venerdì 29 dicembre 2006

il manifesto 29.12.06
Caso Welby. Intervista al medico che ha staccato la spina
«Ho agito nella piena legalità»
di Cinzia Gubbini


La sedazione praticata a Piergiorgio Welby la sera del 20 dicembre ha accelerato la sua morte? E' anche questo aspetto che i magistrati della Procura di Roma stanno accertando nell'inchiesta sulla morte di Piergiorgio Welby, che per ora non vede indagati. Per capirlo, saranno fondamentali i risultati dell'autopsia. Stabilire se l'iniezione praticata dall'anestesista di Cremona contemporaneamente al distacco del ventilatore sia stata fatale, non sarà complicato. Se, ad esempio, dalle analisi dovesse risultare che nel sangue di Welby c'è del potassio in alta concentrazione, o dei farmaci appartenenti alla famiglia dei curari - diretti a bloccare l'attività di cuore o polmoni - risulterebbe logico sostenere che nel comportamento del medico c'era volontà omicida (o meglio, eutanasica). Diversamente, sarà dimostrato che il cocktail di farmaci utilizzato da Riccio ha avuto un effetto solo sedativo. In effetti, tutti i sedativi possono produrre un «doppio effetto»: lenire il dolore, ma anche rilassare i muscoli e dunque anticipare di qualche minuto la morte. Tuttavia, questo secondo effetto viene generalmente considerato «buono» (anche dalla Chiesa) e non letale. In un corpo minato dalla malattia come quello di Welby, oltretutto, l'utilizzo di farmaci calmanti potrebbe avere - al contrario - ritardato di qualche minuto il momento del decesso. Il dottor Mario Riccio - che anche ieri si è recato a lavoro come tutti i giorni - ovviamente sa quale tipo di farmaco ha utilizzato, ma non vuole entrare in particolari: «C'è un provvedimento disciplinare nei miei confronti e un'indagine in corso. Come ho già detto, e come riportato nella cartella clinica, confermo di aver utilizzato un cocktail di farmaci sedativi».
Ma cosa ha ucciso Piergiorgio Welby?
La sua malattia. Senza l'aiuto del ventilatore polomonare non poteva sopravvivere se non per pochi minuti.
Durante il colloquio con il presidente dell'Ordine dei medici di Cremona è stato approfondito l'aspetto della sedazione?
Ho risposto per tre ore a domande molto accurate, preparate dal professor Bianchi. Abbiamo parlato di tutto, in un clima disteso. Ho consegnato portato la cartella medica in cui è riportata quantità e qualità dei farmaci utilizzati.
Cosa si aspetta? Sta pensando di rivolgersi a un avvocato?
Per ora non ho ancora deciso nulla, aspetto di capire se il consiglio mi convocherà per una nuova audizione. Ma sono sereno.
Ieri ha dichiarato che non lo rifarebbe
Non è vero. Ho soltanto detto che probailmente non mi troverò più in una situazione del genere: lavoro in ospedale, non a domicilio. Welby l'ho conosciuto perché mi interessava molto il suo caso, visto che da quindici anni mi occupo di bioetica. Ho avuto occasione di fare qualche osservazione, ad esempio il fatto che ritenevo sbagliato insistere sulla strada dell'eutanasia o di richiedere una legge ad hoc, come era stato fatto con la lettera al presidente Napolitano. Credevo, e ne sono convinto ancora oggi, che si potesse agire nel pieno della legalità, seguendo un percorso ben preciso. Quando sono stato contattato perché Welby aveva deciso di seguire quel percorso da me delineato, mi sono sentito in dovere di farlo. E obbedendo alla mia morale e alla mia coscienza, ho sospeso un trattamento terapeutico che un paziente cosciente rifiutava.
Dunque ha interrotto un accanimento terapeutico.
No, non esattamente. Sono d'accordo con il Consiglio superiore di sanità: non si può sostenere che nel caso di Welby ci fosse accanimento. Il ventilatore rispondeva, in effetti, a una sua necessità: quella di respirare. Ci trovavamo, invece, di fronte a un paziente che rifiutava le cure. E questo è un diritto pieno, di rango costituzionale.
E' così semplice?
Certo che lo è. Non voglio esagerare, ma io penso che non ci sia un «caso Welby». Ci sono migliaia di situazioni simili, e sempre il medico pianifica un percorso terapeutico. E sempre è previsto che il paziente possa, ad un certo punto, revocare il suo consenso e chiedere la sospensione del trattamento.
Vuol dire che è facile trovare un dottor Riccio per tutti coloro che sono nella condizione di Welby?
E' ovvio che il dibattito tra i medici è molto vivace. Io, quando sono intervenuto con Piergiorgio Welby, l'ho fatto all'interno di una relazione medico-paziente. Ma mi auguro che quanto avvenuto possa aiutare a chiarire i margini entro cui i medici possono operare.

il manifesto 29.12.06
Esperimenti di calore terapeutico per ripararsi dal vento della follia
Forme di cura. Lo sguardo agli antichi guaritori, per andare oltre l'etnopsichiatria
Studi di Alfredo Ancora. L'esperienza della psichiatria transculturale, in un libro edito da Franco Angeli
di Franco Voltaggio


La tradizione popolare più antica, in Italia e non solo in Italia, associa gli accessi di melanconia e l'aura di un incipiente disordine mentale all'influenza che su talune persone ha la tramontana, per cui chi «perde la testa» sarebbe vittima di un vento maligno e violento. L'universalità di questo contenuto nell'immaginario collettivo trova riscontro in una credenza della medicina sapienziale cinese che definisce «vento» ogni forma di follia e fa delle strategie terapeutiche attivate dal «medico scalzo» «trappole» per catturarlo. Accogliendo questa fantasia come metafora della malattia mentale, uno psichiatra romano, Alfredo Ancora, definisce «costruttori di trappole del vento» tutti gli psicoterapeuti, lui compreso, alle prese spesso con pazienti «difficili», soggetti i cui problemi, non meno dolorosi che complicati, configurano una sorta di tempesta incombente sulla loro testa di rifugiati, richiedenti asilo, migranti economici, che abitano nella «città del papa».
Di qui il tema del suo ultimo libro, I costruttori di trappole del vento. Formazione, pensiero, cura in psichiatria transculturale (Franco Angeli, 2006, pp. 234, euro 23) nelle cui pagine riconosce che la condizione di uno psichiatra istituzionale non è molto dissimile, nella sostanza, da quella dei guaritori primitivi (traditional healers), assumendosi una precisa responsabilità, conoscitiva e terapeutica, che corre a molti livelli. Sotto il profilo conoscitivo, infatti, Alfredo Ancora accoglie come doveroso impegno il fatto di non considerare sufficiente rifarsi al bagaglio di conoscenze proprie della psichiatria praticata in Occidente, giacché si tratta di cimentarla con le suggestioni che vengono da altre culture. Il fatto che queste siano lontane dal nostro modo di stare al mondo e, conseguentemente, non abbiano nulla a che vedere con gli strumenti concettuali della psicoterapia scientifica, è di per sé irrilevante. Lo è per due buone ragioni: essendo il malato soprattutto una vittima della più atroce delle sofferenze, il dolore e la bruciante solitudine della mente, poco importa quale sia la teoria di riferimento cui fare ricorso per attivare la cura; se il soggetto appartiene a un mondo idealmente diverso, è impensabile poterlo incontrare senza in qualche modo colludere con credi e orientamenti che pure sono estranei alla cultura e allo stile di pensiero del terapeuta. Di qui la necessità di quella speciale forma di psicoterapia che è la psichiatria transculturale. Ma che cosa è propriamente la psichiatria transculturale? Per i profani, e forse persino per qualche esperto, è l'equivalente dell'etnopsichiatria, una disciplina, dallo statuto concettuale quanto mai incerto, che si fonda su due assunti di base: a) vi sono forme di disordine mentale che sono peculiari di talune specifiche etnie; b) la conoscenza del retroterra culturale di un'etnia è condizione necessaria e sufficiente per mettere a punto la strategia terapeutica adeguata. Sotto certi aspetti, i due assunti parrebbero trovare giustificazione nelle osservazioni delle ricerche sul campo. A una attenta riflessione, tuttavia, essi mostrano di essere tanto fragili da non meritare di essere considerati veri assunti di base.
La prima asserzione, infatti, non tiene conto della circostanza per cui il paziente diverso non fa il suo ingresso in ambulatorio in quanto sofferente di una patologia originaria che il contatto con una realtà inedita ha semplicemente fatto esplodere, ma è piuttosto malato di una sindrome che, al di là della sua specificità, è l'esito soprattutto di una situazione generalizzata di «spaesamento». Vale a dire che l'interessato non parte già malato, ma si ammala qui e adesso. Ne consegue che la raccomandata conoscenza del suo retroterra culturale può anche essere una condizione necessaria, ma non è certo sufficiente per far decollare il processo di cura. Che fare allora? Ci si può avvicinare a una soluzione praticabile, considerando la dimensione transculturale alla stregua di un processo in cui lo psichiatra transita tra diverse culture mediante una feconda contaminazione con il mondo dell'altro. A questo punto, e qui sta la fecondità della proposta di Ancora, occorre individuare in quella terra di nessuno che è la turba mentale una soglia o confine in cui lo psichiatra incontra l'altro, tenuto conto del fatto, in sé incontrovertibile, che un confine non serve solo a dividere, ma anche a mettere in comunicazione gli esseri umani. Di fatto la cura può nascere non già dall'applicazione alla malattia di una prassi terapeutica consolidata e magari raffinata da qualche nozione di etnopsichiatria, ma dall'incontro tra paziente e psicoterapeuta. Detto così, sembra unicamente una mozione degli affetti, una mera irruzione dei buoni sentimenti in ambulatorio, la spia del nascosto - tra l'altro neppure tanto - terzomondismo dell'autore. In realtà non è così e a dimostrarlo sono i numerosi casi clinici esposti nei Costruttori di trappole del vento, di cui uno è particolarmente significativo. Ha per protagonista Ahmad, un giovane fotografo iraniano fuggito dal suo paese per evitare il carcere: è stato accusato dalla polizia di sovversione, perché sorpreso a fotografare un moto popolare. Ricevuto in Italia, in qualità di rifugiato politico, in un centro di accoglienza, manifesta ben presto i sintomi di una depressione che si aggrava progressivamente sino al punto di sfociare in un tentativo di suicidio. Dimesso, si presenta nell'ambulatorio di Ancora con una cartella clinica in cui è riportata la diagnosi «sindrome depressiva grave con tentativo di suicidio». Il terapeuta, prima di iniziare il trattamento, cerca di entrare in contatto con il giovane fotografo, invogliandolo a parlare di sé e del suo mondo e, per vincere il muro di diffidenza, si spinge sino ad accompagnarlo a visitare con lui una mostra di arte persiana. Segue un periodo in cui Ahmad non si fa vivo e le notizie che arrivano dal centro parlano di un ulteriore aggravamento della crisi depressiva e di un nuovo tentativo di suicidio. Ahmad ritorna un ambulatorio e parla con il terapeuta della moglie e della figlia, una bambina, che ha dovuto lasciare in Iran. A questo punto Ancora ha un'idea, mettere in comunicazione il paziente con il suo nucleo familiare, convincendo la direzione della struttura a farlo telefonare direttamente in Iran. Mentre la conversazione è in corso, Ancora, fa discretamente per allontanarsi, ma il paziente lo richiama, dicendogli «resta, anche tu fai parte della famiglia». Il trattamento può davvero decollare.
Che cosa è avvenuto? La solitudine di Ahmad è stata contrastata facendo dell'ambulatorio una sorta di cabina telefonica che, resa una «quasi casa», simula le pareti domestiche della casa iraniana adatta all'incontro del giovane con le persone che ama, sul filo di un contatto che, se non è fisico, non è, per questo, meno intenso. Resta l'angoscia di Ahamad, la sua malinconia, che però, divenute oggetto di colloquio con un amico, non sono più irretite nella solitudine della depressione. Resta lo psichiatra istituzionale romano Alfredo Ancora, che ha trasformato il suo bagaglio professionale, mettendolo alla prova con il dolore del paziente, senza spocchia e senza faciloneria.

