giovedì 21 dicembre 2006

Aprileonline.info 20.12.06
Una regalia inaccettabile
di Pino Sgobio


100 milioni alle università private? Come si concilia tale elargizione con il taglio alla scuola pubblica che, dal 2009, ammonterà a 1.402 milioni di euro? Perché questa forzatura?
In periodi di vacche magre, c'è qualcuno che, evidentemente, ingrassa sempre e comunque. I 100 milioni di euro in tre anni, contenuti nei commi 603 e 604 del maxiemendamento alla Finanziaria, destinati all'università privata, vale a dire, nella grande maggioranza dei casi, ad istituti di enti ecclesiastici, rappresentano un nuovo e inaspettato "buco nero" di questa difficile e complicata manovra di bilancio, che si va ad aggiungere al famigerato comma 1.346 sulla prescrizione breve per i danni allo Stato. E' la seconda volta che una misura mai discussa all'interno delle tante riunioni di maggioranza, che sul tema della Finanziaria sono state fatte, entra a far parte di questa legge in modo surrettizio e subdolo.
Questa regalia alle università private è un provvedimento che non capiamo affatto. Non se ne avvertiva l'urgenza e non se ne sentiva l'opportunità. Inserire questa vera e propria elargizione di soldi pubblici a strutture private fa a pugni, non solo con il dettato costituzionale, ma con il richiamo al rigore e ai sacrifici, che, continuamente, un giorno sì e l'altro pure, viene fatto da autorevoli esponenti di governo ai cittadini. Difficile capirla questa norma, così come è difficile, adesso, spiegarla agli italiani. Qualcuno del governo dia chiarimenti al riguardo! Non ci sono soldi per l'Università, che avrebbe bisogno, come hanno denunciato i Rettori, di 350 milioni di euro ed invece se ne ritrova solo 78, e per la Ricerca pubblica, cui, alla fine, sono stati concessi solo 20 milioni di euro grazie all'emendamento cosiddetto "Montalcini", e poi si finanzia l'università privata... mah, questo ci appare davvero una cosa inaccettabile!
Così come il Ministro Di Pietro ha chiesto a Prodi un'indagine interna all'Unione per capire come sia stato possibile collocare l'odiosa norma sulle prescrizioni ai reati contabili nella Finanziaria, allo stesso modo, adesso, noi chiediamo al Presidente del Consiglio di conoscere tutto il retroscena di questo intollerabile espediente, che mette sullo stesso piano i collegi universitari gestiti da privati con quelli pubblici. Come si concilia tale elargizione ai privati con il taglio alla scuola pubblica che, dal 2009, ammonterà a 1.402 milioni di euro? Perché questa forzatura? Vuoi vedere che per tenere calme e buone le gerarchie ecclesiastiche, troppo indispettite in questi ultimi tempi di dibattito interno all'Unione su coppie di fatto ed eutanasia, qualcuno ha pensato bene di somministrare un sedativo doppiamente tranquillizzate? E' proprio il caso di scriverlo: come dice il detto popolare "a pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca".
100 milioni di euro? Molti erano i settori sociali ai quali potevano essere destinati. Non si capisce la ratio del perché, ad esempio, si è preferito mantenere i ticket al codice bianco del pronto soccorso, che andranno ad incidere sui portafogli dei cittadini, soprattutto di quelli meno abbienti, e poi si stanziano fondi per i collegi universitari privati.
Tutto questo poi, come se non bastasse, si aggiunge al malcelato fastidio nei confronti di chi, come noi, rivendica il rispetto del programma elettorale. Qualcuno non lo reputa ‘il vangelo', qualcun altro lo vorrebbe funzionale alla costruzione del Partito Democratico. Ma andando avanti così si rischia di far saltare la coalizione e si crea solo confusione nel popolo del centrosinistra, che ha dato mandato all'Unione di ‘cambiare passo' rispetto al disastro del centrodestra. C'è chi ci definisce, con spregio, gli ‘adoratori del programma'. Visto quello che è successo negli ultimi giorni la cosa ci inorgoglisce.
La "faccenda" inquietante di questa norma, infine, dimostra che è necessario riproporre con forza e determinazione una battaglia politica e culturale antica e tuttora moderna: quella per la laicità dello Stato.

* Presidente Gruppo PdCI Camera dei Deputati


Repubblica 21.12.06
L'amore e la pietà del figlio dell'uomo
di Eugenio Scalfari


La Natività di Gesù di Nazareth dispone gli animi (dovrebbe disporli) all´ascolto di se stessi e degli altri, sia da parte dei credenti nella sua origine divina sia da quanti lo considerano un figlio dell´uomo dotato di virtù profetiche sulle quali è stata costruita una delle grandi religioni, fondata sull´amore, sulla pace, sulla giustizia.
Non è dunque tempo di affrontare altri temi, che pure incalzano e preoccupano ma che riguardano il commercio degli interessi e la gestione del potere, fosse pure nel senso più alto e nobile e non sordido e ottuso come molte volte accade. Rinviamo perciò ad altre prossime occasioni questi argomenti e ascoltiamo invece ciò che la mente e il cuore ci suggeriscono su questioni che riguardano i rapporti tra le persone e tra queste e le istituzioni, la vita buona e la buona morte, la com-passione e la pietà. Gli spunti attuali non mancano ed anzi abbondano in un´epoca di contrasti, incertezze, paure, fobie e crescenti egoismi.
Mi hanno colpito in questi giorni due interventi che toccano tasti estremamente sensibili: un articolo di Claudio Magris sul "Corriere della Sera" del 18 dicembre, intitolato "L´ingerenza dell´ipocrisia" e una lettera a Welby scritta da Ignazio Marino, cardiochirurgo e presidente della commissione parlamentare della Sanità, pubblicata sulla "Repubblica" del 19. Di questo mi occuperò e dei complessi problemi che pongono alla nostra attenzione.
***
L´articolo di Magris mi ha lasciato assai perplesso. È la prima volta che mi accade; di solito condivido interamente i suoi pensieri. Questa volta no e mi è riuscito difficile anche cavarne un senso. Per chi non l´avesse letto cercherò di riassumerne le tesi.
Comincia deplorando le ingerenze di chi - persona o istituzioni - invada campi altrui per imporvi il proprio dominio. E poiché l´oggetto dell´articolo riguarda il rapporto tra la Chiesa e lo Stato, fa proprio il motto evangelico del «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Una regola perfettamente equilibrata nella forma come nella sostanza, ma talmente evocata e ripetuta da esser diventata luogo comune, interpretato e stiracchiato in tutte le direzioni fino a perdere ogni significato.

Lo stesso Magris del resto ne fornisce la prova quando osserva che la Chiesa ha diritto di sostenere in tutte le sedi l´etica che deriva dalla religione, aggiungendo che l´etica e la politica sono intimamente intrecciate tra loro sicché la Chiesa legittimamente finisce per entrare nel dibattito politico, nell´amministrazione della cosa pubblica e infine nell´attività legislativa, con tanti saluti alla teorica distinzione tra le competenze di Cesare e quelle di Dio.
Volete forse mettere il bavaglio al Papa e ai vescovi? si domanda e ci domanda Magris. Volete ridurli ad una qualsiasi associazione di bocciofili e di cacciatori? È mai possibile espellere la Chiesa dallo spazio pubblico che le spetta in materie come la bioetica, la fecondazione assistita, l´educazione dei bimbi e dei ragazzi, il finanziamento delle scuole cattoliche, il regime carcerario? Certo che no, nessuno pensa questo, caro Magris. Anzi. I laici, credenti e non credenti, hanno da tempo rinunciato a confinare la religione nello spazio privato. Non solo accettano ma addirittura incoraggiano la gerarchia ecclesiastica ad esprimere pubblicamente le sue convinzioni. Purché sia lasciata al laicato, cattolico e non cattolico, la piena autonomia e responsabilità dei comportamenti politici e legislativi. Si tratta di un´assurda pretesa? O non piuttosto del tentativo estremo di salvare almeno qualche lembo del mantello di Cesare, ormai ridotto a brandelli dalle martellanti ingerenze della "lobby" episcopale e vaticana?
Ma – incalza Magris – spesso accade che i laici rimproverino le ingerenze della Chiesa quando esse siano contrarie alla loro parte politica ma le approvino invece a gran voce quando l´ingerenza giochi a loro favore. Se si è contrari alle ingerenze, questa contrarietà va sostenuta sempre e comunque, indipendentemente dal contenuto.
Parole sante che personalmente condivido e che, per quanto mi riguarda, ho sempre applicato e sostenuto. Se non che Magris si impiglia in una esemplificazione assai poco pertinente a proposito del pacifismo. L´esempio addotto riguarda la guerra in Iraq, sia la prima che la seconda, entrambe deplorate da papa Wojtyla e poi da papa Ratzinger in nome della pace. La sinistra, ricorda Magris, plaudì alla posizione del Vaticano in difesa della pace ma sbagliò. In quel caso infatti il Vaticano si era ingerito indebitamente nel comportamento di governi sovrani e democratici che, magari sbagliando, avevano tuttavia legittimamente portato in guerra i loro paesi. La sinistra perse dunque l´occasione di criticare le ingerenze indebite.
Ecco dove il ragionamento mi sembra completamente sbagliato e fuorviante. La Chiesa predica la pace e si dichiara contro la guerra, specie se si tratti di guerra offensiva e non difensiva. Non si tratta d´una ingerenza ma di un diritto-dovere della religione e di chi la rappresenta. Caro Claudio, tu vorresti che la Chiesa si possa schierare contro una legge in favore per esempio dell´eutanasia, ma non tolleri che parli contro la guerra preventiva di George Bush e di Tony Blair. Quale coerenza è mai questa?
Ma tu, trasportato da una tua logica che a me risulta a questo punto incomprensibile, vai anche più oltre. Rievochi il (colpevole) silenzio di Pio XII sul nazismo e qualche (timida) protesta del Vaticano nei confronti della politica hitleriana e sostieni che pure quelle proteste, ancorché cautissime, erano un´ingerenza, anche se definita auspicabile, contro il governo legittimo della Germania. Qui proprio non ti capisco più.
Il finale di questo strano testo di Magris è invece condivisibile: sarebbe meglio se la Chiesa rinunciasse al Concordato per esser più libera di parlare di tutto senza più dover osservare la distinzione di competenza fra Cesare e Dio.
Giusto. Ma la Chiesa parla già di tutto e si tiene per sovramercato, ben stretta al suo Concordato per i vantaggi cospicui che esso le assicura. Allo stato dei fatti la formula cavouriana della libera Chiesa in libero Stato ha perso ogni significato come l´altro luogo comune di Cesare e Dio. Tutte le modeste difese poste dai Patti Lateranensi sono state smantellate da un pezzo. Quei Patti servono soltanto a garantire gli interessi finanziari della Santa Sede; il resto è silenzio.
Mentre scrivo queste note leggo un articolo di Galli Della Loggia sul "Corriere" del 20 dicembre, intitolato «Una società senza cattolici». Il testo svolge fedelmente il tema enunciato nel titolo, sostenendo che il dibattito culturale e politico in Italia è monopolizzato dai laici laicisti. A me pare incredibile che si possa stravolgere la realtà fino a questo punto. Ognuno ha diritto di dire la sua, naturalmente. Può un vecchio laicista deplorare tesi così lontane dai dati di fatto?
* * *
Vengo ora alla lettera a Welby, di Ignazio Marino. Qui la materia è ancor più sensibile e dolente perché si tratta della sofferenza d´un malato terminale che invoca la morte, chiede d´essere aiutato a morire e ottiene una risposta che dà i brividi.
Ho vissuto in questi giorni un´esperienza dolorosa con la morte d´una persona a me carissima; ho assistito alla sua sofferenza. Mi sono venute in mente le parole di Giobbe:
«Pesate i miei spasimi
E sul piatto mettete la mia cancrena
Peseranno più che le sabbie
Di tutti i mari
Perciò barcollano le mie parole».
Ebbene, Marino riconosce che Welby, come qualunque malato terminale in preda ad una sofferenza atroce, ha il diritto di chiedere una morte assistita. Ma non si può, non c´è una legge che lo consenta. La deontologia medica – ricorda Marino – lo vieta perché il medico deve curare e mantenere in vita, non può e non deve curare la morte. Invita Welby a stringere i denti e andare avanti. Gli propone addirittura di accettare di esser sedato per quarantott´ore al fine di riacquistare le forze e poi, così rinforzato, riprendere a soffrire. Qualora il suo male diventasse ancor più doloroso e richiedesse nuovi interventi e qualora Welby, come suo diritto, li rifiutasse, lo avverte che i medici non potrebbero neanche in quel caso estremo procurargli una buona morte ma assisterebbero impotenti alla sua fine straziante pur di non interrompere "anzitempo" una vita.
Nelle stesse ore il Papa ribadiva, parlando ai giuristi cattolici, il fermo divieto all´eutanasia. C´è da giurare che il cosiddetto laicato cattolico impegnato politicamente farà rispettare in Parlamento i dettati vaticani.
Che dire di quella lettera a Welby dal presidente della commissione parlamentare Sanità, eletto nelle liste dell´Unione? Che dire della crudeltà mentale di cui è intrisa?
Le sofferenze di Welby e dei tanti che si trovano nelle sue condizioni pesano come la sabbia di tutti i mari. E le parole barcollano.
* * *
Gesù di Nazareth, figlio dell´uomo, fece risorgere Lazzaro dal sepolcro e sciolse le bende funebri che lo avvolgevano. La vita buona e la buona morte erano il messaggio che ha lasciato al mondo. Un messaggio di misericordia e di pietà. Accettò d´esser crocifisso affinché nessun altro uomo lo fosse, né nell´anima né nella carne.
Noi vorremmo che il Papa parlasse di questo con parole d´amore e di pietà, non di divieto. Vorremmo che invitasse a sciogliere le bende di Welby e non che gliele stringesse intorno al corpo. Vorremmo che ricordasse dall´alto del suo magistero che Gesù di Nazareth profetizzò la resurrezione dei corpi, per dire che il corpo d´un uomo è sacro e dev´essere rispettato nella sua sacralità e dignità e non inchiodato ai suoi dolori. Vorremmo infine che fosse il capo d´una religione d´amore e non di un´ideologia che esalta il dolore inutile e dissacrante.
Noi non credenti a questo crediamo e per questo ci battiamo nei giorni della Natività di Gesù di Nazareth.

