sabato 2 dicembre 2006

Repubblica 2.12,06
Stop alle distinzioni fra marito e convivente. Il ministro: difendiamo le donne e chi subisce discriminazioni
Le donne vittime
Stupri, molestie e violenze in casa giro di vite e condanne più dure
Il piano della Pollastrini: aggravanti per il coniuge
di Concita De Gregorio


Via libera all'utilizzo delle intercettazioni ambientali e telefoniche durante le indagini
L'insulto o la violenza contro un gay diventa aggravante di reato Più tutela della vittima durante il processo

ROMA - È una sorpresa trovare nella stanza del ministro Barbara Pollastrini, Diritti e Pari opportunità, il pubblico ministero Silvia Della Monica celebre per essersi occupata non senza difficoltà anche personali di "mostro" quando lavorava a Firenze e di massoneria a Perugia. «Il nostro capo dipartimento», la presenta il ministro. Della Monica ha sulle ginocchia la cartellina che contiene il nuovo disegno di legge contro la violenza domestica, i maltrattamenti e le molestie persecutorie a sfondo sessuale. Una legge che vuole difendere le donne e tutti i «discriminati per ragioni sessuali», gay e trans inclusi. Siamo qui a parlare, in anteprima, proprio di questo: il testo sarà portato in consiglio dei ministri entro dicembre, è stato studiato di concerto con il ministro della Giustizia Clemente Mastella, è ispirato al modello spagnolo (quella sulla violenza domestica è stata la prima legge del governo Zapatero). La legge italiana prevede pene più severe per la violenza che avviene tra le mura domestiche con aggravante se a commetterla è il coniuge o - assai importante - il convivente. Un´apertura alle coppie di fatto, altro tema in calendario al ministero. Dunque: fino a sei anni di carcere, pena che consente l´uso delle intercettazioni telefoniche e ambientali durante le indagini. Per la prima volta, inoltre, una legge si occupa delle molestie persecutorie (telefonate, sms, pedinamenti, lettere, mail), in inglese "stalking": pene da uno a quattro anni aumentate di un terzo se le minacce sono gravi con possibilità, anche in questo caso, di utilizzare le intercettazioni in deroga alla norma generale. Misure cautelari decise dal giudice per interrompere le persecuzioni che arrivano fino agli arresti domiciliari o al carcere per il molestatore. Fino ad oggi era un reato da contravvenzione, 516 euro di ammenda: la differenza è radicale. Inoltre, estensione della legge Mancino contro le discriminazioni razziali, etniche e religiose anche all´orientamento sessuale e all´identità di genere: l´insulto o la violenza contro un gay diventa aggravante di reato e reato in sé. Si aggiungano la maggiore tutela della vittima nel processo (potranno testimoniare una sola volta nel corso delle indagini preliminari con l´incidente probatorio, cosa che riduce il disagio del teste oltre che i tempi del processo) e nessun faccia a faccia con l´aggressore. Un osservatorio permanente in cui saranno coinvolti anche i centri antiviolenza (tre milioni di euro stanziati in Finanziaria) sarà attivo al ministero.
È la prima legge concepita in queste stanze «in intesa con i ministri di Giustizia, Lavoro, Interni, Famiglia, Politiche sociali, Scuola e Comunicazione», dice Pollastrini. Sarà varata dal consiglio dei ministri e poi sottoposta al Parlamento dopo la Finanziaria «e soprattutto dopo che qui abbiamo definito bene la missione, i confini di competenza e le forze disponibili al ministero». Prima di tutto quindi Pollastrini si è occupata delle deleghe: con un decreto del 19 luglio ha avuto tutte le deleghe nazionali e internazionali in materia di Diritti umani e sociali. Di seguito il gruppo di lavoro: sono arrivati il pm Della Monica, Stefano Ceccanti a capo dell´ufficio legislativo, l´ex sindaco di Modena Alfonsina Rinaldi ad occuparsi della segreteria politica, Marcella Ciarnelli dall´Unità a far da portavoce, l´ex senatrice ds Graziella Pagano per i rapporti istituzionali. «Poi, vista la coperta stretta della Finanziaria, abbiamo dovuto fare delle scelte. Primo, i diritti umani e dunque il programma contro la tratta degli esseri umani e il rifinanziamento di quello contro le mutilazioni genitali. Secondo, un piano d´azione contro la violenza alle donne e alle identità di genere». Qui il ministro sospira. «La verità è che le élites e le classi dirigenti, anche nel centrosinistra, non hanno capito bene cosa rappresentino le donne oggi. Non hanno colto per esempio fino in fondo il senso del discorso di Clinton a Blair: "dobbiamo passare completamente all´epoca delle pari opportunità". Non hanno capito che senza l´espansione della funzione attiva delle donne non si riuscirà a rivoltare il paese, a renderlo più dinamico tollerante rispettoso e non ci sarà vera crescita. Noi dobbiamo trovare la via italiana fra il modello Sègolene Royal e il quello delle quote: una via fatta di regole, libertà e responsabilità».
Regole, in primo luogo. «Perché nel comitato di bioetica, che decide delle sorti del corpo delle donne, non ci devono essere tante donne quanti uomini? Perché non alla Corte costituzionale, tra i direttori e i vice della Rai, nelle aziende? In Spagna in Francia, in Giappone ci sono piani per raggiungere il 65 per cento dell´occupazione femminile, da noi siamo al 45, al sud al 27». Ecco allora una prima misura, già approvata in Finanziaria e in vigore da gennaio: le aziende delle «aree svantaggiate» (soprattutto dunque al Sud) che assumeranno una donna avranno un risparmio ulteriore, con l´Irap, di 150 euro al mese per lavoratrice. «In Svezia in Germania e nel Nord Europa ci sono leggi che puntano ad avere nell´arco di 7-8 anni almeno il 40 per cento di donne nei cda delle società quotate in borsa. Il 10 per cento all´inizio e poi ad aumentare, con incentivi e premi, con beneficio economico per chi lo fa. Cominciamo a pensarci anche noi. Per ogni dirigente donna uno sgravio fiscale. Penso però anche ai Tar, alla Banca d´Italia: l´assemblea di Bankitalia è uno spettacolo deprimente da questo punto di vista, e l´obiezione che già sento che non ci sono donne di qualità a quell´altezza è l´ultimo grande bluff degli uomini che detengono il potere. Posso fornire elenchi lunghi così di economiste e filosofe della scienza, di magistrate e analiste di primissimo livello. Arginiamo la fuga all´estero, questo patrimonio è la nostra vera risorsa».
La legge contro la violenza, allora. «Si comincia da qui, si deve abbattere il muro della vergogna e dell´impunità. È una questione anche di cultura. Col ministro Fioroni siamo d´accordo per studiare un piano che inserisca i temi della non violenza e del rispetto della persona nei programmi scolastici, con Gentiloni parleremo presto di codici per la Rai e per il mondo delle comunicazioni. Bisogna però anche, insieme, punire. Rendere socialmente odioso quel che ancora è in qualche modo tollerato. In Italia un omicidio su quattro avviene in casa, ogni tre morti violente una è una donna uccisa dal marito, dal convivente. Ogni giorno almeno 7 donne subiscono violenza. Allora: non devono più essere tollerate le molestie continuate e gravi in famiglia, nei luoghi di lavoro, per strada. Chi fa violenza a gay, lesbiche, transessuali a causa della loro identità deve essere punito. Se il violento è un parente o un convivente la circostanza è più e non meno grave. Si parte da qui: da una grande e coraggiosa sferzata, serve uno sguardo laico e fiducioso». Sembra un augurio rivolto soprattutto ai suoi colleghi di governo. Sono giorni in cui le donne ds si scontrano - Turco contro Serafini - per la legge sulla droga. «Io non capisco perché se discutono due donne è un litigio e se lo fanno due uomini è un confronto. Gli uomini passano il loro tempo in guerre di potere, se due donne hanno diverse opinioni è subito una bega da cortile. Stiamo molto, molto attenti a usare le parole ad applicare le categorie: è un fatto culturale, vede, lo è anche nei giornali e in tv. Poi certo, trovare uno stile che tenda all´armonia è auspicabile per tutti ma per le donne, ancora una volta, è un compito in più».

Repubblica 2.12.06
Il presidente consegna al Quirinale i premi De Sica a registi e attori. E rilegge gli anni della protesta
Napolitano: "Ripensiamo il ´68 cinema di novità ma anche di furori"
Elogio di Rondi, direttore della Biennale della contestazione
"Era una stagione di movimenti, con le sue ragioni e i suoi schematismi"
di Silvia Fumarola


ROMA - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano riceve al Quirinale il cinema italiano per i premi De Sica e torna ai tempi della contestazione giovanile. «Il ‘68 è stato un´epoca di movimenti» esordisce «una stagione che aveva le sue ragioni e una sua forza vitale ma anche i suoi schematismi e i suoi furori». Ha al suo fianco Gian Luigi Rondi, presidente dell´associazione e anima dei David di Donatello: era alla guida della Biennale di Venezia, investita dalla contestazione, e ne fu bersaglio. «Ora» dice il presidente «possiamo guardare con maggiore serenità a quelle vicende e alle persone coinvolte senza negare le ansie di rinnovamento che naturalmente si riproducono, ed è bene che si facciano sentire; ma liberandoci da ogni residuo di impostazioni troppo parziali o puramente negative».
Cerimonia sobria, in clima bipartisan: se Napolitano da una parte elogia Rondi, andreottiano, citando una lettera indirizzatagli nel ‘71 da Visconti con cui caldeggiava la sua candidatura alla Mostra di Venezia, dall´altra premia Citto Maselli, sottolineando l´evoluzione della sua ricerca registica. Da appassionato, chiede sostegno per il cinema. «Non immaginavo che già nei primi mesi del mandato mi si sarebbero presentate queste occasioni per riflettere sul ruolo che hanno teatro, cinema, danza e musica, in cui operano le nostre risorse più significative per dare all´Italia coscienza di sé e farla apprezzare all´estero». Il ministro della cultura Francesco Rutelli lo ringrazia, annunciando una legge di sistema da portare in Parlamento nel 2007. «Occorre che lo Stato snellisca le norme e dia risorse certe perché il cinema italiano sta tornando ai vertici: è dovere delle istituzioni far sì che la tendenza si consolidi».
Sorridono i premiati: Mariangela Melato, Gigi Proietti, Margherita Hack, Kim Rossi Stuart, Antonio Avati, Uto Ughi, Maurizio Scaparro, Paolo Portoghesi, Ennio Calabria, Vania Traxler Protti, Aleksandr Sokurov, il sindaco di Roma Walter Veltroni a cui va il riconoscimento «per meriti letterari e cinematografici». L´applauso più affettuoso, con gli invitati nel Salone dei Corazzieri in piedi, va a Fernanda Pivano: Napolitano interrompe il rigido protocollo, andandole incontro e scambiando qualche battuta con lei. Poi s´intrattiene con gli ospiti, insieme alla signora Clio. Veltroni intitolerà a Vittorio De Sica una sala del Palazzo delle Esposizioni, e il figlio del maestro, Christian, presente con i fratelli Emi e Manuel, fa un appello perché Roma trovi uno spazio per proiettare i classici. Maselli è commosso, scambia una battuta con Ettore Scola: «Hai visto, caruccio Giorgio... Il premio mi dà la carica per il nuovo film Questa sinistra, uno sguardo sulla realtà politica italiana».