Repubblica 29.12.06
La polemica. L'Italia divisa tra laici e laicisti
di Miriam Mafai


CHI sono i laici, e chi sono i cosiddetti «laicisti» nel nostro paese? La domanda mi viene spontanea dopo aver letto l´intervista con la quale la senatrice Anna Serafini, dei Ds, mette in guardia il centrosinistra dal pericolo di scivolare nel «laicismo», con il rischio di provocare una «lacerazione della nostra società». Laici sì, laicisti no. Ma come distinguere gli uni dagli altri?
Qualche giorno fa, ho molto apprezzato la presenza del senatore Ignazio Marino ai funerali di Piergiorgio Welby e l´impegno che in quella sede ha pubblicamente confermato di voler portare avanti, fino al positivo esito, il dibattito già in corso nella commissione Sanità, sul tema del «testamento biologico». Il problema, ricorda lo stesso Marino, non è di oggi.
Le prime pronunce relative al diritto di morire con dignità riconoscendo legittima la volontà del soggetto sono state emesse negli Usa più di trent´anni fa, e anche nel nostro paese è ormai cresciuta la richiesta dei cittadini di poter esprimere in piena lucidità le proprie scelte da realizzare nel momento del trapasso. Era questo che Welby chiedeva in piena lucidità. Ma questa legge in Italia non c´è e per ottenerla bisognerà superare molte difficoltà e riserve delle gerarchie cattoliche. E dunque, il senatore Marino che su questo fronte è impegnato, va iscritto tra i laici o tra i laicisti?
Lo stesso senatore Marino ha condiviso e sostenuto la decisione presa dal ministro Fabio Mussi in sede europea a favore della ricerca sulle linee cellulari di staminali embrionali esistenti, e a favore della ricerca sugli embrioni attualmente congelati e abbandonati, una volta accertato il momento in cui gli stessi embrioni perdono la capacità riproduttiva. Anche in questo caso è legittima la domanda: il ministro Mussi è laico o laicista?
Il senatore Marino è un cattolico. Un cattolico laico, come ne abbiamo conosciuti molti nella storia della nostra Repubblica (anche in momenti di grande tensione e problematicità) e come ne conosciamo ancora molti. Laici e quindi disponibili al dibattito, al confronto, anche al compromesso che, in politica, è un passaggio non solo inevitabile, ma anche augurabile per raggiungere soluzioni condivise. Non solo quando siano in discussione materie che definiamo «eticamente sensibili».
Onestamente, non ho capito le preoccupazioni espresse ieri dalla senatrice Anna Serafini quando ci metteva in guardia dal pericolo di un presunto «laicismo». E non capisco bene, in verità, nemmeno cosa si intenda per «laicismo». In Italia nessuno ha proposto o propone, come è accaduto in Francia (ma ogni paese ha la sua storia) la esclusione dalla sfera pubblica di ogni forma e manifestazione della propria fede religiosa. In Italia siamo di fronte al fenomeno contrario. Se la religione cattolica, con il Concordato del 1984, non è più la sola religione dello Stato, la complessiva debolezza della politica consente, ormai da anni, una progressiva invadenza delle gerarchie e del Pontefice in prima persona su tutti i temi di pubblico interesse e materia di dibattito e decisioni politiche. Che si tratti di aborto o di procreazione assistita, di malattia o di autodeterminazione del paziente, della ricerca scientifica o dei diritti delle coppie di fatto e degli omosessuali. Tutti temi che definiamo «eticamente sensibili» e sui quali nessuno nega, naturalmente, alla Chiesa di esprimere le sue opinioni (e le sue preoccupazioni). Ma ciò che colpisce è la violenza e la mancanza di pietà di alcune affermazioni e la pretesa che la politica si pieghi alle sue richieste. Una pretesa che viene rivolta in modo specifico e particolare all´Italia ed alle sue assemblee rappresentative, cui si nega o si pretende di negare il diritto di legiferare liberamente su una serie di materie.
A questa situazione faceva riferimento mercoledì scorso un passaggio dell´articolo di fondo di Eugenio Scalfari, quando chiedeva al presidente Prodi di inserire tra i suoi impegni urgenti «la difesa della laicità delle istituzioni senza cedimenti intollerabili alle pretese della lobby della Conferenza Episcopale». Eugenio Scalfari è certamente un laico. Non so se possa essere collocato tra i «laicisti». A meno di non voler collocare tra i «laicisti» non solo il Conte di Cavour che voleva «una libera Chiesa in libero Stato», ma anche Enzo Bianchi, priore di Bose, che recentemente metteva in guardia il clero interventista dalla tentazione di occupare il vuoto lasciato dalla politica, ammonendo: «Non spetta alle figure ecclesiali della gerarchia entrare nella tecnica, nella economia e nella politica per trovarvi specifiche soluzioni»

La Sicilia 28.12.06
Se Kant fa i conti con l'«Apocalisse»
L'illuminista e l'eternità: nuova edizione italiana del saggio «La fine di tutte le cose»
di Roberto Fai


Negli anni in cui Federico Guglielmo II imperava in Prussia, in un clima di censura teso a difendere la fede positiva luterana, l'illuminista Immanuel Kant inviava all'amico ed editore Johann E. Biester un breve ma intenso saggio intitolato «La fine di tutte le cose», che sarebbe apparso nel numero della rivista dell'amico editore nel giugno del 1794, suscitando l'immediato rescritto censorio regio di Guglielmo II, il quale, in una missiva inviata tramite il ministro del Dipartimento per il Culto prussiano minacciava l'illustre filosofo di «provvedimenti spiacevoli» nei suoi confronti nel caso in cui avesse proseguito ancora con scritti di natura teologica, che invece dovevano essere riservate alla competenza dei teologi della Chiesa luterana.
Già nel titolo, il denso scritto kantiano mostrava il suo intento di operare un serrato confronto con «L'Apocalisse» di Giovanni, quale testo fondamentale, che, chiudendo la Scrittura, rappresentava, ad un tempo, la fine del Libro dei Libri e la profetica fine del mondo: la storia umana trovava il proprio senso attraverso la trama grandiosa che il «Libro» esponeva nell'annuncio del compimento escatologico.
Se è vero, come è stato efficacemente sostenuto, che nel toccare il tema della «fine di tutte le cose», in Kant aveva anche agito l'istanza di una «meditatio mortis», in ragione del suo stato di vecchiaia, aggravato dal timore dei pesanti provvedimenti censori che da diversi anni il governo prussiano minacciava nei suoi confronti, nel saggio del 1794, due sembrano essere le domande a cui Kant intendeva rispondere: affermare il "primato" geneaologico della ragione umana, rivendicare la priorità dell'azione morale dell'uomo, e - sul tema della "eternità", che il testo dell'Apocalisse evoca, in quel versetto cruciale dove recita che, alla fine dei tempi, «non vi sarà più il tempo» - riaffermare il "limite" del pensiero.
Di questo straordinario testo kantiano giunge in questi giorni una nuova edizione italiana, «La fine di tutte le cose», (Bollati Boringhieri, Euro 7,00), per la cura di Andrea Tagliapietra, che aggiunge un intenso saggio esplicativo.
Già alcuni decenni prima, il giovane Kant era stato attratto da interessi scientifici, affrontando il problema della "fine" da un punto di vista "fisico", tracciando un parallelo tra il declinare della Terra, il suo possibile tramonto e quello della vita umana. Tutti gli enti naturali - dalla terra all'uomo - connessi in un comune destino entropico sono destinati, per Kant, ad una "fine", dovuta al loro inevitabile dispendio energetico. Nel saggio del '94, il tema della "fine di tutte le cose" - in un serrato confronto con L'Apocalisse - assume invece una connotazione metafisica.
«Ma perché gli uomini si aspettano in generale una fine del mondo? E… perché proprio una fine accompagnata dal terrore?». Di fronte a tale angosciante domanda, c'è un modo attraverso cui la ragione può neutralizzare proprio "quell'Anticristo", la cui attesa/venuta annuncia drammaticamente il Giorno del Giudizio, e che il filosofo di Königsberg aveva risolto liberando il tempo dall'angoscia dell'attesa escatologica, dal momento che «l'apocalisse è ora» (Tagliapietra), è «già» ora: già, «a sempre».
Così come, per Kant, l'idea stessa di un passaggio dal tempo all'eternità, implicando «una fine di tutto il tempo» è, di per sé, un'idea contraddittoria, perché il «passaggio» esige sempre un «tempo», e se c'è tempo, non solo l'eternità è impossibile, ma rimane un concetto inaccessibile al pensiero. Finché pensa - come scrive magistralmente Tagliapietra - il pensiero non può che pensare temporalmente. La fine di tutte le cose diviene pensabile - scrive Tagliapietra - come immagine presente dell'azione morale, non «futura», come la speranza, ma «vicina» come l'amore. Corrispondendo così proprio a quanto annunciato nell'Apocalisse di Giovanni: «...perché il tempo è vicino».