Repubblica 21.12.06
L'ansia di sentirsi normali
L'omosessualità oggi
di Luciana Sica


A lungo la psicoanalisi ha alimentato l'omofobia, ma ora nuovi studi cambiano la situazione Ne parliamo con due analisti
Lingiardi: "L'etichetta dell'immaturità come foglia di fico per coprire il pregiudizio"
Thanopulos: "Attenzione a non perdere di vista il senso profondo delle differenze"

Perché siamo eterosessuali, omosessuali o bisessuali, in realtà nessuno può dirlo, e chi presume di farlo è con tutta probabilità in preda a un delirio di onnipotenza. Nei gusti erotici c´è un po´ di tutto: storie individuali, desideri, tenerezze, tormenti, "affetti" che sfuggono alle spiegazioni generalizzanti, a quella tentazione di costruire delle gabbie identitarie basate su un modo ormai improponibile d´intendere la differenza tra i sessi - il maschile e il femminile come equivalenti di attivo e passivo - senza tenere in nessun conto la "varietà" sempre più vistosa nella declinazione dei generi.
A creare inquietudine sono ancora gli omosessuali - gli eterni "devianti" falsamente tollerati, prima schiacciati dalla vergogna e dallo scandalo, oggi dall´impossibilità di essere normali. La "patologizzazione" dei loro orientamenti è solo in parte una storia non edificante del passato, e per lungo tempo il mondo psicoanalitico non si è sottratto ad alimentare ondate a volte anche crudeli di omofobia.
Ma oggi, ci sarà ancora qualcuno che presuma di sapere come debba essere la sessualità di una persona normale? Su questo "punto", molto in odore di moralismo, interroghiamo Vittorio Lingiardi, psichiatra e analista di formazione junghiana, ordinario di Psicopatologia alla "Sapienza" di Roma. È lui a dire: «La psicoanalisi contemporanea è caratterizzata da un panorama teorico variegato e attraversato da domande senza risposta. Non sappiamo, per esempio, come le forze biologiche, le identificazioni, i fattori cognitivi, l´uso che il bambino fa della sessualità per risolvere i conflitti dello sviluppo, le pressioni culturali alla conformità e il bisogno di adattamento contribuiscano alla formazione del soggetto e alla costruzione della sua sessualità. Né sappiamo se sarà mai possibile rispondere a queste domande. Quello da cui sarebbe opportuno partire, sempre e comunque, è una declinazione plurale delle sessualità: poco alla volta è la tendenza che va prevalendo, seppure con qualche sacca di resistenza».
Si può anche dire che nel passato gli analisti siano stati più realisti del re. Di Freud, che più volte si è riferito all´omosessualità come a «un mistero» o anche a «un problema», e nella celebre Lettera a una madre americana scriveva: «l´omosessualità non è certo un vantaggio, ma non è nulla di vergognoso, non è un vizio, né una degradazione, e non può essere classificata come malattia: noi la consideriamo una variante della funzione sessuale causata da un certo arresto dello sviluppo sessuale». E senz´altro più conformisti di Jung, così attento ai percorsi simbolici della sessualità, che nella conferenza sul Problema amoroso dello studente pronunciò una sua celebre frase: «Non domandate mai che cosa uno faccia, bensì come lo fa».
Lingiardi: «Quando parliamo di "come sono" e di "come amano" gli uomini e le donne, ci troviamo inevitabilmente nel territorio della cultura, del resoconto e della lingua. La teoria psicoanalitica ha invece ecceduto nel generalizzare e universalizzare, presupponendo che mascolinità e femminilità fossero categorie anziché dimensioni. Per molti anni il discorso psicoanalitico sull´omosessualità ha riguardato la sua eziologia, riferibile a un arresto o a una regressione alla fase edipica o pre-edipica, ipotizzando l´esistenza di una linea di sviluppo che tendeva al raggiungimento di un culmine eterosessuale e assicurava la maturità e la salute mentale... È chiaro che l´etichetta dell´immaturità, come quella del narcisismo, per gli orientamenti omosessuali si è andata sempre più rivelando una foglia di fico pseudoscientifica usata per coprire il pregiudizio».
Del resto, quanto la psicoanalisi - la ricerca psicoanalitica - può non essere influenzata dai valori culturali dominanti, dallo spirito del tempo, quanto insomma può davvero sfuggire ai pregiudizi? Non si sottrae a questa domanda, che a noi sembra di buon senso e lui giudica "insidiosa", Sarantis Thanopulos, greco di origine, brillante cinquantenne della Società psicoanalitica italiana: «Il lavoro dell´analista è costruito attorno alla necessità di sospendere il suo giudizio per restituire la parola all´interiorità dei suoi pazienti: i cambiamenti nella società e nella cultura tendono a entrare nella psicoanalisi soprattutto attraverso i loro "casi". E poiché l´interiorità, in ognuno di noi, trova la sua dimensione più privata nelle sfasature con i tempi della vita, la psicoanalisi è dentro e fuori il suo tempo, rimane sempre "intempestiva". Del resto, se perfino le idee dei fisici e dei matematici sono in stretta correlazione con la cultura del loro tempo, come potrebbe la psicoanalisi essere immune ai mutamenti culturali, non esserne influenzata?».
Quello che invece Thanopulos esclude è un´assenza sospetta di "problematizzazione" quando si parla di sessualità in generale, e di omosessualità in particolare. Quel politically correct che tende a banalizzare, appiattire, e soprattutto dissimulare le diffidenze, il sarcasmo, certe forme più o meno sottili di rifiuto.
Dice: «Trovo infondata l´idea che l´erotismo omosessuale sia patologico, ma non mi sembra il caso d´impegnarsi a fare la conta tra gli "innovatori" e i "conservatori", perché in realtà ogni posizione è legittima e problematizza l´altra. Soprattutto non dimenticherei che un certo aspetto "eretico", una certa "devianza" dell´omosessualità ha sempre avuto una funzione molto importante: quella di destabilizzare lo statuto normativo della sessualità. Certo, non è possibile inchiodare eternamente gli omosessuali al polo trasgressivo della sessualità, ma bisogna stare attenti - nel passaggio verso la "normalizzazione"- a non perdere di vista il senso profondo delle differenze, a cancellare le tensioni che ci sono. Il nostro mondo interno è abitato da fantasie eterosessuali e omosessuali - per quella bisessualità psichica di cui parlava già Freud. Credo che smettere di promuovere questa dialettica dentro di noi, anche con i conflitti che comporta, sarebbe una semplificazione e un impoverimento della vita interiore».
Molto interessante è la posizione di Thanopulos su quella che definisce la componente omosessuale nelle relazioni tra uomo e donna, «laddove - si legge in Ipotesi gay - la differenza dei sessi è insieme desiderata e ripudiata». Qui spiega: «Lo statuto della sessualità è sempre antinomico perché l´incontro con un altro corpo consente sia di perdere sé stesso sia di ritrovarsi. È un´antinomia molto accentuata nell´adolescenza, perché la diversità dell´altro attrae, ma ferisce anche, rende vulnerabili, spaventa: la paura è quella di perdersi senza più ritrovarsi. Qui una corrente "omofilica" viene in soccorso dell´eterosessualità, perché smorza e insieme protegge l´incontro con l´altro sesso. Quando però nella vita adulta permane la ferita adolescenziale, nell´incontro erotico tra uomo e donna una certa componente omosessuale può dominare la scena».
Più in generale - dice Thanopulos - il vero rischio oggi «è la sempre più diffusa presenza di "autoerotismo" staccato dal resto della sessualità, che colpisce in egual misura relazioni omosessuali ed eterosessuali. In questa deriva, l´altro diventa uno strumento di piacere: non è più un soggetto, non è una persona intera e autonoma, in realtà non ti coinvolge, non può entrare nella tua vita».
Il vero spartiacque nella sessualità umana non sarebbe allora tra eterosessualità e omosessualità, ma piuttosto tra un autoerotismo di segno narcisistico e la capacità di riconoscimento profondo dell´altro: quella che gli analisti definiscono "scelta oggettuale" e noi, più semplicemente, diremmo: amare davvero qualcuno, uomo o donna che sia.
In ogni caso gli analisti di oggi sembrano ormai molto lontani dal considerare gli omosessuali come dei "malati". Magari un po´ perversi, compulsivi, immaturi, narcisisti, regressivi, forse sì, ancora. E purtroppo non può far testo la citazione di un grande come Christopher Bollas, che già nel ´92 scriveva: «ogni tentativo di costruire una teoria generale dell´omosessualità può essere soddisfatto solo al prezzo di gravi distorsioni delle discrete e importanti differenze tra omosessuali, atto che potrebbe costituire un "genocidio intellettuale"».
Come a dire: se spostiamo l´attenzione sulla qualità e le dinamiche delle relazioni, si può parlare ancora di omosessualità al singolare? Ci saranno gli omosessuali capaci di amare e quelli che ancora saltabeccano da un corpo all´altro, forse più disperati che "gai": in fondo, niente di così tanto diverso da quello che accade negli incontri raramente idilliaci degli eterosessuali, in tante loro storie non si sa se più aride o sgangherate.

il Riformista 21.12.06
Con Rodotà, Flamigni, Marramao
Una sola terra e un solo orizzonte, il Pse
E' nata la fondazione della sinistra Ds
di Ettore Colombo


Olof Palme, Francois Mitterrand e Willy Brandt a livello europeo. Antonio Gramsci, Riccardo Lombardi e i fratelli Carlo e Nello Rosselli in quello italiano. Pensatori come John Rawls, l'economista Amartya Sen ma soprattutto il sociologo Zygmunt Baumann e il pensatore francese Marc Augé (quello della teoria dei «non luoghi»), per non dire del «nuovo pensiero critico della globalizzazione nordamericano, del suo filone ecologista e della società dal lavoro sostenibile».
Eccolo, il pantheon della nuova sinistra interna ai Ds che ha già lanciato il suo manifesto, prima a Bruxelles e poi a Roma, ma anche e soprattutto una Fondazione («Una sola terra. Fondazione culturale per la democrazia e il socialismo») e che, presto, entro febbraio del 2007, sfornerà anche una rivista. Dal titolo, molto evocativo, Cercare ancora, che parafrasa un noto lead dell'economista Claudio Napoleoni, il quale - citando l'ultimo Heidegger che parlava di «fine della politica» nell'era contemporanea e secondo cui «solo un dio ci potrà salvare» - invitava a «cercare ancora», appunto, uno spazio politico e una progettualità sociale. Spazio (e progetto) che cerca anche l'ex correntone, oggi nuova sinistra Ds, stretto com'è tra la Scilla del Partito democratico - che ancora non c'è ma intorno a cui sono già iniziati i lavori per la rivista (Pd), la scuola di formazione politica e, come si sa, il «manifesto dei valori» - e la Cariddi del “Bertinotti pensiero”, nel cui bacino d'utenze, fatto da Prc e sinistra sparsa, si darà vita ad una vecchia/nuova rivista, Alternative, diretta dall'ex Dp Domenico Iervolino ma soprattutto a un think tank «per il socialismo» sotto i numi tutelari di Riccardo Lombardi e Lelio Basso e la direzione dello stesso presidente della Camera.
Saranno due, invece, i presidenti della Fondazione «Una sola terra» e di Cercare ancora, l'economista Paolo Leon e l'europarlamentare francese del Pse Martine Roure, ma uno solo il dioscuro (e il condirettore) politico, il ministro Fabio Mussi, anche se gli altri tre membri del quartetto di corrente di minoranza diessina (Cesare Salvi, Valdo Spini e Fulvia Bandoli) vi sono coinvolti a pieno titolo. Uno solo è anche il diessino che «tira le fila» di tanto lavorìo cultural-intellettuale, il vice responsabile nazionale dell'organizzazione della Quercia Gianni Zagato. Il quale, però, ci tiene a sottolineare, parlandone con il Riformista, che «non si tratta del cavallo di Troia della mozione di minoranza in vista del congresso. Un conto è la nostra battaglia politica per far cambiare direzione ai Ds, rispetto al Pd, un conto la necessità di ripensare il socialismo alla luce dei nuovi orizzonti del Pse: lavoro, laicità, diritti». Non a caso, nella Fondazione sono entrati anche nomi affatto scettici verso il Pd, come Laura Pennacchi, o super-partes come Stefano Rodotà, Carlo Flamigni (autore di quel «Manifesto dell'etica laica» che sarà presto ripubblicato) e Giacomo Marramao, mentre «ci stanno pensando» l'economista Luciano Gallino e lo storico Massimo Salvadori. Sono oltre una cinquantina, comunque, i nomi (tra loro filosofi, sociologi, storici, ma anche glottologi e fisici) finora coinvolti e tre i campi di lavoro: lavoro e lavori (in stretto legame con la Cgil, grazie al ruolo-cerniera di Paolo Nerozzi), diritti (con un forte accento sui temi della laicità, della ricerca scientifica e del confronto con fede e religione, al centro di diversi convegni che la Fondazione terrà a Genova, Napoli e Roma nei primi mesi del 2007), qualità della vita e sviluppo sostenibile. I rapporti con quanto si muove nella galassia del Pd (più dalle parti dell'Istituto Gramsci che della «Vedrò» di Enrico Letta o dell'«Ulibo» di Filippo Andreatta) come in quella della «destra» di Rifondazione («Uniti a sinistra» di Folena, che a sua volta sta pensando a una rivista, in collaborazione con l'Ars di Tortorella) saranno «a 360 gradi», spiega Zagato, che spera anche di «lanciare presto un appello per mettere attorno a un tavolo e far lavorare assieme le tante Fondazioni della sinistra, dalla Basso alla Di Vittorio alla Rosselli».
Certo è che la nuova sinistra Ds punta a ricollegarsi in modo sempre più stretto con il nuovo Pse, quello di Porto e delle sue nuove o rinnovate issues in nome del binomio mitterandiano «più Europa e più socialismo». Un politico-pensatore attento come Valdo Spini, animatore della Fondazione e dei Quaderni Rosselli invita però la sinistra bertinottiana «a non fare i conti solo con Lombardi e il suo socialismo autonomista, che va benissimo, ma anche col socialismo liberale posto in primis proprio dai fratelli Rosselli». In attesa che i rapporti con Bertinotti migliorino e stante che, per ora, l'orizzonte resta la Quercia, anche se «socialista all'europea e federata con la Margherita nell'Unione», Zagato punta tutto sui giovani: «Faremo anche noi una scuola di formazione permanente, a Orvieto, con tanto di lezioni live e su Internet, non per formare élites ma giovani appassionati di politica».
Aprileonline.info 20.12.06
Una regalia inaccettabile
di Pino Sgobio


100 milioni alle università private? Come si concilia tale elargizione con il taglio alla scuola pubblica che, dal 2009, ammonterà a 1.402 milioni di euro? Perché questa forzatura?
In periodi di vacche magre, c'è qualcuno che, evidentemente, ingrassa sempre e comunque. I 100 milioni di euro in tre anni, contenuti nei commi 603 e 604 del maxiemendamento alla Finanziaria, destinati all'università privata, vale a dire, nella grande maggioranza dei casi, ad istituti di enti ecclesiastici, rappresentano un nuovo e inaspettato "buco nero" di questa difficile e complicata manovra di bilancio, che si va ad aggiungere al famigerato comma 1.346 sulla prescrizione breve per i danni allo Stato. E' la seconda volta che una misura mai discussa all'interno delle tante riunioni di maggioranza, che sul tema della Finanziaria sono state fatte, entra a far parte di questa legge in modo surrettizio e subdolo.
Questa regalia alle università private è un provvedimento che non capiamo affatto. Non se ne avvertiva l'urgenza e non se ne sentiva l'opportunità. Inserire questa vera e propria elargizione di soldi pubblici a strutture private fa a pugni, non solo con il dettato costituzionale, ma con il richiamo al rigore e ai sacrifici, che, continuamente, un giorno sì e l'altro pure, viene fatto da autorevoli esponenti di governo ai cittadini. Difficile capirla questa norma, così come è difficile, adesso, spiegarla agli italiani. Qualcuno del governo dia chiarimenti al riguardo! Non ci sono soldi per l'Università, che avrebbe bisogno, come hanno denunciato i Rettori, di 350 milioni di euro ed invece se ne ritrova solo 78, e per la Ricerca pubblica, cui, alla fine, sono stati concessi solo 20 milioni di euro grazie all'emendamento cosiddetto "Montalcini", e poi si finanzia l'università privata... mah, questo ci appare davvero una cosa inaccettabile!
Così come il Ministro Di Pietro ha chiesto a Prodi un'indagine interna all'Unione per capire come sia stato possibile collocare l'odiosa norma sulle prescrizioni ai reati contabili nella Finanziaria, allo stesso modo, adesso, noi chiediamo al Presidente del Consiglio di conoscere tutto il retroscena di questo intollerabile espediente, che mette sullo stesso piano i collegi universitari gestiti da privati con quelli pubblici. Come si concilia tale elargizione ai privati con il taglio alla scuola pubblica che, dal 2009, ammonterà a 1.402 milioni di euro? Perché questa forzatura? Vuoi vedere che per tenere calme e buone le gerarchie ecclesiastiche, troppo indispettite in questi ultimi tempi di dibattito interno all'Unione su coppie di fatto ed eutanasia, qualcuno ha pensato bene di somministrare un sedativo doppiamente tranquillizzate? E' proprio il caso di scriverlo: come dice il detto popolare "a pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca".
100 milioni di euro? Molti erano i settori sociali ai quali potevano essere destinati. Non si capisce la ratio del perché, ad esempio, si è preferito mantenere i ticket al codice bianco del pronto soccorso, che andranno ad incidere sui portafogli dei cittadini, soprattutto di quelli meno abbienti, e poi si stanziano fondi per i collegi universitari privati.
Tutto questo poi, come se non bastasse, si aggiunge al malcelato fastidio nei confronti di chi, come noi, rivendica il rispetto del programma elettorale. Qualcuno non lo reputa ‘il vangelo', qualcun altro lo vorrebbe funzionale alla costruzione del Partito Democratico. Ma andando avanti così si rischia di far saltare la coalizione e si crea solo confusione nel popolo del centrosinistra, che ha dato mandato all'Unione di ‘cambiare passo' rispetto al disastro del centrodestra. C'è chi ci definisce, con spregio, gli ‘adoratori del programma'. Visto quello che è successo negli ultimi giorni la cosa ci inorgoglisce.
La "faccenda" inquietante di questa norma, infine, dimostra che è necessario riproporre con forza e determinazione una battaglia politica e culturale antica e tuttora moderna: quella per la laicità dello Stato.