Repubblica 2.12.06
LA STORIA
Ma il 1968 del cinema italiano cominciò prima dei movimenti di piazza
Bertolucci, Bellocchio & C. quelli dei pugni in tasca
di Paolo D'Agostini


ROMA - Il ‘68 del cinema in realtà comincia prima, o molto prima, del ‘68 dei movimenti studenteschi. In Francia con i primi film di Truffaut, Godard e degli altri ragazzi terribili della Nouvelle Vague. In Inghilterra con il Free Cinema di Gioventù amore e rabbia o Morgan matto da legare. E, oltre che in molte altre parti del mondo, anche in Italia. Dove il ventitreenne Bernardo Bertolucci da Parma con Prima della rivoluzione nel ´64, e il ventiseienne Marco Bellocchio da Piacenza con I pugni in tasca nel ´65, firmano i due manifesti di una rivoluzione non solo generazional-giovanile ma anche stilistica. Che però non ebbe lo stesso seguito e le stesse conseguenze dell´azione (violentemente e aggressivamente critica prima che creativa) e delle opere dei cugini francesi. Perché da noi il "cinema di papà" non solo manteneva saldamente il potere ma, soprattutto, manteneva intatta una carica vitale (Fellini) e anche trasgressiva (Antonioni) inesistenti altrove.
I nostri due campioni di quella stagione aspra e irruenta (ma confermatisi tali - campioni - ben al di là delle peraltro sacrosante intemperanze giovanili) si sono, per la prima volta assoluta, confrontati pubblicamente in un faccia a faccia moderato lo scorso ottobre alla Festa di Roma da uno dei suoi direttori Mario Sesti. «Erano», ricordava Bertolucci, «due film se non fratelli cugini: il mio dolcemente e malinconicamente autobiografico e quello di Marco atrocemente autobiografico».
Detto questo, però, le parole pronunciate ieri dal Presidente della Repubblica rievocavano, più che le istanze artistiche ed espressive di quella stagione, i termini di una polemica politico-culturale molto italiana e molto interna alla storia della sinistra italiana e del suo ‘68 (e dintorni). Polemica che in particolare intorno al nodo istituzionale della Biennale di Venezia, alla battaglia per la riforma del suo statuto risalente ad epoca fascista, vide scendere in campo agguerritissimi gran parte dei cineasti di sinistra - in un panorama cinematografico che era quasi tutto di sinistra - contro la nomina del democristiano Gian Luigi Rondi. E il Presidente ha fatto ieri riferimento a un episodio che proprio il nostro giornale ha ricordato (sul "Domenicale" dell'8 ottobre) nel celebrare il centenario di Luchino Visconti: pubblicando ampi stralci di una lettera che il "conte rosso", distinguendosi dai suoi compagni, indirizzò a lui, allora responsabile culturale del Pci, in difesa del celebre critico, persona «capace, professionalmente provata e sufficientemente sensibile a ciò che la situazione richiede», stigmatizzando come «ingiusto e ingiustificato» osteggiarlo per ragioni politico ideologiche.
Quel clima, quell´atmosfera, quel "68 del cinema italiano", che aveva avuto negli exploit giovanili di Bellocchio e Bertolucci ma anche nelle prime prove di altri registi giovani o un po' meno giovani come i Taviani e Ferreri, come Liliana Cavani e Roberto Faenza la sua anticipazione artistica, si propagò, in nome di battaglie, secondo Francesco Maselli, per niente estremiste e distruttive ma responsabilmente e giustamente politiche, soprattutto nei santuari dei festival. Con l'abbattimento, in primo luogo, della Mostra veneziana che avrebbe poi tardato un decennio a risorgere. Sostituita lungo i primi anni Settanta dalle barricate del "controfestival" allestito in pieno centro di Venezia, leggendariamente animato da figure come Cesare Zavattini e Pier Paolo Pasolini. Il quale, se il primo non si faceva pregare alla chiamata scapigliata e giovanilista, non fu certamente tenero nei confronti dei movimenti studenteschi e giovanili. Ma non mancò all´appello. Che cosa resta oggi? È la domanda che le pur equilibratissime parole del Presidente lasciano un po´ sospesa in aria.

Repubblica 2.12.06
Gli oscuri Anni Cinquanta
Un convegno di storici a Roma
di Lucio Villari


Al centro della discussione il clima indotto dalla guerra fredda. Quando in Italia, anche gli intellettuali moderati, denunciavano censure e repressioni

1956: la Grande Crisi del comunismo e dei comunisti, specialmente gli italiani. Grandi ripensamenti, allora, degli uomini di cultura comunisti. E gli intellettuali non comunisti, ma che non erano anticomunisti? Quale era il clima culturale di cinquanta anni fa in Italia? Ecco dei frammenti del tempo che fu; degli anni "intorno" al 1956.
Con la data "Natale 1954" un gruppo di critici e scrittori diffuse un appello che, nel clima conservatore e democristiano, dovette apparire per lo meno inconsueto. Lo avevano firmato Anna Banti, Alberto Carocci, Luigi Chiarini, Roberto Longhi, Alberto Moravia, Carlo Muscetta, Luigi Russo. Nessuno di loro era comunista (Muscetta era simpatizzante, ma la sua formazione era azionistica), ma il testo fu pubblicato con rilievo su l´Unità del 31 dicembre. Era un regalo per l´anno nuovo e un preoccupato segnale di una tensione politica che sarà molto viva nella seconda metà degli anni Cinquanta. Il testo era in difesa di Gaetano Salvemini, Arturo Carlo Jemolo, Piero Calamandrei, Mario Melloni e Franco Antonicelli fatti segno, da tempo, di intimidazioni da parte di esponenti di un governo che si sarebbe potuto definire blandamente di centrosinistra (era presieduto da Mario Scelba con vice presidente Giuseppe Saragat) e dalla variegata destra italiana. Era sotto accusa il loro antifascismo pubblicamente manifestato e la loro intransigenza democratica e laica, anche se Jemolo e Melloni, il futuro Fortebraccio, erano cattolici. Stava creandosi in Italia una politica "artificiale", sull´onda melmosa del maccartismo, che vedeva pericolosa e sovversiva la normale evoluzione della vita democratica e giudicava eccessiva la creatività artistica (specialmente nel cinema e nella critica letteraria e storica). I firmatari dell´appello rivendicavano perciò la necessità di ristabilire forme normali di relazioni tra le istituzioni e la libera ricerca intellettuale.
«A dieci anni dalla Resistenza - scrivevano - , ogni intellettuale, ogni antifascista è persuaso che la sua protesta non resta espressione individuale e velleitaria, ma corrisponde alla più profonda e diffusa coscienza di libertà e di distensione del popolo italiano. Per questo oggi intendiamo riconfermare tali sentimenti, e salutare con spirito di solidarietà quanti si rendono conto della necessità e della possibilità di dare uno stabile corso civile e democratico, di là dal susseguirsi al potere di questa o quella formazione governativa, a tutta la vita italiana nell´ambito di più sereni rapporti internazionali».
Parole quanto mai lievi e civili se si pensa che si era in tempo di guerra fredda, di ricatto atomico, di scontro senza quartiere tra stalinismo imperante (anche se il dittatore era scomparso da oltre un anno) e Occidente capitalistico. Erano parole di democratici che sognavano perfino come possibile l´alternanza di "questa o quella formazione governativa...". Ma erano sogni proibiti: il 1955 infatti cominciava male e si preparavano tempi duri. E´ interessante rievocarli per sottrarsi al fascino e ai miti della prima repubblica e leggere meglio la faticosa evoluzione, anche attuale, del nostro sistema sociale.
Ai primi di luglio 1955 la rivista Emilia pubblicava una lettera aperta di Francesco Flora, un autorevole critico letterario, al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Flora denunciava soprusi e censure prevalentemente clericali (alcuni mesi prima Vitaliano Brancati aveva scritto un pamphlet contro la censura dilagante che aveva impedito, tra l´altro, la messa in scena a Roma della sua commedia La Governante), e indicava la dilagante "avversione verso l´intelligenza" che il governo e le istituzioni centrali e periferiche dimostravano in vari modi. Qualcosa di grottesco stava infatti penetrando nella vita culturale italiana. Pareva si stesse costruendo un regime di tipo salazariano: un clerico-populismo felpato, anestetizzante, ispirato da un sempre più ieratico Pio XII il quale informava gli italiani che gli era apparsa la Madonna. Inevitabili, quindi, le censure e gli interdetti. Si interruppero ad esempio le rappresentazioni al Teatro Eliseo di Roma della Mandragola di Machiavelli (con uno straordinario Sergio Tofano) e Flora dava notizia a Gronchi di numerosi episodi analoghi: la polizia «non consentiva in alcuni comuni emiliani il dibattito su Bellissima e Senso di Visconti» e cercava di impedire che «la signora Marie Seton, collaboratrice del grande regista Eisenstein, proiettasse e illustrasse il film Time in the sun. Sembra che in questa occasione un funzionario di questura abbia detto: "Ma chi è questo Einstein? Sarà un film sulla bomba atomica!"». E ancora, «il veto che la Direzione generale dello spettacolo ha creduto di poter porre alla rappresentazione de La camera buia di Tennessee Williams in un teatro sperimentale di Bologna. E vogliamo sorvolare sull´amenità di imporre allo stesso teatro che il titolo di una commedia Ritratto di Madonna fosse mutato in Ritratto di donna?».
Insomma, forse era l´invadente presenza dell´ambasciatrice degli Stati Uniti Claire Boothe Luce a rendere più accesi, nel nostro paese, gli ultimi fuochi del maccartismo americano? Non è facile dirlo. Seppure in quel clima distorto, i registi continuavano a fare film, gli scrittori a scrivere, i teatri a funzionare. Ma, quando nel 1956 furono rivelati i crimini di Stalin e, in autunno, vi fu l´insurrezione ungherese, il moderatismo italiano ebbe un´arma polemica in più.
E questa volta furono i registi, i più grandi, a protestare. Il 7 settembre 1959, Roberto Rossellini inviò una lettera aperta al ministro del turismo e dello spettacolo, il democristiano Umberto Tupini. La lettera di Rossellini era stata inviata all´Agenzia Italia che ne aveva però trasmesse soltanto poche righe ai giornali. Il regista decise allora di rivolgersi direttamente a l´Unità che la pubblicò due giorni dopo. Era un invito al nuovo ministro a rompere con le pratiche del governo nei confronti della libertà espressiva (era stato bloccato, tra l´altro, un progetto di film su Matteotti) di cineasti e sceneggiatori. Scriveva Rossellini: «Il cinema nazionale - e per cinema nazionale intendo quel settore dell´attività cinematografica che tale è riconosciuto in Italia e nel mondo - non può dichiararsi sotto alcun aspetto soddisfatto del lavoro svolto da più di dieci anni dalla Direzione generale dello spettacolo e dalle persone che le sono preposte». E dopo avere elencato le ragioni di tale giudizio, Rossellini toccava il punto della protesta (che fu sottoscritta da De Sica, Fellini, Bolognini, Amidei) coinvolgendo anche, con straordinaria intuizione, la neonata televisione: «Gli esempi quotidiani mi convincono purtroppo che il cinema e la televisione hanno servito un prodotto sintetico e artificiale della cultura e della conoscenza, con il risultato che questi mezzi hanno sollecitato lo sviluppo mentale dei bambini, ma hanno anche ristretto l´apertura mentale dell´adulto. Infatti lo slogan corrente dei facitori di spettacoli è quello di produrre per un pubblico che ha la mentalità media del dodicenne». E Rossellini incalzava nel denunciare quanti proteggevano «il cattivo gusto, la diseducazione morale, la banalità» di questi potenti mezzi di comunicazione. Il regista si assumeva quindi la responsabilità piena della denuncia. Franchezza che il 9 settembre Rossellini manifestava a un convegno che si teneva all´isola di San Giorgio nell´ambito della Mostra del cinema, in corso in quei giorni a Venezia. Alla presenza, tra tanti, di registi come René Clair e David Lean, Rossellini dichiarò: «La censura italiana è forte perché noi siamo deboli. È tempo di finirla con film per adulti infantiliti. Il cinema deve assumere una sua precisa funzione sociale, portare avanti un suo messaggio civile. Dobbiamo essere in grado di lavorare non più con fibre artificiali ma con le fibre della verità». E a questa disarmata profezia, cinquanta anni dopo, non si potrebbe togliere neanche una virgola.

Corriere della Sera 2.12.06
Napolitano e il Sessantotto: anche furori e schematismi
«Ora si può dare un giudizio sereno su quegli anni»
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — Parlare di cultura e di cinema alla cerimonia di consegna dei premi «Vittorio De Sica» consente al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di indugiare sul '68, sulla «contestazione» e di criticarne il settarismo e la faziosità. Quella, nota, fu «un'epoca o una stagione che aveva le sue ragioni e la sua forza vitale, e anche i suoi schematismi e i suoi furori». Osservando quel tempo convulso, il Capo dello Stato rileva però che «ora possiamo guardare con maggiore serenità a quelle lontane vicende e alle persone che vi furono coinvolte, senza tendere a negare le ansie di rinnovamento che naturalmente si riproducono, ed è bene che si facciano sentire, ma liberandoci da ogni residuo di impostazioni troppo parziali o puramente negative».
Napolitano cita un ricordo personale, indotto dalla presenza del critico Gian Luigi Rondi «di cui tutti conosciamo la tenacia e la passione con cui ha sempre fatto ininterrottamente la sua parte e portato avanti il suo impegno», e al quale rivolge «espressioni di considerazione e di amicizia». «Mi riferisco — afferma il Presidente — alla lettera, da poco ritrovata in archivio che il grande Luchino Visconti mi scrisse nel febbraio del 1971 per svolgere sagge considerazioni sul modo con cui le forze dell'opposizione di allora avrebbero dovuto condursi rispetto ai problemi che lo interessavano e per esprimere un motivato giudizio di fiducia in Gian Luigi Rondi».
Napolitano, a quel tempo, era responsabile del settore cultura del Pci. Ed è appunto a lui che si rivolge Visconti, uno dei registi tra i più importanti e da sempre considerato un compagno di strada dei comunisti ma poco incline al settarismo. La circostanza fu il dibattito sorto su chi potesse dirigere la Mostra di Venezia.
Il nome di Rondi, uomo legato al campo dei moderati — a quel tempo critico cinematografico del quotidiano romano Il Tempo — era stato avanzato dalla maggioranza guidata dalla Dc ed aveva suscitato una forte polemica da parte del Pci. Ebbene Visconti scrisse a Napolitano — la lettera è stata ritrovata recentemente nell'archivio dell'Istituto Gramsci ed è stata presentata alla rassegna dedicata al maestro milanese nel quadro della festa del cinema a Roma — per esprimere, come ricorda oggi il Capo dello Stato, «un motivato giudizio di fiducia» su quel candidato. Visconti, insomma, nel suo ragionamento seppe sfuggire «i furori» del tempo.

