielli sulla recidiva, altrimenti in pochi mesi le celle si ripopoleranno. E promette l’istituzione di una commissione nazionale che vigili sull’applicazione dei regolamenti carcerari.

Le carceri, anche dopo l’uscita di 24mila detenuti, contengono un terzo di migranti. E questo perché l’indulto, annota una delle curatrici Susanna Marietti, è stato applicato male: molte donne rom e migranti, sprovvisti di buon avvocato, non hanno potuto beneficiare della misura.

Ma il problema è strutturale: le carceri rimangono, anche ora che il sovraffollamento è stato eliminato, quanto di più lontano dal processo riabilitativo stabilito dalla Costituzione. Antigone ha visitato uno per uno i 208 penitenziari della penisola, e ha visto di tutto. «E’ un sistema schizofrenico. In alcune carceri si può passare anche 20 ore fuori dalla cella, in altre è permessa solo l’ora d’aria», continua Marietti. Così può succedere che alcuni detenuti arrivino alla laurea, e altri costretti alla licenza media; o che alcuni, perché capitati in strutture all’avanguardia, possano lavorare, e altri, i più sfortunati, siano costretti a starsene con le mani in mano. «Manca una politica unitaria, tutto è demandato alle competenze dei singoli direttori». Antigone preme su questo punto: l’indulto va bene, ma non è sufficiente. E punta il dito sui tagli della finanziaria al sistema carcerario. Frutto, spiega Manconi, della rimozione collettiva del carcere dalla società italiana.

«Bisogna riformare il codice penale per ridurre la centralità del ricorso al penale e al carcere», commenta il vicepresidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura Mario Palma. Il sistema penitenziario italiano, sebbene sulla carta risulti all’avanguardia, nella realtà è tra i peggiori d’Europa; ed è proprio questa distanza tra la normativa e la realtà disumana a dover essere colmata, perché in Italia «la pena è corporale» come nel Medioevo: celle strettissime e con il water a vista, sporcizia, detenuti che non possono incontrare intimamente i propri coniugi o abbracciare amici e famigliari. Oppure l’isolamento in sentenza, cioè deciso dal giudice, un provvedimento che l’Italia condivide con pochissimi Paesi al mondo. Senza contare il tasso di violenza dietro le sbarre, spesso alimentate da vere e proprie “squadre organizzate”, e i suicidi. «Nella stragrande maggioranza delle carceri gli atti di violenza sono tollerati, e questo è inaccettabile», dice Gonnella.

«In carcere ormai va a finire chi non è stato aiutato dalla società e dalla politica», commenta Russo Spena. Che si auspica la creazione di un garante nazionale dei detenuti, l’introduzione del reato di tortura nel codice penale e lo scioglimento dei servizi segreti nelle carceri. «Spero che entro la primavera del 2007 vengano avviate anche le riforme alla Bossi-Fini, Fini-Giovanardi ed ex Cirielli».

lunedì 13 novembre 2006

Repubblica 13.11.06
"L'indulto non ha cambiato nulla le carceri restano un dramma"
Il rapporto Antigone: pagelle per le prigioni migliori e peggiori
di Liana Milella


L'allarme dei curatori: con le attuali leggi, presto i penitenziari di nuovo pieni
L´associazione ha monitorato tutti gli istituti: adesso più posti che detenuti
Cirielli, tra gli ideatori: "Contro il perdonismo della maggioranza"

ROMA - Anche chi va in galera può essere sfortunato o fortunato. E in questo caso l´indulto non c´entra. Perché di detenuti ne saranno pure usciti quasi 24.500 grazie allo sconto di pena, ma da fine luglio a oggi i penitenziari sono rimasti gli stessi. Celle con il gabinetto in un angolo dove si fanno i bisogni davanti a tutti (come a Padova e nel famoso Badu �e Carros di Nuoro), docce disponibili una volta alla settimana, gattabuie sotto il livello del mare, umide d´inverno, soffocanti d´estate (come nell´isola di Favignana), tossicodipendenti trattati solo col metadone, uso eccessivo di psicofarmaci (come a Catania). L´elenco delle doglianze è infinito. Ma le eccezioni (pur rare) ci sono. E se invece di finire nelle prigioni di Nuoro e Sassari, o in quelle di Napoli, Poggioreale o Secondigliano che sia, o a Taranto, a Sulmona, a Viterbo ti mandano a Milano Bollate, a Spoleto, a Civitavecchia o nel nuovo complesso di Rebibbia a Roma, può darsi anche che gli anni di pena non siano poi così tremendi e che la parola "recupero" non sia solo quella di solito pronunciata nei convegni.
Patrizio Gonnella, il presidente di Antigone, l´associazione nata vent´anni fa per studiare il pianeta penitenziario, voleva chiamarla la "Guida Michelin delle carceri italiane". Era sul punto di proporlo all´editore Carocci che pubblica il quarto rapporto sul sistema detentivo, 206 pagine che descrivono il bene e il male di chi finisce in cella e che più banalmente s´intitola Dentro ogni carcere. «Invece delle forchette per segnalare i posti dove si mangia bene e quelli da evitare, avremmo voluto usare il simbolo del manganello per indicare le prigioni dove è meglio non finire, che sono la larghissima maggioranza, e quelle dove le cose vanno meglio, dove non ci sono i suicidi, dove non circolano le "squadrette", dove i detenuti imparano un lavoro». Gonnella e gli autori del rapporto (Laura Astarita, Paola Bonatelli, Susanna Marietti) hanno soprasseduto di fronte a un´idea originale, ma che sarebbe apparsa irriverente. La sostanza resta tutta perché il pezzo forte del rapporto Antigone (che oggi sarà presentato a Roma alle 17,30 alla libreria Montecitorio), oltre cento pagine, contiene un pignolo viaggio prigione per prigione. Un anno di lavoro, un risultato che non sarà una buona lettura per il ministro della Giustizia Clemente Mastella e per i vertici del Dipartimento dell´amministrazione penitenziaria.
Che Gonnella commenta così: «Le nostre carceri fanno schifo. L´indulto è solo un pannicello caldo. Ha svuotato molti penitenziari, ma ci sono troppe leggi del governo Berlusconi in agguato per riempire le celle di nuovo. Basta pensare alle norme sulla droga, alla Bossi-Fini sull´immigrazione, alla Cirielli che taglia la prescrizione per i recidivi, per rendersi conto che potrebbe bastare poco tempo per ritrovarsi con le carceri piene. Che faremo allora? Soprattutto dopo che sull´indulto è stato gettato tanto fango e sono stati inventati, senza ragione, gravi allarmi sociali? Servono subito le riforme e bisogna cambiare al più presto quelle leggi».
Il messaggio di Antigone al governo è fermo. Gonnella lo sintetizza così: «Abbiamo riscontrato buone e cattive prassi. Abbiamo visto e sentito parlare di buone squadre al lavoro e di squadrette pronte a usare la forza con disinvoltura. Abbiamo visitato strutture carcerarie medievali, carceri degli anni Cinquanta, carceri "d´oro" degli anni Ottanta. Ma alla fine tutto, nel bene e nel male, dipende da chi è il direttore. Non esistono regole valide per tutti. Ogni carcere è una repubblica a sé». Adesso i detenuti sono 4mila in meno della capienza, gli agenti della polizia penitenziaria superano addirittura i detenuti (42mila loro, 38mila gli altri), e Mastella deve nominare il nuovo capo delle prigioni italiane.

domenica 12 novembre 2006

l'Unità 12.11.06
GENNARO MIGLIORE
Il capogruppo del Prc alla Camera spiega il no del ministro Ferrero come «dissenso circoscritto», ma chiede più collegialità nella maggioranza
«Noi stiamo al programma, altri creano turbolenze...»
di Vladimiro Frulletti