* Presidente Gruppo PdCI Camera dei Deputati


Repubblica 21.12.06
L'amore e la pietà del figlio dell'uomo
di Eugenio Scalfari


La Natività di Gesù di Nazareth dispone gli animi (dovrebbe disporli) all´ascolto di se stessi e degli altri, sia da parte dei credenti nella sua origine divina sia da quanti lo considerano un figlio dell´uomo dotato di virtù profetiche sulle quali è stata costruita una delle grandi religioni, fondata sull´amore, sulla pace, sulla giustizia.
Non è dunque tempo di affrontare altri temi, che pure incalzano e preoccupano ma che riguardano il commercio degli interessi e la gestione del potere, fosse pure nel senso più alto e nobile e non sordido e ottuso come molte volte accade. Rinviamo perciò ad altre prossime occasioni questi argomenti e ascoltiamo invece ciò che la mente e il cuore ci suggeriscono su questioni che riguardano i rapporti tra le persone e tra queste e le istituzioni, la vita buona e la buona morte, la com-passione e la pietà. Gli spunti attuali non mancano ed anzi abbondano in un´epoca di contrasti, incertezze, paure, fobie e crescenti egoismi.
Mi hanno colpito in questi giorni due interventi che toccano tasti estremamente sensibili: un articolo di Claudio Magris sul "Corriere della Sera" del 18 dicembre, intitolato "L´ingerenza dell´ipocrisia" e una lettera a Welby scritta da Ignazio Marino, cardiochirurgo e presidente della commissione parlamentare della Sanità, pubblicata sulla "Repubblica" del 19. Di questo mi occuperò e dei complessi problemi che pongono alla nostra attenzione.
***
L´articolo di Magris mi ha lasciato assai perplesso. È la prima volta che mi accade; di solito condivido interamente i suoi pensieri. Questa volta no e mi è riuscito difficile anche cavarne un senso. Per chi non l´avesse letto cercherò di riassumerne le tesi.
Comincia deplorando le ingerenze di chi - persona o istituzioni - invada campi altrui per imporvi il proprio dominio. E poiché l´oggetto dell´articolo riguarda il rapporto tra la Chiesa e lo Stato, fa proprio il motto evangelico del «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Una regola perfettamente equilibrata nella forma come nella sostanza, ma talmente evocata e ripetuta da esser diventata luogo comune, interpretato e stiracchiato in tutte le direzioni fino a perdere ogni significato.

Lo stesso Magris del resto ne fornisce la prova quando osserva che la Chiesa ha diritto di sostenere in tutte le sedi l´etica che deriva dalla religione, aggiungendo che l´etica e la politica sono intimamente intrecciate tra loro sicché la Chiesa legittimamente finisce per entrare nel dibattito politico, nell´amministrazione della cosa pubblica e infine nell´attività legislativa, con tanti saluti alla teorica distinzione tra le competenze di Cesare e quelle di Dio.
Volete forse mettere il bavaglio al Papa e ai vescovi? si domanda e ci domanda Magris. Volete ridurli ad una qualsiasi associazione di bocciofili e di cacciatori? È mai possibile espellere la Chiesa dallo spazio pubblico che le spetta in materie come la bioetica, la fecondazione assistita, l´educazione dei bimbi e dei ragazzi, il finanziamento delle scuole cattoliche, il regime carcerario? Certo che no, nessuno pensa questo, caro Magris. Anzi. I laici, credenti e non credenti, hanno da tempo rinunciato a confinare la religione nello spazio privato. Non solo accettano ma addirittura incoraggiano la gerarchia ecclesiastica ad esprimere pubblicamente le sue convinzioni. Purché sia lasciata al laicato, cattolico e non cattolico, la piena autonomia e responsabilità dei comportamenti politici e legislativi. Si tratta di un´assurda pretesa? O non piuttosto del tentativo estremo di salvare almeno qualche lembo del mantello di Cesare, ormai ridotto a brandelli dalle martellanti ingerenze della "lobby" episcopale e vaticana?
Ma – incalza Magris – spesso accade che i laici rimproverino le ingerenze della Chiesa quando esse siano contrarie alla loro parte politica ma le approvino invece a gran voce quando l´ingerenza giochi a loro favore. Se si è contrari alle ingerenze, questa contrarietà va sostenuta sempre e comunque, indipendentemente dal contenuto.
Parole sante che personalmente condivido e che, per quanto mi riguarda, ho sempre applicato e sostenuto. Se non che Magris si impiglia in una esemplificazione assai poco pertinente a proposito del pacifismo. L´esempio addotto riguarda la guerra in Iraq, sia la prima che la seconda, entrambe deplorate da papa Wojtyla e poi da papa Ratzinger in nome della pace. La sinistra, ricorda Magris, plaudì alla posizione del Vaticano in difesa della pace ma sbagliò. In quel caso infatti il Vaticano si era ingerito indebitamente nel comportamento di governi sovrani e democratici che, magari sbagliando, avevano tuttavia legittimamente portato in guerra i loro paesi. La sinistra perse dunque l´occasione di criticare le ingerenze indebite.
Ecco dove il ragionamento mi sembra completamente sbagliato e fuorviante. La Chiesa predica la pace e si dichiara contro la guerra, specie se si tratti di guerra offensiva e non difensiva. Non si tratta d´una ingerenza ma di un diritto-dovere della religione e di chi la rappresenta. Caro Claudio, tu vorresti che la Chiesa si possa schierare contro una legge in favore per esempio dell´eutanasia, ma non tolleri che parli contro la guerra preventiva di George Bush e di Tony Blair. Quale coerenza è mai questa?
Ma tu, trasportato da una tua logica che a me risulta a questo punto incomprensibile, vai anche più oltre. Rievochi il (colpevole) silenzio di Pio XII sul nazismo e qualche (timida) protesta del Vaticano nei confronti della politica hitleriana e sostieni che pure quelle proteste, ancorché cautissime, erano un´ingerenza, anche se definita auspicabile, contro il governo legittimo della Germania. Qui proprio non ti capisco più.
Il finale di questo strano testo di Magris è invece condivisibile: sarebbe meglio se la Chiesa rinunciasse al Concordato per esser più libera di parlare di tutto senza più dover osservare la distinzione di competenza fra Cesare e Dio.
Giusto. Ma la Chiesa parla già di tutto e si tiene per sovramercato, ben stretta al suo Concordato per i vantaggi cospicui che esso le assicura. Allo stato dei fatti la formula cavouriana della libera Chiesa in libero Stato ha perso ogni significato come l´altro luogo comune di Cesare e Dio. Tutte le modeste difese poste dai Patti Lateranensi sono state smantellate da un pezzo. Quei Patti servono soltanto a garantire gli interessi finanziari della Santa Sede; il resto è silenzio.
Mentre scrivo queste note leggo un articolo di Galli Della Loggia sul "Corriere" del 20 dicembre, intitolato «Una società senza cattolici». Il testo svolge fedelmente il tema enunciato nel titolo, sostenendo che il dibattito culturale e politico in Italia è monopolizzato dai laici laicisti. A me pare incredibile che si possa stravolgere la realtà fino a questo punto. Ognuno ha diritto di dire la sua, naturalmente. Può un vecchio laicista deplorare tesi così lontane dai dati di fatto?
* * *
Vengo ora alla lettera a Welby, di Ignazio Marino. Qui la materia è ancor più sensibile e dolente perché si tratta della sofferenza d´un malato terminale che invoca la morte, chiede d´essere aiutato a morire e ottiene una risposta che dà i brividi.
Ho vissuto in questi giorni un´esperienza dolorosa con la morte d´una persona a me carissima; ho assistito alla sua sofferenza. Mi sono venute in mente le parole di Giobbe:
«Pesate i miei spasimi
E sul piatto mettete la mia cancrena
Peseranno più che le sabbie
Di tutti i mari
Perciò barcollano le mie parole».
Ebbene, Marino riconosce che Welby, come qualunque malato terminale in preda ad una sofferenza atroce, ha il diritto di chiedere una morte assistita. Ma non si può, non c´è una legge che lo consenta. La deontologia medica – ricorda Marino – lo vieta perché il medico deve curare e mantenere in vita, non può e non deve curare la morte. Invita Welby a stringere i denti e andare avanti. Gli propone addirittura di accettare di esser sedato per quarantott´ore al fine di riacquistare le forze e poi, così rinforzato, riprendere a soffrire. Qualora il suo male diventasse ancor più doloroso e richiedesse nuovi interventi e qualora Welby, come suo diritto, li rifiutasse, lo avverte che i medici non potrebbero neanche in quel caso estremo procurargli una buona morte ma assisterebbero impotenti alla sua fine straziante pur di non interrompere "anzitempo" una vita.
Nelle stesse ore il Papa ribadiva, parlando ai giuristi cattolici, il fermo divieto all´eutanasia. C´è da giurare che il cosiddetto laicato cattolico impegnato politicamente farà rispettare in Parlamento i dettati vaticani.
Che dire di quella lettera a Welby dal presidente della commissione parlamentare Sanità, eletto nelle liste dell´Unione? Che dire della crudeltà mentale di cui è intrisa?
Le sofferenze di Welby e dei tanti che si trovano nelle sue condizioni pesano come la sabbia di tutti i mari. E le parole barcollano.
* * *
Gesù di Nazareth, figlio dell´uomo, fece risorgere Lazzaro dal sepolcro e sciolse le bende funebri che lo avvolgevano. La vita buona e la buona morte erano il messaggio che ha lasciato al mondo. Un messaggio di misericordia e di pietà. Accettò d´esser crocifisso affinché nessun altro uomo lo fosse, né nell´anima né nella carne.
Noi vorremmo che il Papa parlasse di questo con parole d´amore e di pietà, non di divieto. Vorremmo che invitasse a sciogliere le bende di Welby e non che gliele stringesse intorno al corpo. Vorremmo che ricordasse dall´alto del suo magistero che Gesù di Nazareth profetizzò la resurrezione dei corpi, per dire che il corpo d´un uomo è sacro e dev´essere rispettato nella sua sacralità e dignità e non inchiodato ai suoi dolori. Vorremmo infine che fosse il capo d´una religione d´amore e non di un´ideologia che esalta il dolore inutile e dissacrante.
Noi non credenti a questo crediamo e per questo ci battiamo nei giorni della Natività di Gesù di Nazareth.

Repubblica 21.12.06
L'ansia di sentirsi normali
L'omosessualità oggi
di Luciana Sica


A lungo la psicoanalisi ha alimentato l'omofobia, ma ora nuovi studi cambiano la situazione Ne parliamo con due analisti
Lingiardi: "L'etichetta dell'immaturità come foglia di fico per coprire il pregiudizio"
Thanopulos: "Attenzione a non perdere di vista il senso profondo delle differenze"