Corriere della Sera 2.12.06
Il ritorno degli atei
Libri, riviste, siti web. In nome di Darwin e Hume
di Antonio Carioti


«Un tempo dirsi atei pareva di cattivo gusto e ci si dichiarava agnostici per apparire più rispettosi verso i credenti. Oggi però, di fronte alla crescente pretesa delle chiese, specie la cattolica, di imporre le credenze religiose in un contesto pubblico, di introdurle nelle costituzioni e nelle leggi, il pudore di una volta è venuto meno e l'ateismo è diventato una forma di legittima difesa dall'aggressività integralista». Così Carlo Augusto Viano, autore del pamphlet anticlericale Laici in ginocchio (Laterza) e di un articolo intitolato Elogio dell'ateismo apparso su «MicroMega», interpreta il revival della polemica antireligiosa in Occidente.
In effetti, se in Francia Michel Onfray ha scalato le classifiche con il Trattato di ateologia (tradotto in Italia da Fazi), anche l'America dei predicatori evangelici e dei teocon, dove mai potrebbe essere eletto presidente un ateo dichiarato, mostra interesse per i fautori dell'incredulità. Un servizio su «Us News and World Report» c'informa dei buoni risultati ottenuti in libreria dallo scienziato evoluzionista Richard Dawkins con
L'illusione di Dio (lo tradurrà Mondadori) e da Sam Harris, già autore del bestseller ateo La fine della fede (Nuovi Mondi Media), con la sua aspra Lettera a una nazione cristiana. Mentre continua a far discutere il modo in cui Daniel Dennett cerca di spiegare la fede in termini darwiniani nel saggio
Rompere l'incantesimo, di prossima uscita da Raffaello Cortina Editore.
E l'Italia? Finora i lettori hanno premiato testi che non attaccavano la religione in quanto tale, ma l'attuale pontefice (l'anonimo Contro Ratzinger edito da Isbn), o elogiavano il relativismo più che l'ateismo, come ha fatto Giulio Giorello nel pamphlet Di nessuna chiesa (Raffaello Cortina). Ma si espandono anche le associazioni culturali apertamente antireligiose, come l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (www.uaar.it), nella quale sta per confluire l'analogo gruppo Nogod (www.nogod.it). L'Uaar, che pubblica da dieci anni la rivista «L'Ateo», conta nel suo comitato di presidenza nomi come Margherita Hack, Piergiorgio Odifreddi, Danilo Mainardi, Sergio Staino, Laura Balbo. E il suo sito web registra una costante crescita di accessi.
Un riscontro in libreria viene dal successo di Un'etica senza Dio (pp. 109, e 12), testo filosofico di Eugenio Lecaldano che in breve ha raggiunto la quinta edizione e per Laterza è il titolo più venduto del momento. L'autore, legato all'empirismo di David Hume, afferma senza esitare che «l'ateismo è la cornice concettuale più favorevole all'affermarsi di una moralità». È l'esatto contrario del celebre motto «se Dio non esiste tutto è permesso», coniato da Fjodor Dostoevskij: «Se si fa dipendere la morale — spiega Lecaldano al "Corriere" — da una rivelazione divina, s'inducono i fedeli a ripetere dei comportamenti in modo passivo, invece di fare appello alla loro responsabilità e abituarli a riflettere con la propria testa. Così il credente non riesce a salvaguardare l'autonomia dei principi etici, perché finisce per pensare che la soluzione alle questioni morali risieda nella fedeltà ai contenuti di una tradizione religiosa, trascurando le esigenze e i reali sentimenti delle persone, spesso non rispondenti ai dettami della dottrina». Molto meglio, per Lecaldano, fare a meno di Dio: «L'idea che la moralità sia indipendente dalle tradizioni confessionali e accomuni tutti gli esseri umani, a prescindere dal loro credo, consente di adeguare le concezioni etiche ai bisogni delle persone e ai problemi nuovi che si presentano. Inoltre aiuta a superare le situazioni di conflitto causate dalla scelta di mettere in primo piano le identità particolari di natura culturale e religiosa».
Se è dunque plausibile un'etica senza comandamenti divini, si possono anche spiegare le origini della vita e dell'uomo senza ricorrere a una dimensione trascendente? La risposta positiva viene dal filosofo della scienza Telmo Pievani, assai polemico, nel libro Creazione senza Dio (Einaudi, pp. 137, e 8), verso chi ritiene che vi sia l'impronta di un «disegno intelligente» nel mondo naturale: «Questa teoria non ha basi scientifiche e trovo inaccettabile che in America si pretenda di insegnarla a scuola insieme all'evoluzionismo. Ma Darwin va preso sul serio anche sul piano filosofico: la sua è una sfida alle fedi, perché dimostra che l'esistenza dell'uomo si può spiegare senza fare ricorso a un intervento sovrannaturale. Ciò non significa però che le teorie darwiniane comportino l'inesistenza di Dio. In questo dissento da Dawkins e Dennett, mentre ritengo possibile un dialogo tra forme diverse di sapere: quella scientifica e quella filosofico-religiosa. Il Dalai Lama si è confrontato in modo proficuo con studiosi darwiniani».
Più difficile è però dialogare con i cristiani. In un saggio sul numero di «MicroMega» appena uscito, Pievani critica non solo Benedetto XVI, ma anche il teologo eterodosso Hans Küng, grande rivale del Papa, e il suo libro L'inizio di tutte le cose (Rizzoli, pp. 266, e 18): «Ratzinger — spiega lo studioso — pretende di annettere e subordinare la ragione scientifica a una razionalità più ampia illuminata dalla fede, scartando come irrazionale l'idea darwiniana che la specie umana si sia evoluta solo per mutazioni casuali e selezione naturale. Küng invece respinge apparentemente le suggestioni del disegno intelligente, ma cerca comunque di reimmettere nel discorso scientifico temi di carattere teologico».
Insomma, i motivi di conflitto prevalgono sulle ipotesi di convergenza. Basta sentire Viano: «Fra il credente e l'ateo non c'è la simmetria asserita da chi considera indimostrabile tanto l'esistenza quanto l'inesistenza di Dio. Le società umane hanno elaborato vari mezzi ordinari di conoscenza, generalmente condivisi, attraverso cui si può accertare qualcosa. Chi afferma l'esistenza di un essere non conoscibile con quegli strumenti, deve accollarsi l'onere della prova. Per questo mi pare legittimo sostenere che, fino a prova contraria, Dio non c'è».

La Stampa 2.12.06
Com'era rosso il mio Partito
L'ex sindaco Diego Novelli: "I leader della sinistra ora vanno a pontificare in tv come quelli della destra"
di Alberto Papuzzi


Giuliano Ferrara? «Considera tutto quanto gli sta attorno corrotto, marcio, puzzolente: "Perché così è la vita". Considera il mondo un enorme porcile e lui ci sguazza con cinismo, fingendo di divertirsi. Non sono certo che sia un uomo felice. Anzi, dubito fortemente che lo sia». Adriano Sofri? «Me lo ricordo giovanotto, nel lontano 1969, davanti alla porta 2 di Mirafiori, travestito da Lenin, quando impartiva lezioni ai lavoratori sulle forme di lotta da adottare accusando i sindacati e il Pci di essere succubi della Fiat. Chi non era d'accordo con lui era "un traditore della classe operaia"». Su Lotta continua: «Quello che trovo intollerabile è la pretesa degli ex lottatori continui, siano essi oggi di destra (e sono tanti) o di sinistra, di essere sempre, con saccenteria, i primi della classe».
Ce n'è anche per Walter Veltroni: «Ha già messo da parte la sua vocazione per l'Africa. Ci ha detto che glielo ha chiesto la gente. "Walter, non mollare, non ci abbandonare, resta con noi". E lui ha ceduto a questo grande desiderio del popolo».
Sulfureo, scanzonato, talvolta arrabbiato, per lo più divertito, ricco di verve come un trentenne, ma anche dell'esperienza della sua età, un po' nostalgico ma senza retorica, Diego Novelli, il sindaco della Torino rossa del 1975, racconta la sua militanza comunista e le storie dei compagni, ora cancellati, in un libro che esce da Melampo: Com’era bello il mio Pci (pp. 160, e10), illustrato dal fumettista Paolo Deandrea e dedicato ai giovani, quelli che dicono «Questo mondo, così com'è, non ci piace».
Di famiglia antifascista, cresciuto in Borgo San Paolo, chiamato il Borgo rosso («il mio quartiere»), entrato giovanissimo nella redazione dell'Unità, edizione di Torino, da lui diretta fra il 1961 e il 1975, sindaco popolare per dieci anni, quindi europarlamentare, quindi deputato, è sempre stato innanzi tutto un giornalista militante, anzi un cronista, in possesso di uno sguardo acuto, privo di pregiudizi ideologici, e capace di esperienze diverse: reportage, corrispondenze, libri, inchieste, anche il film Trevico-Torino.
Tutto questo si ritrova nel libro, nella forma svelta dell'appunto, del diario, della nota politica, del ritratto al volo, della confessione e della riflessione. Ci sono, naturalmente, le varie stagioni della sinistra torinese, con i molti personaggi che le hanno popolate, da uno snob come Franco Antonicelli a un dirigente del peso di Adalberto Minucci, da Giancarlo Pajetta, l'eterno «ragazzo rosso», a Emilio Pugno, sindacalista degli anni duri. Sullo sfondo la predilezione per Enrico Berlinguer: «Lo strappo di Berlinguer con l'Urss è stato una pietra miliare». E ancora: «Chi predisse per primo la degenerazione della politica e dei partiti, con un atteggiamento che non esito a definire da profeta laico, fu Enrico Berlinguer (...). Il partito non lo capì». La scomparsa di Berlinguer è uno snodo chiave: «Fu soprattutto dopo la morte di Berlinguer, il Segretario che teneva la barra ferma sulla giusta rotta, che il Pci cominciò ad andare alla deriva».
Ma in questa cronaca dall'interno l'analisi politica s'intreccia, continuamente e strettamente, con l'esperienza umana e con la memoria personale. Questo è il Pci del militante Novelli, che si toglie anche i sassolini dalla scarpa, per esempio nella ricostruzione della sconfitta contro Valentino Castellani, attribuita all'appoggio dato al suo avversario nel ballottaggio dai residui dc e craxiani, persino da leghisti e da missini. Sotto il torchio finiscono anche vicende che videro Novelli maltrattato dai suoi stessi compagni di partito, come quando denunciò le collusioni mafiose di un esponente siciliano repubblicano e sul suo giornale dovette leggere una rettifica di Ugo La Malfa, accompagnata dalle scuse dell'Unità, che rimproverava di fatto al suo inviato di essersi fatto sfuggire dalla penna un'espressione scorretta. Decisa ma non aspra, in genere ironica, e con il gusto della battuta, la polemica è un po' il fil rouge che attraversa il libro.
Anima la polemica, ovviamente, il confronto fra ieri e oggi. «L'attuale classe dirigente dei Ds non ha più alcun rispetto non dico per gli elettori ma nemmeno per gli iscritti. Loro fanno tutto in televisione, attraverso Ballarò e Porta a porta. Ci vanno sempre gli stessi e pontificano su tutto e su tutti. Esattamente come fa la destra».
Oppure: «La Festa dell'Unità è una delle poche cose che si è salvata. Ma oggi è quasi del tutto commercializzata. Data in appalto». Oltre a Ferrara e Veltroni, a Sofri e Castellani, anche Giuliano Amato, Luciano Barca, persino Amendola, sono bersagli delle frecciate di Novelli. E Mussi, in una pagina che giustifica il titolo. «Per me il Pci è stato e sarà sempre una cosa bella. E non l'ho mai considerato "un bambolotto di pezza", secondo un'infelice definizione di Fabio Mussi, quando era impegnato a difendere la cosiddetta svolta della Bolognina».