giovedì 28 dicembre 2006

Corriere della Sera 27.12.2006
In prima pagina sul New York Times
Freud e la cognata, adulterio sulle Alpi
Rivelazioni. La prova della relazione nel registro di un hotel


Non era solo una malignità messa in giro da Carl Gustav Jung, l’allievo svizzero poi divenuto avversario strenuo di Sigmund Freud. Pare proprio che il padre della psicoanalisi abbia avuto una relazione con sua cognata Minna Bernays, sorella della moglie Martha, che viveva insieme ai coniugi Freud. La prova difficilmente oppugnabile dell’adulterio sta scritta a chiare lettere nell’elenco dei clienti di un albergo delle Alpi svizzere lo Schweizerhaus di Maloja. Qui Freud e la cognata, che stavano trascorrendo insieme una vacanza di due settimane, occuparono una camera matrimoniale il 13 agosto 1898, presentandosi come una coppia sposata. E lui si registrò con la donna come «il dottor Sigmund Freud e signora». Quindi, il giorno stesso, inviò alla moglie, che sapeva del viaggio, una cartolina in cui si soffermava sulla bellezza del paesaggio, ma definiva modesto l’albergo. Invece lo Schweizerhaus era e resta un hotel di lusso: evidentemente lo studioso austriaco non voleva insospettire la consorte. La scoperta, ripresa in prima pagina dal New York Times, si deve a un sociologo tedesco specialista in psicoanalisi, Franz Maciejewski, autore del saggio Il Mosè di Freud. Un fratello inquietante, uscito in Germania nello scorso ottobre presso l’editore Vandenhoeck & Ruprecht. A suo avviso la vicenda non inficia la validità del metodo psicoanalitico. Ma certo intacca l’immagine irreprensibile di Freud diffusa dai molti ammiratori. Anche il suo biografo Peter Gay, a lungo scettico sulla relazione con Minna, si dice pronto a rivedere i precedenti giudizi.
Antonio Carioti

il manifesto 27.12.06
Democrazia all'occidentale Come l'agenzia americana ha cambiato il mondo
«Sì, è stata la Cia». L'ex spia confessa
di Luca Celada

Intervista a Milt Bearden L'ex agente segreto è il consulente del film diretto da Robert De Niro «Good Shepherd», storia dello spionaggio americano dal dopoguerra al 1961 Cosa vuole sapere? Se abbiamo comprato le elezioni italiane nel 1948? Certo che sì! Avevamo delle valigie Samsonite più grandi di quelle dei russi, va bene? Se no avreste avuto Togliatti per 50 anni

New York. L'accusa neocon più citata in questi giorni, quella che Bush rivolge ad esempio al rapporto della commissione Baker, è quella di essere troppo «reality based», cioé succubi della realtà. La Casa Bianca preferisce imporre ai fatti la propria volontà e disprezza l'eccesso di pragmatismo. Insomma, dopo un secolo e mezzo di egemonia della dottrina Monroe, la retorica neoconservatrice trasforma l'«eccesso di raziocinio» in demerito politico. Eppure nel dopoguerra gli Stati Uniti isolazionisti con il loro «pragmatismo strategico», che ha finito per far deragliare l'idealismo democratico da ogni etica, hanno centrato l'obiettivo. Se si accetta, infatti, che al primo posto ci siano gli interessi americani, è possibile giudicare Pinochet, con la sua prosperosa economia liberista, un «successo», pur con qualche spiacevole costo. Neppure la Baia dei porci e il Vietnam sarebbero fallimenti politici ma semmai operazioni tatticamente fallite, come anche il finanziamento dei Contras nicaraguensi con fondi neri iraniani o l'addetramento dei mujihadeen antisovietici, e via dicendo nella sequenza di operazioni clandestine che nell'ultimo mezzo secolo sono state parti integranti dell'ingegneria geopolitica di Washington.
All'origine di questa storia recente si rivolge Good Shepherd, il film diretto da Robert De Niro (uscito negli Usa in questi giorni, arriverà in Italia a febbraio). E come dichiara il sottotitolo, racconta la «storia segreta della nascita della Cia». In sostanza, mette in scena l'organizzazione dell'agenzia spionistica nata nel dopoguerra dalle ceneri dell'intelligence militare Oss sulle rovine fumanti del teatro europeo per far fronte alla nuova guerra, fredda e segreta, che avrebbe combattuto per i successivi 50 anni. Il film vorrebbe essere anche la cronaca della devoluzione degli «ideali democratici» americani in un groviglio progressivamente sempre più paranoico. È il racconto di come la stategia geopolitica della superpotenza mondiale venne appaltata alla sistematica e clandestina destabilizzazione di paesi, regimi e regioni del pianeta a seconda degli «interessi nazionali» degli Usa.
Sfortunatamente il film di de Niro vuole essere anche molto altro. Prodotto da Francis Ford Coppola, ha le velleità del Padrino, citato a tratti scena per scena. Ma non è tutto, la sceneggiatura di Eric Roth contiene almeno altri due film, un thriller nero nel registro di Le Carré e l'altro un dramma familiare sugli effetti perniciosi che l'attività destabilizzazione di «regimi subalterni» - svolta anche di domenica e nei giorni festivi - può avere alla lunga sul matrimonio.
Per questo ed altri dettagli tecnici, De Niro si è avvalso della consulenza di Milton Bearden, una carriera trentennale nella Cia costruita con abnegazione e iniziativa fino al manageriato medio-alto: capo della stazione nigeriana negli anni '70, responsabile delle operazioni clandestine in Sudan poi distaccato in Pakistan con responsabilità di addestramento dei mujihadeen negli anni '80 fino agli ultimi fuochi reaganiani della guerra fredda con postazione di supervisore delle operazioni est-europee
Oggi Milt Bearden è un reduce, rottamato dopo la vittoria sull'impero del male, se l'è cavata meglio di tanti colleghi ed ha una florida attività di «consulente» hollywoodiano, grazie anche a De Niro che lo aveva ingaggiato per assisterlo nella rappresentazione realistica di Jack Byrnes, il crudele agente Cia di Meet The Parents. Da qui l'incarico ben più consistente in Good Shepherd, dove la sua consulenza è stata utile per ricostruire campagne di disinformazione, assassinii, perfino la distruzione con le cavallette di raccolti nei campi di paesi centroamericani ritenuti eccessivamente filosovietici oltre che tecniche di interrogazione e tortura degne ante-litteram di Abu Ghraib. Forse per questo Bearden ha dichiarato al Los Angeles Times che per essere un agente della Cia occorre essere un «incorreggibile romantico» - o forse nutrire nostalgia per tempi più semplici quando per ristabilire le giuste influenze bastava abbattere qualche democrazia e instaurare un despota amico.
La politica clandestina della Cia è stata dunque parte integrante della politica americana del ventesimo secolo?
Sì, integrante. Ha espresso sempre la volontà del presidente degli Stati Uniti in carica...
Lei crede che le azioni dell'agenzia siano in parte responsabili dell'astio che esiste oggi verso gli Stati Uniti in molte parti del mondo?
Certamente ce n'è molto di astio verso di noi, non solo a causa della Cia, ma per molti dei fatti avvenuti nel mondo bipolare. Deve capire che quando gli Usa e l'Urss rappresentavano i due poli, quasi tutti gravitavano verso l'uno o l'altro. Gli Stati Uniti vennero criticati per molte cose.
Il Vietnam ad esempio o i missili pershing stazionati in Europa ci hanno fruttato le critiche di molti governi e tante piccole proteste, ma in fin dei conti la gente capiva che nella maggior parte dei paesi c'erano sempre 400.000 soldati russi pronti a marciare nella pianura tedesca e 400.000 americani a tenerli a bada. C'era cioè un equilibrio nel mondo. Da quando è caduta l'Unione Sovietica l'equilibrio non c'e più e quindi all'antiamericanismo gratuito ne è seguito uno molto più focalizzato e specifico e questo non credo sia un bene per la nostra sicurezza.
Ma la prassi di intervenire «strategicamente» nel mondo destabilizzando governi, distruggendo economie o peggio, a seconda degli «interessi nazionali degli Stati Uniti» era davvero necessario, non c'erano alternative?
Ci sono sempre alternative tattiche, momento per momento e potremmo riflettere e chiederci ad esempio Arbenz in Guatemala o Mossadeqh in Iran nel '53-'54, furono giustificati? Si potrebbe anche dire che la ragione di tutti i nostri attuali problemi sta nell'aver riportato al potere lo shah, e che l'incubo latinoamericano ha avuto inizio con l'intervento in Guatemala. Io direi che abbiamo semplicemente permesso ai cronisti del New York Times e del Washington Post di esagerare l'importanza di quei fatti. Nella realtà l'eliminazione di Arbenz e di Mossadeqh furono operazioni pressochè artigianali - hanno a malapena accelerato fatti che in tutta probabilità sarebbero avvenuti comunque. Ora se la sua domanda è se abbiamo avuto ragione nel farlo, dal punto di vista di allora direi «forse». Anche se parlando del Guatemala dove il segretario di stato e il capo della Cia nonché ufficiali del consiglio di sicurezza nazionale avevano rapporti con rappresentanti della United Fruit, società con forti interessi in un paese poi sovvertito, beh forse questo si potrebbe criticare. Ma se si tratta di vedere la Cia come una scheggia impazzita allora questo è un errore poichè ha sempre agito per precisa volontà dei presidenti in carica. Abbiamo fatto esattamente ciò che ci ordinavano.
Non trova che ci sia un problema etico intrinseco, una contraddizione, nell'uso di ingerenze clandestine da parte della maggiore democrazia mondiale in altre democrazie?
Cosa vuole sapere? Se abbiamo comprato le elezioni italiane del 1948? Certo che sì! E allora? Avevamo della valigie Samsonite più grandi di quelle dei russi, va bene? Lei potrebbe dire che è da li che è derivata l'instabilità di tutti quei governi uno dopo l'altro. Ok. Forse avremmo potuto non farlo e voi avreste avuto un governo davvero stabile che poteva durare 50 anni, quello di Togliatti. Forse sarebbe stato meglio? Questo dovete dirlo voi, non io...
Insisto, interferire con l'autodeterminazione dei popoli è compatibile per un paese che pretende di rappresentare la democrazia nel mondo?
Questa è una questione che ci riporta dritti ad oggi - potete cercarmi su Google e vedrete come la penso in merito. Credo che quello che dobbiamo fare a un certo punto è guardarci in faccia e chiederci onestamente cosa stiamo facendo. Riusciremo a realizzare i nostri ideali nel Medio Oriente? Mi spiace, ma probabilmente no.