Perché siamo eterosessuali, omosessuali o bisessuali, in realtà nessuno può dirlo, e chi presume di farlo è con tutta probabilità in preda a un delirio di onnipotenza. Nei gusti erotici c´è un po´ di tutto: storie individuali, desideri, tenerezze, tormenti, "affetti" che sfuggono alle spiegazioni generalizzanti, a quella tentazione di costruire delle gabbie identitarie basate su un modo ormai improponibile d´intendere la differenza tra i sessi - il maschile e il femminile come equivalenti di attivo e passivo - senza tenere in nessun conto la "varietà" sempre più vistosa nella declinazione dei generi.
A creare inquietudine sono ancora gli omosessuali - gli eterni "devianti" falsamente tollerati, prima schiacciati dalla vergogna e dallo scandalo, oggi dall´impossibilità di essere normali. La "patologizzazione" dei loro orientamenti è solo in parte una storia non edificante del passato, e per lungo tempo il mondo psicoanalitico non si è sottratto ad alimentare ondate a volte anche crudeli di omofobia.
Ma oggi, ci sarà ancora qualcuno che presuma di sapere come debba essere la sessualità di una persona normale? Su questo "punto", molto in odore di moralismo, interroghiamo Vittorio Lingiardi, psichiatra e analista di formazione junghiana, ordinario di Psicopatologia alla "Sapienza" di Roma. È lui a dire: «La psicoanalisi contemporanea è caratterizzata da un panorama teorico variegato e attraversato da domande senza risposta. Non sappiamo, per esempio, come le forze biologiche, le identificazioni, i fattori cognitivi, l´uso che il bambino fa della sessualità per risolvere i conflitti dello sviluppo, le pressioni culturali alla conformità e il bisogno di adattamento contribuiscano alla formazione del soggetto e alla costruzione della sua sessualità. Né sappiamo se sarà mai possibile rispondere a queste domande. Quello da cui sarebbe opportuno partire, sempre e comunque, è una declinazione plurale delle sessualità: poco alla volta è la tendenza che va prevalendo, seppure con qualche sacca di resistenza».
Si può anche dire che nel passato gli analisti siano stati più realisti del re. Di Freud, che più volte si è riferito all´omosessualità come a «un mistero» o anche a «un problema», e nella celebre Lettera a una madre americana scriveva: «l´omosessualità non è certo un vantaggio, ma non è nulla di vergognoso, non è un vizio, né una degradazione, e non può essere classificata come malattia: noi la consideriamo una variante della funzione sessuale causata da un certo arresto dello sviluppo sessuale». E senz´altro più conformisti di Jung, così attento ai percorsi simbolici della sessualità, che nella conferenza sul Problema amoroso dello studente pronunciò una sua celebre frase: «Non domandate mai che cosa uno faccia, bensì come lo fa».
Lingiardi: «Quando parliamo di "come sono" e di "come amano" gli uomini e le donne, ci troviamo inevitabilmente nel territorio della cultura, del resoconto e della lingua. La teoria psicoanalitica ha invece ecceduto nel generalizzare e universalizzare, presupponendo che mascolinità e femminilità fossero categorie anziché dimensioni. Per molti anni il discorso psicoanalitico sull´omosessualità ha riguardato la sua eziologia, riferibile a un arresto o a una regressione alla fase edipica o pre-edipica, ipotizzando l´esistenza di una linea di sviluppo che tendeva al raggiungimento di un culmine eterosessuale e assicurava la maturità e la salute mentale... È chiaro che l´etichetta dell´immaturità, come quella del narcisismo, per gli orientamenti omosessuali si è andata sempre più rivelando una foglia di fico pseudoscientifica usata per coprire il pregiudizio».
Del resto, quanto la psicoanalisi - la ricerca psicoanalitica - può non essere influenzata dai valori culturali dominanti, dallo spirito del tempo, quanto insomma può davvero sfuggire ai pregiudizi? Non si sottrae a questa domanda, che a noi sembra di buon senso e lui giudica "insidiosa", Sarantis Thanopulos, greco di origine, brillante cinquantenne della Società psicoanalitica italiana: «Il lavoro dell´analista è costruito attorno alla necessità di sospendere il suo giudizio per restituire la parola all´interiorità dei suoi pazienti: i cambiamenti nella società e nella cultura tendono a entrare nella psicoanalisi soprattutto attraverso i loro "casi". E poiché l´interiorità, in ognuno di noi, trova la sua dimensione più privata nelle sfasature con i tempi della vita, la psicoanalisi è dentro e fuori il suo tempo, rimane sempre "intempestiva". Del resto, se perfino le idee dei fisici e dei matematici sono in stretta correlazione con la cultura del loro tempo, come potrebbe la psicoanalisi essere immune ai mutamenti culturali, non esserne influenzata?».
Quello che invece Thanopulos esclude è un´assenza sospetta di "problematizzazione" quando si parla di sessualità in generale, e di omosessualità in particolare. Quel politically correct che tende a banalizzare, appiattire, e soprattutto dissimulare le diffidenze, il sarcasmo, certe forme più o meno sottili di rifiuto.
Dice: «Trovo infondata l´idea che l´erotismo omosessuale sia patologico, ma non mi sembra il caso d´impegnarsi a fare la conta tra gli "innovatori" e i "conservatori", perché in realtà ogni posizione è legittima e problematizza l´altra. Soprattutto non dimenticherei che un certo aspetto "eretico", una certa "devianza" dell´omosessualità ha sempre avuto una funzione molto importante: quella di destabilizzare lo statuto normativo della sessualità. Certo, non è possibile inchiodare eternamente gli omosessuali al polo trasgressivo della sessualità, ma bisogna stare attenti - nel passaggio verso la "normalizzazione"- a non perdere di vista il senso profondo delle differenze, a cancellare le tensioni che ci sono. Il nostro mondo interno è abitato da fantasie eterosessuali e omosessuali - per quella bisessualità psichica di cui parlava già Freud. Credo che smettere di promuovere questa dialettica dentro di noi, anche con i conflitti che comporta, sarebbe una semplificazione e un impoverimento della vita interiore».
Molto interessante è la posizione di Thanopulos su quella che definisce la componente omosessuale nelle relazioni tra uomo e donna, «laddove - si legge in Ipotesi gay - la differenza dei sessi è insieme desiderata e ripudiata». Qui spiega: «Lo statuto della sessualità è sempre antinomico perché l´incontro con un altro corpo consente sia di perdere sé stesso sia di ritrovarsi. È un´antinomia molto accentuata nell´adolescenza, perché la diversità dell´altro attrae, ma ferisce anche, rende vulnerabili, spaventa: la paura è quella di perdersi senza più ritrovarsi. Qui una corrente "omofilica" viene in soccorso dell´eterosessualità, perché smorza e insieme protegge l´incontro con l´altro sesso. Quando però nella vita adulta permane la ferita adolescenziale, nell´incontro erotico tra uomo e donna una certa componente omosessuale può dominare la scena».
Più in generale - dice Thanopulos - il vero rischio oggi «è la sempre più diffusa presenza di "autoerotismo" staccato dal resto della sessualità, che colpisce in egual misura relazioni omosessuali ed eterosessuali. In questa deriva, l´altro diventa uno strumento di piacere: non è più un soggetto, non è una persona intera e autonoma, in realtà non ti coinvolge, non può entrare nella tua vita».
Il vero spartiacque nella sessualità umana non sarebbe allora tra eterosessualità e omosessualità, ma piuttosto tra un autoerotismo di segno narcisistico e la capacità di riconoscimento profondo dell´altro: quella che gli analisti definiscono "scelta oggettuale" e noi, più semplicemente, diremmo: amare davvero qualcuno, uomo o donna che sia.
In ogni caso gli analisti di oggi sembrano ormai molto lontani dal considerare gli omosessuali come dei "malati". Magari un po´ perversi, compulsivi, immaturi, narcisisti, regressivi, forse sì, ancora. E purtroppo non può far testo la citazione di un grande come Christopher Bollas, che già nel ´92 scriveva: «ogni tentativo di costruire una teoria generale dell´omosessualità può essere soddisfatto solo al prezzo di gravi distorsioni delle discrete e importanti differenze tra omosessuali, atto che potrebbe costituire un "genocidio intellettuale"».
Come a dire: se spostiamo l´attenzione sulla qualità e le dinamiche delle relazioni, si può parlare ancora di omosessualità al singolare? Ci saranno gli omosessuali capaci di amare e quelli che ancora saltabeccano da un corpo all´altro, forse più disperati che "gai": in fondo, niente di così tanto diverso da quello che accade negli incontri raramente idilliaci degli eterosessuali, in tante loro storie non si sa se più aride o sgangherate.

mercoledì 20 dicembre 2006

La Stampa 19.12.06
Nascere è come un sogno
di Rosalba Miceli


La nascita comporta una moltitudine di transizioni. I meccanismi che intervengono al momento del parto sono in gran parte sconosciuti. Cosa succede al bambino che sta per nascere? Come riesce a superare lo stress del travaglio? Sembra che alcuni segnali molecolari tra madre e feto abbiano lo scopo di preparare il cervello del feto alla nascita e di aumentare la resistenza al trauma. L’ossitocina materna, oltre ad indurre le contrazioni uterine, potrebbe avere il ruolo di sedare l’attività neuronale del feto poco prima e durante il parto, proteggendone il cervello dagli effetti di una ipossia transitoria. E’ quanto emerge dai risultati di uno studio realizzato in collaborazione tra l’Istituto di neurobiologia dell’INSERM di Marsiglia e l’Università di Amburgo, pubblicato sulla rivista “Science” del 15 dicembre.
Il feto umano è costretto entro il canale del parto per alcune ore, durante le quali la testa sopporta una notevole pressione e il nascituro subisce a intermittenza una privazione di ossigeno per la compressione della placenta e del cordone ombelicale in seguito alle contrazioni dell’utero. Il cervello deve essere difeso in qualche modo. I ricercatori franco-tedeschi hanno individuato un legame tra l’ossitocina e le variazioni di eccitabilità neuronale. Il processo è mediato dal GABA (acido gamma-aminobutirrico), un neurotramettitore il quale normalmente ha una funzione eccitatoria sui neuroni fetali e inibitoria una volta che essi maturano. L’esposizione all’ossitocina materna nelle fasi del parto agisce da interruttore molecolare che cambia il segnale del GABA da eccitatorio ad inibitorio, quietando il cervello del feto e mantenendolo in una sorta di “standby”. Un effetto opposto si verifica quando poco prima della nascita viene somministrato un antagonista che annulla l’azione dell’ossitocina. In questo caso si aggravano anche gli effetti degli episodi di ipossia sui neuroni fetali.
Gli esperimenti sono stati condotti sui ratti seguendo i protocolli standard sull’uso degli animali di laboratorio. Le tecniche adoperate prevedevano l’impiego di strumentazioni sofisticate per studiare la cascata di eventi che si realizza a livello cellulare e molecolare e la messa a punto di algoritmi per l’ottimizzazione delle analisi. Con le dovute cautele, è possibile ipotizzare che un meccanismo simile funzioni anche negli altri mammiferi, uomo compreso. I neuroscienziati sanno da tempo che l’ormone ossitocina è fondamentale per la sopravvivenza del feto e del neonato perché interviene direttamente nel travaglio e nell’allattamento e media il complesso meccanismo dell’attaccamento tra madre e figlio che si va organizzando in carezze, abbracci e una miriade di altre interazioni fisiche e simboliche. Sembra che la natura abbia predisposto anche un sistema per proteggere il bambino nel momento più rischioso e per far sì che la nascita assomigli il più possibile ad un sogno.

l'Unità 20.12.06
Il «caso Massimo» e Welby: le leggi ci sono
di Mariella Immacolato


Gli stralci della motivazione, riportati dalla stampa, con cui il giudice Angela Salvio ha respinto il ricorso di Piergiorgio Welby che chiedeva la sospensione della ventilazione assistita sotto sedazione, suscitano sorpresa e perplessità. Si legge che Welby non può far valere il diritto di rifiutare le cure che la Costituzione gli riconosce con ben due articoli, 13 e 32, perché manca nel nostro ordinamento una legge che preveda e tuteli tale diritto. Non è condivisibile questa impostazione, perché le leggi ci sono ma si tratta di darne applicazione. Ci si riferisce alla legge 833 del 1978, che ha istituito il sistema sanitario italiano, e alla legge 180 sulla salute mentale, sempre richiamate quando si parla di consenso informato, che all’art. 33 e all’art.1 stabiliscono, senza possibilità di equivoci, che i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Per potere imporre un trattamento occorre, sempre secondo quanto previsto dalle leggi citate, dal nostro ordinamento più in generale e dal codice di deontologia medica, che questo sia previsto obbligatorio da una legge. E non risulta che vi sia una legge che imponga a Welby di proseguire la ventilazione assistita contro la sua volontà.
Si legge anche che nel momento in cui la coscienza di Welby si spegne nessun medico può essere obbligato a seguire la volontà del paziente precedentemente espressa. Vale a dire che le quattro sentenze del “caso Massimo” che nel ’92 hanno di fatto introdotto il consenso informato nella pratica clinica non hanno più alcun valore giuridico.
A chi avesse dimenticato quel leading case italiano, si rammenta che il chirurgo Massimo fu condannato per omicidio preterintenzionale perché durante l’intervento chirurgico aveva cambiato il tipo di operazione concordato precedentemente con la paziente. I giudici allora ritennero che il fatto che la paziente fosse addormentata non toglieva valore alla sua volontà e che il medico era tenuto a rispettare proprio per l’inviolabilità della persona umana sancita dalla Costituzione. Sentenza Corte di Cassazione n. 699 del 1992 «...la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che (...) riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare».
Ritornare a discutere su principi che con tanta fatica si sono affermati è doppiamente colpevole. Perché così si rischia di farli rientrare di nuovo tra i principi “di carta”, cioè tra quelli previsti dalle norme ma disattesi nella pratica. Perché si arresta il faticoso cammino della affermazione del linguaggio dei diritti in sanità.

Consulta di Bioetica
Direttore Unità operativa di medicina legale Asl 1
di Massa e Carrara


il manifesto 20.12.06
l'opinione
Strappi continui alla laicità dello stato
di Vera Pegna
*


Un concetto quasi del tutto assente nel dibattito che riguarda la richiesta di Piergiorgio Welby di porre fine alla propria vita di intollerabili sofferenze è quello della laicità dello stato. Eppure se la richiesta di Piergiorgio Welby non viene accolta è perché la nostre legge in materia di eutanasia, lungi dall'essere laica, è basata su pregiudiziali di carattere religioso. Così come lo sono le attuali insulse elucubrazioni sulla famiglia e le coppie di fatto, persino in materia di successione. Nel caso di Welby basta chiedersi a chi appartenga la vita di ciascuno di noi, se a noi stessi o allo stato e che cosa significhi la libertà di coscienza sancita dalla nostra Costituzione per capire che la nostra legge conculca la libertà di coscienza di chi è perfettamente in grado di intendere e di volere.
Purtroppo non credo che le posizioni accomodanti dei nostri politici verso le gerarchie vaticane siano interamente dettate da opportunismo. Temo siano il frutto di una cultura intrisa di confessionalismo che non discerne il primo dei diritti umani che è la libertà di decidere della propria vita da un'inconsapevole subalternità ideologica ai precetti della dottrina morale cattolica. In questo senso le dichiarazioni rilasciate dal Presidente della repubblica in queste ultime settimane sono emblematiche, ma non sorprendenti. Non sorprendenti dato che Giorgio Napolitano ha fatto parte della Convenzione dell'Unione europea che ha redatto la bozza del trattato costituzionale europeo la quale tace sul principio della laicità delle istituzioni e riconosce alle chiese un ruolo istituzionale. E Benedetto XVI giustamente se ne rallegrò. Non sorprendenti poiché Napolitano si rivolge al Papa chiamandolo «Santità», appellativo nient'affatto protocollare e tanto meno laico che denota particolare riverenza e soggezione.
Lo stato e la chiesa dovrebbero ricercare «soluzioni ponderate e condivise sulla libertà di ricerca, sui suoi codici, sulle regole e i più complessi temi bioetici», ha dichiarato Napolitano in occasione della «Giornata per la ricerca sul cancro», riconoscendo pertanto alla chiesa cattolica - entità non eletta quindi non rappresentativa - la dignità di interlocutrice su temi di pertinenza parlamentare. Tale affermazione disturba gli equilibri democratici dato che fa pesare il piatto della bilancia a favore dei cittadini cattolici.
«Chiesa e stato sono chiamati a servire gli stessi valori di moralità e di equità» ha dichiarato il nostro Presidente, forse non pensando che lo stato non difende valori ma principi, quelli sanciti dalla Costituzione della repubblica, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, peraltro non sottoscritta dalla Santa sede. In sintesi: per lo stato la pedofilia è reato, per la chiesa (e per Ratzinger in persona) non lo è: è solo peccato. Per lo stato la contraccezione è lecita, mentre la chiesa condanna l'uso del profilattico anche nel caso di popolazioni decimate dall'aids come quelle del Ruanda: per noi tale condanna è assimilabile all'istigazione a delinquere. L'Italia ha firmato le convenzioni del Consiglio d'Europa che vietano la discriminazione delle donne, mentre la Santa sede non le ha firmate e discrimina le donne anche al suo interno. Per lo stato, le coppie di fatto non vanno discriminate, per la chiesa sì e lo stesso dicasi per gli omosessuali e per i non credenti i quali, per la chiesa, sono persone «senza fondamento». Lo stato vuole eliminare, almeno in teoria, privilegi e discriminazioni. La chiesa invece esige i primi e pratica le seconde.
Grave anche l'affermazione di Giorgio Napolitano secondo cui la chiesa e lo stato hanno una «comune missione educativa». La missione dello stato è di unire tutti i cittadini, di educarli allo spirito critico e alla libertà di coscienza. La chiesa cattolica divide, intimorisce, assoggetta.
Mi domando se davanti a tanti e tali strappi alla laicità dello stato non sia il caso di parlare di emergenza democratica.
* rappresentante federazione umanista europea presso l'Osce

il manifesto 20.12.06
bioetica
Quella politica della vita che invoca la giusta morte
La richiesta di Piergiorgio Welby mette in evidenza la pretesa dello stato di regolare vita e morte dei suoi sudditi. Un tema ampiamente discusso dalla filosofia contemporanea e che va al di là della contrapposizione tra cattolici e laici Un percorso di lettura a partire dalla riflessione di Michael Foucault, dove diritto statale e affermazione dell'autonomia individuale incontrano ciò che la norma non può regolare
di Roberto Ciccarelli


In un sondaggio condotto nel 2002 dal Centro di Bioetica dell'Università Cattolica di Milano tra 259 rianimatori, operatori di prima linea che curano persone la cui sopravvivenza è affidata a macchine, il 3,6% dei medici dichiarò di aver somministrato volontariamente farmaci letali (eutanasia attiva). Il 96,4% negò di averlo mai fatto. Il 15,8% degli intervistati considerò tuttavia questa iniziativa accettabile. Ma il dato più interessante fu senz'altro un altro: il 19,3% del campione negò di aver mai attuato la sospensione delle cure (ad esempio staccare il respiratore, interrompere l'erogazione dell'ossigeno). Il 38,6% riconobbe di averlo fatto almeno in un'occasione, il 42% «più spesso». In nessun caso questo «atto medico» è stato riportato sulla cartella clinica per il timore di essere denunciati dai parenti e finire in tribunale.
Nel 2004, in Gran Bretagna, 2865 malati terminali sono stati aiutati a morire dai medici. E' il risultato di un sondaggio condotto anonimamente tra 857 specialisti lo scorso gennaio. Tra questi decessi assistiti, 936 furono provocati a seguito di una domanda esplicita del malato. Gli altri (1929 casi) non hanno fornito istruzioni specifiche sulla modalità della loro morte a causa del coma sopraggiunto. La pratica della «morte opportuna» è illegale in Gran Bretagna come nella maggior parte dei paesi europei, salvo Olanda, Belgio e Svizzera, ma sembra che questi dati siano addirittura inferiori alla media europea.