il manifesto 2.12.06
l'intervento / La rivolta ungherese non è stata soffocata dal comunismo


La risoluzione approvata dal Parlamento europeo, il 24 ottobre scoroso, «concernente il cinquantesimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1956 e il suo significato storico per l'Europa», al Paragrafo 3, «sottolinea che la comunità democratica deve respingere inequivocabilmente l'ideologia comunista repressiva e antidemocratica e difendere i principi di libertà, democrazia, diritti umani e Stato di diritto e prendere una chiara posizione ogniqualvolta essi siano violati». E' stato invece respinto un emendamento che condanna tutte le iniquità commesse in nome del comunismo, ma in verità incompatibili con quel movimento in quanto aspirazione alla giustizia e alla libertà.
Gli estensori di questo documento si associano alla condanna di qualsiasi azione repressiva volta a imporre un ordine autoritario di marca imperialista che soffochi l'espressione di bisogni, aspirazioni, concezioni in fermento continuo nella società civile. Sappiamo che la distorsione stalinista del comunismo ha dato luogo, su vasta scala, a azioni repressive che hanno compromesso, nella coscienza di milioni e milioni di donne e di uomini, il valore di un'idea: la costruzione di un senso comune o comunista attraverso cui edificare nuove forme di vita associata e di partecipazione civile. Per questo riteniamo che i parlamentari europei, che hanno espresso un giudizio sommario sul comunismo, si espongono al sospetto o di una carente formazione culturale o di una larvata acquiescenza opportunistica.
E' preoccupante carenza culturale ignorare un lungo itinerario che è storia perché è pensiero alto, le cui vette si chiamano (per pronunciare soltanto alcuni nomi) il Platone assertore di un mondo immateriale e di valori ideali culminanti nel Bene e nella Giustizia, il Tommaso Moro santificato dalla Chiesa cattolica anche in ragione della sua utopia ugualitaria, un Karl Marx che invocava la libertà di ciascuno come condizione per la libertà di tutti, e che anche l'opinione comune del nostro tempo riconosce come un grande maestro dell'umanità, un Antonio Gramsci, il cui pensiero può riassumersi nel concetto della storia come, tutta, anelito di libertà, e che è il pensatore italiano, dopo Dante Alighieri, più studiato e più tradotto in tutti i continenti. La civiltà europea vorrà dunque recidere una delle sue radici storiche? E coloro che, dalle loro cattedre, impartiscono ai giovani studiosi o studenti la lezione di quelle opere classiche dovranno invece metterle al bando, immemori di quell'altra radice che è l'Illuminismo?
Nella storia del Novecento, mentre la lotta al fascismo (nel quale ideologia totalitaria e repressione politico-poliziesca coincidevano appieno e sotto ogni profilo) è stata la necessaria premessa per riconquistare la democrazia, al contrario l'anticomunismo virulento ha fatto da battistrada ovunque, in Europa come nelle Americhe, all'avvento del fascismo. A chi giova, dunque, ribattezzare sotto il segno dell'anticomunismo la rivolta ungherese, se la stessa mozione del Parlamento europeo, nel punto F delle premesse, contraddicendosi, rende «omaggio al coraggio umano e politico di Imre Nagy, il primo ministro comunista-riformatore dell'Ungheria» e se quel sommovimento fu attivamente sostenuto dal grande pensatore comunista György Lukács? Se anche la Primavera di Praga fu salutata e guidata dall'altrettanto generoso dirigente comunista Alexander Dubcek? E i tanti comunisti perseguitati o fatti fucilare da Stalin dovremo (in quanto essi sarebbero stati perseguitati e fucilati dall'«ideologia comunista») considerarli anche noi nemici del comunismo, come li giudicava Stalin?
Ma, dicevamo, altri denegatori del comunismo in assoluto potrebbero esporsi al sospetto, direbbe Gramsci, di trasformismo sia pure inconsapevole, se il loro assecondare gli ignari o gli intolleranti fosse dettato da cattiva coscienza o dal bisogno di far perdere le tracce del loro passato: se così fosse, non di quel loro passato converrebbe vergognarsi, ma della loro miseria presente.
Il giudizio sulle azioni liberticide come la repressione dell'Ungheria del 1956 non può e non deve essere contestualmente mitigato neppure adducendo altre colpe di altri soggetti e di altri tempi. Ma, confessiamo, ci consolerebbe il sapere che, in altre circostanze o in altre sedi, autorevoli rappresentanti dei popoli e delle tradizioni europee fossero più propensi a riconoscere i limiti, passati e presenti, delle politiche praticate e predicate dal cosiddetto mondo opulento. Voci maligne potrebbero insinuare che il muro di Berlino ha fatto scuola: sulla linea di frontiera che separa il Messico dal suo più potente vicino di casa o sulla terra palestinese nella quale le tre grandi religioni monoteiste dovrebbero incontrarsi, non scontrarsi. Ma è forse ancor più inquietante il muro ideologico (certamente incompatibile con i classici principi di libertà e con le cristiane massime della carità e dell'accoglienza, anch'esse una radice profonda della civiltà europea), quel muro che eguaglia a una sterminata moltitudine di quasi-paria, su scala mondiale e all'interno delle stesse nazioni occidentali, coloro che sono strutturalmente esclusi dal mercato, dal lavoro e persino dal cibo quotidiano.
***Etienne Balibar, philosophe, Un. La Sorbonne, Paris; Giorgio Baratta, pres. Intern. Gramsci Society-Italia, «L'Orientale» di Napoli; Jacques Bidet, philosophe, dir. de la revue «Actuel Marx» Paris; Derek Boothman, prof. di Traduz., Un. di Bologna; Giuseppe Cacciatore, dir. del Dip. Filosofia, Un. Federico II, Napoli; Carlos Nelson Coutinho, profess. Un. Federal Rio de Janeiro; Patrizio Esposito, fotografo e artista grafico; Dario Fo, premio Nobel per la Letterat.; Rada Ivekovic, prof. Un., Paris; Guido Liguori, Univ. di Calabria e dirigente Int. Gramsci Society-Italia; Marina P. Musitelli, prof. Letterat. It., Un. di Trieste; Alessandro Portelli, prof. La Sapienza di Roma; Giuseppe Prestipino, Un. di Siena, pres. on. Centro per la Filosofia It.; Franca Rame, attrice e senatrice; Annamaria Rivera, prof. di Etnologia, Un. di Bari; Rossana Rossanda, scritt. e giorn.; Edoardo Sanguineti, poeta, critico, prof. Un. di Genova; Silvano Tagliagambe, prof. Un. di Sassari; André Tosel, prof. de Philosophie, Un. de Nice; Mario Tronti, Un. di Siena, pres. Crs; Pasquale Voza, Un. di Bari, pres. Centro Interuniv. Studi Gramsciani

venerdì 1 dicembre 2006

l'Unità 1.12.06
INDULTO / Il premier: «Me ne assumo la responsabilità». E Mastella ringrazia


«Un politico si deve assumere le sue responsabilità e dunque me ne assumo tutta la responsabilità ancora una volta». Con queste parole il Presidente del Consiglio Romano Prodi ancora una volta rivendica la scelta dell’indulto, ricordando che si è trattato «di una scelta di civiltà», una legge, che però «non significa la depenalizzazione dei reati», ma è «il male minore», l’unico modo per «il risanamento del sistema penitenziario». Il Professore, replicando a una battuta di Mastella che ironizzava sul fatto che «sembra che l'indulto l'abbiamo fatto solo io e te...», ha spiegato: «Noi ci siamo assunti la responsabilità, nel bene e nel male. Si tratta di un indulto e non di un'amnistia, proprio per non creare situazioni di ingiustizia. Insomma, una decisione ben diversa dall'amnistia mascherata o dalla ex Cirielli». E ha ricordato: «La legge sull'indulto l'hanno votata maggioranza e opposizione, sapendo che non è una soluzione di lungo periodo di un problema. Ma quando non si hanno alternative, si deve scegliere il minor male assumendosene la responsabilità. E io mi assumo la responsabilità perchè non c'era alcuna alternativa. Ora dobbiamo lavorare per non essere mai più messi nelle condizioni di dover scegliere il male minore».
«Un pò di solitudine l'ho sofferta», ammette, ironico Mastella. E denuncia: eanche tra gli esponenti della Chiesa «alcuni mi sono stati vicini ma non sono stati tantissimi». «Non ho mai visto - osserva ironicamente il Guardasigilli - che uno surrogasse altri 705, perché tanti sono stati quelli che l'hanno votato, come se dipendesse solo da me la responsabilità di un atto che è del Parlamento e non del Governo». Perciò il Ministro della Giustizia ha ringraziato pubblicamente il presidente del Consiglio che, intervenendo prima di lui ha voluto condividere la responsabilità di quella scelta.
Mastella ha anche riferito di aver chiesto al Papa se «potesse venire a visitare un carcere. Lui mi ha detto che sarebbe venuto e ora concorderemo la visita».

l'Unità 1.12.06
Bioetica, una nuova spina nel fianco dell’Unione
Sulla conferma del cattolico D’Agostino da parte di Palazzo Chigi
gli «alt preventivi» di gran parte della sinistra: «Serve laicità»
di Edoardo Novella


IL NUOVO SCOGLIO per l’Unione si chiama Consiglio nazionale di bioetica. Non bastava il caos sul decreto Turco sulla cannabis e le ruggini sui Pacs. Non bastavano le divergenze su Welby, eutanasia e testamento biologico. Sulla conferma del professor
Francesco D’Agostino a presidente - data per imminente - si rischia ancora uno psicodramma politico. Primo: perchè D’Agostino - ordinario di Filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza a «Tor Vergata» - è un cattolico deciso, tanto da averlo dimostrato sia sulla fecondazione che sulle staminali, appoggiando sempre posizioni filo-vaticane. Tanto da aver sostenuto - per dirne una - che «la distinzione tra bioetica cattolica e bioetica laica è inconsistente». Secondo: è stato nominato da Berlusconi, ed «ereditarlo» è indigesto per molte frange della maggioranza. E già da Rifondazione, Verdi e Radicali arrivano chiarissimi gli alt.
Fatto sta che il «lavoro istruttorio» sul nuovo Cnb preparato in questo periodo da un pool del sottosegretario Enrico Letta è pronto. «Vistati» e selezionati i candidati, D’Agostino sembra avere «convinto» più dell’altro «nome pesante» in ballo per la presidenza: quello di Stefano Rodotà. «Troppo laico» l’accusa che graverebbe sul nome dell’ex Garante della privacy. Per la nomina - che in un primo momento qualcuno annunciava già per oggi - ieri sera un piccolo empasse, uno slittamento. Motivato forse proprio dalla levata di scudi a sinistra.
«Non possiamo non dichiararci preoccupate per le indiscrezioni che vorrebbero D’Agostino alla presidenza del Comitato nazionale di Bioetica» dicono Maria Luisa Boccia e Elettra Deiana di Rc-Sinistra Europea: «È giunto il momento di dare una svolta all’indirizzo del Comitato nella sua composizione vanno tenuti saldi i principi di pluralismo e laicità dello Stato». E i Verdi, con Bulgarelli, rincarano: «Il Cnb ha un senso non solo se al suo interno c’è spazio per tutte le sensibilità, in primo luogo quella laica, ma anche se c’è un avvicendamento ai suoi vertici, che esprimono inevitabilmente l’indirizzo complessivo del Comitato».
Anche tra gli stessi bioeticisti laici c’è preoccupazione: preoccupazione per quello che disegnano un po’ meccanicamente come l’ennesimo patto con la Binetti e il blocco teodem, «tanto della bioetica non frega niente a nessuno, ma almeno il governo si prende un anno di vita garantito». Ma c’è un altro fronte a pesare. Quello del gelo che l’ipotesi D’Agostino suscita nei ministeri «sensibili». Tanto sul nome che sul metodo: «Senza nemmeno consultarci per un parere, un’informazione... ». Vero è che la nomina è tutta in capo alla presidenza del Consiglio, ma in molti vorrebbero maggior coinvolgimento. «Ed invece - accusa Cappato dei radicali, che assieme alla collega Bernardini è all’8° giorno di sciopero della fame per protesta - niente di niente. Quel che è poi grave è che il Cnb è scaduto da 6 mesi. E che tutto questo tempo non ci sia stata nessuna consultazione formale su ruolo e composizione: più scienziate e meno bioeticisti? Più o meno uomini di fede? Nulla».
Così nella maggioranza appare ancora una volta difficile la gestione dei temi sensibili. E D’Agostino? Il professore naturalmente si schermisce: «Io confermato? Non so, non mi sembra probabile... ». Ma ha sentito che ridda s’è scatenata nell’Unione? «Ma che posso dire, aspettiamo che scoppi davvero, anche se mi sembra tanto autolesionismo...». Appunto.