Il no di Ferrero? Un dissenso circoscritto. Rifondazione non ha nessuna intenzione di indebolire Prodi e soprattutto il programma dell’Unione. Le turbolenze maggiori, semmai, arrivano dal «costituendo» Partito Democratico». Gennaro Migliore, capogruppo alla Camera del Prc, non ci sta a vedere il suo partito sul banco degli imputati. E non lo nasconde.
Onorevole che cosa state facendo a Prodi, è arrabbiatissimo.
«Non stiamo facendo niente di più che richiamare il programma. Ma soprattutto in questo momento all’interno del Parlamento stiamo costruendo le condizioni per fare una cosa che a osservare i giornali sembra straordinaria».
Straordinaria?
«Si perché stiamo mantenendo ferma la barra dell’unità di tutta la coalizione pur nel necessario cambiamento di alcuni punti della Finanziaria. Stiamo contribuendo a far riuscire nel migliore dei modi questa esperienza di governo».
È normale che un ministro voti contro il suo governo?
«È stata la segnalazione di un dissenso circoscritto che riguardava un metodo adottato dal governo. È accaduto anche sul Mose. Può succedere all’interno di una dialettica democratica. Il punto è che questo non mette in discussione l’impianto generale. Noi non abbiamo mai accettato l’idea che esista una tolda riformista che comanda sull’attuazione del programma. Siamo, al contrario, tutti interessati alla costruzione di una coalizione che si chiama Unione e che ha un programma che la legittima».
Sarà anche un dissenso circoscritto, ma il no di Ferrero è arrivato su una questione dirimente: il Tfr.
«Sul Mose il dissenso è stato anche più largo e quindi dovrebbe preoccupare anche di più»
Il Mose è una questione particolare, l’anticipo del Tfr significa pensioni, nodo fondamentale.
«Abbiamo segnalato, anche col voto di Ferrero, che sulla materia della previdenza bisogna avere un atteggiamento pienamente condiviso all’interno dell’Unione. Lo aveva chiesto qualche tempo fa anche il segretario della Cgil Epifani. Cioè sta a cuore a molti, e dovrebbe essere la prima preoccupazione anche di Prodi, che sulla materia previdenziale, come su altre ma quella previdenziale per noi è capitale, vi sia una discussione nella coalizione».
Non crede che questi vostre decisioni indeboliscano Prodi e quindi favoriscano indirettamente chi spera nell’aiuto di “altri”, magari proprio al posto della sinistra dell’Unione?
«Non mi persuade l’idea che aiutare significhi accettare un metodo o contenuti che non si condividono. A Villa Pamphili dallo stesso Prodi abbiamo ascoltato la precisazione che non esisteva una fase due, che quindi si stava costruendo la realizzazione del programma e che su questo ci sarebbe stata l’unità della coalizione. Mi sembra che le tensioni e gli strappi semmai arrivino più dall’interno del costituendo partito democratico. Non siamo noi a favorire le fibrillazioni, ma serve una strategia condivisa».
E non c’è?
«Alla Camera la stiamo facendo eppure siamo sottoposti a centinaia di voti che in ogni momento potrebbero far cambiare la maggioranza su un singolo elemento. Invece abbiamo tenuto e siamo uniti. Perché allora non possiamo riuscirci a livello di direzione politica di fondo della coalizione dove c’è tempo e possibilità di discutere. Esempi positivi ci sono».
Quali?
«Sulla materia elettorale abbiamo condiviso il richiamo di Prodi a una gestione condivisa delle riforme».
Ma non dovevate essere le “guardie” di Prodi?
«Non ci sentiamo le guardie di Prodi, semmai siamo quel soggetto politico che in questo momento, pensando di costruire uno spazio nuovo per la sinistra, pensa che debba essere ascoltato in primo luogo chi ha contribuito a cacciare Berlusconi. Per questo mi sento più interno alla manifestazione del 4 novembre, del nuovo protagonismo sociale, piuttosto che di geometrie politiche. Non mi sento sentinella di nessuno, mi sento impegnato a costruire le ragioni perché si possa ascoltare le ragioni di chi ha voglia di cambiare la società».
Alla luce anche delle proteste dell’università e della ricerca, secondo lei la Finanziaria va in quella direzione?
«C’è una elementare condizione per evitare che non diventino proteste sterili, basta ascoltarle. L’idea che si debba risolvere tutto dall’alto non mi convince e se c’è un malessere che rappresenta interesse generali e non corporativi, penso che debba essere assolutamente ascoltato».

l'Unità 12.11.06
La sinistra Ds: noi socialisti vogliamo vincere il congresso
Mussi: il Correntone non c’è più. Si presenta l’anima anti Pd
Salvi: «Quando un partito va male si cambiano i dirigenti...»
di Ninni Andriolo


Mussi: «Andremo al congresso uniti, e ci andremo per vincerlo. Non chiamateci scissionisti e non accuseremo nessuno di tradimento»

IL CORRENTONE NON C’È PIÙ annuncia Fabio Mussi. La sala dell'Auditorium è la stessa di tante assemblee diessine convocate da Fassino. Qui, nel pieno della bufera Unipol, il gruppo dirigente della Quercia riunì “la base” per organizzare la controffensiva e «dife-
ndere l’onore del partito». Le sinistre Ds ripartono dall'Eur - e dai 3000 che affollano la Fiera di Roma - per lanciare la sfida. Perché, avverte Cesare Salvi, «se dovesse nascere il Partito democratico, il prossimo potrebbe essere l'ultimo congresso dei Ds…». L'obiettivo non è «rendere testimonianza», rosicchiare qualche punto in percentuale, ricavare uno spazio dentro il futuro Pd, ma «vincere» le prossime assise diessine. Perché «si apre una fase nuova, con compagne e compagni che vengono da strade diverse…». Quel «correntone non c'è più» pronunciato da Mussi all'inizio del suo intervento, quindi, è proclama politico e impegno per allargare il campo al di là dei confini di Pesaro e Roma. A dispetto dei sondaggi, che danno l'80% degli iscritti Ds favorevoli al Pd, Mussi, Salvi e Bandoli sono convinti che nella base e nella stessa maggioranza fassiniana si registrino molti dubbi sulla prospettiva. E le prime file dell'assemblea di ieri rafforzano la convinzione che è possibile «giocare la partita». Seduti a pochi metri dal palco ascoltano attenti Brutti e Caldarola, orientati a sottoscrivere una mozione che punti sulla federazione Ds-Margherita. In presidenza c'è anche Valdo Spini. Esponenti, fino a ieri, della maggioranza che oggi imboccano strade che non prescindano da un aggancio esplicito con il socialismo europeo. E la platea - molti i trenta-quarantenni e molti i più giovani, insieme a una pattuglia di dirigenti Cgil, tra loro Paolo Nerozzi - si infiamma ascoltando le parole di un quasi novantenne, Giovanni Pieraccini, un vecchio socialista, già ministro del primo governo Moro. Così come applaude - con lo Springsteen che canta «abbiamo fatto una promessa..» - anche le note dell'Internazionale. Una versione jazz registrata nel '76 da Mazzon e Schiano, scovata da Vincenzo Vita. «Una grande assemblea, volontà di battaglia, ma anche responsabilità», commenta l'ex coordinatore del Correntone. In realtà, ieri, Mussi ha ribadito il suo punto di vista e la sua linea, ma non ha chiuso porte e finestre. Non ha illustrato, cioè, una mozione già bella e confezionata. «Presentiamo un manifesto - chiarisce -. Uno spunto di riflessione che si rivolge a tutta la sinistra italiana». In sala, come osservatori, anche Armando Cossutta e il Prc Migliore. Ma anche Gerardo Bianco. «Con la sinistra Ds siamo speculari», spiega l'esponente popolare. «Bisogna guardare a una sinistra che sia di valori e di governo - incalza Mussi - e che vada oltre le sue divisioni storiche». La strada per il congresso è ancora lunga e possono maturare, quindi, fatti nuovi. La sinistra Ds, tra l'altro, considera i continui richiami di Rutelli al «Pd che non entrerà mai nel Pse» la spia della sostanziale propensione del leader Dl a rallentare il percorso del Partito democratico. «Perché dobbiamo affannarci per far diventare Rutelli un po’ più socialista e lui si deve affannare per farci diventare un po’ più democristiani?», chiede Mussi. Intorno alla federazione Ds-Dl, l'obiettivo di un settore, pur minoritario, dell'attuale maggioranza, potrebbero convergere posizioni attualmente divaricate? Ieri c'era chi sosteneva che nella segreteria Ds si sarebbe aperto il dibattito sulla «transizione federativa» al Pd. Vero? Falso? La minoranza, intanto, pianta paletti ma non scopre tutte le carte utili al gioco. E, ad esempio, non è stato messo in campo alcun nome di candidati da opporre a Fassino. Potrebbe essere lo stesso ministro per l'Università a scendere in lizza, come sussurrano in molti, anche se il ruolo che svolge Mussi nel governo Prodi potrebbe consigliare scelte diverse. In tal caso è possibile «una sorpresa». Quella di una donna? L'iniziativa dell'Eur - va sottolineato - è stata conclusa da Pasqualina Napoletano, vice presidente del Pse. Le norme che impronteranno il congresso, tra l'altro, sono ancora da definire. «Vorremo che si svolga con regole occidentali - avverte Mussi -. No al voto segreto, al mercato delle tessere, al boom delle vocazioni in vista delle assemblee». Ma non saremo noi ad abbandonare la Quercia, annuncia il ministro. «Noi siamo nei Ds e nessuno osi chiamarci scissionisti, diamo Stalin seppellito per sempre». E, ancora, «andremo uniti, per imporre un cambiamento di rotta». Niente anatemi, però, contro chi perora «legittimamente» la causa del Partito democratico. «Altrettanto legittimamente però - chiarisce Fulvia Bandoli - sosteniamo la causa di un grande centro capace di governare con noi, ma non alleandoci nello stesso partito». In ogni caso, ripete Mussi, «nessuno sentirà da noi invettive, insulti o accuse di tradimento», anche se dovesse imboccare «una strada sbagliata». Cesare Salvi, però, prende di petto Fassino, ma anche D'Alema, apprezzato poco prima da Mussi per la svolta impressa alla politica estera italiana. «Quando un partito va male alle elezioni si cambiano linea politica e dirigenti - attacca Salvi, tra gli applausi - Da noi invece quegli stessi dirigenti vogliono mandare a casa il proprio partito. Come diceva Bertold Brecht, se il popolo non è d'accordo con il partito sciogliamo il popolo». Parole stigmatizzate da Maurizio Migliavacca, presente all'assemblea assieme ad Alfredo Reichlin. «Merita più rispetto il gruppo dirigente dei Ds», replica il coordinatore della Quercia. «Il Pd - avverte - non significa rinuncia alle idee della sinistra». «Qual è la proposta alternativa delle minoranze dei Ds? - chiede Migliavacca -. Non mi sembra che vadano oltre un aggiustamento dell'esistente».