30 anni di Usa
Chi è Milton Bearden
Consulente Cbs, opinionista del New York Times, autore, con James Risen, di «The Black Tulip: a novel of war in Afghanistan» ('98), sulla definitiva sfida Kgb/Cia, e coautore di due attacchi alla politica estera di Bush jr, «How did This Happen, Terrorism» e «The New War», Milton Bearden, ex agente della Cia, è nato a Oklahoma City e cresciuto a Washington, dove il padre lavorava al Manhattan Project. Dal '64 nei servizi segreti, dopo aver fatto il militare in aeronautica, in 30 anni di carriera ha operato in Pakistan, Nigeria, Sudan e Germania. Tra l'86 e l'89 ha addestrato i mujaheddin in Afghanistan e seguito il crollo del sistema sovietico dirigendo la divisione Urss/paesi dell'est. Insignito di alte onorificenze (anche in Rft) dopo aver lasciato il servizio attivo (ora vive a Reston, Virginia con la moglie francese, Marie-Catherine) ha lavorato con Robert De Niro («Meet the Parents», The Good Shepard» e il sequel «The Main Enemy»), partecipato ai programmi tv «Secret Warriors» (History Channel), «Covert Action» (Bbc), «Heroes under Fire» (History Channel) e ai migliori documentari storici d'oggi, «The Nightmare of Power, di Adam Curtis, 2004 e «Uncoverded: the war on Iraq» di Robert Greenwald (2004).

il manifesto 28.12.06
Intervista a Amos Luzzatto, ex presidente dell'Unione delle comunità ebraiche e per quaranta anni medico chirurgo negli ospedali italiani
«E' stata la fine di un incubo: andava rispettata la sua volontà»
di Eleonora Martini


«Quello che non capisco è come si possa dire no all'eutanasia e sì alla pena di morte». E' una contraddizione intollerabile per Amos Luzzatto, ex presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, che non comprende il senso di una condanna a morte nemmeno per «un criminale come Saddam Hussein», mentre vede in quella sentenza «il sintomo di una debolezza molto pericolosa per la società irachena». E avverte: «Così si ritorna alla legge del taglione, contemplata nelle 12 tavole romane e nelle leggi di Hammurabi, ma che è stata assolutamente cassata dalla tradizione ebraica successiva, al contrario di quanto di creda».
Dottor Luzzatto, lei che ha svolto per 40 anni la professione di medico chirurgo, cosa ha provato quando è morto Piergiorgio Welby?
Sono contento che finalmente si sia conclusa la sofferenza di un uomo che non poteva trovare un rimedio da solo e che nessuno voleva aiutare. Era un incubo: vedere che soffriva e che chiedeva di morire senza poter far niente è stata una cosa drammatica, angosciante.
Cosa pensa delle polemiche che questo caso ha suscitato?
Credo che in questo periodo si sia parlato troppo degli aspetti giuridici e morali, ma mai in termini di solidarietà umana. Le generalizzazioni in casi limite come quello di Welby sono sempre pericolose. Si pensi all'astrofisico Stefhen Hawking: lui desidera vivere con tutte le sue forze, anche se non so quanti di noi sarebbero in grado di dire la stessa cosa al suo posto. Nel suo caso sarebbe criminoso togliergli quel po' di vita che gli resta. E' troppo facile parlare quando non si è nella stessa situazione. Ascoltando alcuni giudizi sommari, ho trovato delle similitudini con l'esaltazione che si fa nei salotti in tempo di guerra delle sofferenze dei martiri e degli eroi.
Quale riflessione c'è nel pensiero ebraico su questi temi di fine vita: eutanasia e accanimento terapeutico?
Io vorrei che qualcuno mi dicesse qual è il confine tra l'interruzione dell'accanimento terapeutico e l'eutanasia, perché ognuno lo sposta dove meglio crede. Ogni atto potrebbe tranquillamente essere visto sia come un prolungamento della sofferenza con mezzi artificiali, sia come accelerazione della morte: è veramente molto labile il confine tra questi due eventi. E' un problema che è stato posto molte volte anche nel pensiero etico ebraico, ma che io cercherei di soggettivizzare. Durante la mia vita di chirurgo ho visto persone arrivare a questi stati limite e reagire in forme radicalmente diverse. C'era chi anelava a un attimo in più di respiro, a un momento di ulteriore funzione organica vitale, e chi invece implorava la morte. Nel primo caso qualunque terapia non può essere considerata accanimento terapeutico, nel secondo invece ogni ulteriore trattamento va chiamato col giusto nome: tortura. Noi parliamo prescindendo dalle sensazioni, della volontà e dal desiderio del soggetto interessato. Ognuno di noi è diverso per educazione, per risorse spirituali, morali e intellettuali. Non possiamo arrogarci il diritto di esaltare la sofferenza di un altro, altrimenti ritorniamo ai tempi in cui si bruciavano le streghe perché la loro anima venisse redenta.
Occorre quindi accelerare i tempi per una legge sul testamento biologico?
Sì, io sono d'accordo col testamento biologico. Anche se rispetto all'eutanasia, che è una sorta di suicidio assistito, io sarei favorevole ma con grandi riserve. Molte volte ho visto persone che hanno tentato il suicidio ma poi se ne sono pentiti. Dobbiamo insomma essere molto responsabili davanti ad atti di questo genere, ma senza chiudere drasticamente ogni possibilità.
Se queste domande fossero state poste ad un rabbino, come avrebbe risposto?
Avrebbe avuto più di una risposta, visto che nella tradizione ebraica ci sono vari esempi di suicidi osannati e ricordati nel testo biblico. Si potrebbe citare Masada, i cui morti vengono ancora onorati, o re Saul, il primo re di Israele, che si suicidò con la sua spada e la cui elegia composta dal suo successore David è un autentico salmo di gloria che è entrato nel testo biblico canonizzato ebraico. L'ebraismo non è una Chiesa dogmatica centralizzata dove c'è un Papa che indica il comportamento da adottare a tutti i fedeli che ne vogliono far parte. Nel mondo ebraico si dibatte di questi temi in modo non superficiale, ma con notevole disinvoltura. Eppoi c'è l'abitudine ebraica di soppesare il caso singolo con grande attenzione alle varianti soggettive. E' difficile che il più colto, il più istruito e informato dei rabbini si senta di dare dei giudizi drastici e validi per tutti i differenti casi. Mi dispiace constatare invece che nel nostro paese sia mancata, nell'insieme, una presa di posizione globale e generalizzata che difendesse il dovere di capire ciascun soggetto che soffre e di non sostituirci alla sua volontà.
l'Unità 27.12.06
MARIO RICCIO
L’anestesista che ha staccato la spina
«Nessuna eutanasia
E non c’è bisogno di nuove leggi»
«Era sereno Welby mercoledì sera, sono sereno io adesso: non è stata eutanasia - anche se era questo, questa parola che lui usava e voleva - ma solo una sedazione praticata mentre toglievo il respiratore. Nel pieno rispetto della legge». Mario Riccio è l’anestesista che ha staccato la spina. Quello che in molti hanno definito «dottor morte». «So che c’è chi ha pure chiesto che mi arrestassero... Non scherziamo. Sono 15 anni che mi occupo di bioetica, interrompere la ventilazione e sedare è assolutamente nel campo della legalità. Quando mi hanno chiamato quelli dell’associazione Coscioni mi sono detto: non puoi non mettere in atto praticamente ciò di cui sei convinto. Allora sono venuto a Roma».
Dottore, cosa è successo in quella stanza?
«Una cosa molto semplice. Ho praticato una sedazione venosa mentre stubavo Piergiorgio. Ho fatto le due operazioni contestualmente. Il professor D’Agostino, ex presidente della Consulta di bioetica e medico cattolico, ha sostenuto che prima stubare e poi sedare sarebbe stata una pratica ammissibile. Ma se anche un solo secondo Welby avesse sofferto?».
Ma lei ha agito, ha avuto un comportamento attivo. Perchè non è eutanasia? Perchè sostiene di non aver contravvenuto al nuovo codice deontologico dei medici che all’art. 17 prescrive che “il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte”?
«Perchè avrei dovuto somministrare un farmaco che portasse alla morte, ad esempio potassio cloruro. Oppure dare una sostanza paralizzante... Invece non c’è stata alcuna volontà eutanasica. E la conferma è che di eutanasia, adesso che della questione si sta finalmente dibattendo con un po’ di cognizione di causa in più, nessuno parla più seriamente, a parte qualche oltranzista».
Lei cosa richia per aver sedato Welby?
«Lo devono decidere altri, io so di essermi mosso nel pieno rispetto delle regole. Ed è quello che ho raccontato ai magistrati. Adesso aspettiamo l’autopsia di Welby, soprattutto per quanto riguarda i valori tossicologici».
In Italia esiste un buco legislativo su questi temi?
«No. Vede, che esista il diritto del paziente a rifiutare le cure lo ha detto la sentenza del tribunale di Roma. In maniera assoluta lo riconosce la Costituzione, lo riconoscono le sentenze della Cassazione, lo riconosce il codice deontologico dei medici e pure la Convenzione di Oviedo. Certo, si dice che non si riesce ad imporre al medico di andare a staccare la spina, ma io credo dipenda più da un caos tra organi competenti che da un vuoto di legge».
Esiste l’eutanasia clandestina?
«Io credo che con il no all’inchiesta conoscitiva del Parlamento si è persa una grande occasione. Non tanto per l’eutanasia, quanto per quel che si chiama “pianificazione della cura”. È quel che succede nelle aree critiche di molti ospedali: la dialisi, la respirazione meccanica sono trattamenti che insieme al paziente vengono decisi per un termine di tempo determinato. Se non va... ».
E il testamento biologico?
«No, questa è un’altra cosa. Che ci sia un problema lo spiego ricordando come la legge sulla donazione degli organi del ‘99 non è ancora stata attuata. Che significa? Che le donazioni di organi naturalmente si fanno, ma che è salvo il diniego del conuige o dei parenti... ».come nacque l´Adelphi