l'Unità 1.12.06
FECONDAZIONE / Bimbi in provetta, boom viaggi esteri dopo la legge 40


ROMA Sempre più coppie infertili vanno all’estero in cerca di un bambino «in provetta». E i viaggi, negli ultimi tre anni, sono quadruplicati: prima dell’approvazione della legge 40 sulla procreazione assistita erano 1066, oggi sono 4.173. Ma «in un caso su due questi viaggi della speranza diventano viaggi della delusione», ha detto Carlo Flamigni, pioniere della fecondazione assistita in Italia, commentando l’indagine dell’Osservatorio sul turismo procreativo. «Il ministro della Salute Livia Turco - ha quindi auspicato l’esperto italiano - dovrebbe istituire una commissione di studio per verificare quali siano le disparità generate dalla legge 40 del 2004. Gli italiani che vanno all’estero spesso si lamentano dei costi e dell’assistenza». Di pari passo al turismo procreativo cresce dunque il business della provetta. Secondo Flamigni nei centri esteri esiste il problema «di esami fatti senza una giustificazione scientifica vera. In alcuni paesi in cui è consentita la donazione di ovociti i costi stanno aumentando e gli ovociti di una stessa donatrice vengono utilizzati da più donne. Non solo. «Oggi molti pazienti vanno all’estero - ha detto Andrea Borini, presidente dell’Osservatorio e dei Cecos Italia - spinti dalla volontà di cercare migliori risultati, senza però che questo sia dimostrato». Uno dei rischi in agguato, per esempio, è il tentativo di far passare la diagnosi pre-impianto per una forma di amniocentesi precoce.
La Spagna resta la meta preferita (da 60 a 1.365 coppie negli ultimi tre anni). Un boom legato anche ai servizi: interpreti, medici italiani o bilingue. Intanto, gli esperti del Centro di procreazione medicalmente assistita Biogenisi Villa Europa (oggi in congresso a Roma) dicono: «Quando una coppia non riesce ad avere un bambino, nel 50% dei casi dipende dall’uomo».

l'Unità 1.12.06
Napolitano: «L’Occidente non è una civiltà superiore»
Idi Vincenzo Vasile


LA STRADA DEL PREGIUDIZIO e della chiusura non porta da nessuna parte. Ormai la crescita globale del pianeta è guidata dalle economie asiatiche, che contribuiscono al prodotto lordo mondiale per il 21 per cento, con un sorpasso rispetto agli Usa di 2
punti, che prevedibilmente è destinato ad aumentare. Giorgio Napolitano, ospite d'onore alla seconda Giornata dell'Asia e del Pacifico, a Villa Madama, davanti a una platea di ambasciatori asiatici, lancia l'invito a raccogliere le sfide che vengono dall'Oriente, sfide non solo economiche. Con questi Paesi, dice, dobbiamo confrontarci senza rinunciare ai nostri valori, ma «senza vecchie presunzioni e senza devianti e paralizzanti timori». Cioè senza accodarsi ai pregiudizi teocon o iper-protezionisti; senza «presumere di essere portatori, come occidentali, di una civiltà superiore, aprendoci a un ben maggiore sforzo di conoscenza di civiltà non meno ricche»; senza chiusure settarie tra le forze politiche.
Il capo dello Stato ha ascoltato e apprezzato quanto poco prima ha affermato il vicepremier e ministro degli Esteri, Massimo D'Alema: «L'Italia intende essere più vicina all'Asia e al Pacifico, a dispetto della distanza che ci separa» e il meeting di Villa Madama vuole «evidenziare in maniera tangibile l'importanza che per l'Italia riveste l'intensificazione delle relazioni con i paesi di un'area distante da un punto di vista geografico ma sicuramente vicina dal punto di vista degli interessi e degli obiettivi di politica estera». Non si parte da zero. «L'Italia si è trovata molto spesso al fianco di numerosi paesi asiatici e del Pacifico nella sua campagna per la riforma dell'Onu. Adesso che, per i prossimi due anni, l'Italia avrà il privilegio di sedere nel Consiglio di sicurezza punterà molto al rafforzamento della cooperazione con i paesi dell'Asia, convinti che possano portare un contributo prezioso al raggiungimento di un multilateralismo efficace, che è un traguardo fondamentale della nostra politica estera».
Questo impegno, ha osservato Napolitano, non può essere solo di un governo, ma deve trasformarsi in «un impegno permanente e di lungo periodo cui è chiamata l'Italia nel suo complesso. Non possono esservi a questo proposito contrapposizioni di parte». È un auspicio di intese bipartisan, di soluzioni condivise: il presidente della Repubblica, oltre che alla platea di diplomatici asiatici si rivolge, cioè, alle forze politiche e parlamentari. Infatti, osserva come nel corso dei passati decenni si sia affermata via via «la continuità dell'interesse generale del paese nei principali orientamenti della politica estera italiana». Questa è una strada da non abbandonare: «Così confido che possa nel prossimo futuro riconoscersi egualmente l'interesse generale rappresentato da una nuova linea e prospettiva di sviluppo delle nostre relazioni con la decisiva regione dell'Asia e del Pacifico».
Per il presidente si tratta, dunque, di un filone di iniziativa che deve essere segnato dalla continuità: sin dal dopoguerra «l'Italia assunse come ancore» della sua collocazione internazionale «l'alleanza con gli Usa e l'adesione al processo di integrazione europea. Ma ciò non significò mai rinchiudersi in un esclusivo orizzonte euro-atlantico. E tanto meno può significarlo ora, dinanzi ai radicali mutamenti» dello «scenario mondiale». Tanto più nel quadro europeo.
Stanno accadendo nel mondo «fatti straordinari», come l'impetuosa crescita dei paesi asiatici, con tutti gli effetti che si riverberano sull'economia italiana. Si tratta di sfide che «mettono a non facile prova gli assetti produttivi e i livelli di benessere cui siamo pervenuti nel passato, ma nello stesso tempo racchiudono in sé le più ricche e inedite prospettive». Ma si sbaglierebbe a «non dare il giusto peso all'esigenza di un pieno riconoscimento» di quei paesi come protagonisti, «come attori di prima grandezza delle relazioni internazionali».

Repubblica Firenze 1.12.06
I Cézanne di Palazzo Strozzi
Una grande mostra su due collezioni disperse


«Cézanne a Firenze». A Palazzo Strozzi, restaurato con l´ambientazione di una ricca dimora neorinascimentale. Tra giochi di luci bianche e grigie, caminetti e saloni arredati con i dipinti dell´artista di Aix-en-Provence, come erano esposti nelle case fiorentine di due collezionisti nei primi del ‘900. «Cézanne a Firenze» è una mostra che non celebra tanto il grande artista nel centenario della sua morte, tra l´altro già ricordato in altre esposizioni internazionali. E neppure si pone come evento acchiappaturisti innamorati degli Impressionisti.
La rassegna che si annuncia a Palazzo Strozzi dal 2 marzo al 29 luglio 2007, presentata ieri dai curatori Monica Bardazzi e Carlo Sisi, con il direttore della Fondazione Palazzo Strozzi James Bradburne, il soprintendente Cristina Acidini e il presidente dell´Ente Cassa di Risparmio Edoardo Speranza (che ha finanziato l´evento con 3 milioni e mezzo di euro), nasce da un lavoro critico durato quasi 10 anni, per ricostruire il clima culturale, artistico e intellettuale fiorentino di fine ‘800 e primi del ‘900, quel milieu amato da Henry James, Edith Wharton e Bernard Berenson, immerso nelle suggestioni del sogno rinascimentale eppure centro vivo di modernità e fermenti contemporanei. E toglie dall´oblio due collezionisti americani, Egisto Paolo Fabbri e Charles Alexander Loeser, che proprio nelle loro abitazioni avevano raccolto 50 opere dell´artista "padre della pittura moderna", acquistando i suoi quadri quando era ancora in vita, deprecato dall´epoca e tenuto fuori dai Salon parigini.
Due storie singolari quelle di Fabbri e Loeser, trasferiti in riva d´Arno con alle spalle la ricchezza familiare del sogno americano: Fabbri arriva nel 1885, frequenta Edoardo Gordigiani, Alfredo Muller, nel ´95 si trasferisce a Parigi e inizia a collezionare Cézanne acquistando le opere da Vollard, torna a Firenze con ben 32 importanti quadri. Loeser arriva nel ´90, ex compagno di Harvard di Berenson, colleziona 16 dipinti di Cézanne. E del 1910 la prima mostra italiana sull´Impressionismo, voluta da Soffici al Lyceum di Firenze, con le loro opere esposte, tra interesse e diffusione crescenti, che le vedranno anche alla Biennale di Venezia nel ‘20.
Dove sono oggi quei quadri? Venduti, passati in altre sedi. Dopo che entrambi spesero la loro vita in altre direzioni. Fabbri «artista, architetto, filosofo» come sintetizza la lapide al cimitero degli Allori. Spetta ora alla mostra fiorentina riunire con prestigiosi prestiti internazionali (uno dalla Casa Bianca) ben 22 Cézanne, per ripercorrere quella fortunata stagione culturale, intrecciata alla storia e al gusto dei due collezionisti, arricchita di foto e documenti rintracciati dagli eredi, contestualizzata nella fortuna critica che suscitarono a Firenze, tra copisti e artisti che elaborarono quel nuovo linguaggio d´Oltralpe. Non solo opere di Cèzanne, ma anche di Degas, Pisarro, Van Gogh e Sargent, sculture e dipinti di Rosai, Soffici, Muller, Gordigiani, Carena, Ghiglia, Andreotti e Medardo Rosso. Per riscoprire Firenze immersa nella modernità, per rintracciare quella contemporaneità che si annuncia esplorata nel programma triennale della Fondazione Strozzi, ciclo di eventi che sarà presentato a gennaio 2007.

La Stampa 1.12.06
Anime bulle depresse o confuse?
Bullismo e depressione sono spesso convergenti, entrambi maschere d’insopportabile vulnerabilità. Peggiore è il rischio di epidemia del vuoto interiore
di Gabriel Levi*


Il disagio psicologico dei ragazzi sta assumendo contorni sempre più complessi. Anche i disturbi psicopatologici sono cambiati negli ultimi vent’anni. La cronaca riporta situazioni di bullismo e violenza, e situazioni di angoscia e depressione in ragazzi sempre più piccoli. La rabbia verso il mondo e la rabbia dentro se stessi sembrano due soluzioni opposte e inconciliabili che i ragazzi trovano come risposta alla banale fatica del crescere. Bullismo e depressione sono due facce della stessa medaglia trasparente, fenomeni spesso sovrapposti e convergenti. Sul piano individuale: perché molti bulli diventano depressi, e perché molti depressi combattono la paralisi emozionale facendo i buffoncelli. Sul piano micro-sociale: perché bulli e depressi tendono a convivere in gruppo, spesso scambiandosi le parti.
Vomitando emozioni o ruminando dolore
Bulli e depressi: due modalità estreme. La modalità di buttarsi del tutto fuori, vomitando emozioni e debolezze. La modalità di buttare il mondo dentro, ruminando dolore e desiderio, sino a renderli nebbiosi e opachi, anche se egualmente acuti e dissanguanti. Da quando esiste la memoria, sono le maschere fondamentali delle piccole commedie umane. Comprese quelle dei ragazzi che scoprono di essere persone, cioè anche maschere. Le cose tuttavia si complicano, sia all’interno del conflitto sociale sia quando il dramma precipita dentro aree di insopportabile vulnerabilità. Per esempio, quando una delle due maschere riceve un forte sostegno sociale e l’altra viene umiliata da una forte disapprovazione. Allora la libertà di movimento del singolo si allenta, specie un po’ prima dell’adolescenza, quando ragazze e ragazzi debbono fare la faccia giusta, per indovinare quello che c’è dietro la faccia degli altri. E quando il gioco del gruppo si spinge troppo in là e diventa più rigido, i soggetti più esposti debbono concretamente scegliere tra il diventare vittima o il diventare persecutore. A meno di riuscire a nascondersi nel coro degli spettatori e dei suggeritori.
Attenti alle mute richieste di aiuto
Dobbiamo prendere anche atto con chiarezza che in alcuni casi (per fortuna i meno frequenti) ci troviamo di fronte a storie segnate e annunciate da una patologia psichiatrica, nascente o emergente. Esistono ragazzi e bambini che esprimono una violenza che trabocca da un’incompatibilità interna tra regole, bisogni e condotte. Esistono anche ragazzi e bambini che crescono, crescendo la loro tristezza o incompetenza a vivere le emozioni. Persino in queste situazioni di vulnerabilità precostituita e a valanga, esistono evidenti tentativi di formulare messaggi di confronto e mute richieste d’aiuto.
La nostra medaglia ha una terza faccia. Tra i bulli e tra i depressi, esistono anche i confusi: sono già tanti, stanno crescendo di numero e incubando la prossima epidemia. I ragazzi problematici, che non riescono a costruirsi un ruolo chiaro come il bullo o il depresso, oscillano tra la paralisi dei sentimenti e la fuga nelle azioni, si inaridiscono in un vuoto interiore e in comportamenti a rischio preoccupanti. Abbiamo il tempo per prepararci a prevenire questa nuova piaga sociale.