l'Unità 12.11.06
Bertinotti: «Ascoltiamo la Montalcini»
Il governo assicura: «Troveremo i soldi»
di Roberto Monteforte


«La soluzione si trova. Questo è certo». Continua a rassicurare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta dopo la ferma denuncia del premio Nobel e senatrice a vita Rita Levi Montalcini. Dovrebbero stare tranquilli rettori, ricercatori, scienziati ed anche i parlamentari del centrosinistra, diessini in testa, che da tempo, da prima che la Montalcini minacciasse di far mancare il suo voto alla Finanziaria, hanno ricordato «programma dell’Ulivo alla mano», come l’impegno per la ricerca e in particolare per quella pubblica, sia strategico per il futuro del paese.
È quello che più volte ha ribadito anche il ministro per l’Università e la Ricerca, Fabio Mussi che non nasconde come tra i problemi della ricerca «made in Italy» vi sia pure quello dello scarso apporto dei privati. «Molti imprenditori italiani - sottolinea - sono più sensibili ad una banca o ad una squadra di calcio che agli investimenti in ricerca e innovazione». Il ministro, in piena sintonia con la Montalcini, continua a chiedere significative «rettifiche» alla Finanziaria. «Penso - ha spiegato - che due cose devono essere corrette, il taglio del 20% dei consumi intermedi degli enti di ricerca e il taglio previsto dall'art.53 per tutti i ministeri che ricade sugli enti pubblici di ricerca per 207 milioni».
Si vedrà quale sarà l’emendamento «salvaricerca» annunciato da Enrico Letta. Lo stretto collaboratore del presidente del Consiglio al momento non si sbilancia sui contenuti. Lo fa il sottosegretario all’Economia, Nicola Sartor. «Ci sarà un’integrazione delle risorse per il settore» annuncia. «Le risorse per i progetti di ricerca - chiarisce - non sono mai state messe in discussione. In ogni caso stiamo studiando la possibilità di introdurre un’integrazione». Forse non basta. Nell’operazione rassicurazione verso la Montalcini e i «preoccupati» interviene anche il capogruppo dell’Ulivo, Dario Franceschini: «Il governo sta cercando di risolvere il problema, sta valutando come reperire nuove risorse per la ricerca».
Ma vuole vederci chiaro il responsabile ricerca della Quercia, Walter Tocci. «La finanziaria infatti dimostra che il nostro governo non ha ancora compreso come il problema dell’università e della ricerca non possa essere considerato come una questione settoriale, ma che è invece l’unica via di salvezza del paese». «Nell’attuale finanziaria - osserva - non ci sono soldi alla ricerca pubblica perché prevale un atteggiamento di sfiducia verso di essa. Non è un caso infatti che i bilanci di atenei ed enti abbiano subito tagli e le poche risorse aggiuntive siano state allocate solo nei bandi di ricerca e negli incentivi alle imprese e per più di un miliardo di euro. Il messaggio è purtroppo molto chiaro: non vi diamo soldi direttamente, se volete i finanziamenti andate a prenderli dalle imprese o dai bandi». Per Tocci quella che può sembrare una linea ragionevole, invece, «è un modo per rendere ancora più piccola la ricerca italiana nella competizione internazionale», visto che «la vera anomalia italiana consiste nella debolezza della ricerca privata che è molto più bassa di quella pubblica». La sua critica è di fondo. «Certamente deve essere una priorità aiutare l'industria a fare ricerca, ma non può essere che proprio il punto debole del sistema diventi uno dei pochi canali di finanziamento della ricerca pubblica. È autolesionismo».
La sortita della Montalcini ha mosso le acque. Gliene danno atto in tanti, compreso il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che dice: «Le preoccupazioni della senatrice vanno ascoltate con grandissima attenzione». Il premio Nobel ringrazia, conferma «la forte stima e fiducia per il nostro attuale Governo» e mette in chiaro: «Tagliare i fondi per la ricerca vuol dire affondare il Paese».

l'Unità 12.11.06
Parla l’etologo olandese Frans de Waal: lo studio di scimpanzé e bonobo alla base della sua teoria sul «continuum» tra biologia umana e civiltà
Uomini e scimmie, e se anche la morale fosse frutto della selezione biologica?
di Cristiana Pulcinelli


I nostri parenti più vicini nel mondo animale sono due: gli scimpanzé e i bonobo. Confrontando il Dna, si è visto infatti che l’uomo si è separato dall’antenato comune di queste tre specie solo 5,5 milioni di anni fa. Degli scimpanzé sappiamo molte cose: che sono intelligenti, violenti, a volte crudeli, che formano rigide gerarchie all’interno del branco dominato dai maschi. I bonobo invece sono ancora poco conosciuti. La loro scoperta risale al 1929: fino ad allora nessuno aveva capito che erano una specie diversa dagli scimpanzé. Effettivamente, un occhio inesperto potrebbe confonderli. Ma a guardarli meglio, i bonobo si distinguono per la loro figura aggraziata: le gambe più lunghe, il collo meno tozzo, la presenza di capelli (ordinatamente divisi da una scriminatura centrale) sulla testa relativamente piccola, le orecchie anch’esse piccole. Le femmine poi, a differenza di quelle dello scimpanzé, hanno i seni leggermente prominenti. Ma la vera differenza risiede nel loro comportamento: i bonobo sono pacifici, cooperativi, non c’è dominanza maschile nei loro gruppi e c’è invece una grande quantità di sesso, praticato liberamente, sia con l’altro sesso che con il proprio. «Gli hippy del mondo dei primati», li ha definiti Frans de Waal, l’etologo e zoologo olandese che ha passato moltissimo tempo a studiare le scimmie antropomorfe.
Di Frans de Waal è appena uscito in Italia il nuovo libro (La scimmia che siamo, Garzanti, pp.364, euro 22,50). Nel libro De Waal non solo racconta bellissime e commoventi storie su scimpanzé e bonobo, ma cerca di esplorare le analogie che ci sono tra il comportamento dei primati e il nostro «senza chiudere gli occhi davanti al buono, al brutto e al cattivo». Lo scopo ultimo però sembra ancora un altro: smontare l’idea che la nostra natura profonda sia violenta e amorale, solo sommariamente coperta da una «patina di civiltà». Una tesi che ha avuto sostenitori illustri nel passato. Ad esempio il filosofo Thomas Hobbes, secondo cui l’uomo è un lupo per l’uomo (homo homini lupus) perché il suo istinto lo porta alla sopraffazione, ma decide di vivere insieme ai suoi simili «solo per un patto che è artificiale». Oggi, questa idea è entrata nel senso comune, tanto che, di fronte a genocidi e stragi, parliamo di un comportamento «bestiale». De Waal non è d’accordo: la natura dell’essere umano per lui è piuttosto come Giano bifronte. Violenta e assetata di potere come uno scimpanzé, ma capace di empatia e di solidarietà come un bonobo. Quello che abbiamo in comune con i nostri cugini pelosi è un lungo cammino evolutivo. Abbiamo sviluppato insieme a loro l’interesse per il sesso e il potere, ma anche la capacità di soffrire con gli altri: «la nostra moralità è un prodotto dello stesso processo selettivo che ha forgiato il nostro lato competitivo e aggressivo».
Professor de Waal, osservando le scimmie antropomorfe, è arrivato ad affrontare un discorso prettamente filosofico. Come è accaduto?
«Non sono un filosofo, ma non si può parlare della natura umana senza tenere in considerazione quello che è stato scritto per più di duemila anni. Le concezioni odierne sulla natura umana hanno radici nella cultura e nella religione. Ad esempio, la posizione di alcuni biologi secondo cui l’uomo è fondamentalmente “cattivo”, sono già presenti nel concetto di peccato originale: noi siamo nati con il peccato e dobbiamo faticare parecchio per diventare migliori».
Per secoli si è oscillato tra due concezioni: da un lato l’idea che i nostri istinti siano violenti e aggressivi e che solo la ragione ci conduca a firmare un patto sociale, dall’altra l’idea che la natura sia buona e che l’uomo sia corrotto dalla civiltà. Con chi è d’accordo?
«Non mi convince Hobbes, ma non credo neppure al “buon selvaggio” di Rousseau. Del resto è dimostrato che non siamo gli unici animali a provocare sofferenze per divertimento. In generale non credo ai dualismi: natura-cultura, biologia-civiltà, mente-cervello, moralità-istinto. La mia idea è che biologia umana e civiltà siano un continuum. Difficile da accettare? Forse perché le chiese occidentali hanno sempre cercato di sfruttare il dualismo come giustificazione per la loro esistenza: “Siete nati cattivi e noi vi aiuteremo a diventare migliori”. Ma se diciamo che il senso morale è l’estensione dell’istinto umano, questa giustificazione viene a mancare».
Lei ha sottolineato una strana corrispondenza tra il clima politico e le teorie biologiche di un’epoca. Ad esempio, quando dominavano Reagan e Thatcher, andava per la maggiore la teoria del »gene egoista». C’è una spiegazione?
«Credo che dipenda da un background comune. Quando Darwin parlava di selezione naturale, nel Regno Unito nasceva il capitalismo. Non era Darwin a prestare la sua idea ai capitalisti, ma qualcosa era nell’aria. Oggi, ad esempio, c’è grande interesse nello studio dell’origine e dell’evoluzione del senso morale. Sa perché? Perché ci sono stati grandi scandali in Europa e negli Stati Uniti prodotti da persone che giocavano al gioco del capital gain con mezzi illeciti».