La sovranità sulla vita
Queste informazioni sono tornate d'attualità dopo che Piergiorgio Welby, co-presidente dell'associazione Luca Coscioni, affetto da distrofia muscolare progressiva, ha riportato l'attenzione sul continente sconosciuto dei malati terminali in Italia, evidenziando la difficoltà delle istituzioni di affrontare il problema in maniera chiara e definita. La sentenza del Tribunale di Roma che il 16 dicembre scorso ha definito «inammissibile» il suo ricorso, ha riconosciuto allo stesso tempo il suo diritto di chiedere l'interruzione della respirazione assistita. Il «vuoto legislativo» che la giudice Angela Savio ha riscontrato nella legislazione ha evidenziato un corto circuito nella prerogativa «biopolitica» e costituzionale degli stati di diritto occidentali che impone la protezione della vita, anche a costo di separarla dalla persona che la detiene. Davanti alla richiesta di Welby di interrompere le cure e scegliere la morte piuttosto che continuare a vivere in maniera disumana, lo stato non può autorizzare alcuna forma di «accompagnamento alla morte» che mette fine all'esperienza di una vita che vegeta artificialmente negli ospedali o nel buio delle nostre case, pena la legittimazione dell'eutanasia.
Nei gioni scorsi, molti degli interventi di commento attorno al «caso Welby», hanno sostenuto che è la difficoltà di distinguere tra eutanasia e accanimento terapeutico ad impedire una definizione normativa della situazione delle persone come Welby. Se fosse solo così, duplice sarebbe la soluzione: «staccare la spina» come atto di disobbedienza civile in mancanza di una legge. Oppure attendere l'elaborazione di linee guida da parte del Comitato di bioetica. Nel primo caso, avremmo una disobbedienza civile che mette a un nudo non l'insopportabilità di una legge, bensì la sua assenza. L'attesa di un pronunciamento del Comitato di bioetica congela una situazione, quella di Welby, e rinvia ogni decisione a tempi futuri. Ma uno degli aspetti rilevante di questa vicenda e che radicalizza un tema molto rilevante nella discussione filosofica di questi anni. Il «caso Welby» porta infatti alle estreme conseguenze la prerogativa «biopolitica» che Michel Foucault attribuiva ai moderni stati di diritto costituzionali: la presa del potere sull'uomo come essere vivente e la «statalizzazione» della sua vita biologica.
Quella di Welby, e di coloro che la sostengono, è infatti la rivendicazione più estrema del ruolo biopolitico dello stato: difendere la vita sino in fondo, sia che si tratti di garantirne le prerogative più alte, sia che si tratti di impartirle una «buona morte». Da questo punto di vista, è comprensibile la reazione di chi negli ultimi giorni ha respinto l'accusa secondo la quale si vuole attribuire per legge al paziente, o ai suoi familiari, un potere «tanatopolitico» che stabilisce, in base alla contingenza di un dolore proprio o altrui, quale vita sia degna di essere vissuta. A loro avviso, deve essere lo stato ad occuparsi di un problema che riguarda la vita dei suoi cittadini, dato che è la sua stessa costituzione repubblicana a prevederlo all'articolo 32.

La sacralità della tecnica
Il Tribunale di Roma, il ministro della Sanità Livia Turco e il Comitato di bioetica sono dunque in imbarazzo perché il caso di Welby ha portato alla luce una crepa nella biopolitica statale. La richiesta di ricevere una «morte dignitosa» rivela infatti la difficoltà delle autorità politiche a riconoscere quello che è il rovescio della loro logica, oppure la sua logica continuazione. Il potere biopolitico non dovrebbe infatti occuparsi solo della vita, ma anche della sua parte oscura, quella che si manifesta nella malattia, nella sofferenza e porta anche alla morte. La morte rimane però un oggetto sul quale la biopolitica sembra esitare, quasi fosse estraneo alla materia che intende amministrare, sebbene le sue prerogative dicano esattamente il contrario.
Né rivendicazione al suicidio, né invocazione di un dovere dello stato ad impartire la morte, l'azione di Welby può essere tuttavia intesa come un potenziamento della biopolitica contemporanea, ma è anche il suo punto massimo di crisi. Sebbene questi diritti siano stati sanciti dalla Convenzione europea di biomedicina sottoscritta dall'Italia nel 2001, dalla Carta dei diritti dell'Unione Europea, dalla Convenzione sulla biomedicina, dal Codice di deontologia medica del 1999, come ha ricordato Stefano Rodotà nel suo La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (Feltrinelli, pp.288, € 19), la vita che s'intende proteggere manifesta un carattere inquietante e irregolare che rende manifesto un limite non giuridico e non politico oltre il quale anche il potere politico più attento ai diritti delle persone preferisce non avventurarsi.
Il problema è dunque più ampio di un scontro tra cattolici e laici. I primi, è noto, sostengono che nessuno può sottrarre la vita al suo decorso naturale, anche quando essa va incontro a sofferenze indicibili, perché rischia di ledere la «dignità inviolabile della vita umana». «La vita è un dono di cui il soggetto non ha completa disponibilità», ha affermato Benedetto XVI nel messaggio per la «Giornata della Pace» del 12 dicembre scorso, un discorso teso a stabilire vincoli all'azione del governo e a bloccare ogni possibile apertura del parlamento alle richieste di Welby. I secondi sono invece portati a «moralizzare» la natura umana attraverso la creazione di «nuovi tabù artificiali» che legano la vita al rispetto dei valori stabiliti dalle autorità (la chiesa o lo stato). Entrambe queste posizioni si scontrano in un dilemma altrettanto gravoso: la sacralità della vita chiede al malato di dipendere dalla macchina o di dire no? A questa domanda il filosofo cattolico Giovanni Reale ha risposto con parole sagge: «Dobbiamo guardarci dal pericolo di trasferire l'idea di sacralità della vita nella sacralità della tecnica».
Una posizione di mediazione tra la rivendicazione della «sacralità», fatta dai cattolici, e dell'«intelligenza» della vita, fatta dai laici, è stata proposta da Umberto Veronesi nel dialogo con Giulio Giorello, La libertà della vita (a cura di Chiara Tonelli, Raffaello Cortina Editore, pp. 115, euro 9). Il direttore dell'«Istituto Europeo di Oncologia» di Milano e il filosofo della scienza della Statale di Milano hanno il merito di avere portato alla luce l'elemento inquietante che tormenta la biopolitica contemporanea. A destare il disagio degli ambienti teologici, come di quelli laici, è infatti una certa idea della «natura umana»: crudele, imprevedibile e spaventosa alla quale si cerca di rimediare mediante un'ortopedia medica o giuridica. Con il risultato, talvolta paradossale, di separare la «vita» dal vivente, considerandola un valore morale o giuridico trascendente alle sue condizioni oggettive. Capita così di considerare intoccabile la vita della persona, ma tecnicamente modificabile il Dna dei vegetali (come ritiene la Chiesa). Oppure di estenuare la vita con le tecnologie alla ricerca di un rimedio impossibile ad una malattia cronica (il dilemma che ossessiona i medici davanti a casi di particolare gravità). Il risultato, possibile ma non certo, che entrambe queste visioni possono trasformarsi in una tirannia: teocratica o tecnica. Contro questi paradossi, l'appello di Veronesi e di Giorello a ciò che unisce scienza e religione: la tutela della dignità umana.
Roberto Mordacci, docente di filosofia morale al San Raffaele di Milano, autore, tra l'altro, di Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica (Feltrinelli, pp.410, €26) ha condotto una riflessione utile per definire il contenuto della dignità umana dal punto di vista della bioetica. A differenza di Veronesi e di Giorello, Mordacci attribuisce alla bioetica un contenuto normativo che la distingue tanto dall'etica medica, il cui scopo è di orientare il giudizio morale nel contesto delle scelte cliniche, quanto dal bio-diritto che mira alla definizione della vita in ambito giuridico. La bioetica è una teoria morale di stampo kantiano che vincola il trattamento medico e giuridico della vita alla massima kantiana del rispetto: «agisci in modo da rispettare ogni persona come fine in sé». Da questo punto di vista, il bene del paziente è ritenuto superiore al «bene medico» e costituisce una sorta di ammonimento contro il «paternalismo» dello stato che intende occuparsi della sua vita fino al punto di portarla alla morte.
Davanti ai «casi cronici», scrive Mordacci, lo stato deve rispettare la dignità umana ed evitare di espropriare il bene di un paziente imponendogli l'obbligo della cura. In questo caso il rischio è di separare la protezione dei diritti della persona da quelli del suo corpo, considerando la vita come uno strumento del potere e non il suo fine. Casi come quelli di Welby, conclude Mordacci, dovrebbero essere trattati seguendo l'articolo 32 della Costituzione italiana: «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». All'individuo viene riconosciuto il diritto di decidere quando una cura diventa accanimento terapeutico e, nel nome del rispetto di sé, di rifiutarla senza per questo arrivare al suicidio o invocare l'eutanasia.
Non c'è dubbio che è proprio la rivendicazione della «dignità umana» ad avere provocato un cortocircuito nella biopolitica statale. Per il filosofo tedesco Ernst Bloch, di cui l'editore torinese Giappichelli ha di recente tradotto il classico Diritto naturale e dignità umana (Giappichelli, pp.327, euro 30, a cura di Giovanni Russo), la dignità invocata dagli «oppressi» e dagli «umiliati» è una richiesta non assimilabile ai criteri statali che regolano la «giustizia», cioè l'adeguazione di una situazione ad una norma universale. Oggi questa rivendicazione, che per Bloch indicava una via d'uscita dalla società borghese, fa capolino nelle nuove battaglie per i diritti dei malati e, più in generale, per i cosiddetti diritti di «quarta generazione» che fanno attenzione alla vita dei singoli.
Per Bloch, la dignità umana non è una norma universale ratificata dallo stato, ma un fine da raggiungere che muove il desiderio di ciascuno. Per questa ragione è impossibile fornirne una definizione precisa. La dignità resiste allo sfruttamento economico, non si piega al bisogno e all'umiliazione, sfugge alla gabbia d'acciaio della legge. La giustizia è invece la manifestazione autoritaria di un comando dello stato e le sue disposizioni sono sempre autoritarie. Un cortocircuito che illustra la ragione per cui, quando si parla di «diritto alla morte dignitosa», lo stato erge quasi sempre le barriere protettive della giustizia contro la richiesta di riconoscimento della dignità personale. Per Bloch la dignità è invece l'espressione di una solidarietà più ampia degli esseri umani, e non solo del diritto soggettivo che lo stato riconosce ad un singolo. L'individuo non è una monade responsabile e autonoma, ma è un soggetto sociale che si affida alla solidarietà dei suoi simili quando si tratta di stabilire i confini politici e giuridici di una «vita dignitosa».

Diritto di resistenza
La lettura di Diritto naturale e dignità umana può tornare utile per neutralizzare il conflitto tra la legge e la morale, la sindrome che colpisce laici e neoconfessionali quando si tratta di legiferare sulla vita e, in generale, sulle questioni bioetiche. Qualcuno, forse a ragione, potrebbe lamentarsi del giusnaturalismo blochiano che attribuisce all'«umano» un valore superiore alle umane leggi. In parte è così, ed è un rischio che corrono tanto le vie laiche quanto quelle neo-confessionali alla biopolitica. Ma Bloch attribuisce a questa «umanità» il significato storico ed immanente di una costruzione condivisa che deriva da un atto politico: il diritto di resistenza.
In principio diritto liberale rivendicato durante le rivoluzioni europee tra il XVIII e il XIX secolo per resistere ai soprusi del governo nella sfera personale e associativa degli individui, oggi quello della resistenza è un diritto comune evocato da chi chiede più dignità per sé e per gli altri nella malattia. Per usare il linguaggio di Bloch, la solidarietà umana che va oltre i legami parentali e si afferma come legame politico. Davanti alla crisi della biopolitica contemporanea, chi afferma la solidarietà tra gli uomini sani o malati, normali o anormali, auspica la prevalenza dei diritti soggettivi su quelli oggettivi, della dignità sulla giustizia, della vita sul potere normativo della legge.

lettera a "Liberazione"
di Carlo Patrignani


Caro Piero,
Appena tre mesi fa a 'Liberafesta' c'e' stato un animato confronto (davanti ad un folto pubblico, attento e preparato, colto ed intelligente, tanti giovani e soprattutto tante donne, cosa rarissima da vedere in giro.. ecco queste righe sono state tagliate.. ) sull'informazione in generale e di sinistra in particolare. Sarebbe bello non disperderne il ricordo ed il significato. Tre mesi dopo, una strage, tre donne e un bambino di due anni uccisi spietatamente, un tunisino di 25 anni, marito di una delle tre donne e padre del piccolo, e un indigesto indulto, generano un pericoloso 'corto circuito' nei maggiori mass media: il magrebino e' l'assassino, l'autore della strage che ha potuto compiere grazie all'indulto. Passano poche ore e i fatti smentiscono l'assurdo teorema: non e' stato il 25enne tunisino a compiere la strage e l'indulto non c'entra nulla come in altre occasioni. Quale sia il meccanismo mentale per cui certi mass media ma anche certi benpensanti costruiscono un falso, il Mostro che uccide grazie all'indulto, non lo so compiutamente: mi viene in mente 'volere che sia' che diventa 'sapere che e''. Ossia, il tunisino, in quanto extracomunitario, di altra cultura e altro colore della pelle, e' di per se un pericolo, una minaccia, e’ vissuto come il Mostro (il Male), (per l'occidentale, l'italiano che, evidentemente, crede, si considera 'Superiore' o, viceversa, ritiene l'altro, il tunisino, 'Inferiore'. Un tempo, si comportava cosi’ un certo Adolf Hitler, ma anche un certo Giuseppe Stalin: non a caso fecero il ben noto patto del 1939 per dividersi la Polonia: altro pezzo tagliato). L'orrenda strage familiare (si dimenticano le 450 vittime l’anno all'interno della 'Sacra Famiglia') da esorcizzare subito, ha pronto l'autore, il Mostro, (Il Male) che ha potuto agire grazie all'indulto: e il gioco e' fatto, salvo esser sonoramente smentito dai fatti. Si e' stravolta la realta', dunque: e forse non per disattenzione ma deliberatamente. Se questo e' il modo di fare informazione in generale, e lo e' anche se non sempre cosi' evidente e trasparente, l'informazione di sinistra puo' dirsi immune e fuori pericolo? Se volere che sia, lo si applica, che so io, alla politica o alla psichiatria, puo' accadere che si da' per scontato e certo che Marx e il comunismo non hanno fallito l'emancipazione e la liberazione dell'Uomo o che la legge 180 e il freudismo hanno risolto il problema della malattia mentale perche' e' stata trovata la cura e quindi la guarigione: dal volere che sia, si passa, allora, al sapere che e', che, ovviamente, non corrisponde alla realta' dei fatti. (Mi fermo qui, perche’ dovrei dire della Religione, del Papa: mi limito solo a rilevare che ogni giorno Sua Santita’ ci dice quello che e’ Bene e quello che e’ Male e i mass media dietro a ripetere… altre righe tagliate) Vorrei che non ti scordassi l'incontro di tre mesi fa e sia possibile proseguire quella "ricerca sulla realta' umana, sulla mente umana" che il tuo giornale ha, laicamente e coraggiosamente, avviato senza preoccuparsi del 'quieto vivere'.
Carlo Patrignani