*Ordinario di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva Università degli Studi di Roma «La Sapienza»

giovedì 30 novembre 2006

l’Unità 30.11.06
Spagna 1936, l’unica democrazia possibile


ANNIVERSARI. Nel suo ultimo libro Gabriele Ranzato analizza passato e presente della nazione iberica e critica forzature ed estremismi dei repubblicani. Ma allora nessun paese democratico era davvero tale sino in fondo e quello fu pur sempre un tentativo cruciale

Un libro di storia è importante per la documentata serietà con cui veicola le argomentazioni che contiene, e anche per gli interrogativi che suscita. È questo il caso del bel libro di Gabriele Ranzato, Il passato di bronzo. L'eredità della guerra civile nella Spagna democratica (pp. 153, Euro 15, Laterza 2006). Al centro vi è il il confronto tra le tante Spagne di questo secolo (la monarco-conservatrice, la repubblicana, la franchista catto-fascistoide, la democratico-pluralista e costituzionale). Essenzialmente due, sono i temi delineati. Il primo riguarda el pacto del olvido, ossia il patto dell'oblio tra le forze politiche, e in realtà tra gli stessi cittadini della nuova Spagna, nel difficile e lungo periodo della transizione dalla dittatura franchista alla democrazia, transizione iniziata nel 1975 con la morte del Caudillo. Il secondo tema, che ha una portata ancora più generale ha invece a che fare con l'insidioso rapporto-raffronto tra la democrazia odierna e la democrazia degli anni drammatici della repubblica (1931-1939). Per quel che riguarda il primo tema Ranzato ha il grande merito di contestualizzare puntigliosamente la questione e di renderla concreta, cosa che in Italia non era stata fatta quando era uscita La lezione spagnola di Víctor Pérez-Díaz (il Mulino, 2003), una riflessione certo di gran peso sulla transizione, ma più politologica che storica. Tale riflessione aveva oltre tutto suggerito, nel nostro paese, improbabili confronti, non privi talora di rimpianto, tra l'Italia del 1945 e la Spagna del 1975. Ranzato, infatti, parte dall'amnistia decretata nell'ottobre 1977 per i delitti politici dell'una e dell'altra parte e percorre le difficoltà della giovane democrazia spagnola, posta a lungo sotto la tutela di una casta militare burbanzosa e nostalgica. Quello di Tejero - «¡todo el mundo al suelo!» - non fu infatti un rozzo tentativo golpista isolato. L’insofferenza dei militari, e le manifestazioni concrete di tale insofferenza, furono per molti anni evidenti. E il «patto dell’oblio» non fu il risultato della saggezza delle élites politiche, ma una spontanea invenzione dei cittadini appena usciti dalla frustrazione causata dalla marginalizzazione europea e desiderosi di voltare irreversibilmente pagina. La democratizzazione era partita dall'interno di un regime ormai impresentabile e penalizzante per gli assetti economici e sociali della Spagna, ma aveva avuto molti nemici politici all’interno dello stesso regime agonizzante, della Guardia civil e delle Forze armate. I cittadini, troppo presi dalla libertà ormai acquisita per rischiare di perderla esibendo con troppo di vigore memorie che non potevano essere condivise, assecondarono così, con sorprendente pacatezza, una democratizzazione che sgusciava fuori da un involucro politico che ormai si era disfatto. Decisiva - e su questo Ranzato avrebbe forse potuto dire di più - fu anche la capacità di attrazione esercitata proprio dall'Europa democratica, che mai, a sua volta, avrebbe potuto essere compiuta senza il grande apporto della Spagna. L'Europa stessa, con i suoi consumi e con i suoi costumi, con la sua tensione verso l'unità, stava infatti, tra «miracoli economici» e ampliamenti delle libertà, cambiando. Nel decennio 1965-1975, a confronto con gli altri grandi Stati eurooccidentali, la Spagna sembrava un residuale anacronismo. Non così era sembrata nel decennio 1950-1960. Il gollismo aveva nel frattempo calcato la mano sull’indipendenza del continente. Willi Brandt aveva inaugurato la stagione dell'Ostpolitik, prerequisito di medio periodo della caduta del muro di Berlino e quindi dell’allargamento dell’Europa. Sull'Atlantico e nel cuore del Mediterraneo erano infine cadute la dittatura portoghese e quella greca. Il franchismo, in questo contesto, era già moribondo prima della morte di Franco. Ma i suoi colpi di coda potevano - Ranzato lo documenta - essere molto pericolosi. I separatismi secessionistici e gli efferati terrorismi, che spesso avevano di mira i militari, rendevano la situazione ancora più pericolosa. La paura nella fase della transizione fu palpabile e fu essa che, pur nell’effervescenza del momento (basti pensare all'attività editoriale, e di recupero del passato, degli anni tra il 1975 e il 1980), produsse il cosiddetto patto dell'oblìo. Un patto che in realtà tale non fu, perché nulla fu dimenticato. Si può però forse dire che la memoria fu inserita nella lotta politica di quegli anni in forma meno arroventata di quel che ci si sarebbe potuto aspettare. Peculiare fu dunque il contesto, tanto che esso - non si può che accogliere il giudizio di Ranzato - non poté «configuare una lezione spagnola da impartire, in prospettiva o ex post, a chiunque realizzi un passaggio dalla dittatura alla democrazia».
E qui si arriva al secondo tema. All’aspetto benigno del cosiddetto patto dell'oblìo. Vale a dire alla creazione progressiva di una democrazia matura e distante da quella, assai problematica, del periodo repubblicano. Ranzato, con lucidità e coraggio, si sofferma, a questo punto, pur restando netta la sua condanna del franchismo come responsabile primo di quel che accadde, sulle brutalità dei repubblicani nel periodo della guerra civile, così come sulle insufficienze e sulla debolezza della democrazia repubblicana, che non può, e non deve, essere il modello, e neppure il fondamento ideale lontano, della democrazia odierna, la prima vera democrazia della storia spagnola. Se si escludono le perplessità suscitate da alcune citazioni isolate di esternazioni di Azaña e di Prieto effettuate in tempi tumultuosi - cosa si potrebbe infatti dire dell'Italia del 2001-2006 tra settant'anni se, con una contestualizzazione assai smilza, si citasse Bossi che afferma in tempo di pace che si sarebbe dovuto fucilare i democristiani ? -, nessuna obiezione può essere fatta a Ranzato sul terreno concreto dei fatti. Ma qui prorompe la questione di metodo. Quale democrazia del passato appare, anche in assenza di una guerra civile, una democrazia se osservata con gli occhi delle democrazie odierne? Probabilmente nessuna, con la parzialissima eccezione, forse, della repubblica di Weimar. Il fatto è che la democrazia non è un’essenza immutabile che resta tale indipendentemente dalle forme del suo precipitare in storica esistenza, non è un semplice e immodificabile idealtipo. La democrazia è un processo, provvisto di tortuose anse e non immune, complici le crisi economiche (o morali) e le guerre, da regressivi arretramenti. Nulla è mai veramente conquistato e nulla è mai veramente perduto. Gli storici non posseggono del resto verità assolute e non possono permettersi di condannare il relativismo. Chi potrebbe altrimenti considerare democratico oggi un paese che non fa votare le donne, che non concede i diritti civili ai neri o ad altre minoranze, che esercita con la forza e la repressione il dominio sulle colonie, dove vivono cittadini senza diritti o con minori diritti? Con il nostro sguardo odierno, e con le nostre non negoziabili esigenze, la Germania del 1914 non è certo democratica, alla stessa stregua però della Francia repubblicana e rivale in guerra, così come non è democratica l'Italia del 1919-'22 (pur affossata dal fascismo), non è democratica l'America ancora discriminatrice di Roosevelt (pur «arsenale delle democrazie» e poi restauratrice della libertà europea), non è democratica l'imperiale Inghilterra di Chamberlain (che però resistette poi, a lungo sola, con Churchill, al nazismo e al fascismo). Le democrazie, dunque, in quegli anni, non erano veramente tali, se paragonate ai nostri elementarissimi valori condivisi. Erano quantomeno, se ci si arrampica sino al punto di vista dell'eterno oggi (ma gli storici possono farlo?), larghissimamente «imperfette», termine a sua volta ambiguo perché non crediamo alla possibile esistenza di democrazie «perfette».
Per di più le democrazie «imperfette» erano pochissime. Tra le due guerre mondiali, nella stessa Europa, il quadro era infatti sconfortante. Dilagarono infatti le dittature e il totalitarismo. Ecco il quadro: repubblica dei Soviet (1918, soppressione dell'Assemblea Costituente, 1922, creazione dell'URSS), Italia (1922, marcia su Roma, 1926, formazione dello Stato totalitario), Bulgaria (1923, putsch militare), Spagna (1923, dittatura di Primo de Rivera), Turchia (1923, inizio dell'autoritarismo kemalista), Albania (1925, larghissimi poteri a Zogu, poi re), Portogallo (1926, putsch militare), Polonia (1926, colpo di Stato), Lituania (1926, dittatura), Jugoslavia (1929, colpo di Stato monarchico e serboslavo), Romania (1930, governo personale del re), Portogallo nuovamente (1932, inizio del salazarismo), Lituania definitivamente (1932), Germania (1933, presa del potere da parte di Hitler), Austria (1933-'34, clericofascismo di Dollfuss), Estonia (1934, dittatura), Lettonia (1934, dittatura), Grecia (1936, colpo di Stato), Spagna nuovamente (1936, rivolta militare, guerra civile, franchismo su tutto il territorio a partire dal 1939), Austria definitivamente (1938, annessa al Terzo Reich), Cecoslovacchia (1938-'39, smembrata e in parte annessa al Reich). Se si aggiunge che anche l'Ungheria - con i suoi governi antisemiti - non ebbe credenziali democratiche, si vede che nel 1939 esistevano in Europa ben pochi Stati retti con una democrazia che peraltro oggi non sarebbe accettabile, e che tuttavia molti storici, naturaliter relativisti lungo il filo del tempo, comprensibilmente si ostinano, con molti distinguo, a definire appunto «democrazia».
In questo contesto visse e morì la repubblica spagnola. Grazie ad essa, peraltro, e sia pure tra impazienti smanie di rivoluzionario riscatto sociale e rigide chiusure ideologiche, germogliarono i primi frutti di quell'antifascismo che contribuì a rendere progressivamente sempre più democratiche le democrazie di quell'Europa libera che nel 1975 era in grado di attrarre irresistibilmente una Spagna già in rebus ipsis postfranchista. Le democrazie di oggi, è vero, sono molto diverse dalle democrazie del +passato prossimo. E ancor più diverse sono dai sussulti democratici presenti nelle repubbliche del passato più remoto. Noi infatti non accetteremmo più le violenze presenti nella rivoluzione americana (ci furono, eccome) o la giustizia sommaria dei tribunali del periodo del Terrore giacobino. Eppure, senza quelle esperienze, e senza i valori e gli slanci a quelle esperienze connesse, noi non saremmo quel che siamo. Ranzato fa bene a insistere sulla «differenza». Non possiamo però illuderci di essere giganti sulle spalle di nani. Dietro di noi non c'è una tabula rasa. E se lo sguardo di Ranzato sulla repubblica spagnola può oggi essere tanto severo, il merito è anche, piaccia o no, della repubblica spagnola stessa e della pur incerta grammatica della democrazia che lì venne a tratti compitata. È questa la lezione che ricaviamo non dalla sola Spagna, ma dalla faticosa traiettoria, talora lineare, talora interrotta e carsica, di tutte le democrazie.

il manifesto 30.11.06
Il fascino degli slogan «Ribellarsi è giusto» e «Bombardare il quartiere generale». Parole d'ordine che sembravano adatte al Sessantotto
L'utopia interrotta dei cento fiori
«Mao's last revolution», un saggio sulla rivoluzione culturale cinese. Non l'atto di un dittatore impazzito, ma neppure il frutto della spontaneità delle masse
di Silvia Calamandrei