il manifesto 12.11.06
Quanto è cristiana l'Italia?
Filippo Gentiloni


Si moltiplicano le cifre, ma ci si chiede quanto siano significative. Comunque sono contraddittorie. In netto aumento i divorzi e le separazioni, nonché i matrimoni civili e le coppie di fatto, senza matrimonio né religioso né civile. Un dato estremamente significativo, anche perché i dati sui matrimoni riguardano da vicino anche quelli sulle nascite. Vita cristiana, dunque, decisamente in crisi. Ma a questi dati sui matrimoni la gerarchia cattolica può contrapporne altri di segno opposto. La percentuale - altissima - dei battesimi, ad esempio. E anche quella - alta - degli studenti che accettano la religione cattolica a scuola, anche se questi numeri sono in calo con la crescita dell'età degli alunni. E i matrimoni in chiesa sono ancora molti, soprattutto al sud. Che dire di questa situazione? E quale sembra essere l'atteggiamento - la strategia - della gerarchia cattolica? Due i possibili percorsi, come sono emersi anche dal recente convegno ecclesiale di Verona. Non molti evidenziano la crisi, soprattutto dei giovani. Qualche parrocchia, qualche gruppo e comunità: accettano la scristianizzazione, più o meno marcata. Anche l'Italia terra di missione come, d'altronde, più o meno tutti i paesi a maggioranza cristiana (e cattolica). E' inutile - sostengono - mantenere una religiosità ipocrita e convenzionale. Ma si tratta di piccole minoranze. La stragrande maggioranza della gerarchia preferisce un'altra strada: nonostante i segnali negativi, il popolo italiano è ancora sostanzialmente e profondamente cattolico, e così deve essere considerato. E' la strada scelta, come è apparso anche a Verona, dal cardinale Ruini e dallo stesso papa. Perciò l'importanza dei riconoscimenti e anche degli aiuti da parte dello stato: aiuto alle parrocchie, istituzioni cattoliche, soprattutto scuole. Aiuto che può e deve essere anche - soprattutto - economico. La predicazione affidata non tanto ai pulpiti sacri quanto ai mass media, in primo luogo alla televisione. Un percorso che sembra mettere in secondo piano gli aspetti più tipicamente evangelici del messaggio cristiano, per favorire piuttosto una forma di religione «civile». Una religione «per tutti», un'etica del buon senso: cristianesimo civile, civiltà cristiana.
Quale sarà il futuro? Difficile dirlo. Da una parte, quella dei pessimisti, si ricorda il risultato dei referendum su divorzio e aborto. Dall'altra ci si appella al risultato, più recente, del referendum sulla procreazione assistita. Sembra probabile, comunque, una sempre maggiore spaccatura all'interno del cristianesimo: destra e sinistra sempre più separate, nonostante i tentativi «centristi» della gerarchia.

il manifesto 12.11.06
Dopo l'indulto, mano alle riforme
Carceri Non abbiamo bisogno di nuove prigioni, ma di restituire vera legalità al nostro sistema penale
Patrizio Gonnella*


L'ultimo rapporto di Antigone è una fotografia di interni carcerari. Di galere ne abbiamo fotografate 208, con le loro mura scrostate, i bagni alla turca, le docce fredde, le celle interrate. Carceri diverse l'una dall'altra, luoghi dove la violenza è sistematica (fortunatamente pochi), luoghi dove la violenza è tollerata (molti), luoghi dove la violenza è impedita (pochi anch'essi). Carceri dove lavora un'umanità varia, composta da operatori penitenziari di estrazione culturale molto differente. C'è chi crede in una cultura giuridica democratica e ha una visione illuminata della pena; c'è chi è ormai caduto in una condizione di burn out professionale; c'è chi timbra burocraticamente il cartellino; c'è chi sostiene che la Costituzione sia carta straccia.
E poi ci sono i detenuti. Dopo l'indulto sono scesi a 38mila. Ne sono usciti 24mila e più negli ultimi tre mesi. Il tutto nella diffusa indignazione di coloro (media, magistrati, politici) che ingiustamente, smentendo se stessi e le proprie posizioni precedenti, nonché inventando allarmi sociali, hanno gettato fango sul provvedimento di clemenza. Per colpa loro è oggi difficile parlare di amnistia. L'amnistia è invece un atto necessario per evitare di impegnare la magistratura in procedimenti che non avranno alcun esito.
Dopo l'indulto, come ha detto il presidente Napolitano all'indomani della sua approvazione, ci vogliono riforme strutturali. È questa un'occasione unica e imperdibile per mettere mano a un progetto di riforma complessiva del sistema. Va scritto un nuovo codice penale che riduca le fattispecie di reato, riduca le pene, diversifichi le sanzioni. Vanno abrogate la legge ex-Cirielli sulla recidiva, la Fini-Giovanardi sulle droghe, la Bossi-Fini (Fini è sempre presente quando si tratta di restringere le libertà) sull'immigrazione. Va istituita la figura del garante delle persone private della libertà, va introdotto il crimine di tortura nel nostro ordinamento penale, vanno tolti dal carcere i bambini con le loro madri. Vanno applicate le leggi esistenti in materia di sanità e lavoro. Vanno ristrutturate le carceri assicurando condizioni di vita dignitose. Non abbiamo bisogno di nuove carceri. Abbiamo bisogno di restituire legalità al sistema, di ricostruire una cultura giuridica che veda nella pena non più la via primaria per la vendetta sociale. Se non ora, quando?
* Presidente di Antigone

Antigone presenta in tutta Italia il IV Rapporto sulle condizioni di detenzione: «Dentro ogni carcere. Antigone nei 208 istituti di pena italiani», a cura di Laura Astarita, Paola Bonatelli, Susanna Marietti, edito da Carocci e di cui stralciamo le schede pubblicate a fondo pagina. Ecco le principali iniziative lunedì 13 novembre: Roma, Libreria Montecitorio, ore 17.30; Catanzaro, sala Cons. provinciale, ore 16; Bologna, v. S.Carlo 42, ore 9.30; Milano, Centro S.Fedele, ore 17; Palermo, Ricordi Media Store, ore 16.30; Padova, Scienze politiche aula B2, ore 16. A Verona sarà il 14, a Torino e Nuoro il 17, a Pescara il 29 novembre

Napoli-Poggioreale. Condizioni disastrose
Capienza regolamentare 1.387; detenuti presenti 2.357 (1.069 liberati con l'indulto). Il carcere è del 1908 e presenta condizioni generali di scarsa vivibilità: nelle celle convivono fino a 18 persone, mancano spazi per la socialità, all'esterno vi è un passeggio in cemento e manca l'area verde. In alcuni reparti le celle sono in condizioni fatiscenti. I reparti sono 12, fra cui transessuali, tossicodipendenti e protetti, Alta Sicurezza, isolamento, infermeria psichiatrica, giovani adulti. Vi è un centro clinico, le condizioni dell'assistenza sanitaria sono critiche. Da pochi anni si usa il metadone, ma solo per pochissimi detenuti. La richiesta di visita medica può essere fatta, ogni giorno, solo da un detenuto per cella. I detenuti sono in cella quasi tutto il giorno: gli orari dell'«aria» sono 10-11 e 13-14 e le attività praticamente nulle. I lavori sono quelli domestici e lavora in pratica 1 detenuto su 15. Sono presenti i tre livelli di scuola, le superiori non stabilmente. I detenuti lamentano costi medio-alti e scarsa qualità per cucina e sopravvitto. Negli ultimi anni si sono spesso verificati episodi di autolesionismo e dal 2001 vi sono stati 4 suicidi. Ci sono state interrogazioni parlamentari su presunte violenze in carcere compiute a danno dei detenuti da personale della polizia penitenziaria. Il clima all'interno del carcere è di tensione e la disciplina molto rigida, come ha più volte segnalato il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti nei suoi rapporti sull'Italia.