Corriere della Sera 20.12.06
Alternativa socialista: la svolta di Bertinotti
Svolta di Bertinotti: un think tank «per il socialismo»
Il presidente sarà il direttore della rivista


ROMA — Da presidente della Camera non ha mai smesso di essere un leader politico, e se tutti si sono ormai abituati al suo «doppio ruolo», nessuno si sarebbe aspettato che Fausto Bertinotti decidesse di diventare anche il direttore di una rivista: «Alternative per il socialismo».
Già dal nome del periodico s'intuisce l'obiettivo che sta dietro il progetto editoriale, fa capire il motivo per cui Bertinotti ha deciso di guidarlo: perché «Alternative per il socialismo» non sarà solo un bimensile, ma soprattutto l'arma culturale di un disegno politico, la risposta al Partito democratico, il tentativo di costruire a sinistra un'area capace di raccogliere quanti non accettano di confluire nella nuova formazione riformista.
L'idea della rivista risale alla scorsa estate, quando venne sottoposta a Bertinotti, che sulle prime si mosse con grande prudenza, perché temeva di entrare in conflitto con la carica che ricopre di presidente della Camera. Sciolse la riserva appena seppe di un «illustre precedente», quello di Giovanni Spadolini che da presidente del Senato dirigeva anche «Nuova Antologia». Da quel momento si è gettato nell'impresa, e ha contribuito in prima persona a scrivere il piano editoriale. «Mi sento istituzionalmente coperto», sostiene Bertinotti, che si dice «affascinato» dal progetto, tanto da aver presieduto ieri la prima riunione di redazione del periodico.
Il nome incrocia da una parte l'esperienza di «Alternative», foglio culturale del Prc, dall'altra richiama lo storico giornale «Problemi del socialismo» fondato da Lelio Basso, uno dei fondatori del Psiup. Ovviamente si tratta di riferimenti non casuali, segnano il profilo dell'intrapresa, ne lasciano intravedere il percorso culturale. Ed era scontato che per realizzare il bimensile Bertinotti volesse al suo fianco persone di fiducia. Il nucleo della redazione è stato infatti affidato alla senatrice Rina Gagliardi e al sottosegretario Alfonso Gianni, e comprende il dirigente sindacale Tiziano Rinaldini, l'ex direttore di «Aprile» Aldo Garzia, e due giornalisti di «Liberazione»: Anubi Lussurgiu Davos e Angela Azzaro. Il direttore responsabile sarà Domenico Iervolino, professore di Filosofia teoretica all'Università di Napoli, che aveva già guidato «Alternative».
Il presidente della Camera ha impostato la linea editoriale della rivista, che dovrà essere «coraggiosa» e «assai poco ortodossa». L'ambizione è quella di far diventare «Alternative per il socialismo» ciò che furono i «Quaderni Rossi» alla vigilia del '68, un laboratorio di idee e dunque un punto di riferimento culturale. Per riuscirci, il «coraggio» a cui si riferisce Bertinotti sarà quello di avviare un processo di «revisione da sinistra e non da destra del comunismo»: «Solo così ci apriremo al nuovo». Ecco la sfida che intende avviare l'ex segretario del Prc, l'intento di una «nuova svolta», pari a quella del congresso di Venezia, quando portò Rifondazione ad abbracciare le tesi della non violenza. L'obiettivo politico è evidente. Nel nome della rivista quel richiamo esplicito al «socialismo» serve da magnete, riporta a un concetto assai caro a Bertinotti: «È ora che il comunismo libertario si riunifichi con il socialismo radicale». Non è il preannuncio di un cambio di nome del Prc, anche perché il presidente della Camera — sebbene coltivi da anni in cuor suo questo pensiero — sta attento a non pregiudicarlo, e si muove con la logica dei piccoli passi. Ma che qualcosa sia in incubazione lo si capisce dai ragionamenti svolti attorno alla rivista, che dovrà essere «un luogo dove si mettono a confronto non solo le esperienze del comunismo, ma anche quelle del socialismo e del cattolicesimo democratico».
A fronte della crisi identitaria che ha provocato a sinistra il Partito democratico, Bertinotti contrappone dunque un progetto alternativo, tanto ambizioso quanto difficile. Per riuscirci ha deciso di usare anche la rivista, così potrà piantare il seme di una nuova formazione politica, darle il tempo di mettere le radici sotto il profilo culturale, e poi lavorare per farla crescere, per arrivare a quel «quindici per cento» che il capogruppo di Rifondazione, Gennaro Migliore, definisce come «un obiettivo realizzabile».
Il «direttore» ha indetto una nuova riunione di redazione subito dopo le feste, per stilare la lista dei collaboratori: Pietro Ingrao sarà invitato a scrivere, e c'è chi pensa anche di coinvolgere Achille Occhetto, l'uomo della Svolta del Pci. Ci saranno poi economisti neo-keynesiani come Riccardo Bellofiore, esponenti del mondo ambientalista e femminista. Ma il fiore all'occhiello saranno i contributi internazionali. Su quelli sta lavorando Bertinotti in persona, sfruttando il suo ruolo di presidente della Sinistra Europea: sul primo numero, in programma tra febbraio e marzo, è previsto un contributo di Oskar Lafontaine, leader della Linke tedesca. Si parte e non solo per arrivare nelle edicole...

martedì 19 dicembre 2006

il manifesto 19.12.06
Il regno dei preti
di Marco d'Eramo


«Odio il regno dei borghesi, il regno dei poliziotti e dei preti, ma odio ancora di più chi come me non lo odia con tutte le sue forze». Così scriveva nel 1931 il poeta francese Paul Eluard. Si sentirebbe davvero molto solo nell'Italia di oggi Eluard, soprattutto nei giornali che servili corteggiano i borghesi, sommessi obbediscono ai poliziotti, e untuosi s'inchinano al cospetto dei prelati. Non c'è telegiornale «laico» da cui non imperversi il cardinale di turno. Non c'è elezione in cui la Curia non ponga condizioni per concedere il suo appoggio. Non c'è politico di sinistra che non si riscopra una fede forse ben nascosta per decenni, ma pur sempre ardente come brace sotto la cenere (Piero Fassino e Fausto Bertinotti docent). Mangiapreti di ieri come l'ex radicale Francesco Rutelli sono diventati «ranocchie d'acquasantiera», secondo l'espressione francese. Fini letterati che cantarono la Finis Austriae, dell'impero asburgico sembrano rimpiangere anche la cultura tridentina, come Cluadio Magris che sul Corriere definisce Benedetto XVI «molto meno conservatore di quanto si creda», forse perché Ratzinger è intellettuale mitteleuropeo.Ma il culmine ineguagliato dell'ossequiosità al Vaticano lo si coglie nel variegato fronte contrario ai Pacs, che brandisce lo «scandalo» delle coppie omosessuali per negare status legale e legittimo a tutte le unioni di fatto, anche quelle eterosessuali. Come spesso gli è capitato nel corso della storia, il Vaticano combatte un'altra battaglia di retroguardia, e già persa. Basta contare i bambini nati fuori dal matrimonio nei paesi cattolici d'Europa. Escludiamo pure la Francia giacobina, in cui i bimbi nati da mamme non sposate sono il 48% del totale. Ma nella cattolicissima Polonia sono il 37%; nell'ultra clericale Irlanda il 32 %; nel Portogallo del miracolo di Fatima il 18,4%. E in Italia sono il 14%, cioè un bambino su sei. E, per quanto inattendibili e sottostimati siano i dati dell'Istat (in tutti gli altri paesi la percentuale di convivenze di fatto è pari a quella dei bambini nati fuori dal matrimonio, solo in Italia è misteriosamente meno della metà), essi indicano pur sempre che negli ultimi 10 anni tali unioni sono triplicate.Quel che queste nude cifre dicono con inoppugnabile chiarezza è che ormai la Curia non ha più contatto con il diffuso sentire dei cattolici europei. È sconnessa dal suo gregge. Come negli anni '70, su temi quali divorzio e aborto non era semplicemente più ascoltata dai suoi fedeli. E oggi, solo per compiacere il clero, e sempre per l'antico vizio di correre in soccorso dei potenti, o supposti tali, i politici del centrosinistra s'incamminano su questa stessa via di estraniazione del comune sentire di polacchi e irlandesi, portoghesi e italiani. Se la chiesa maledicesse le biciclette, è sicuro che i Mastella, i Casini, i Rutelli (con qualche diessino di scorta) proporrebbero un disegno legge per limitarne l'uso. E non è una battuta balzana, visto che a fine '800 L'Osservatore Romano si scagliò con inaudita violenza contro il «bicicletto», come allora si chiamava, considerato simbolo della sovversione sociale e del disordine moderno. Chissà se i nostri pronipoti reagiranno alle condanne dei Pacs con la stessa ironica bonomia con cui noi leggiamo gli anatemi contro il «velocipedismo». Ma sui Pacs noi non possiamo ancora sorridere.

l'Unità 19.12.06
Partito Democratico Targetti e la nuova questione cattolica
di Carlo Flamigni e Maurizio Mori


Caro Targetti,solo falsando o edulcorando la realtà italiana si può accusare di «conservatorismo» chi mette in luce che non si può formare il Pd senza prima aver chiarito la linea sulle questioni attinenti l’etica e la laicità, in risposta alle difficoltà poste dalla «nuova questione cattolica». I preti hanno il sacrosanto diritto (come tutti) di esprimere le proprie opinioni, ma non possono pretendere che l’etica cattolica regoli la vita pubblica e assuma una valenza politica come invece fanno quando gettano fango sulle posizioni laiche o pongono precisi veti su chi sostiene posizioni «non gradite». L’elenco in proposito è ormai così lungo che non può, caro Targetti, essere più ignorato.Poiché i progressi della scienza impongono riforme strutturali, il Pd non può continuare a lasciare la libertà di coscienza sui cosiddetti «temi eticamente sensibili» o restare ostaggio del ricatto di cattolici pronti a passare all’opposizione. Questo porta a soluzioni negative (vedi legge sulla fecondazione assistita) o all’immobilità (vedi divorzio breve!), oppure, nella più rosee delle soluzioni, a vedere le riforme richieste come un «male minore» da accettare turandosi il naso, e non come un valore positivo di cui essere orgogliosi. Invece di avere una precisa impronta progressista, le nuove leggi sarebbero dei pataracchi frutto di estenuanti compromessi, con un danno per la crescita civile della società italiana. Le questioni etiche e bioetiche vanno discusse prima, perché vogliamo che il Pd sia progressista, e non ancorato al conservatorismo di chi continua a proporre come «non negoziabili» valori che ormai sono fuori dalla storia e bloccano la vita sociale.

l'Unità Firenze 19.12.06
Tarkovskij, Firenze non dimentica
di Edoardo Semmola


A vent’anni dalla morte del grande regista russo, la sua città d’adozione gli dedica da stasera quattro appuntamenti
Non lo possiamo chiamare un fiorentino d’adozione. Perchè quello di Andrej Tarkovskij con la terra toscana, più che un rapporto filiale è stata una vera storia d’amore. A questo fiorentino, dunque, di seconde nozze, autore di indimenticabili pellicole cinematografiche come Solaris e Nostalghia, Firenze ha dedicato una targa commemorativa e 4 eventi per ricordarlo a 20 anni dalla morte. Come ha affermato l’assessore alla toponomastica Eugenio Giani, «Firenze è onorata di aver fra i suoi concittadini il grande regista russo. Per questa ragione, per ricordarne la sua figura e il suo rapporto con la città, come Amministrazione comunale abbiamo voluto l’apposizione di una lapide in via San Niccolò 91, dove lui visse. La cerimonia si svolgerà il prossimo 29 dicembre». In contemporanea è stato aperto al pubblico l’Archivio Tarkovskij, in passato oggetto di aspre contese tra Firenze e Mosca. L’archivio, unico in Europa e tempio sacro di tutta l’eredità del regista esistenzialista russo, sarà custodito in via dell’Oriuolo nei locali che il comune di Firenze ha riservato per le attività e gli uffici dell’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij. Stasera alle 21 al Teatro Goldoni il primo dei quattro appuntamenti di questo ventennale con un concerto in prima assoluta: Stefano Maurizi e Talya G.A con il World Music Quartet. Mentre venerdì 29 alle 21, sempre al Goldoni, sarà la volta del pianista e compositore contemporaneo francese, François Couturier con Nostalgia - Song for Tarkovsky. Innamorato da sempre del cinema di Tarkovskij, Couturier ha realizzato 12 brani per pianoforte, violoncello, sassofono soprano e fisarmonica, ispirati alle immagini e all’opera del maestro russo. Il concerto è stato realizzato in collaborazione con l’etichetta Ecm Nostalgia il cui direttore, Manfred Eicher, sarà presente in teatro insieme a Stefano Maurizi del World Music Quartet. Dal 19 gennaio al 18 febbraio sarà poi allestita presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze la mostra fotografica dal titolo Lo specchio della memoria. Prendendo spunto dal film autobiografico del regista, Lo specchio appunto, la mostra propone 60 vecchie fotografie della famiglia Tarkovskij risalenti alla prima metà del Novecento.

Repubblica 19.12.06
I simboli universali della natività
IL BUIO DELLA GROTTA E LA LUCE DELLA NASCITA
di UMBERTO GALIMBERTI


Tempo. La venuta di Cristo ha diviso in due il tempo della storia: il ciclo della natura ha lasciato il posto alla promessa del futuro