Repubblica 27.12.06
COSÌ INVENTAMMO I "LIBRI UNICI"
Da Nietzsche a Kubin, Hesse e Walser
di Roberto Calasso


Era il maggio del 1962 quando Bobi Bazlen parlò per la prima volta di quella che sarebbe stata la nuova casa editrice. Le opere del filosofo, una collana di classici e la diffusione del pensiero irrazionale
Fu la grande sapienza editoriale di Luciano Foà a pilotare quei volumi verso una sola collana: la Biblioteca
Fin dall'esordio conservammo un'apertura totale verso ogni anfratto del passato, verso tutti i generi e gli autori

All´inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C´erano solo pochi dati sicuri: l´edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato.
Sarebbero stati stampati da Mardersteig, come anche il Nietzsche. Allora ci sembrava normale, quasi doveroso. Oggi sarebbe inconcepibile (costi decuplicati, ecc.). Ci piaceva che quei libri fossero affidati all´ultimo dei grandi stampatori classici. Ma ancora di più ci piaceva che quel maestro della tipografia avesse lavorato a lungo con Kurt Wolff, l´editore di Kafka.
Per Bazlen, che aveva una velocità mentale come non ho più incontrato, l´edizione critica di Nietzsche era quasi una giusta ovvietà. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l´epiteto "irrazionale" implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni "irrazionale" non poteva che essere Nietzsche. Per il resto, sotto l´etichetta di quell´incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche vasta parte dell´essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all´editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante.
In letteratura l´irrazionale amava congiungersi con il decadente, altro termine di deprecazione senza appello. Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido. Già da questo si capirà che l´idea di avere al numero 1 della Biblioteca Adelphi un romanzo come L´altra parte di Alfred Kubin, esempio di fantastico allo stato chimicamente puro, poteva anche suonare provocatorio. Tanto più se aggravato dalla vicinanza, al numero 3 della collana, di un altro romanzo fantastico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (e non importava se in questo caso si trattava di un libro che, guardando alle date, avrebbe potuto essere considerato un classico).
Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi - posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, dove Bazlen e Ljuba Blumenthal erano ospiti per qualche giorno -, evidentemente accennò subito all´edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici. E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa. Di un classico tibetano (Milarepa) o di un ignoto autore inglese di un solo libro (Christopher Burney) o dell´introduzione più popolare a quel nuovo ramo della scienza che era allora l´etologia (L´anello di re Salomone) o di un testo sul teatro No scritto fra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo.
Furono questi alcuni fra i primi libri da fare che Bazlen mi nominava. Che cosa li teneva insieme? Non era chiarissimo. Fu allora che Bazlen, per farsi intendere, si mise a parlare di libri unici.
Che cos´è un libro unico? L´esempio più eloquente, ancora una volta, è il numero 1 della Biblioteca: L´altra parte di Alfred Kubin. Unico romanzo di un non-romanziere. Libro che si legge come entrando e permanendo in una allucinazione possente. Libro che fu scritto all´interno di un delirio durato tre mesi. Nulla di simile, nella vita di Kubin, prima di quel momento; nulla di simile dopo. Il romanzo coincide perfettamente con qualcosa che è accaduto, un´unica volta, all´autore. Ci sono solo due romanzi che precedono quelli di Kafka e dove già si respirava l´aria di Kafka: L´altra parte di Kubin e Jakob von Gunten di Robert Walser. Entrambi avrebbero trovato il loro posto nella Biblioteca. Anche perché se, in parallelo all´idea del libro unico, si dovesse parlare di un autore unico per il Novecento, non ci sarebbero dubbi: sarebbe Kafka.
In definitiva: libro unico è quello dove subito si riconosce che all´autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto.
E a questo punto occorre tenere presente che in Bazlen c´era una ben avvertibile insofferenza per la scrittura. Paradossalmente, considerando che Bazlen aveva passato la vita sempre e soltanto fra i libri, il libro era per lui un risultato secondario, che presupponeva qualcos´altro. Occorreva che lo scrivente fosse stato attraversato da questo altro, che vi fosse vissuto dentro, che lo avesse assorbito nella fisiologia, eventualmente (ma non era obbligatorio) trasformandolo in stile.
Se così era accaduto, quelli erano i libri che più attiravano Bazlen. Per capire tutto questo, è bene ricordare che Bazlen era cresciuto negli anni della massima pretesa di autosufficienza della pura parola letteraria, gli anni di Rilke, di Hofmannsthal, di George. E di conseguenza aveva sviluppato certe allergie. La prima volta che lo vidi, mentre parlava con Cristina Campo delle sue - meravigliose - versioni di William Carlos Williams, insisteva solo su un punto: «Non bisogna sentire troppo il Dichter», il "poeta-creatore", nel senso di Gundolf e di tutta una tradizione tedesca che discendeva da Goethe (e di cui Bazlen, per altro, conosceva perfettamente l´alto significato).
I libri unici erano perciò anche libri che molto avevano rischiato di non diventare mai libri. L´opera perfetta è quella che non lascia tracce, si poteva desumere da Zhuang-zi (il vero maestro, se uno si dovesse nominare, di Bazlen). I libri unici erano simili al residuo, shesha, ucchishta, su cui non cessavano di speculare gli autori dei Brahmana e a cui l´Atharva Veda dedica un inno grandioso.
Non c´è sacrificio senza residuo - e il mondo stesso è un residuo. Perciò occorre che i libri esistano. Ma occorre anche ricordare che, se il sacrificio fosse riuscito a non lasciare un residuo, i libri non ci sarebbero mai stati.
I libri unici erano libri dove - in situazioni, epoche, circostanze, maniere diversissime - si era giocato il Grande Gioco, nel senso del Grand Jeu che aveva dato nome alla rivista di Daumal e Gilbert-Lecomte. Quei due adolescenti tormentati, che a vent´anni avevano messo in piedi una rivista rispetto alla quale il surrealismo di Breton (di poco più anziano di loro) appariva paludato, tronfio e spesso retrivo, erano per Bazlen la prefigurazione di una nuova, fortemente ipotetica antropologia, verso la quale i libri unici si rivolgevano. Antropologia che appartiene ancora, quanto e più di prima, a un eventuale futuro.
Quando il Sessantotto irruppe, pochi anni dopo, mi sembrò innanzitutto irritante, come una goffa parodia. Se si pensava al Grand Jeu, quella era una maniera modesta e gregaria di ribellarsi, come sarebbe apparso anche troppo chiaro negli anni successivi.
Il Monte Analogo a cui Daumal dedicò il suo romanzo incompiuto (che sarebbe diventato il numero 19 della Biblioteca, accompagnato da un saggio densissimo di Claudio Rugafiori) era l´asse - visibile e invisibile - verso cui la flottiglia dei libri unici orientava la rotta. Ma questo non deve far pensare che quei libri dovessero ogni volta sottintendere un qualche esoterismo. A provare il contrario basterebbe il numero 2 della Biblioteca, Padre e figlio di Edmund Gosse: resoconto minuzioso, calibrato e lacerante di un rapporto padre-figlio in età vittoriana. Storia di una inevitabile incomprensione fra due esseri solitari, un bambino e un adulto, che sanno al tempo stesso inflessibilmente rispettarsi. Sullo sfondo: geologia e teologia. Edmund Gosse sarebbe poi diventato un ottimo critico letterario. Ma senza quasi più tracce di quell´essere che si racconta in Padre e figlio, l´essere a cui Padre e figlio accade. Perciò Padre e figlio, come testo memorialistico, ha qualcosa dell´unicità di quel romanzo, L´altra parte, che nella Biblioteca lo aveva preceduto.
Fra libri a tal punto disparati, quale poteva essere allora il requisito indispensabile, quello che comunque si doveva riconoscere? Forse soltanto il "suono giusto", altra espressione che Bazlen talvolta usava, come argomento ultimativo. Nessuna esperienza, di per sé, era sufficiente per far nascere un libro. C´erano tanti casi di storie affascinanti e significative, che però avevano dato origine a libri inerti. Anche qui soccorreva un esempio: durante l´ultima guerra molti avevano subìto prigionie, deportazioni, torture. Ma, se si voleva constatare come l´esperienza dell´isolamento totale e della totale inermità potesse elaborarsi e diventare una scoperta di qualcos´altro, che si racconta con sobrietà e nitidezza, bisognava leggere Cella d´isolamento di Christopher Burney (numero 18 della Biblioteca). E l´autore, dopo quel libro, sarebbe tornato a confondersi nell´anonimato. Forse perché non intendeva essere scrittore di un´opera ma perché un´opera (quel singolo libro) si era servita di lui per esistere.
Per un certo periodo, pensammo che i libri unici dovessero essere unici anche di aspetto. Ciascuno con un impianto diverso della copertina - e magari con formati diversi. Ma, quanto più ci si avvicinava alla pubblicazione, tanto più diventavano evidenti gli ostacoli. Fu la sapienza editoriale di Luciano Foà, a un certo punto, a pilotare i vari libri unici verso una sola collana: la Biblioteca. All´inizio ci sembrò quasi un ripiego, da accettare a malincuore, mentre era l´unica soluzione giusta. Ora occorreva trovare un nome - qualcosa di neutro e onnicomprensivo.
L´appiglio venne dalla più nobile delle collane allora in circolazione: la Bibliothek Suhrkamp, che Peter Suhrkamp aveva avviato nel 1951. E non c´era rischio di sovrapposizione, perché la Bibliothek Suhrkamp aveva avuto dall´inizio un carattere soltanto letterario, ben chiaro e netto come la sua nitida impostazione grafica, opera di Willy Fleckhaus. E gli autori erano solo moderni, inclusi quelli che presto sarebbero stati chiamati "i classici moderni".
Una brochure di Suhrkamp presentava così la collana: «La Bibliothek Suhrkamp è dedicata al vero amico dei libri, a quella élite di lettori a cui sentono il bisogno di appartenere tutti coloro per i quali un libro buono o squisito è diventato un bene vitale indispensabile. Saranno pubblicati testi in sé conchiusi - racconti, brevi romanzi, drammi in versi, poesie, saggi, monografie, biografie e aforismi - in una forma sotto ogni aspetto pregevole, a un prezzo fra DM 3.50 e DM 4.50. Questi libri, di lunghezza oscillante fra le 130 e le 200 pagine, si prestano particolarmente a essere regalati». Da notare come Peter Suhrkamp usasse allora senza timori la parola élite, che venti anni dopo la sua casa editrice sarebbe stata la prima a bandire come famigerata. E da notare anche come la collana avesse fin dall´inizio isolato i generi che intendeva proporre, mentre il formato la obbligava ad accogliere solo testi non più lunghi di duecento pagine. Con ciò avvicinandosi, più che alla Biblioteca, alla Piccola Biblioteca Adelphi, che anni dopo volemmo inaugurare con lo stesso libro che aveva inaugurato la Bibliothek Suhrkamp: Il pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse.
La Biblioteca Adelphi, all´opposto, aveva avuto sin dal primo momento un carattere di apertura totale: verso ogni anfratto del passato, verso tutti i generi, verso ogni specie di autori, dal giovane e ignoto scrittore vivente (un giorno sarebbe stato Chatwin, con In Patagonia, a darne esempio) fino all´autore anonimo, oscuro e remoto, come colui che scrisse Il libro del Signore di Shang. Pubblicare i libri unici all´interno di una collana non doveva servire a smussarne gli angoli, ma al contrario a dar loro un supporto che li tenesse insieme pur nelle loro disparate fisionomie ed evitasse - si sperava e di fatto così fu - che i singoli titoli venissero dispersi in zone varie delle librerie. Di questo rimane una traccia visibile in poche righe che si potevano leggere sulla seconda aletta della sovraccoperta nei primi titoli della collana - e poi vennero eliminate, per ragioni di spazio, a partire dal numero 4: «Una serie di "libri unici", scelti secondo un unico criterio: la profondità dell´esperienza da cui nascono e di cui sono viva testimonianza. Libri di oggi e di ieri - romanzi, saggi, autobiografie, opere teatrali - esperienze della realtà o dell´immaginazione, del mondo degli affetti o del pensiero».
(1. Continua. Copyright )