il manifesto 12.11.06
Sinistre unite, congresso aperto
La minoranza della Quercia si compatta nel no al Partito democratico. Mussi: correntone in archivio, in primavera ce la giochiamo. Salvi: Fassino e D'Alema hanno fallito
Andrea Fabozzi


Roma C'era una volta il correntone. Cambia volto l'area che dentro i Ds si oppone alla liquidazione della Quercia nel Partito democratico (Pd) di Romano Prodi. Fabio Mussi che lo ha guidato attraverso cinque anni e due congressi è titolato a dare la notizia: «Il correntone non c'è più». Per i quadri diessini e i militanti (più i primi che i secondi) convenuti da tutta Italia alla Fiera di Roma per il lancio della nuova componente è però una buona notizia. Il fronte del no si allarga. Firmano insieme un manifesto «per il socialismo del futuro» correnti che fino all'ultimo congresso erano divise: i «socialisti» di Cesare Salvi, gli ambientalisti di Fulvia Bandoli e i laburisti di Valdo Spini. Mussi guarda al congresso di primavera che nelle intenzioni del leader del partito Fassino dovrebbe sancire la confluenza dei Ds nel Pd: «A questo punto il quadro cambia, per la segreteria le cose si complicano. Ora la minoranza è una sola e unita, nella maggioranza invece le mozioni sono diventate due».
A guardarlo da qui - nello stesso teatro dove esattamente dieci anni fa andava in scena un altro tipo di orgoglio socialista, quello di De Michelis, Cicchitto, Intini e gli altri sopravvissuti alla marea di Tangentopoli, tutt'altra storia eppure anche quella dentro le giravolte della transizione italiana, e anche all'ora a palazzo Chigi c'era Romano Prodi - a guardarlo da questa riuscita «prima» per la nuova sinistra dei Ds, il Partito democratico è messo molto male. Certo è una prospettiva di parte. E certo Francesco Rutelli ci ha messo del suo dichiarando giusto alla vigilia che il Pd «non aderirà mai, mettetevelo in testa, all'Internazionale socialista e al Partito socialista europeo». Cesare Salvi ha buon gioco ad attaccare il gruppo dirigente diessino: «D'Alema e Fassino hanno sentito o no? Chiedere agli iscritti di votare per la nascita del Pd rimandando a dopo la scelta sulla collocazione europea è un imbroglio. Nel '96 i Ds presero il 21,1%, oggi sono a un modesto 17%.Quando un partito va male si cambiano linea politica e dirigenti. Da noi invece quegli stessi dirigenti vogliono mandare a casa il partito».
Quello della collocazione internazionale è il problema più evidente del Pd, che imbarazza non solo Prodi costretto a ipotizzare nuove formazioni europee ma anche i socialisti continentali come Martin Schultz e il presidente dell'europarlamento Josep Borrell (non per nulla bandiere del Pse pendevano numerose dalle balconate del teatro della Fiera). Ma è solo una cartina di tornasole delle difficoltà più profonde della fusione tra Ds e Margherita. Mussi: «Non capisco perché dobbiamo affannarci nel tentativo di far diventare Rutelli un po' più socialista». Missione impossibile. Eppure degna di essere tentata secondo il coordinatore della segreteria dei Ds Maurizio Migliavacca in veste di osservatore alla manifestazione di ieri: a suo giudizio in Europa è possibile «un processo nuovo» che «facendo riferimento alla più grande componente riformista», cioè quella socialista, «riorganizzi il campo del centrosinistra europeo». Scenari complessi. Intanto Migliavacca è andato via cupo: «Dalle minoranze non è venuta nessuna proposta alternativa».
C'è già aria di congresso. Mussi solletica la platea: «Lo faremo per vincerlo». E aggiunge: «Non chiamateci scissionisti». La minoranza si prepara a occupare un posto al sole: quello di chi non vuole lo scioglimento del partito e guarda gli altri prendere la via della porta. Ma alla fine peseranno i numeri. Per questo Mussi chiede «regole occidentali» per il congresso e «tessere trasparenti». Ma non è un mistero che contemporaneamente si stia preparando una fondazione per rilanciare l'iniziativa politica parallelamente al partito. In platea oltre ad Alfredo Reichlin al quale Mussi si rivolge per dire che l'eredità di Gramsci e Berlinguer non può finire nel Pd, anche Armando Cossutta ormai definitivamente fuori dal Pdci e Gennaro Migliore, capogruppo alla camera del Prc e dunque osservatore interessato al destino della sinistra Ds. Con gli occhi anche lui al congresso, Valdo Spini - la new entry laburista che arriva direttamente dalla maggioranza fassiniana portando in dote un'icona socialista, il quasi novantenne Giovanni Pieraccini, partigiano e ministro del primo centrosinistra di Moro - è il più esplicito nell'invito a Gavino Angius e agli altri diessini di maggioranza che hanno firmato un documento molto critico con il Pd. «Le vostre obiezioni e le vostre raccomandazioni le condividiamo - dice Spini - ma non c'è speranza che vengano tenute in conto dalla maggioranza. Allora dovremmo confrontarci e magari convergere».
Al momento tra Angius - ieri assente, ma del gruppo c'erano Massimo Brutti e Giuseppe Caldarola - e la sinistra il dialogo stenta. Ma potrebbe cambiare tutto con la discesa in campo di Walter Veltroni. Il sindaco di Roma è pronto a rilanciare la prospettiva ulivista. Di fronte alle difficoltà del Pd, lanciato verso un fallimento che finirebbe col coinvolgere Romano Prodi, a riprendere la centralità della scena sarebbe a quel punto l'alleanza in luogo del partito unico. Sembra che a Massimo D'Alema la prospettiva spiaccia molto meno che a Piero Fassino.

il manifesto 12.11.06
Lo spazio aperto nell'orizzonte dell'imprevisto
Il Principe e noi «Machiavelli: immaginazione e contingenza», da un seminario a Urbino un libro collettaneo
Adriano Vinale