La nascita non è mai così sicura come la morte. Si può infatti morire anche senza essere mai nati, si può passare nella vita come giorni senz´alba. Il richiamo alla nascita, che il cristianesimo ripropone ogni anno alla cultura dell´Occidente sul registro della memoria religiosa e della festa, allude a quel compito che Pablo Neruda, senza troppa enfasi, affidò a uno dei suoi versi: «È per rinascere che siamo nati». E così la vita riassume la sua serietà, sottraendosi all´ingenuità dei buoni sentimenti con cui cerchiamo, ogni anno di questi tempi, di recitare la bontà, la serenità e la pace; un po´ goffamente, come capita a chi non è proprio di casa tra queste disposizioni d´animo.
Venire alla luce da una grotta, questo evento che il cristianesimo celebra il 25 dicembre, era già noto al mondo orientale e poi greco-romano, che in quella data festeggiava la nascita di Mitra, il dio della luce celeste, garante dei giuramenti, custode della verità, avversario della menzogna.
Amico del sole, Mitra è rappresentato dai bassorilievi come colui che inizia il sole, inginocchiato davanti a lui, con un braccio steso sul suo capo, affinché il sole apprenda il suo corso e lo persegua con regolarità e senza sconvolgimenti. Era preoccupazione del mondo antico che fosse assicurata la regolarità del ciclo, che il tempo trascorresse nella regolarità delle sue cadenze, che solo il sole con le sue albe e i suoi tramonti poteva assicurare. Mitra siede al banchetto con il sole, stringendo con lui un patto, e poi sale sul suo cocchio per percorrere insieme gli spazi celesti regolati nelle loro distanze dalla giusta misura. Il culto di Mitra non ebbe templi, ma grotte, in origine naturali, e poi artificialmente riprodotte nel sottosuolo. Dall´oscurità della terra alla luminosità del cielo. Questo è il simbolo di Mitra e il simbolo di Gesù.
Ma probabilmente è il simbolo di ogni uomo che per nascere deve "venire alla luce" da quel "fondo oscuro" che è il ventre della madre, l´antro dove siamo concepiti per una nascita, quella nascita che da sola non basta e che invoca una rinascita per trovare il suo senso. La festa di Mitra e di Gesù ribadisce questa vertigine simbolica dove ciascuno deve diventare antro di se stesso, grotta di generazione, notte buia che ha in vista il nuovo giorno, il dies natalis.
I simboli martellano la nostra depressione, non ci lasciano nella serena amicizia che spesso intrecciamo con la rinuncia. I simboli ci costringono a vivere, organizzano feste gioiose per riportarci alla vita, quando la nostra partecipazione all´esistenza non ha più i toni forti dell´entusiasmo, o quelli seducenti della voluttà. I simboli, questa macchina collettiva di vita, a cui interessa solo la vita, la vita di tutti, la vita del gruppo, del genere, dell´umanità, i simboli che cosa sanno della mia morte? Quel giorno, per ognuno di noi, potrebbe anche cadere il sole. Un altro antro è già pronto. L´antro di un´altra madre: madre-terra. Mitra, con la sua alleanza con il sole, voleva garantire la regolarità del ciclo, Gesù si congeda dal ciclo e dalla sua regolarità per annunciare un nuovo tempo: nuovi cieli e nuove terre. La storia ha un sussulto e si lacera in prima e dopo Cristo.
Nel ciclo ogni epoca non ha una finalità, ma semplicemente una fine. A sancirla è la morte, il giudice implacabile che amministra il ciclo, non nel senso che lo destina a qualcosa, ma nel senso che lo ribadisce come eterno ritorno. Nel ciclo non c´è rimpianto e non c´è attesa. La trama che lo percorre non ha aspettative né pentimenti. La temporalità che esprime è la pura e semplice regolarità del ciclo, dove non c´è futuro che non sia la pura e semplice ripresa del passato che il presente ribadisce. Non c´è nulla da attendere se non ciò che deve ritornare. Questa è la scansione del tempo prima di Cristo.
Dopo Cristo si fa strada una parola dirompente che spezza la ciclicità del tempo e la sua regolarità. Il suo suono è éschaton, una parola che nella direzione dello spazio significa "lontano" e nella direzione del tempo significa "ultimo". L´éschaton è dunque un tempo fuori portata, dove solo alla fine può apparire il fine di tutto ciò che è accaduto nel tempo, che a questo punto cessa di essere puro divenire per tradursi in storia. Guardare il tempo come storia è possibile solo se già si è ospitati nella prospettiva escatologica, dove il primato del fine sulla fine irradia sul tempo la figura del senso. Alla fine si adempie ciò che all´inizio era stato annunciato.
Inaugurando il punto di vista del fine che si realizza alla fine, il cristianesimo genera una temporalità che è assoluto futuro. E così non solo si separa dalle mitologie primitive che leggono il tempo a partire dal passato, da un paradiso perduto, ma proietta la salvezza in quel possibile futuro a cui si agganciano sia l´utopia sia la rivoluzione, quando la nuova figurazione del tempo, inaugurata dal cristianesimo, si contamina con l´ateismo della speranza.
Per lontane che sembrino, utopia e rivoluzione sono eventi cristiani, appartengono al tempo dopo Cristo, scavano il motivo della speranza e della rinascita, sondano possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso, guardano con sospetto il nietzschiano "tempo senza meta". L´Occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità e, in versione cristiana, utopica o rivoluzionaria, celebra nel natale non il ritmo del ritorno, ma l´atmosfera della rinascita, l´entusiasmo di ciò che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo.
Non guardiamo il natale con occhi innocenti. Non nascondiamoci dietro lo sguardo dei bambini. Nel loro incanto sappiamo che c´è provvisorietà e un po´ d´inganno. Una festa può essere così universale solo se raccoglie le metafore di base dell´umano e non solo semplicità e innocenza. Di questi temi ne abbiamo percorsi alcuni. Siamo partiti da una grotta da cui presero le mosse sia Mitra sia Gesù, ma subito dai loro messaggi siamo stati scaraventati da Mitra in cielo a seguire l´andamento del sole, da Gesù a seguire il percorso della storia sulla terra. Il tempo si è spaccato in due, la natura e il suo ciclo hanno ceduto al futuro e alla sua promessa. Tornati tra gli uomini e alle loro quotidiane cadenze, li abbiamo seguiti nei loro passi fuori dalla solitudine, in cerca d´amore. Un amore universale per un giorno di rinascita. Ma torniamo all´inizio: il natale non è nato per la confezione dei buoni sentimenti. Il timbro di questa festa è molto più forte: in gioco c´è l´uomo e la sua storia guardati da un punto di vista molto esigente. È il punto di vista per cui: "Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati".

Repubblica 19.12.06
La festa religiosa e il rito pagano
Cosa significa per noi la nascita di Cristo
di Corrado Augias e Mauro Pesce


Per i credenti un giorno che evoca l'evento fondamentale della fede
Per la società una tradizione che rischia di smarrire il senso originario

Se si considera la figura di Gesù esclusivamente dal punto di vista storico, è possibile, entro certi limiti, dire dove, quando, da chi egli sia nato. Il suo nome in ebraico è Yoshua ben Joseph. Gesù infatti viene dal greco Jesùs, calco del nome ebraico Jeshu, abbreviativo di Yeoshua. Quanto a "Cristo" riflette la parola greca Christòs, che traduce l´ebraico Mashiah, cioè "messia"; vuol dire "unto" ed è uno degli attributi che a Gesù sono stati dati. I fedeli spesso pensano che "Cristo" sia un nome di persona, in realtà è un titolo che indica un ruolo, appunto quello di "messia". L´impressione che danno i racconti dei Vangeli di Marco, Luca e Matteo è che Gesù sia nato in Galilea, cioè nel Nord della Terra d´Israele, verosimilmente a Nazareth o che, comunque, lì abbia vissuto a lungo con la famiglia. Giovanni invece colloca sua madre Maria sempre in Galilea ma nel villaggio di Cana. E Betlemme? Sulla base di una valutazione solo storica l´ipotesi di una nascita a Betlemme è debole. Solo due vangeli, Matteo e Luca, parlano diffusamente della nascita e, dei due, è Matteo che rende esplicite le ragioni per le quali quel minuscolo villaggio è stato scelto. In un libro della Bibbia ebraica (Michea, 5,1) è scritto: «Ma tu, Betlemme di Efrata,/ la più piccola tra i clan di Giuda,/ da te uscirà per me/ colui che dovrà regnare sopra Israele». I vangeli sono resoconti che hanno lo scopo di suscitare la fede in Gesù detto il Cristo, colui che l´onnipotenza divina ha fatto risorgere dai morti. A questa luce, anche la nascita in Betlemme diventa un dato teologico più che biografico. Gesù doveva nascere in quel minuscolo villaggio perché lì le scritture avevano profetizzato che sarebbe venuto al mondo il futuro re d´Israele.
Nato quando? Poiché siamo nell´anno 2006 dell´era cristiana (5766 dell´era ebraica) dovremmo pensare che egli sia nato 2006 anni fa (cioè nel 3760 d´Israele). Gesù in realtà è nato verso gli ultimi anni del regno d´Erode il quale morì nel 4 a.C. circa. Dunque dovremmo essere come minimo nel 2010, se davvero contassimo a partire dalla sua nascita. Nato il 25 dicembre come ci apprestiamo a celebrare tra pochi giorni? È anche questa una data discutibile. Più o meno in quel giorno cade il solstizio d´inverno dopo il quale le giornate cominciano ad allungarsi; la terra per dir così riprende il suo cammino verso la primavera. Il 25 dicembre è per conseguenza una data simbolica, i romani la definivano del "sol invictus". Infatti anche un altro dio si diceva fosse nato in quel giorno: il misterioso Mitra, divinità benevola che ebbe largo seguito a Roma. La religione a lui ispirata, il mitraismo, contese a lungo il primato al cristianesimo. Una delle leggende diceva che aveva preso forma nel ventre di una vergine; sempre secondo la leggenda, sarebbe tornato in cielo all´età di 33 anni. Del resto solo intorno al 335 d.C., il 25 dicembre venne accettato dalla chiesa come effettiva data di nascita di Gesù.
Nato da una vergine? Per Giovanni, Giuseppe sembra essere il padre fisico di Gesù. Per giustificare l´origine divina di Gesù questo vangelo non ricorre alla nascita verginale. La teologia ha discusso per secoli su questo punto sostenendo che Giuseppe non sarebbe il vero padre, perché Gesù, secondo i vangeli di Luca e Matteo, sarebbe nato in modo miracoloso da una vergine, grazie all´intervento dello Spirito santo. Come spiegare, al di fuori di un´obbedienza dogmatica, un´ipotesi così ardita? Il termine ebraico di riferimento è almàh che vuol dire "giovane donna" e, se si vuole, vergine in quanto giovane donna. Solo che almàh è stato tradotto in greco con "parthenos", che significa "virgo intacta", a dispetto del fatto che in numerose occasioni i vangeli parlino dei fratelli e delle sorelle di Gesù.
Gesù detto il Cristo, era in primo luogo un profeta ebreo, figlio di quella fede, obbediente in tutto alla Torah, ma nello stesso tempo profondamente innovatore, consapevole di possedere qualità straordinarie, ansioso di conoscere da Dio quale uso dovesse farne. Secondo un documento della Santa Sede del 1985: «Gesù era un ebreo e lo è rimasto sempre».
È assai probabile che egli parlasse il dialetto della sua regione, vale a dire il dialetto aramaico della Galilea. Sappiamo che frequentava le sinagoghe ed era capace di leggere i testi biblici, dunque conosceva anche l´ebraico, lingua della Bibbia. Quale diffusione avesse l´ebraico è materia di discussione. Diversi studiosi sostengono che era la lingua corrente. Altri, invece, magari di tendenza antisionista se non proprio antisemita, sostengono che l´ebraico non era più una lingua parlata. Nel complesso possiamo descrivere la situazione come diffusamente multilingue conseguenza di una certa ellenizzazione della Galilea. In ogni caso alcuni indizi nei vangeli sembrano indicare che Gesù parlasse non l´ebraico, ma l´aramaico-galileo. Inoltre conosceva forse un po´ di greco e anche qualche elemento di latino. Infatti non bisogna mai dimenticare, leggendo i vangeli, che la Terra d´Israele ai tempi di Gesù era militarmente occupata dalle truppe romane, che a Gerusalemme risiedeva un procuratore (il famigerato Ponzio Pilato) il quale dipendeva a sua volta dal governatore della Siria. Imperatore regnante in quegli anni era Tiberio.
Gli storici discutono sulle forme e sui limiti del dominio romano. Alcuni tendono a limitare la presenza fisica dei soldati romani in Galilea. Da un punto di vista politico, comunque, quei territori erano dominati dalla potenza romana ed Erode ne era lo strumento. Gesù viveva in una situazione multiculturale ed era ben consapevole dell´importanza di questo dominio. Se non si tiene conto di questo sfondo la sua azione diventa incomprensibile anche se bisogna aggiungere che, vivente Gesù, non si ebbero episodi di violenta rivolta antiromana come quelli che ci saranno nei quaranta anni successivi.
Il giudaismo di quei tempi attribuiva certo al messia una funzione politica, ma in modi molto vari e non sempre diretti. La funzione politica era invece chiara in figure designate con appellativi esplicitamente politici, come ad esempio "re". I testi però non dicono con chiarezza se Gesù si sia mai considerato un messia. È come se Gesù, che certamente si considerava inviato da Dio con una missione particolare, stranamente non avesse scelto in modo esplicito questo titolo per sé stesso. Messia infatti è usato piuttosto dai suoi discepoli. Anzi, in alcune occasioni si ha l´impressione che egli cerchi d´impedire dichiarazioni esplicite sulla sua dignità messianica. Non è facile definire la sua fisionomia anche perché nella letteratura del primo cristianesimo gli vengono attribuiti diversi altri titoli, come quello di profeta o di figlio di Dio. Anche questi vanno ovviamente interpretati nel contesto storico e religioso dell´epoca, non secondo concezioni cristiane successive.

Repubblica 19.12.06
La festa dei bambini e quella degli adulti
Il nostro stupore di fronte al Natale
di Joaquìn Navarro-Valls


Mistero La nascita di Gesù ci mette davanti al mistero che si cela dietro la venuta al mondo di un uomo: la gratuità del dono