Già dal titolo - Mao's Last Revolution, «L'ultima rivoluzione di Mao» -, il libro di Roderick Mc Farqhuar e Michael Schoenhals (Harvard University Press, Cambridge, pp. 693) annuncia che non si tratta di una ricerca storica volta a una interpretazione riduzionista della rivoluzione culturale cinese, come avviene invece in molte analisi pubblicate in questi anni che vi vedono l'ultima lotta di palazzo di un dittatore impazzito o l'ultimo sussulto rivoluzionario prima della restaurazione del capitalismo in Cina. I due storici, profondi conoscitori, anche come testimoni diretti, della rivoluzione culturale hanno lavorato principalmente su fonti cinesi, un ricchissimo materiale accumulatosi nei quaranta anni trascorsi, che comprende documenti ufficiali, testimonianze dirette, autobiografie e biografie dei vari protagonisti, dai massimi dirigenti alle semplici guardie rosse. Il risultato è una ricostruzione pacata e dettagliata degli eventi, ivi compresi quelli più controversi, come l'episodio degli scontri nella cittadina di Wuhan in seguito all'istituzione di scuole separate per contadini e «cittadini» o il complotto e la fuga di Lin Biao.
In una recensione scritta sulla «New York Review of Books», il sinologo Jonathan D. Spence sottolinea la difficoltà di fornire un resoconto lineare di eventi drammatici che hanno coinvolto milioni di persone e che si sono a lungo protratti nel tempo. Spence dà però atto ai due studiosi di aver padroneggiato la complessità del tema, dedicando giustamente il volume non solo a coloro che li hanno aiutati con i loro scritti e le loro testimonianze, ma soprattutto ai futuri storici cinesi che potranno scrivere con maggiore libertà su questi eventi.
La rottura con l'Urss
La rivoluzione culturale, documentano i due studiosi, non è stato il prodotto di un atto folle di un dittatore sanguinario, ma neanche una rivolta spontanea delle masse in sintonia con un dirigente geniale che tenta di uscire «da sinistra» dal socialismo reale. Semmai, la rivoluzione culturale cinese è il frutto di un'operazione progettata e gestita dallo stesso Mao e da una parte del gruppo dirigente cinese per portare a termine il percorso rivoluzionario intrapreso dalla «Lunga marcia» e trovare così una via diversa per il socialismo rispetto a quella sovietica. La sua genesi è nel 1956, un anno cruciale per il movimento comunista mondiale. Mao rimane molto colpito dal rapporto Kruscev e dalle rivolte polacca e ungherese. Ed è proprio in quell'anno che comincia a lavorare a un'alternativa alla «via kruscioviana», mentre l'incubo di un possibile «Circolo Petöfi» cinese lo tormenterà fino alla morte(in seguito alla pubblicazione del rapporto sui crimini di Stalin, un gruppo di intellettuali ungheresi iniziò a organizzare una serie di incontri e discussioni pubblici spesso molto critici verso il partito comunista, n.d.r.). Il nipote del «grande timoniere», Mao Yuanxin, che negli ultimi mesi di vita dello zio era uno dei pochi che gli parlava, usò proprio questo riferimento per convincere un Mao ormai allo stremo che le manifestazioni in onore della memoria di Zhou Enlai sulla piazza Tienanmen dell'aprile 1976 erano ordite da controrivoluzionari e meritavano la messa sotto accusa di Deng Xiaoping, da poco recuperato dall'esilio.
E' nella analisi delle rivoluzioni ungherese e polacca e del suo impatto sui vari partiti comunisti che affondano le radici il testo di Mao sulle «contraddizioni in seno al popolo», la campagna dei «cento fiori» e la repressione degli «elementi di destra» immediatamente successiva. Il pericolo del «revisionismo» che apre la strada alla restaurazione del capitalismo, identificata con la perdita del controllo del partito-stato sulla società, tiene quindi unito il gruppo dirigente del Pcc nella controversia con l'Unione Sovietica (Deng Xiaoping e Chen Boda si alternano come ghost writers dei lunghi documenti di controversia ideologica con il Pcus, ivi compreso lo scritto «Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi»). Ma è nel corso degli anni Sessanta, dopo la parziale correzione dei disastri causati dal «Grande balzo in avanti», che Mao comincia a sentirsi emarginato nel gruppo dirigente.
Non si fida più dei vecchi compagni d'armi e comincia a sospettare che «personaggi tipo Krusciov» stiano prendendo il controllo del partito comunista. Quella che si configura come un lotta di successione viene gestita dal vecchio leader con sentimenti alterni di onnipotenza e fatalismo. Mao cerca a tentoni dei successori fidati, scatenando così una vera e propria guerra civile, anche se si è in precedenza assicurato il controllo di alcuni gangli vitali: l'esercito, il ferreo controllo sugli affari correnti da parte di Zhou Enlai, i servizi segreti e la politica estera. La rivoluzione culturale è dunque un'operazione collettiva lanciata e gestita da un gruppo dirigente assemblato fase per fase e che ha in Mao l'autorità indiscutibile, ma le cui colonne portanti sono, di volta in volta, la destra o la sinistra del partito, in un dosaggio più o meno accortamente fissato dal vecchio timoniere e gestito con abilità consumata da Zhou Enlai, che non si sottrae all'ultima avventura, pur cercando di limitarne i danni.
Se il partito diviene il bersaglio della critica, la fedeltà dell'esercito è indispensabile. Per questo, Mao punta al consolidamento nell'esercito popolare di liberazione della posizione di Lin Biao, «il più fedele compagno d'armi», l'iniziatore del culto della personalità attraverso la diffusione del «Libretto rosso». Gli viene data mano libera per sbarazzarsi del maggiore ostacolo alla sua leadership, il generale Luo Ruiqin, capo di stato maggiore e presidente della Commissione degli affari militari. Messo sotto pressione, Luo tenta il suicidio, ma sopravvive perdendo solo l'uso delle gambe, per poi essere più volte esposto a sedute di critica di massa trasportato su una carriola.
Una differenza evidenziata tra stalinismo e maoismo è la gestione delle epurazioni. In Unione Sovietica è il terrore poliziesco a gestirle, anche se non mancano zelanti delatori; in Cina, invece, è il terrore di massa nella forma di «campagne tematiche» che individua gli obiettivi (i dirigenti) da colpire: questo spiegherebbe il fatto che in Cina ci siano stati più suicidi e meno esecuzioni nel gruppo dirigente che non in Urss. Ma c'è da rabbrividire a leggere i commenti che vengono fatti dai massimi dirigenti dopo il fallito suicidio di Luo Ruiqin, pur sempre un veterano della «Lunga marcia». E' Liu Shaoqi, ignaro di che cosa lo attenda tra poco, a riferirne con le seguenti parole: «Se ti suicidi, almeno devi avere una certa tecnica, buttandoti di testa e non di piedi: invece è caduto di piedi e non si è fatto male alla testa». Al che Deng Xiaoping commenta: «Si è tuffato come le donne, di piedi e non di testa, come un ghiacciolo col bastoncino».
Le varie fasi del terribile decennio 1966-76 vengono ricostruite da MacFarquhar e Schoenhals, sia per quanto riguarda la discussione nel gruppo dirigente cinese che nella «guerra civile» che si scatena soprattutto nel biennio 1967-1968, con momenti in cui il paese sembra precipitare in una situazione di anarchia che si diffonde a macchia d'olio. Mao non esita a rendere protagonisti gli studenti e gli operai di una mobilitazione prolungata che ha come bersaglio l'apparato del partito-stato, particolarmente nel settore della cultura-istruzione e in quello della politica estera, mentre blocca rapidamente ogni tentativo di investire l'apparato dell'esercito e dell'economia, che resta in mano a Zhou Enlai, alle prese con l'arretramento della produzione industriale a seguito dei disordini che si concentrano prevalentemente nelle aree urbane. Meno toccate invece le campagne, dove i contadini godono quasi di un momento di respiro grazie all'indebolimento dell'apparato di controllo, salvo dover accogliere le guardie rosse spedite a rieducarsi: tra il 1967 e il 1979 sono 16 milioni e mezzo i giovani istruiti inviati in campagna, svuotando le città e disperdendo le roccaforti dei «ribelli».
Di recente, presentando il nuovo libro di Federico Rampini L'ombra di Mao (La Repubblica del 10 novembre), Adriano Sofri individua nella povertà e nel volontarismo le «ombre cinesi» che avrebbero adescato a suo tempo la sinistra occidentale e accosta, assai disinvoltamente, l'iconoclastia delle guardie rosse con la Jihad islamista, invitando i cinesi ad un esame di coscienza simile a quello compiuto dalla Germania dopo il nazismo. Avendo vissuto quella fascinazione, sottolinerei soprattutto il fascino dello spontaneismo e degli slogan lanciati dal dirigente supremo: «Bombardare il quartier generale» e «Ribellarsi è giusto» erano parole d'ordine che sembravano adeguate anche per il Sessantotto e la sua critica alla sinistra storica. Leggendo Mao's last revolution si scopre però che la frase «bombardare il quartier generale» viene pronunciata per primo da Liu Shaoqi, in visita all'Università di Pechino, in un ultimo sforzo per sfuggire al cerchio che gli si sta stringendo attorno, autocriticandosi per non avere consentito agli studenti di ribellarsi. Agli inizi aveva creduto che si applicasse lo schema dei «cento fiori»: allentare la briglia e lasciare esprimere le masse, per poi ricondurre il movimento sotto l'autorità del partito, dopo averne liquidate le ali estreme. Ma Mao, invece, decide di allentare ulteriormente le briglie al movimento, scrivendo il 5 agosto 1966 un manifesto in cui loda l'operato delle «gardie rosse». Si stabilisce un apparente cortocircuito: leader supremo-masse, con quest'ultime autorizzate a «liberare se stesse» in base alla «Decisione in 16 punti» promulgata l'8 agosto del 1966.
Come ricostruiscono bene Mac Farquhar e Schoenhals, la spontaneità delle masse è dunque assai relativa, utilizzata e tenuta sotto controllo fin dove possibile per essere ricondotta a più miti consigli con l'intervento dell'esercito o l'invio in campagna. Da non trascurare, inoltre, l'uso sistematico dell'apparato poliziesco, soprattutto nella campagna contro il misterioso «complotto controrivoluzionario del 16 maggio», scatenata nell'autunno del 1967 e diretta principalmente contro l'«ultrasinistra». Coincide con lo stop ai movimenti di massa e l'invito a formare «grandi alleanze» e a creare comitati rivoluzionari per assemblare vecchi quadri del partito, dell'esercito e rappresentanti scremati dei ribelli per epurare i vecchi funzionari dell'apparato statale. La campagna contro il fantomatico «complotto del 16 maggio» si protrarrà a lungo: Wang Li, uno dei dirigenti accusati di esserne tra gli ispiratori, calcolò nel 1983, una volta scarcerato, che ci furono almeno 3 milioni e mezzo di arresti. La contabilità delle vittime del decennio deve tener conto dei diversi fronti delle epurazioni, dirette di volta in volta contro nuovi bersagli, nonché degli scontri tra le diverse fazioni e delle repressioni armate.
La memoria impossibile
Il Nobel per la letteratura Gao Xingjian ha scritto: «Ognuno è stato vittima della grande catastrofe nota come Rivoluzione culturale e ha dimenticato che prima di essere colpito personalmente dal disastro anche lui è stato in una certa misura tra gli assalitori. La storia della Rivoluzione culturale viene perciò continuamente revisionata. E' meglio non cercare di scrivere una storia ma limitarsi semplicemente a ricordare le proprie esperienze». Il coinvolgimento attivo di milioni di persone, alternativamente vittime e persecutori, rende difficile un bilancio oggettivo ed è un'operazione imparagonabile ad altre operazioni di memoria storica. Mac Farquhar e Schoenhals hanno tentato comunque di scrivere la storia di quel decennio, scorgendovi la premessa della riforma intrapresa dopo la morte di Mao da Deng Xiaoping, la carta di riserva che Mao si era sempre tenuto in caso di defaillance di Zhou Enlai. Paradossalmente, secondo gli autori, Deng, che realizza il peggior incubo di Mao, la modernizzazione capitalistica, ha trovato la strada spianata dalla disastrosa pratica utopica messa in atto con la rivoluzione culturale.

il manifesto 30.11.06
Processi / Un mostro lombrosiano nell'Italia di fine Ottocento