Volendo riprendere la metafora usata nell'introduzione al libro collettaneo curato da Filippo Del Lucchese, Luca Sartorello e Stefano Visentin Machiavelli: immaginazione e contingenza, Ets, pp. 260, euro 18), si può veramente pensare a Machiavelli come a un autore che «si mangia a strati fino ad arrivare al cuore, alla parte più buona». Il che lascia intendere che la schizofrenica storia interpretativa del Fiorentino sia finalmente, con noi, con il nostro tempo, giunta alla sua maturazione. Ma la domanda-corollario è, parafrasando il titolo del libro di Althusser: perché Machiavelli e proprio noi? Certo è che di Machiavelli stiamo riattivando la concettualità, per disporre di strumenti di ermeneutica del presente. Una controprova, triviale al massimo grado, sta in due libri in commercio: Machiavelli per i manager e Il «Principe» dei neocons. Un'altra, di segno inverso, è appunto nel seminario urbinate che tra il 2003 e il 2004 ha coinvolto gli autori del libro (oltre ai curatori, Fabio Frosini, Vittorio Morfino, Fabio Raimondi e Venanzio Raspa). Ma qual è la verità (machiavelliana) che esprime la (nostra) realtà? Qual è il vuoto che va colmato? Lo ricorda uno degli autori: «Il vuoto non è mancanza, non è assenza di qualcosa che dovrebbe essere presente ma si è assentato, bensì lo spazio in cui le cose possono in-contrarsi». La domanda cui questo libro tenta allora di dare una risposta, che sia al contempo una posizione, riguarda lo statuto dell'evento politico.
Una questione ritornante nell'intero volume, è senza dubbio intorno alla definizione di verità effettuale. In Machiavelli, oltre Machiavelli. La domanda la pongono in forma diretta gli interventi di Raimondi - che ragiona sulla costituzione del paradigma-Firenze nelle Istorie - e di Raspa - che lavora analiticamente sul capitolo XV del Principe -: come si scrive la storia? Lo sfondo teorico è il rapporto di Machiavelli con la storia di Roma e di Firenze, ma coinvolge immediatamente il rapporto tra storia e politica. La storia la scrive solo chi la fa. Meglio, la si ri-scrive ogni volta che la si fa. Solo a queste condizioni si può ancora parlare di verità. Possiamo esemplificare con l'immagine di Benjamin, autore che però non compare mai nel libro: «Nella Rivoluzione di Luglio è accaduto un episodio in cui la coscienza storica si è fatta valere. Giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili». Non c'è verità senza posizione, non c'è storia che non sospenda per intero il corso normale del tempo storico, che non lo destituisca in un'irresistibile urgenza di presente. Se ogni verità emerge in questo vuoto d'essere, non è certo perché esiste il vuoto, ma perché si manda a vuoto l'essere con l'azione rivoluzionaria.
Ed è qui che sorge il problema cruciale. Perché è chiaro che l'azione politica produce uno scarto. In fondo è questa la prima lezione di Machiavelli. Il suo principe riconosce la strutturale affettività dell'agire umano e inscrive la propria azione in questa contingenza. Produce così una forzatura (lo ricorda Frosini nella sua lettura del Principe) che apre un intervallo d'essere, come segnala Sartorello nel suo contributo sull'umanesimo civile nel '400 italiano. Il principe machiavelliano è un principio di azione politica strutturalmente rivoluzionaria perché forza l'essere e lo apre all'emergenza del presente. Anche Badiou (altro autore con cui un confronto sarebbe forse utile) lo ha scritto riprendendo la storia della Comune di Parigi: «Un evento ha, come conseguenza massimamente vera della sua intensità (massima) d'esistenza, l'esistenza di un inesistente». Il problema diventa allora come produrre un'azione comune nella disseminazione affettiva che costituisce l'orizzonte storico materiale. Perché è chiaro che affetti differenti hanno tempi differenti - su questo insiste Morfino nel suo saggio su Machiavelli e Spinoza. La soluzione che sembra emergere dalla maggior parte degli interventi è quella di concepire il principe come dispositivo politico della moltitudine, come catalizzatore della sua disunione originaria in immaginazione collettiva. Ma questa funzione profetica - come suggerisce Visentin nel suo lavoro sul repubblicanesimo olandese - assolve a un compito ideologico. Bisogna allora intendersi sullo statuto ontologico dell'affettività. Se questo significa che l'azione politica va fondata su di un pieno d'essere, non ci sono obiezioni. Ma il piano affettivo definito ontologicamente si rende disponibile anche all'aggressione del potere sociale. Il desiderio è intercettabile e modulabile, traducibile in bisogno, questo hanno insegnato Marx e Foucault. È perciò che non si può dimenticare lo scarto che ogni azione politica (rivoluzionaria) produce e deve produrre nel continuum della storia. Riscrivendola, deviandola, portando a esistenza l'inesistente, materializzando lo spettro, mandando a vuoto l'organizzazione presente per guadagnare presenza. Facendo accadere l'in-immaginabile.
È questo il problema epocale, per cui Machiavelli e proprio noi. Lo indica Del Lucchese, interrogandosi sul rapporto tra crisi e potenza. Per Machiavelli la forza politica di una città - ma potremmo dire della democrazia in generale -, è a proporzione diretta con la sua capacità di sostenerne e integrarne i conflitti endemici. La crisi, dunque, è quel vuoto di struttura da cui solo può germinare azione politica. Ed è proprio questo vuoto l'obiettivo dell'azione politica. Per Machiavelli quest'azione è il potere costituente che il principe intercetta e rappresenta. Oggi si tratta piuttosto di un potere destituente della moltitudine, ammesso che sia questa la figura da assumere. Capacità di dis-organizzare il regime vigente di produzione (materiale e simbolica). Forza di critica e crisi dello statuto liberale delle democrazie moderne. Potere in-consistente, all'altezza dell'evenemenzialità e contingenza di ciò che accade. Insomma, la lezione magistrale di Machiavelli è che l'azione politica autentica è solo quella assolutamente imprevedibile e improgrammabile, senza possibile strategia di soggettivazione stabile (che sia il partito o la classe). Accade solo l'impensabile, l'impossibile. Come stare a questa altezza politica? Questa è una domanda che ancora ci riguarda.

Repubblica 12.11.06
Bertinotti: "Nessuna crisi in vista"
Bersani difende il premier: "Le sue parole, uno sfogo d'amore"
Il centrosinistra difende le parole pronunciate dal presidente del Consiglio sulla finanziaria
Mastella: "Le fibrillazioni nella maggioranza sono naturali, si illude chi spera nella fine dell'Esecutivo"
di Carmelo Lopapa


ROMA - In fondo è stato solo uno «sfogo d´amore», per dirla col ministro Bersani. Non certo un segno di resa, perché «non c´è nessun fattore di crisi del governo», si è affrettato a precisare il presidente della Camera Bertinotti dopo il voto contrario del "suo" ministro Ferrero sul tfr che tanto allarme aveva destato nella maggioranza. Certo è che il j´accuse di Prodi sul «Paese impazzito che non pensa più al domani», oltre ad aver scatenato le reazioni polemiche del centrodestra, sembra aver colto di sorpresa anche gli alleati dell´Unione.
I ministri fanno quadrato, così pure la Margherita. Ma la Cdl non si illuda che il governo possa cadere, «perché alternative all´esecutivo Prodi non ce ne sono», ha avvertito il leader e ministro Udeur Mastella. Ancora più schietto il leader del Pdci Diliberto, per il quale le larghe intese restano uno spettro da cacciare via in fretta: «Se cade Prodi, si va a una soluzione peggiore, dunque è bene sostenere questo governo, anche se dall´interno lo facciamo con spirito critico».
Bertinotti che giorno dopo giorno tiene ormai il punto su ogni nodo spinoso del dibattito politico (dall´Iraq alla Finanziaria) ha circoscritto la portata del dissenso di Ferrero sulla previdenza. «Non c´è nessun fattore di crisi - ha spiegato - è stato solo il voto di un ministro, nel consiglio dei ministri c´è una persona e non un partito». E dunque, l´ipotesi avanzata dalla Cdl di una crisi legata al dissenso è stata definita «francamente infondata» dal presidente della Camera, «perché il governo ha una responsabilità collegiale». D´accordo anche il diretto interessato Ferrero: «Prodi ha ragione, non c´è nessun elemento di crisi». Ma se le polemiche sul voto contrario in seno al governo sembrano attenuarsi, a tenere banco sono le parole del premier. Niente più che «sfoghi d´amore, appelli a guardare il futuro» per il ministro per lo Sviluppo, Bersani. Il governo sta solo «togliendo qualche spina al futuro per metterla al presente, per aiutare le nuove generazioni». Secondo il diessino padre delle liberalizzazioni sono «ridicoli» i contrasti esplosi in questi giorni tra riformisti e radicali» all´interno del governo. Anche il suo collega di governo e di partito, Fabio Mussi, ha confessato di capire le parole di Prodi, perché il premier «sente il peso di un passaggio niente affatto semplice». È anche vero che «caratteristica di questo governo sarà sempre quella di convivere con le fibrillazioni» ha riconosciuto Mastella. «Ma quando la dialettica si trasforma in conflitto, allora è la fine. Si illude comunque chi pensa che il governo possa cadere, anche perché alternative a Prodi non ce ne sono». Il ministro Fioroni all´attacco dell´opposizione: «Stia zitto chi ci ha lasciato lo sfascio».
Dà ragione al premier Castagnetti: «Con l´impazzimento alludeva alla perdita del senso dell´unità». Molto più cauto il radicale Capezzone: «Il vero impazzimento sta nel fatto che i governi si ostinino a rinviare le riforme strutturali».

Repubblica 12.11.06
Il segretario di Rifondazione Comunista: "Sul Tfr è mancata collegialità. Non lo consentiremo sulla previdenza"
Giordano: "Noi non facciamo strappi ma saremo la sentinella delle pensioni"
La concertazione non basta Non basta la concertazione con i soli sindacati, come è avvenuto per il tfr. Prima la maggioranza deve trovare l'intesa al suo interno
bussola e collegialità Niente manovre da parte nostra ma la bussola del governo e lo spirito di coalizione non vanno smarriti, come qualche volta accade
di Umberto Rosso