sabato 23 dicembre 2006

il Riformista sabato 23 dicembre 2006
Heidegger proto-sessantottino, l'ultima trovata di Nolte
di Livia Profeti

Ernst Nolte, una delle figure più emblematiche del revisionismo storico, è stato protagonista il 14 dicembre scorso a Bologna del convegno «Martin Heidegger trent'anni dopo», organizzato dall'Università in collaborazione con il Centro italo-tedesco di Villa Vigoni e l'Associazione italiana studiosi di Estetica.
Allievo di Heidegger ed intimo della sua famiglia, Nolte ha elaborato il nucleo della sua posizione revisionista sin dal 1963, con il maestro ancora in vita. Ne I tre volti del fascismo, com'è noto, i crimini del nazionalsocialismo vengono inquadrati nell'ambito di una reazione “legittima”, sebbene forse esagerata, all'esistenza della Russia staliniana e più in generale all'“aggressione” dell'utopia del comunismo. Successivamente, in risposta alle rivelazioni di Farias e Ott sul periodo nazionalsocialista di Heidegger, Nolte scrive nel '92 una biografia autorizzata dal figlio di questi, Hermann, nella quale giustifica e approva tale coinvolgimento nei termini di un “diritto storico”, concetto che verrà esplicitato sei anni dopo ne L'esistenza storica. Emmanuel Faye rileva che in questo testo Nolte, definendo l'unicità della Shoah un “dogma” della sinistra, mira a trasformare l'Olocausto da verità storica in partito ideologico preso, quasi religioso (Religionsersatz) arrivando, con il concetto di diritto storico, a giustificare l'ingiustificabile: lo sterminio degli ebrei non è stato un orrendo crimine contro l'umanità bensì, in cupi e fumosi termini, la battaglia politica guarda caso «finale», che tale «esistenza storica» si è trovata costretta a combattere perché «minacciata» (E. Faye, Heidegger, l'introduction du nazisme dans la philosophie, in corso di traduzione in Italia). In questa collaudata strategia per riabilitare il nazismo e difendere il maestro, l'intervento di Bologna, dal titolo «Quotidianità e il quotidiano nel pensiero e nella vita di Martin Heidegger», ha presentato alcune sbalorditive novità ed un notevole passo in avanti in senso revisionista.
È noto, ha dichiarato Nolte, che nella filosofia esistenziale heideggeriana la vita autentica non è quella della quotidianità e dei rapporti tra le persone ma quella del «solitario precorrimento verso la morte», però non è detto che su questi temi Essere e tempo abbia esaurito tutti gli argomenti. Sicuramente non ha affrontato quelli della sessualità, che invece può riservare la possibilità di esperienze “autentiche” come nel caso della storia tra Heidegger e la Arendt. È infatti proprio nella vita privata del filosofo che Nolte cercherà numi per “migliorare” Essere e tempo affrontando, dopo la sessualità, il tema dell'azione politica e quindi dell'adesione di Heidegger al nazionalsocialismo. Su questo fronte Bologna non riserva grandi novità rispetto alle tesi collaudate, salvo lasciare nell'ascoltatore una vaga immagine di Heidegger affetto da mania di persecuzione quando viene citata una lettera del '50 dove il filosofo dichiara, a proposito di Stalin: «non mi lascio ingannare sul fatto che io e il mio pensiero siamo tra i più minacciati, quelli che vengono eliminati per primi». Interessante in questo senso la tesi di Denis Trierweiler il quale, oltre a notare che per Nolte la volontà di annientamento del nazismo non è stata altro che la risultante del terrore di subirlo, scorge sotto questo schema reattivo un'idea ossessiva di autodistruzione
Tornando a Bologna, dopo la parentesi politica Nolte passa a magnificare la vita familiare di Heidegger, a suo parere ben diversa dalla sua apparenza borghese. La moglie Elfride viene infatti definita «un'attiva femminista e riformatrice degli stili di vita (Lebensreformerin)», senza mancare al contempo di sottolineare che ella «poi divenne un altrettanto convinta nazionalsocialista». Quindi vengono ricordate le tante altre relazioni extraconiugali di Heidegger avute dopo la fine della guerra, delle quali Elfride era al corrente. Per finire poi con la “rivelazione” del 2005, quando è divenuto noto che Heidegger non era il vero padre del figlio Hermann, frutto in realtà di un tradimento di lei. Tutto ciò per arrivare ad appellare i due come «pionieri della “rivoluzione sessuale”», favorevoli alla «liberazione di tutte le inclinazioni», veri e propri sessantottini ante litteram.
Una sorta di prolusione allo sbalorditivo finale nel quale Nolte esprime il desiderio che in futuro possa essere scritto un “analogo” di Essere e tempo nel quale il matrimonio di Heidegger, il suo coinvolgimento nel nazionalsocialismo, nonché i suoi “festivi” rapporti erotici, non vengano più relegati «nell'ambito del non filosofico». Tradotto in termini più espliciti Nolte è passato dal difendere il nazionalsocialismo di Heidegger al proporlo, assieme al resto della sua vita privata, addirittura come filosoficamente esemplare!
Il salto di Nolte era stato quasi prefigurato nel recente libro di Franco Volpi insieme ad Antonio Gnoli: L'ultimo sciamano. Conversazioni su Heidegger. In questo testo, infatti, gli autori assumono una posizione inversa a quella sostenuta in passato, con la quale minimizzavano il nazismo del filosofo sostenendo che i fatti personali dovevano essere separati dal pensiero. Al contrario, ne L'ultimo sciamano - che è stato anche il titolo della relazione di Volpi allo stesso convegno di Bologna - ad essere centrale non è la filosofia di Heidegger ma la sua dimensione umana che, come il titolo metaforicamente suggerisce, viene proposta come “terapeutica”. Ma se la vita personale di Heidegger diventa “filosofica” essa stessa e quindi non è più separata dalla sua filosofia, allora come è possibile escludere che anche quest'ultimo non sia “coinvolto” con il nazismo e proporlo come “insegnamento” per il pensiero?
Quale che sia la risposta a questa domanda, la particolare sintonia tra Volpi e Nolte si è manifestata nell'appendice pirotecnica a questo già stupefacente finale. Nella sessione delle domande, Volpi, riallacciandosi alla proposta finale di Nolte, è intervenuto per suggerire il titolo di questo fantomatico nuovo libro: Critica della ragione erotica e Nolte, per nulla scandalizzato, ha rilanciato affermando di preferire Elogio della sragione erotica (Lob der erotischen Unvernunft), specificandone il senso di riabilitazione di tale “irragionevolezza”.
Dunque, nel finale della giornata bolognese si rivela che questa apologia di un nazismo sessantottino, “gioioso” e “libero” si lega alla proposizione di un certo tipo di “irrazionale”. Particolarmente infida, perché il '68 si ribellò all'identità della ragione senza riuscire a trovare una nuova identità nella non ragione: libertà senza identità. Ora invece Nolte e seguaci, cogliendo l'eredità di Heidegger, cercano di proporre un'identità per questa libertà: l'identità nazista dell'onnipotenza che pretende di distruggere il “male”: ebrei, comunisti, zingari, omosessuali, malati di mente.