Tra le molte storie che narrano l´origine di Babbo Natale particolarmente significativa è quella dello scrittore popolare tedesco Hermann Löns.
Babbo Natale se ne va triste per i boschi nella neve ed incontra Gesù Bambino. L´appuntamento tra i due ricorre ogni anno. Ma questa volta, Babbo Natale ha qualcosa che non va: è triste.
Davanti all´anziano sconfortato per la noia del suo girovagare di casa in casa e di luogo in luogo, oppresso dal peso degli anni, Gesù rimane colpito. Allora, decide di consolarlo. Guardandosi intorno, vede uno splendido albero e glielo indica.
Vincendo lo scetticismo di Babbo Natale, Gesù Bambino comincia a decorare l´albero, addobbandolo e facendolo splendidamente colmo di luci, palline e regali da portare nelle case della gente. Questa ingegnosa invenzione di Gesù Bambino consola e solleva Babbo Natale, che può dire soddisfatto: "Ecco! Finalmente qualcosa di nuovo!".
Arrivati in paese, Babbo Natale e Gesù Bambino giungono in una casetta, aprono lentamente la porta ed entrano. Pongono al centro della sala l´albero decorato e si addormentano. Al risveglio, il padrone di casa rimane stupefatto dalla bellezza che vede e decide di accendere le luci dell´albero. Davanti alla gioia incontenibile dei suoi, tutto assume finalmente un clima di festa. Sia l´uomo e la sua famiglia e sia Babbo Natale si rivolgono a Gesù appagati e grati per il bellissimo dono di serenità e di felicità che hanno ricevuto.
Questa storia parla di un aspetto rilevante del Natale.
La ricerca della cosa insolita ed ambita e la soddisfazione di una sorpresa ricevuta da qualcuno sono infatti ingredienti essenziali della festa.
Il fatto emerge anche in altre narrazioni popolari e rimanda direttamente all´allestimento del presepe. In questo caso, l´origine della devozione spiega bene il significato della solennità.
San Francesco, dopo il suo viaggio a Betlemme, rimasto stupefatto dai luoghi e dallo scenario della natività che aveva visto, fece allestire a Rieti una rappresentazione figurata della nascita di Gesù in occasione del Natale del 1223. Il suggestivo evento colpì tantissimo la gente. Infatti, anche Giotto ha reso immortale l´avvenimento nello splendido affresco che orna la Basilica Superiore di Assisi. L´allestimento del presepe, successivamente, ha preso rapidamente piede con popolarità, diffondendosi ben presto come una tradizione.
Il motivo del trionfo è forse relativo al fatto che il presepe è capace immediatamente di far rivivere con la medesima intensità percepita da Francesco l´immagine della Natività, ogni anno rievocata e riproposta. Anche in questo caso, oltre lo stupore generale, dietro il ricordo scenografico della raffigurazione si nasconde il significato profondo di ciò che esprime per l´uomo la Natività.
Ogni bambino, concentrato davanti alle statuine del presepe, apprende molti aspetti fondamentali della sua vita. Dinanzi alla raffigurazione scenica dell´Avvento viene trasportato all´interno del significato autentico della nascita di una nuova vita, della fragilità ma soprattutto della gratuità dell´esistenza umana.
La Natività è in fondo la figura emblematica della bella sorpresa. La Natività è la celebrazione e l´attesa rituale della felicità provocata da l´unico evento capace di trasformare realmente le cose: l´arrivo inaspettato di qualcuno che ci trascende. La novità della nascita di Gesù spiega chiaramente quale mistero si cela all´interno della nascita: il carattere gratuito della donazione.
E´ chiaro che davanti allo spettacolo del presepe nessuno crede veramente di avere a che fare esclusivamente con una ricorrenza, ma sente di essere trasportato nell´aspetto più intimo e profondo della vita personale, che si esprime nell´inesorabile consumarsi del tempo.
Proprio per questo il Natale non è soltanto la festa per eccellenza dei bambini, ma è anche la festa degli adulti che vengono fermati per un momento dallo scorrere dell´immanenza.
I grandi, totalmente immessi nelle loro attività, sono distolti dalla grande novità, un po´ come avviene per i pastori del presepe. Quello che accade non li lascia indifferenti, ma li coinvolge e li trascina fino a scoprire il senso ultimo della loro esistenza, liberandoli da se stessi e dal proprio irrilevante solipsismo.
Come per i Re Magi, anche per noi la certezza sull´imminente arrivo della persona attesa guida il nostro cammino, lento, costante, perseverante, e ci apre finalmente alla presenza dell´Altro.
Certo al Natale si accompagnano inaudite implicazioni teologiche, ma forse proprio per questo è il valore allusivo dell´elemento poetico che più chiaramente rivela il valore autentico dell´avvenimento.
D´altra parte, il sogno di avere qualcosa di desiderato, qualcosa di sperato, qualcosa di gratuito sfavilla splendidamente nello sguardo scintillante di un bambino che scrive la lettera a Babbo Natale o che dorme attendendo i regali o che finalmente li scarta entusiasta. Tale fiducia, come quella dei personaggi del presepe, si appoggia in noi sulla sicurezza di ricevere il dono promesso, perché è stato assicurato da qualcuno che ci ama veramente.
Dire che il Natale è la festa dei bambini significa, dunque, parlare della Natività, come dell´incedere del nuovo, come del presentarsi dell´atteso o dell´inatteso, ma anche come fiducia di essere amati da qualcuno.
In tal modo, davanti alla grotta di Betlemme, ci troviamo di fronte ad un occasione veramente inaudita, perfino inconcepibile.
In quello scenario, infatti, gli adulti possono tornare un po´ bambini, per stupirsi ancora di qualcosa, per uscire dalla routine della monotonia quotidiana, e i bambini possono aprirsi ad una dimensione definitiva e significativa della vita che trova il senso ultimo nella fedeltà gratuita verso le offerte ricevute.
In fondo, la nostra vita, che spesso chiude lo spazio a tutto ciò che non può essere controllato o previsto, davanti ad una nuova nascita si trova sospesa nel vuoto e direttamente protesa verso lo sconosciuto. Ma, mentre i bambini si immergono nel mistero dell´esistenza, facendo esperienza dell´intangibilità del nuovo regalo della vita che vivranno, gli adulti possono riscoprire e fare emergere in se stessi l´impressionante forza della loro generosità.
E´ per questo che ricevere un regalo a Natale o in un´altra occasione non è la stessa cosa, perché a Natale riceviamo regali senza nessun motivo e senza nessun merito da parte nostra. E´ una vera donazione di qualcosa, che ci attraversa e ci muove verso gli altri, perché ricevuta gratuitamente dagli altri. Questo atto generoso si configura come il significato realmente autentico della natività.
Nascere è, in definitiva, qualcosa di originario e di imprevedibile, che si ripete continuamente nell´incontrollabile sviluppo del nostro presente verso il nostro domani e che ha il suo senso ultimo nella donazione di una nuova vita.
Ed è proprio con questo sentimento che l´uomo vive veramente questi giorni di vigilia, aspettando con impazienza ciò che normalmente accade senza essere visto e senza essere rilevato. Ci affrettiamo perciò anche noi a fare gli ultimi acquisti con speranza e con una gioia inspiegabile nel cuore, preparandoci alla festa.
A Natale ci nutriamo, in definitiva, del sentimento di stupore quotidiano, assaporando l´imprevedibilità della vita e tante altre cose ancora, ma soprattutto vivendo felicemente il vero desiderio di novità che pervade la nostra esistenza personale. Questo avviene perché il Natale è in fondo una festa che ci distoglie per un po´ dal nostro presente e ci spinge ad accogliere con maggiore disponibilità il trascurato presente degli altri.
Chissà se alla fine riusciremo anche noi a esclamare con sorpresa e gioia: "Ecco! Finalmente qualcosa di nuovo!".

Repubblica 19.12.06
LA VITA IN SCHIAVITÙ
di Massimo Livi Bacci


Un saggio ricostruisce il commercio di uomini fra il Cinquecento e l'Ottocento
In quattro secoli sulla tratta atlantica furono trasportati undici milioni di persone
Fu un mercato pianificato su larga scala. E non solo un fenomeno di subalternità
Viaggiavano stipati e incatenati nelle stive per guadagnare spazio
Si diceva che fossero più curati i dromedari degli esseri umani

La tratta degli schiavi - cioè l´infame processo di cattura, trasporto e vendita di esseri umani - ha coinvolto decine di milioni di persone in epoca moderna. L´epicentro è l´Africa, l´irraggiamento vastissimo, verso l´Asia, l´Europa e l´America; le conseguenze sociali, economiche e demografiche molteplici. Olivier Pétré-Grenouilleau (La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, Il Mulino, pagg. 472, euro 29) costruisce un quadro che incrocia la storia delle idee, con quella economica e sociale, contrapponendo teorie e paradigmi interpretativi di un fenomeno colossale.
In epoca moderna, la classe degli schiavi non è più il prodotto dell´esclusione o della subalternità permanente e stratificata di una società autoctona, o della sottomissione permanente di popolazioni nemiche, ma il risultato di un commercio organizzato su larghissima scala, in un vasto mercato con ben identificati intermediari, venditori e compratori. Secondo l´autore, l´affermarsi della tratta è subordinato a cinque requisiti: l´esistenza di una stabile rete di approvvigionamento di prigionieri; l´incapacità degli schiavi di riprodursi ed accrescersi demograficamente; la netta separazione (con distanze di migliaia di chilometri) tra luoghi di "produzione" (razzie) dei prigionieri e luoghi di utilizzazione degli stessi; la compravendita per denaro, preziosi o mercanzie; il consenso delle entità statuali dei luoghi di origine, di transito o di destinazione.
La tratta negriera (perché il sesto requisito fu che lo schiavo fosse nero e africano) ha avuto dimensioni enormi. Si calcola che tra il 1500 e la sua abolizione definitiva alla fine dell´Ottocento, la tratta atlantica abbia coinvolto il trasporto di 11 milioni di schiavi dalle coste africane a quelle americane, per quattro quinti circa dopo il 1700. Le cifre della tratta atlantica derivano da fonti attendibili quali il traffico marittimo registrato delle navi negriere o le capacità di trasporto delle navi, che dopo il 1700 potevano normalmente imbarcare dai 250 ai 350 schiavi.
Di non minori dimensioni fu la tratta "orientale", dal Sud del Sahara verso il nord dell´Africa e successivamente verso il levante, oppure dalle coste orientali verso la penisola arabica e l´Asia. Più labili sono le stime delle dimensioni di questa tratta, che consisterebbe di numeri non inferiori a quella atlantica: secondo Austen tra il 650 e il 1920, 9 milioni di schiavi avrebbero percorso le piste sahariane e 8 milioni sarebbero partiti dalle coste orientali, metà da quelle del Mar Rosso e metà da quelle swahili. Un traffico dai costi umani spaventosi: «Sulla pista da Kano a Tunisi, a volte cambiando padrone di tappa in tappa, gli schiavi neri potevano fare anche tremila chilometri. All´arrivo potevano essere spediti verso Levante, oppure nuovamente venduti».
I mercanti di schiavi, si diceva, avevano maggior cura dei loro dromedari che dei disgraziati trasportati. La mortalità in questi trasferimenti era molto alta e si è calcolato che nell´Ottocento variasse da un minimo del 6 ad un massimo del 20 per cento, superiore (in media) alla mortalità della tratta atlantica, che nell´Ottocento era dell´ordine del 10 per cento. Dati attendibili mostrano, sorprendentemente, che anche nei secoli precedenti, la mortalità degli schiavi nel middle passage (la traversata atlantica) fu minore di quella delle ciurme che li trasportavano, nonostante che i primi fossero stipati e incatenati (a coppie) nelle stive dove stavano coricati in formazione testa-piedi per guadagnare spazio durante le interminabili notti delle molte settimane di viaggio.
Antecedente al trasporto c´era la fase della "produzione" di schiavi, ovvero della loro cattura, mediante spedizioni organizzate da intermediari africani, quasi sempre musulmani, capaci di attraversare le barriere linguistiche ed etniche, di piombare sui villaggi al loro risveglio, di neutralizzare eventuali reazioni, di condurre le loro prede per lunghe distanze ai depositi dei porti d´imbarco rivendendoli ai negrieri europei.
Questi - portoghesi, inglesi, francesi, danesi - armavano le navi, che dovevano essere provviste delle mercanzie accettate per lo scambio: tessuti, tele indiane in particolare, utensili, ferro e piombo, recipienti di ogni foggia e misura, asce e cunei per disboscare, alcolici, oggetti di pregio per le élite, armi bianche e da fuoco. Gli armatori negrieri costituivano, nelle città europee, una élite agiata e rispettata, una sorta di aristocrazia minore con incarichi di un certo prestigio ed accesso alle cariche pubbliche. Tuttavia una certa storiografia ha esagerato enormemente i profitti della tratta - gravati da rischi molto elevati - che gli studi più recenti mostrano non discostarsi grandemente dai profitti di altre attività commerciali contemporanee; per la tratta francese tali profitti erano dell´ordine del 6 per cento, per quella britannica del 7-8 per cento.
Nel Settecento, la crescita economica e l´accelerazione della popolazione europea alimentano l´espansione della domanda di zucchero e di altri prodotti coloniali; si moltiplicano e si estendono le piantagioni in America e cresce in conseguenza la domanda di schiavi. Schiavi africani, perché le popolazioni autoctone di America o si erano estinte (come nei Caraibi) o si erano rivelate inadatte (come in Brasile) e, comunque, secondo la legge non potevano essere ridotte in schiavitù.
Importati in ragione di due uomini per ogni donna, impediti nella mobilità, falcidiati dall´alta mortalità, ostacolati nella vita familiare (spesso i padroni scoraggiavano - quando non vietavano - le unioni stabili), le popolazioni in schiavitù non riproducevano se stesse e sarebbero state condannate all´estinzione in mancanza di un continuo flusso di nuovi arrivi. La vulnerabilità della popolazione in schiavitù era massima nei Caraibi, molto alta in Brasile, meno grave nella terraferma Ispanica, mentre negli stati meridionali degli odierni Stati Uniti dove gli ostacoli alla normale vita familiare furono assai minori e le condizioni di vita meno drammatiche, la demografia degli schiavi permetteva la loro crescita naturale. Nei quattro secoli successivi al 1500, più del 40 per cento della tratta si diresse verso le Antille (britanniche, spagnole, francesi ed olandesi), più del 40 per cento verso il Brasile ed il residuo finì nella terraferma ispanica e britannica.
Ad un controverso tema Pétré-Grenouilleau dedica un´interessante parte del suo saggio. Quale fu l´impatto economico della tratta? E quale quello demografico? Si è molto esagerata la rilevanza della tratta sull´economia dei paesi negrieri dell´Europa, che non fu una componente particolarmente rilevante dello sviluppo settecentesco, anche se parte integrante del sistema del commercio internazionale. Per i paesi africani si è anche sostenuta la tesi paradossale che la tratta avrebbe avuto effetti positivi, avendo allentato gli effetti negativi della crescita della popolazione oltre a fornire numerario e merci che avrebbero favorito lo sviluppo; essa poi non avrebbe avuto effetti demografici sensibili.
La realtà fu probabilmente assai diversa: se è vero che sull´intero continente subsahariano - che nel Settecento contava forse 70 milioni di abitanti - gli effetti quantitativi di un flusso complessivamente imponente, ma assai diluito nel tempo, non furono rilevanti, ciò non è vero sicuramente per le aree che pagarono il più alto prezzo alla tratta. Questa non solo era selettiva, privilegiando uomini e donne giovani di età e robusti di costituzione, ma era anche quantitativamente importante, influenzando la stabilità e la crescita demografica. Ve ne sono prove, nel corso del settecento, in varie regioni dell´Africa occidentale. Infine, quale calcolo economico potrebbe mai valutare il costo del degrado umano, sociale e civile (e la sua durata nel tempo) che la tratta inflisse alle popolazioni africane?

il Riformista 19.12.06
Eccesso di religione? No, difetto di politica
di Emanuele Macaluso


Può capitare, anche sotto Natale, che l’agenda politica sia sintonizzata su questioni come le coppie di fatto, l’accanimento terapeutico, il diritto-dovere di vivere. E può capitare, contemporaneamente, che nell’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro - pubblicato dalla Commissione Ue - spunti una rivelazione secondo cui ben il 63 per cento degli italiani ritiene che la religione abbia un «posto troppo importante» nella società. Soltanto i ciprioti (81%) e i maltesi (70) sono più insofferenti degli italiani sull’«invadenza» (virgolette d’obbligo) della religione mentre la media europea di coloro che la ritengono «troppo importante» si attesta al 46 per cento.
Morale della favola? «Parlare di religione in generale non è corretto, basta guardare alla “discrezione” di valdesi, metodisti, evangelici. È forse la Chiesa cattolica ad essere troppo “invasiva”», è la risposta del filosofo Giulio Giorello. Che poi aggiunge: «Ma le gerarchie vaticane fanno il loro lavoro. Il problema sono i politici, di destra e di sinistra, che sono sempre in prima fila per mettere in pratica, rispetto alla Chiesa cattolica, le vecchie parole di Gianni Morandi quando cantava “ritornerò in ginocchio da te...”». Giorello cita, come esempio di autonomia, «Zapatero, premier di un paese in cui, storicamente, ci sono state molte vittime in nome della religione; e, nella Gran Bretagna della religione di stato, Tony Blair». Poi il filosofo chiede: «Arriverà in Italia qualcuno che, cavourianamente, sarà in grado di applicare il principio “libere Chiese in libero stato”?».
Anche il senatore - diessino e cattolico - Giorgio Tonini sembra giungere alle stesse conclusioni di Giorello. Seppur con qualche distinguo, e soprattutto partendo da un’analisi diversa. «Dov’era - è il pungolo di Tonini - questo 63 per cento di italiani quando si votò sul referendum della fecondazione assistita? Il 25 per cento andarono a votare. Ma gli altri?». Il problema, sottolinea il senatore ds, «non è della Chiesa. È la politica che continua a dimostrarsi sempre troppo debole. Un tempo c’erano i politici cattolici, che stavano in un partito solo. Oggi abbiamo addirittura correnti di partiti in competizione tra di loro. Solo nella Margherita, ci sono i teodem, i popolari e i prodiani...». Risultato? Per Tonini aumenta la confusione e, soprattutto, «spuntano correnti di politici che sono più papisti del papa stesso. Come se fossimo tutti in un gioco di ruolo». E poi, aggiunge il senatore, «ci sono volte in cui i messaggi che arrivano dalla Santa Sede risultano amplificati, e quindi più “invasivi”, se li rileggiamo sull’Osservatore romano e sull’Avvenire».
Per Massimo L. Salvadori, i dati di Eurobarometro erano ampiamente prevedibili. Quasi fossero un film già visto. Ad esempio, «nel 1974, quando la Dc si sentiva la vittoria in tasca nel referendum sul divorzio e il Pci, al contrario, aveva affrontato la consultazione referendaria con timore e più d’una timidezza». Ancora oggi, sostiene Salvadori, «i partiti sono sempre molto sensibili alle parole della Santa Sede soprattutto perché credono che, se non lo facessero, pagherebbero un caro prezzo in termini elettorali. I dati di Eurobarometro dimostrano l’esatto contrario. E io, nel mio piccolo, me ne rallegro».