ROMA - Un altro strappo di Rifondazione, onorevole Giordano?
«Nessuno strappo politico sul Tfr. Voglio essere chiaro: non ci sono critiche a Prodi nel «no» del ministro Ferrero al decreto legge. Il dissenso riguarda un punto specifico, e che da tempo avevamo sollevato: la possibilità che anche l´Inps possa far da gestore per le pensioni complementari».
E invece che cosa è successo?
«Che è arrivato in Consiglio dei ministri un testo non concordato con tutta la maggioranza. »
Vi siete sentiti tagliati fuori?
«Non dico questo. Ma penso che su alcuni temi, soprattutto quelli che debordano dal programma, serva un confronto approfondito per poter poi trovare delle mediazioni. Niente trame e manovre da parte nostra. Ma la bussola del governo e lo spirito di coalizione non vanno smarriti, come qualche volta invece accade. La collegialità è il collante dell´intera Unione».
Ecco che riaffiorano i malumori.
«Insisto, Prodi stia tranquillo. Ma se c´è collegialità cade la tentazione di qualcuno di costruire delle gerarchie nel programma».
E cioè?
«Qualcuno fa i provvedimenti e qualcun altro è chiamato solo ad accettarli. Tanto per fare un esempio, che sarebbe successo in Consiglio dei ministri se Ferrero si fosse presentato con un testo sull´emigrazione concertato con le organizzazioni dei migranti?».
Il ministro Damiano però aveva firmato da mesi un memorandum con i sindacati sul Tfr.
«Non basta la concertazione con i soli sindacati. In primo luogo è la maggioranza di governo che al proprio interno deve trovare una posizione condivisa, poi a quel punto sedersi al tavolo con i sindacati. Che, secondo me, a loro volta, dovrebbero prima del confronto con il governo trovare una piattaforma comune, promuovendo un largo confronto con i lavoratori. Non è esattamente ciò che sempre accade, ma mi piacerebbe fosse così. Ed è un´idea che vedo circolare».
Sta pensando alla battaglia di gennaio sulle pensioni, onorevole Giordano?
«Dopo la Finanziaria, è evidente che ci troveremo di fronte al grande nodo della previdenza. Io credo che il metodo giusto per affrontarlo sia quello che ho appena delineato. Con il programma come bussola, Rifondazione sarà la sentinella della unità e della collegialità del governo».
Prodi però è arrabbiato con gli italiani «impazziti» che non pensano al futuro. Ce l´ha anche con il ministro Ferrero e con il Prc? «Non vedo perché, visto anche che non siamo certo noi il partito che predica il rigore. Ma è vero che l´Unione non riesce a rivendicare le tante buone cose che ci sono in questa manovra».
Ferrero tuttavia è recidivo nei «no» a Prodi. Il Dpef, il Mose.
«E basta. Solo in tre occasioni, compreso il Tfr, il ministro della Solidarietà sociale ha votato in modo differente in Consiglio dei ministri. Sul Dpef un´astensione più che giustificata dai contenuti di quel documento, che poi infatti ha subito notevoli modifiche. E sul Mose c´è l´opposizione perfino del sindaco di Venezia Cacciari, che non mi pare un pericolo sovversivo. Insomma, nessuno si inventi un nostro dissenso politico contro Prodi».
Funziona anche la Finanziaria del governo?
«Dovremmo far emergere con forza gli aspetti positivi della manovra, finora non ne siamo stati capaci. E svelare le contraddizioni del centrodestra, le loro divisioni, far capire di quali e quanti aspetti impopolari Berlusconi vorrebbe infarcire la manovra, dalla sanità alla scuola, alle pensioni».
Sta dicendo che è meglio non chiedere il voto di fiducia?
«Un dibattito in Parlamento ci consentirà di portare allo scoperto tutte le mistificazioni dell´opposizione».

Repubblica 12.11.06
Mussi: no al Partito democratico. Salvi: dirigenti da cambiare. La replica di Migliavacca: Fassino merita rispetto
La sinistra Ds: "Al congresso sarà battaglia"

ROMA - Hanno scaldato i motori al suono dell´"Internazionale" in versione jazz, sostenuti dagli applausi di tremila iscritti arrivati alla Fiera di Roma da tutta Italia, dal Trentino alla Sicilia. Ma la partita, quella vera, la sinistra diessina si prepara a giocarla al congresso di primavera, quando proverà a far pesare il suo «no» al Partito democratico.
Intanto, un primo risultato Fabio Mussi e Cesare Salvi, Fulvia Bandoli, Valdo Spini e Claudio Fava lo hanno incassato già ieri pomeriggio. Proprio nel padiglione affollato oltre ogni attesa hanno archiviato una volta per tutte le varie correnti di minoranza per dare vita a un unico manifesto, preludio della futura mozione «A sinistra, per il socialismo» alternativa alla maggioranza di Fassino e D´Alema. Sarà pronta a gennaio. Proprio Mussi sarà con molta probabilità il candidato naturale per contendere la segreteria. Ha chiesto fin d´ora voto segreto e vigilanza sulla «consueta proliferazione delle tessere a ridosso del congresso». Obiettivo: superare il 20 per cento delle minoranze, sfiorare magari il 30 per cento, un terzo del partito, provando a mettere in difficoltà la leadership diessina che dà per scontato il non ritorno dal progetto del Pd.
In prima fila, ad ascoltare i big dell´ala sinistra, pezzi ormai critici della maggioranza interna. Massimo Brutti («Osservatore interessato, anche se non condivido il no categorico al progetto unitario») e l´ex dalemiano Caldarola. Nelle vesti di ambasciatori il coordinatore Migliavacca e il presidente della direzione Reichlin, andati via anzitempo. L´ex presidente del Pdci Armando Cossutta, più che interessato («Sono per una grande sinistra, quindi guardo con attenzione») e un cauto capogruppo del Prc Migliore ( «Rispetto il travaglio interno ai Ds»). «Il "Correntone" non c´è più, si apre una fase nuova - ha arringato Mussi, assai applaudito - Siamo nei Ds e andiamo uniti al congresso, non per rendere testimonianza ma per vincerlo. Nessuno osi chiamarci scissionisti. Diamo Stalin per seppellito per sempre». Cesare Salvi il più critico contro i leader: «Quando un partito va male alle elezioni si cambiano i dirigenti. Da noi, sebbene siamo passati dal 21 al 16, i dirigenti vogliono mandare a casa il partito». Quel gruppo dirigente, gli ha replicato Migliavacca, «merita rispetto perché ha vinto tutte le elezioni». Nel mirino di tutti, prevedibile, il secco no di Rutelli all´ingresso del Pd tra i socialisti europei, famiglia che nessuno a sinistra vuole abbandonare. Mussi «Non capisco perché dobbiamo affannarci per farlo diventare socialista quando lui vorrebbe farci democristiani».
(c.l.)

Liberazione 12.11.06
Il principale quotidiano italiano è diventato l’organo di un superpartito della borghesia-forte e svolge il suo mestiere con furia
e in modo organico: in tutte le pagine, in tutti i titoli. Sogna la grande coalizione ed è ossessionato da Rifondazione comunista
La metamorfosi del “Corriere della sera”
da giornale moderato a carrarmato
Rina Gagliardi


Verrebbe quasi voglia di lanciare un allarme, se la pratica non fosse abusata o usata per lo più a sproposito. Il tema, anzi il “caso”, è quello del “Corriere della Sera”, il più importante e il più autorevole dei quotidiani italiani: che cosa gli sta succedendo? Un tempo, storicamente, il “Corriere” era il più istituzionale e moderato dei giornali nazionali - lo leggevamo come il vero, grande “organo della borghesia”, sicuri comunque di non imbattersi quasi mai in furori ideologici, storture, sgrammaticature. Più tardi, esso fu capace anche di innovazioni rilevanti (a cominciare dai “profetici” articoli di Pier Paolo Pasolini), fino a diventare, nella sapiente direzione di Paolo Mieli, uno strumento quasi insostituibile per orientarsi nella politica italiana - e non solo. Tale rimane, anzi, tale rimarrebbe a tutt’oggi, se non fosse in corso, quotidianamente palpabile, un pericoloso processo di stravolgimento. Non si tratta soltanto dell’orientamento politico (dal quale eravamo, e siamo, naturalmente distanti), ma del carattere profondo del “Corriere” - forse del suo stile, del suo modo d’essere. Da paludato e perfino, talora, un po’ “anodino” e freddo, è diventato militante - caldo, quasi bollente. Da moderato si va facendo fazioso. E da osservatorio qualificato dei grandi fatti del mondo è precipitato quasi per intero nelle piccinerie della provincia italiana, specie in quelle dei palazzi e palazzotti. In breve: un grande giornale liberale e d’opinione si sta trasformando in un bollettino di partito. Anzi, di Superpartito. Quale? Il Superpartito che non c’è e che come tale forse non ci sarà mai. Il “Terzo Polo” tra gli sgangherati poli dati. Il Bipartisan allo stato puro. La nuova stagione di una nuova unità nazionale, capace di realizzare la famosa “modernizzazione” neoliberista che nè il centrodestra berlusconiano nè tanto meno l’Unione oggi al governo sono in grado di portare a compimento.