il Riformista sabato 23 dicembre 2006
TESTIMONIANZA Ho versato il sangue per votare quattro sì
di Piergiorgio Welby


Ho versato il sangue per la Repubblica! Non è stata, lo devo ammettere, quell'effusione sanguinis tanto cara a qualcuno; è stata una sbucciatura alla tibia con effusione di poco sangue, ma la Repubblica, nella persona del ministro Pisanu, per me, non ha effuso nemmeno l'inchiostro di una Biro usa & getta.
E sì, che, insieme all'associazione Luca Coscioni, avevo chiesto, per tempo, al ministro di rendere possibile l'esercizio del diritto di voto per quei 100.000 disabili gravi che non possono spostarsi se non a rischio di molte sofferenze o della stessa vita (in Ucraina per i disabili gravi erano stati istituiti dei seggi volanti…Evidentemente in Ucraina c'è una democrazia matura e in Italia c'è una democrazia troppo…matura!). Il ministro non ha risposto, forse era occupato a lavarsi le mani, o a fare la doccia. A dire il vero, la vita del ministro è troppo differente da quella di un disabile grave perché io possa immaginare come passi la giornata. Non molto tempo fa, con una lettera al Foglio, avevo chiesto, sempre come membro dell'associazione Luca Coscioni, a Ferrara e a Socci di scrivere almeno un articoletto sul diritto dei disabili gravi a leggere le novità editoriali in formato digitale. Non conosco come trascorra la giornata il ministro, ma credo di non essere lontano dal vero, se immagino che Socci passi la giornata a intervistare chi ha visto la Madonna e Ferrara a dilettarsi con gli orgasmi plurimi che gli procurano i discorsi di Rutelli. Perché dico questo? Perché né Socci, né Ferrara mi hanno risposto. Lo so lo so, in questi casi c'è sempre qualcuno che ti dice: non chiederti cosa gli altri possono fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per gli altri.
Ero uscito dal coma da tre giorni, non sapevo se ci sarei rientrato per sempre, quando si avvicina al mio letto il professor Arcangeli, primario del reparto di rianimazione del Santo Spirito e mi dice: «Il dottor Ricci del Gemelli vorrebbe prelevarti alcune provette di sangue per spedirle a Torino dove si sta cercando il gene della tua malattia che è molto rara. Se accetti batti una volta le palpebre. Se rifiuti battile due volte. Non sei tenuto ad accettare». Io pensai agli altri, battei una volta le palpebre e…versai il sangue.
Ieri, il sangue l'ho versato per andare a votare. Stavo per “versare” qualche altra cosa; il ventilatore polmonare dal quale mi ero dovuto staccare per poter entrare nell'ascensore, una volta arrivato al pianterreno, non si voleva riaccendere. Ho pensato - il ventilatore è in panne, se l'ascensore, come spesso accade, si rifiuta di partire, faccio la fine di un pesce rosso saltato fuori dal vaso. Sarei morto tra rantoli e colpi di tosse, come Violetta nell'ultimo atto della Traviata. A tenermi la mano ci sarebbero stati Marco Pannella, Emma Bonino, Sergio Stanzani, Daniele Capezzone, Rita Bernardini. Che cosa ci facevano lì? Erano venuti per rendere possibile il mio voto e per far sentire ai 100.000 disabili gravi una voce che rompesse il silenzio delle autorità. Ecco, già vedo i risolini furbetti, le ammiccatine ironiche, il darsi di gomito degli apoti. Ma sì, questo è il paese dei furbi di tre cotte, siamo tutti smagati, adulti e vaccinati. Questo è il paese dove, se una donna ha le ovaie bruciate dalla radioterapia o un uomo i testicoli asportati per un tumore e, nonostante tutto, vogliono, grazie all'eterologa, un figlio loro, i furbastri si danno di gomito e pensano che lei sia un po'«mignotta» e lui un po' cornuto; questo è il paese dove, se una madre portatrice di una malattia genetica spera che suo figlio, grazie alla selezione pre-impianto, non debba nascere con la stessa patologia conclamata, i furbastri si danno di gomito e le dicono in faccia che è peggio di Mengele; questo è il paese dove, se i malati distrutti dalla Sla invocano una ricerca a tutto campo, i soliti furbastri si danno di gomito e gli dicono in faccia che non sono altro che degli assassini disposti a strappare il cuore ai bambini per poter guarire.
In questo paese un uomo, Umberto Veronesi, che ha dedicato la vita a salvare le donne dal tumore, viene sbertucciato dai versi sciolti degli editoriali di un Elefantino, o due Premi Nobel per la medicina, Renato Dulbecco, premio Nobel 1975 per la Medicina per le sue scoperte in materia di interazione tra virus tumorali, e Rita Levi Montalcini, Premio Nobel 1986 per la Medicina per la scoperta dei “fattori di crescita” del sistema nervoso, vengono annichiliti da una battutina più stupida che velenosa: «Io dei Nobel non mi fido», o il dottor Vescovi, che notoriamente è retribuito con acqua San Pellegrino e pane e cicoria, mette in guardia quei mammozzi un po' ebeti che sono i ricercatori di mezzo mondo, dagli interessi malvagi della Spectre delle multinazionali.
Questo è il paese dove il cardinal Ruini predica: « […] Non siamo contro la scienza e i suoi progressi: al contrario, ammiriamo e sosteniamo i frutti della ricerca e dell'intelligenza, che è il segno dell'immagine di Dio nell'uomo. Vogliamo dunque che la scienza sia al servizio del bene integrale dell'uomo: non si tratta, pertanto, di arrestare od ostacolare il cammino della scienza, ma di orientarlo […] » e nessuno delle pere furbastre di tre cotte osa ricordare che «l'orientamento» a cui allude il cardinale si «orientava» a perseguitare Andrea Vesalio perché dissezionava i cadaveri e a «censurare» Christian Barnard perché trapiantava gli organi.
Per contrastare questo orientamento, ho votato 4 Sì, ho versato il sangue, ho riportato uno stiramento allo sternocleidomastoideo e un arrossamento all'osso sacro…no, all'osso laico! (la sola cosa laica su cui Ruini non può mettere le mani!).
VHS Aula Magna 24 giugno 2000

VHS Aula Magna n° 1 del 2001

VHS dell'Aula Magna 8 marzo, 15 marzo, 16 marzo, 13 aprile, 19 aprile, 20 aprile, 2002

VHS incontro a Villa Piccolomini

DVD Analisi Collettiva Incontri

DVD La psichiatria esiste?