Fra il 1873 e il 1875 nel borgo di Incisa Val d'Arno, vicino Firenze, quattro bambini scomparvero senza lasciar traccia. Un quinto, Amerigo, venne ritrovato sul punto di essere ucciso da Callisto Grandi, detto Carlino, carraio ventiquattrenne responsabile anche della morte dei quattro fanciulli spariti i cui resti giacevano nella sua bottega, sepolti sotto un palmo di terra. Seguì una rapida istruttoria, poi la confessione, le perizie mediche e il dibattimento processuale che condusse a una condanna finale di «vent'anni e più di casa di forza». Il caso, fra i primi a essere accompagnato dalla grande curiosità di un'opinione pubblica avida di particolari, è al centro di L'ammazzabambini. Legge e scienza in un processo di fine Ottocento (pp. 256, euro 15) di Patrizia Guarnieri, una ricostruzione rigorosa e coinvolgente, con un ricco apparato di fonti, che approfondisce il dibattito fra scienziati della mente e giuristi mantenendo un occhio attento alle reazioni del pubblico e in particolare dei lettori di quotidiani e giornali popolari. Il libro, uscito nell'88 per Einaudi poi tradotto nel 1992 da Polity Press, viene ora meritoriamente riedito da Laterza (pp. 256, euro 15) per l'inequivocabile attualità del tema.
Carlino Grandi aveva ammesso: «tutti i ragazzi mi canzonavano, mi prendevano burla, mi dileggiavano, mi dicevano pelato, ventundito, perché in un piede ho sei diti, mi dicevano guercio e nano e quando venivano in bottega mi facevano sempre qualche birichinata e ora che ne avevo ammazzati quattro stavo meglio, e mi lasciavano in pace». La sua colpevolezza, dunque, fu da subito indiscutibile. Tuttavia questo processo rappresentò un banco di prova per le teorie del positivismo, della psichiatria e della nascente antropologia criminale, l'occasione per un confronto fra la prassi giurisprudenziale, la scienza e il senso comune ma anche fra le diverse definizioni di follia. Tanto che, a visitare il detenuto in cella, «accorsero quasi tutti i medici più sapienti di Firenze e non loro soltanto».
Ma gli insulti dei bambini di Incisa ritornavano come una nenia martellante nelle parole di giornalisti, medici psichiatri, giudici e impedivano di dimenticare le difformità fisiche dell'assassino che, perennemente sullo sfondo, rappresentavano la base ideale per gli studi sui tratti somatici della malattia mentale e della predisposizione al crimine secondo le teorie divulgate in quegli anni da Lombroso. I giornali invocavano il parere degli scienziati: che misurassero il cranio, che esaminassero il corpo del colpevole dimostrando, così, come il sapere scientifico potesse e dovesse rivelare una verità sconosciuta persino al soggetto stesso. Sullo sfondo di un'Italia da poco unita e ancora impegnata nel porre le basi del suo ordinamento giuridico, la scienza e la legge giocarono, nel processo a Carlino, la loro partita. In particolare era evidente il desiderio di affermare lo status della psichiatria come disciplina e di confermare la prerogativa degli alienisti, rispetto ai semplici medici e ai magistrati, di giudicare la reale responsabilità dei comportamenti criminali. Una microstoria, dunque, capace di rimandare, in un gioco di scala, peculiarità e contraddizioni di un'epoca storica e suggerire più di un elemento destinato a durare nel discorso pubblico e in quello scientifico. Alla fine, scontata la pena, il problema di cosa fare di Grandi si ripresentò. A decidere, in base alla strampalata diagnosi di «megalomania paranoica, anestesia morale, ipocrisia, alopecia congenita», il 5 novembre 1895 fu il tribunale di Firenze che ne decretò il ricovero definitivo nel manicomio di San Salvi appena inaugurato. Eppure Carlino, pur mantenendo fino alla sua morte un comportamento quieto, questa storia «per cui lo prendevano, lo sbattevano nelle prigioni, poi lo mandavano fuori e lo chiudevano in manicomio» non riusciva proprio a spiegarsela. «Se era pazzo non dovevano metterlo in galera né tenercelo tanto; e se non lo era, come avevano detto i giudici al processo, allora dovevano lasciarlo in libertà appena espiata la pena. Non era forse logico?». Alessandra Gissi

il Quotidiano 30.11.06
Anoressia maschile in aumento

I pazienti anoressici uomini rappresentano il 4,1% della popolazione, t ra i sintomi manifestati, depressione (35,6%), attacchi di panico (9,5%), alcolismo (3,4%) o nessun sintomo (35%)

Roma, 28 novembre 2006 - L'anoressia è malattia che riguarda esclusivamente le donne? Ci si ammala per indossare la famigerata taglia 38 delle modelle? Oggi si scopre che non è così: risale infatti al 1689 il primo caso di anoressia maschile: un ragazzo di 16 anni, figlio di un pastore protestante inglese, era affetto da anoressia nervosa dovuta ad una progressiva mancanza di appetito causata da «studio eccessivo» e «dalle sofferenze della mente», e non rispondeva alle cure tradizionali.
Il dottore inglese Richard Morton formulò un'ipotesi sensazionale per l'epoca: il problema non era di natura organica, ma nervosa. Consigliò al giovane di abbandonare gli studi e trasferirsi in campagna per distrarsi: la strategia funzionò. Quindi il «paziente zero» del più drammatico e pericoloso dei disturbi alimentari era un maschio. Ci sono voluti due secoli prima che altri scienziati prendessero in considerazione l'anoressia negli uomini. Del problema parla il settimanale Grazia, in edicola domani.
Ancora oggi rinunciare ad alimentarsi fino alle estreme conseguenze è visto come un problema esclusivamente femminile. Invece è sbagliato: le statistiche descrivono il fenomeno dell'anoressia maschile in aumento, nonostante il rapporto sia ancora tutto sbilanciato in favore delle donne (10 a 1). Le stime variano secondo le fonti, ma gli esperti concordano nel collocare intorno alle 14-15 mila unità i casi di anoressici nel nostro Paese. Ed è possibile che siano valutazioni sottostimate.
Da un'indagine del Centro Ricerche Aba, Associazione bulimia anoressia - Anna Maria Speranza dell'Università La Sapienza di Roma, risalente al periodo 1997-2001, i pazienti anoressici uomini rappresentano il 4,1% della popolazione e hanno i primi sintomi in media a 17 anni. Il 48,7% di loro è uno studente, mentre il 26,3% è rappresentato da impiegati; il 13% sono, invece, disoccupati o lavoratori saltuari.
Tra i sintomi manifestati, depressione (35,6%), attacchi di panico (9,5%), alcolismo (3,4%) o nessun sintomo (35%).
La diagnosi di anoressia nervosa nei maschi non è affatto semplice: «I medici, spesso, non si aspettano di trovarsi di fronte un uomo anoressico e associano i sintomi del paziente ad altre patologie», spiega, sul settimanale Grazia, la psicologa Maria Concetta Cirrincione, consulente del sito psiconline.it. «I criteri diagnostici dell'anoressia sono stati finora incentrati sulla donna. Uno dei più importanti sintomi della malattia è considerata l'alterazione del ciclo mestruale. Molti casi di anoressia maschile, quindi, non sono riconosciuti come tali».
Di anoressia maschile si parla poco e malvolentieri, quasi fosse un tabù: difficile far accettare a un uomo l'idea di essere colpito da una malattia «da donne». Rispetto alle donne i maschi tendono a negare il problema e, anche se ne prendono coscienza, non ne parlano apertamente. Come si spiegano allora i casi in aumento di cui parlano le statistiche? Su questo aspetto gli specialisti sono divisi. Alcuni parlano di un incremento reale, dettato soprattutto dall'influenza dei media e dai cambiamenti dei modelli culturali. «L'immagine mediatica del maschio ideale non è incentrata sulla magrezza, come per le donne», dice ancora la dottoressa Cirrincione, «ma sulla forma fisica. Non deve sorprendere, quindi, che la principale causa di perdita di peso nei maschi anoressici sia l'eccesso di esercizio fisico».
Altri hanno una teoria diversa: il dottor Fabio Galimberti dell'Associazione bulimia anoressia (Aba) non crede in un aumento numerico, come spiega su Grazia, ma piuttosto in una crescita di «uomini che cercano una cura, perchè ormai si parla sempre di più dei disturbi maschili del comportamento alimentare ed è dunque diventato socialmente più lecito per un maschio chiedere aiuto».
E mentre nelle donne il momento in cui si manifesta per la prima volta la malattia coincide con lo sviluppo sessuale, negli uomini avviene più tardi. Proprio la sessualità è un elemento fondamentale per indagare sulle differenze tra anoressia maschile e femminile: «I maschi usano l'anoressia come uno strumento per arrivare più disinibititi al primo incontro con l'altro sesso», dice Galimberti. « Dimagrendo e raggiungendo il proprio ideale estetico hanno la conferma del proprio valore».
Tutto il contrario delle donne, «che usano l'anoressia per mettere alla prova l'altro (»amami a prescindere dal mio corpo, desiderami come persona«) o per tenerlo a distanza attraverso la negazione della sessualità». Uno studio dei medici tedeschi Manfred Fichter e C. Daser ha dimostrato che l'80% dei maschi anoressici del campione era cresciuto «in famiglie che consideravano il sesso come un tabù» e, aggiunge la dottoressa Cirrincione, «quasi il 50% dei soggetti anoressici dichiara di essere incerto sulla propria identità sessuale». Ma non è tutto. L'anoressico - tipo è un «soggetto depresso, ipersensibile, con forti sensi di colpa e scarsa autostima», prosegue la psicologa, «l'ambiente familiare in cui cresce ha un ruolo centrale nello sviluppo della malattia. Un padre poco presente e una madre dominante e iperprotettiva sono quasi una costante nella vita degli anoressici».

liberta.it 30.11.06
Bellocchio, pronta la scuola di regia

Prende corpo il sogno di Marco Bellocchio di proporre a Piacenza una scuola di regia cinematografica sull'onda dei seminari estivi che da diversi anni il cineasta piacentino tiene a Bobbio sotto l'etichetta di Farecinema.
Sono aperte infatti le iscrizioni, che si chiuderanno sabato 18 novembre, al corso di regia, che verrà realizzato proprio a Bobbio, con la direzione dello stesso Bellocchio.
Il corso ha l'obiettivo di mettere in grado gli allievi di concepire ed analizzare una sceneggiatura e progettarne la realizzazione, programmare e dirigere la realizzazione della rappresentazione e delle riprese, progettare e collaborare alla realizzazione del montaggio delle scene girate.
Il progetto, che ha una durata globale di 500 ore è suddiviso in quattro fasi: "Dal soggetto alla rappresentazione", "La rappresentazione e le riprese", "Il montaggio" e "Edizione, distribuzione e promozione dei prodotti cinematografici e teatrali".
Il corso rientra in un progetto finanziato dalla Regione Emilia-Romagna tra quelli riguardanti figure di alta professionalità nell'ambito artistico e sarà realizzato dal Centro Itard in collaborazione con il Comune di Bobbio e l'adesione della Provincia di Piacenza.
L'attività didattica prevede momenti d'aula che saranno condotti da esponenti di spicco della cinematografia italiana, nella scia di quanto già sperimentato nei laboratori estivi che hanno visto la collaborazione di sceneggiatori come Stefano Rulli, Domenico Starnone, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia, Vincenzo Cerami, registi emergenti e affermati come Fulvio Ottaviano, i Manetti Brothers, Piergiorgio Gay, Edoardo Winspeare, Francesco Maselli, Francesca Comencini, Mimmo Calopresti, Emanuele Crialese, Franco Battiato.
Sono previsti anche momenti di esercitazione dove gli allievi sperimenteranno la propria creatività, producendo praticamente ciò che viene concepito in aula e verificandolo poi con i docenti: una vera e propria "scuola", come la intendevano i grandi artisti del Rinascimento, dove il fare esperienza è al centro della crescita professionale e l'insegnamento è legato alla condivisione di esperienze con maestri che hanno realizzato opere importanti.
Il progetto è finanziato dalla Regione tramite il meccanismo dei voucher. Il costo per partecipante è di 8.000 euro. Chi sarà selezionato, tra quelli che avranno chiesto di partecipare, riceverà un finanziamento dalla Regione che coprirà 5.600 euro. Il resto dovrà essere versato dal partecipante come quota di iscrizione.
Il corso è riservato a 15 allievi che saranno selezionati, tra chi avrà richiesto di partecipare, da una commissione formata dagli organizzatori e da esperti.
Per chi voglia intraprendere questa difficile professione è un'occasione unica per sviluppare le competenze necessarie nel rapporto con maestri del cinema.
Il corso inizierà mercoledì 13 dicembre e fino a domenica 17 avrà luogo il primo stage con la presenza di Bellocchio e di uno sceneggiatore che spiegheranno il meccanismo del corso ai partecipanti.
Sostanzialmente si tratta di 7 stage di 5 giorni l'uno, da tenersi a Bobbio, che comprendono lezioni delle varie materie e verifiche del lavoro fatto. Queste lezioni, cui prendono parte i docenti che saranno scelti nei prossimi giorni, sono intervallate dal project work, un ciclo di 6 stage da dicembre a maggio in cui i partecipanti lavorano in gruppi e autonomamente ai loro progetti.