Chiariamo subito una questione. In sè e per sè, questo progetto, questa propensione, questa - chiamiamola pure col suo nome - linea politica nè ci sconvolgono nè ci scandalizzano. Esse hanno precisi riferimenti nel potere economico (la Confindustria di Montezemolo e\o la Bankitalia di Draghi), nella società italiana (i famosi “ceti medi produttivi” in cerca permanente di riscossa), nel ceto accademico degli economisti (Giavazzi, Ichino, Nicola Rossi, tutti pronti ad accettare, nel senso dell’accetta, i corpi sociali così detti “improduttivi”), nella politica (il lato destro dell’Unione e quello “moderato” dell’ex-Cdl, non esclusi i più alti livelli istituzionali). Vuol dire che, al minimo, non si tratta certo di idee improvvisate, o campate in aria. E che siamo sul terreno, pienamente legittimo, della battaglia politica (ed editoriale, visto che il “Corriere” deve comunque muoversi tra varii fuochi, e vincere non solo l’eterna guerra con la “Repubblica” ma l’agguerrita concorrenza, a destra, di fogliacci come “Libero” e “Giornale”). Ma perchè mai un tale programma assume le sembianze di un’ossessione quotidiana, che informa di sè l’intero “Corriere”, la gerarchia delle notizie, commenti ed editoriali, interviste e inchieste? Ecco dove sta il pericolo della regressione faziosa: quando tutto, ma proprio tutto, fin quasi alle notizie a una colonna, diventa funzionale ad una tesi precostituita, a dimostrarla e anzi ad irrobustirla. Quando, insomma, l’ideologia inghiotte e divora la voglia di informare. Volete un esempio, tratto, giust’appunto, dal “Corriere” di ieri, sabato 11 novembre 2006? Non è un quotidiano d’opinione, ma un bollettino di guerra su e contro Rifondazione comunista. Si comincia con l’editoriale sulla “rimozione di Nassirya”, nel quale Panebianco accusa il presidente della Camera di esser stato contro la missione militare in Iraq, di averla considerata una missione di guerra e non di pace, e soprattutto di non aver cambiato idea. Si prosegue con il titolo di apertura, dedicato allo “strappo” del Prc sul Tfr. E con il taglio centrale, nel quale si dà notizia di un libro scritto da Giorgio Napolitano: “Riforme con le intese più larghe”, ecco la casuale titolazione. Altri articoli di prima pagina dal sapore innocente: un ritrattone, nientemeno, che del senatore argentino Pallaro, che “sogna il Grande Centro”, e il manifesto in sette punti di Francesco Rutelli, che propone la privatizzazione di tutto, aria (per ora) esclusa. Non crediate che la costruzione finisca lì, in prima pagina: una news analysis, alle pp.2-3, ci narra della paura dei Ds sull’”asse che sta crescendo tra Prodi e sinistra radicale”; una pagina intera, la 6, è tutta a favore del Mose; la pagina 7 è appaltata al presidente della Margherita; alla 11, troviamo la cronaca delle dichiarazioni di Bertinotti (ancora definite “sorprendenti”), incorniciate, in alto, da una frase di Franco Giordano (la proposta di ritirare le nostre truppe dall’Afghanistan e dirottarle sul Medio Oriente), e chiosate da un’intervista di Monsignor Fisichella nonchè dalla nota di Massimo Franco (“La politica estera oppone Rifondazione al Quirinale”). Fermiamoci qui. Il ruolo politico del Prc, certo, da questa articolata cronaca della giornata politica, esce esaltato fino allo spasimo, fino al punto da sovrastare ogni altra soggettività - e non è certo la prima volta, da quando Prodi si è insediato a palazzo Chigi. Ora, di primo acchito (e da un’ottica puramente mediatico-propagandistica) operazioni come questa possono apparire, perfino, lusinghiere. Ma non ce ne sfugge, in realtà, il “venenum” profondo e la pericolosità. Per destabilizzare una maggioranza (che ha notoriamente già molti problemi per conto suo), per minarne la credibilità, per seminare nel senso comune (non solo borghese) l’idea che prima ci si libera di questo governo e meglio è, che cosa c’è di meglio che non rappresentarlo come uno strumento debole, diviso, confuso ma soprattutto“nelle mani” dei comunisti e della sinistra radicale? Qui c’è la forzatura ideologica. Qui scatta la “disinformatsja” sistematica. Qui il “Corriere” autoviolenta la sua lunga tradizione di equilibrio. E’ vero che il Prc pesa nelle scelte dell’Unione e cerca, come può, di condizionarle - potrebbe essere diversamente, trattandosi della seconda forza della coalizione, sia per voti e parlamentari conquistati, sia per lucidità politico-programmatica? Ma non è certo vero che siamo ad un passo dal governo dei soviet, come risulta dalla Legge Finanziaria, e da molte altre e non inessenziali scelte di politica sociale, di politica economica, di politica estera.

Il direttore del “Corriere” tutto questo lo sa molto bene - ma oggi appare più amico della sua linea politica che non della verità. In effetti,. all’obiettivo dell’abbattimento di Prodi, il “Corriere” ha dedicato i suoi ultimi cinquanta editoriali - l’uno dietro l’altro, implacabili come la neve in alta montagna d’inverno, inesorabili come la sveglia mattutina. E non. risparmia mezzi, come il sostegno attivo al referendum Guzzetta - quello che, secondo l’arguta definizione di Cesare Salvi, trasformerebbe il “porcellum” in un “superporcellum”, attraverso la brutale semplificazione biparittica che ne sarebbe la logica conseguenza. Un’Italia con due soli partiti di centro, uno guidato da Casini e l’altro da Rutelli, e tutti e due eterodiretti dal professor Monti. Una “coalition of willings” in permanenza a palazzo Chigi. Un Fini, magari, al Quirinale, e un paio di volenterosi “democrats” alle altre istituzioni. Chissà se in questo scenario da incubo il “Corriere” tornerebbe ad essere quel giornale rassicurante che tanto ci era caro..

Liberazione 12.11.06
Gara di cinismo nei partiti di destra e di centro, e anche nel governo, verso un provvedimento saggio e fondamentale per il funzionamento della Giustizia. Lo chiedono anche i giudici ma non è utile al potere
Chissenfrega dell’amnistia. E i garantisti? Scomparsi
Piero Sansonetti


Quest’estate il Parlamento ha approvato l’indulto - cioè lo sconto di pena per i detenuti e per i condannati al carcere - con una maggioranza molto larga, di oltre i due terzi (la legge chiede questa maggioranza, cioè un accordo che vada oltre gli schieramenti di destra e sinistra, per approvare provvedimenti di clemenza).

E’ stato difficile ottenere i due terzi dei voti alla Camera e al Senato. Ci si è riusciti perché si sono incontrate spinte diverse. Quella delle correnti politico-culturali più garantiste - sia nel campo liberale che in quello della sinistra - quella dei settori cattolici condizionati dalle pressioni che erano state esercitate da Giovanni Paolo II, e quella di pezzi - meno limpidi - del partito, diciamo così, di Tangentopoli, cioè degli amici di uomini politici o di “potenti” nei guai con la giustizia che cercavano una via personale d’uscita. Questa alleanza ha prodotto un provvedimento che io ritengo sacrosanto, che questo giornale (quasi da solo) ha appoggiato con molto impegno, sulla base di considerazioni politiche, di principio e umanitarie, pur sapendo bene che settori vastissimi - largamente maggioritari - di opinione pubblica, e anche di nostri lettori, erano assolutamente contrari. Mi è capitato nei mesi scorsi, spesso, di discutere animatamente con questi lettori, coi nostri compagni, con il risultato - di solito - di restare ciascuno sulle proprie posizioni.

Ma oggi il problema non è questo, cioè non riguarda i nostri dissensi (sull’idea di giustizia, di pena, di perdono, di vendetta, di risarcimento, eccetera), riguarda invece l’ineguagliabile spettacolo di cinismo offerto dalla maggior parte del mondo politico di fronte amnistia.

Cosa è successo? Semplicemente questo: in tutta la storia repubblicana, indulto e amnistia sono stati provvedimenti legati uno all’altro; si concede l’indulto e si concede l’amnistia. Qual è la differenza tra queste due misure? La prima estingue la pena, la seconda estingue il reato. Non cambiano molto le cose per quel che riguarda le condanne già passate in giudicato (processi chiusi, pena ridotta o cassata e stop). Cambiano le cose, invece, per i processi in corso e quelli ancora da cominciare. I processi che riguardano reati che saranno puniti con pene lievi, coperte dall’indulto, in assenza di amnistia dovranno comunque svolgersi, e avranno due possibili conclusioni: o l’assoluzione dell’imputato o la condanna a una pena non applicabile.

Il Consiglio superiore della Magistratura ha fatto notare questa incongruenza e su questa base ha sollecitato l’amnistia. Dicono i giudici: «Il 90 per cento dei processi che svolgeremo nei prossimi anni saranno inutili perché non possono erogare pene. Cancelliamo questi processi, alleggeriamo il nostro lavoro e le cose funzioneranno meglio».

Ora, è chiaro che si possono avanzare varie obiezioni alle argomentazioni dei giudici. Prima obiezione: i processi non servono solo ad erogare pene ma anche assoluzioni. Seconda obiezione: i processi, in caso di colpevolezza, non producono solo anni di carcere ma anche risarcimenti alle vittime. Terza obiezione: i giudici non dovrebbero chiedere leggi, ma applicarle. Quando i giudici si impicciano nel potere legislativo non è mai un bene, come non è un bene quando il potere politico cerca di condizionare i giudici.

Detto tutto questo, il problema esiste ed è chiarissimo. L’amnistia va varata perché il buonsenso dice che è utile. Chi si oppone all’amnistia lo fa esclusivamente per una ragione: ritiene che possa scalfire i consensi del proprio partito. E allora se ne frega della ragionevolezza, se ne frega dei principi, se ne frega anche dei proclami di garantismo dei quali era stato autore negli anni passati. Di fronte all’amnistia, a parte la sinistra radicale e i centristi dell’Udc, i garantisti sono scomparsi. Come è possibile? E sono scomparsi - sembrerebbe - anche i programmi di governo. L’Unione aveva sottoscritto l’impegno all’amnistia: perché ora il governo non se ne fa carico?

Naturalmente non è che sia tutto così semplice. Non si scrive un provvedimento di amnistia in cinque minuti, bisognerà calibrarlo bene e risolvere, ad esempio, il problema dei risarcimenti e altre questioni giuridiche complicate. Ma l’esistenza di questi problemi non è una buona ragione per infischiarsene dei propri principi e degli impegni assunti prima delle elezioni.