DVD Lezioni 7-8 marzo 2003

Atti Incontri ricerca psichiatrica 1997-2001-2002

Libretti Aule Magne 2003-2004-2005 tutte le date

Il sogno della farfalla n° 2 2006 e n°3 2006

Immagine della linea

Architettura e la morte dell'arte

L'invenzione della psicologia

Crisi del freudismo

Analisi collettiva incontri

I primi tre volumi di Storia Criminale del cristianesimo

Madri assassine

La casa sul terrazzo, poesie

Laici in ginocchio, di Augusto Viano

Bestiario senese di Sabrina Dainelli e Francesco Burroni
il Riformista 22.12.06
«Devo concentrarmi, è la prima volta che muoio»
di Tommaso Labate


«Non posso più stare nel braccio della morte. Non ce la faccio più, fate presto». E poi, «devo concentrarmi per bene sulla mia morte. D’altronde è la prima volta che muoio». Lo diceva da giorni, Piergiorgio Welby. In modo netto, chiaro, inequivocabile. Ripeteva «fate presto», ripeteva «non ce la faccio più». Prima di ieri, ci aveva provato e una volta c’era anche riuscito, qualche tempo fa, a staccare il respiratore dal suo corpo.
È stato Welby stesso a decidere di svestire l’armatura del guerriero, del simbolo, e di deporre le armi della lotta politica. È stato lui stesso a decidere che fosse mercoledì, il giorno. Non c’entrava niente l’ultima sentenza, il parere del Consiglio superiore di sanità. Né la politica del tutti insieme accanitamente contro di lui. Ha deciso così e così è stato. Anche perché nella sua vita era entrato, da pochi giorni, un anestesista lombardo di nome Mario Riccio.
C’era Riccio, mercoledì sera, di fronte al letto di Welby. E la moglie Mina, la sorella Carla, Marco Cappato, Rita Bernardini. Oltre, naturalmente, a Marco Pannella. «Sei qua anche tu, vecchio bestione», ha sussurrato Welby alla vista dello storico leader radicale. Quello che avrebbe annunciato la sua morte urbi et orbi, così come era avvenuto per la scomparsa di Luca Coscioni. Nella sera di mercoledì Piergiorgio ha una parola, un messaggio, un grazie per tutti. E un pensiero, raccolto dalla moglie Mina in una lettera, per Ignazio Marino, il chirurgo e senatore dei Ds che aveva incontrato giorni prima e di cui aveva apprezzato l’intervento su Repubblica.
In quei momenti, probabilmente, il dottor Riccio ha pensato e ripensato al codice deontologico dei medici, in calce al quale c’è anche la sua ideale firma. Un codice che all’articolo 34 obbliga il medico ad «attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona».
Non ha sofferto, Piergiorgio Welby. Nel momento in cui Riccio ha sospeso la ventilazione si era già addormentato. Il sedativo, un cocktail di farmaci, gli è stato somministrato nelle vene, e non per via orale. È morto alle 23,40 per arresto cardiorespiratorio. «Con Cappato - ha detto Riccio - abbiamo preparato tutto, cercando di evitare che ci fossero pressioni su di me e sui familiari. Eravamo pronti a partire appena Piergiorgio ce l’avesse richiesto. Io sono venuto lunedì a Roma, dove ho conosciuto di persona Welby. Prima avevo letto il suo libro. Lunedì abbiamo avuto un lungo colloquio. È stata confermata ampiamente la sua volontà di interrompere la terapia». L’anestesista dell’ospedale di Cremona ha poi aggiunto: «Ho preso coscienza piena della sua volontà, a me personalmente espressa. Lui aveva riflettuto sulla lettera di Marino, aveva saputo del pronunciamento del tribunale civile. Gli ho richiesto se il ricorso della Procura modificava qualcosa ma lui ha detto che non cambiava il suo proponimento». Desiderava di «essere sedato» e di «interrompere la sua terapia». È notte...


il Riformista 22.12.06
Il suo diritto di scegliere, il nostro dovere di rispettarlo
di Orlando Franceschelli

«Io amo la vita». È con queste parole semplicissime e toccanti che Piergiorgio Welby ha sempre accompagnato la sua decisione di porre fine alla sua lunga sofferenza. Amore per la vita, libertà di poterne disporre, pene divenute non più tollerabili: dimenticare uno solo di questi tre punti, significa precludersi ogni comprensione rispettosa, solidale e costruttiva della vicenda umana e pubblica di Piergiorgio. Qualcuno che si eserciterà in una simile dimenticanza, certo non mancherà. Ma con la sua vita e la sua morte, Welby ci ha offerto una testimonianza che veramente non suscita soltanto umana partecipazione. Richiede di più: ci impegna a rimuovere le intolleranze ideologico-religiose e le strumentalizzazioni politiche che ancora impediscono di affrontare con la necessaria laicità il punto decisivo e ormai ineludibile di tutto il confronto su questi temi eticamente sensibili: il riconoscimento del diritto all’uscita volontaria dalla vita. Quello che Piergiorgio si è ripreso. Pur amando la vita. Pur essendo amato con dedizione estrema. Quella con cui la moglie Mina l’ha saputo accompagnare per anni. E fino all’ultimo addio.
Per chi è credente, la vita è un dono del Creatore. È qualcosa di sacro, che non ci appartiene e di cui non si può disporre. Al punto che l’uscita volontaria dalla vita è la ribellione estrema all’ordine della stessa creazione divina. Giuda, diceva già Agostino, nel momento in cui si è tolto la vita, ha peccato contro Dio perfino più di quando ha tradito Gesù. Da qui anche da parte della chiesa cattolica la condanna dei suicidi. Inappellabile al punto da negare loro perfino funerale e sepoltura religiosi. Ma, come riconoscono non pochi ed eminenti teologi, solo un estremo furore integralista potrebbe indurre a non riconoscere i propri convincimenti etico-teologici debbano valere anche per quei cittadini che alla vita e alla morte guardano al di fuori di ogni logica religiosa o di sacralità. A cosa pensano dunque i nostri cattolici anche impegnati in politica: a far passare per una colpa morale la mancanza di fede religiosa? Oppure a provare effettivamente a dialogare non con l’arbitrio relativistico, ma con le umanissime e solide ragioni di altri protagonisti della sfera pubblica, che si sentono responsabilmente titolari anche della libertà di morire, del diritto di poter ritenere ormai non più sopportabile, non più vita, la condizione di sofferenza o di umiliazione nella quali si trovano?
La predisposizione degli opportuni strumenti giuridici che rendano finalmente praticabile sia il testamento biologico, sia il potersi sottrarre ad ogni forma di accanimento terapeutico, è auspicata da più parti. E nessuno ovviamente propone che venga riconosciuto a qualcuno il diritto a sopprimerne con una morte dolce e dignitosa la vita di un altro...

il Riformista 22.12.06
La questione è se siamo oppure no padroni del nostro stare al mondo
conversazione con Giulio Giorello
di Luca Mastrantonio

Il primo pensiero di Giulio Giorello, che approva il testamento biologico e più che di eutanasia parla di “libertà di suicidio”, è alle sofferenze di Welby. Aggravate dalla spettacolarizzazione della sua vicenda politico-mediatica: «Mi dispiace che la vicenda si sia conclusa in questo modo, con una tensione psicologica e fisica molto pesante, che si è riverberata anche sui familiari. Detto questo, sono contrario all’uso dei casi personali come bandiere. Nessuno ha diritto di sindacare sulla vita delle persone, entrando nel loro cuore. La vicenda è stata un po’ troppo spettacolarizzata, l’ho detto ai Radicali. Ovviamente rinnovo l’iscrizione alla fondazione Luca Coscioni, ma sono contrario a usare le sofferenze delle persone come vessillo. Come filosofo morale, sono portato a discutere e migliorare gli argomenti a sostegno di certi diritti che riguardano le nostre scelte future. Clienti dell’istituzione medica siamo tutti. Non stiamo parlando di Welby. O almeno non di lui soltanto. Stiamo parlando di noi».
Giulio Giorello, ordinario di Filosofia della scienza all’università degli studi di Milano, rilancia e sviluppa alcuni concetti già espressi nel libro scritto con Veronesi, La libertà della vita: «O noi pensiamo che non siamo padroni di noi stessi e del nostro corpo, e allora in questo caso rimettiamoci alla volontà dell’Onnipotente. Oppure, se siamo padroni del nostro corpo, non è una questione di legislazione. Il diritto a morire non è questione di legge. Non è che gli altri possano decidere per noi. Io questo diritto me lo prendo. Su questo punto differisco da Veronesi. Ovviamente ben vengano legislazioni eventuali. Mi auguro che in questo Parlamento approvino il living will, ma nessuna legge ci può espropriare una nostra decisione. Lo stato non ha il diritto di impicciarsi di come voglio vivere e morire. Io e solo io sono il giudice delle mie azioni. Come diceva l’irlandese John Mitchel, se io ho saldato i miei debiti e provveduto ai miei figli, posso fare quello che voglio».
Giorello torna su alcune critiche che gli sono state mosse da Avvenire. «Sostengono che io abbia teorizzato la libertà assoluta, ma non è vero. C’è un forte vincolo di rispetto verso altri. Dopo tante letture, battaglie culturali e politiche, ho ritrovato il mio eroe in un vecchio signore: Thomas Jefferson, il ribelle della Virginia, poi divenuto terzo presidente Usa. Questo per sgombrare anche il campo da quanti, a sinistra, prendono con il contagocce la grande democrazia americana. Jefferson diceva che un vicino di casa può credere in chi vuole e agire di conseguenza, purché non mi azzoppi o derubi. Ecco questo è il grande messaggio del libertarismo americano. Dico libertarismo e non liberalismo perché in Italia oggi si dicono tutti liberali. Le persone devono essere responsabili del proprio destino. Lo stato è come il guardiano notturno di Locke, deve controllare che non entrino i ladri in casa, ma non deve impicciarsi negli affari miei. I credenti obiettano che i diritti devono essere fondati su principi divini, ma io sono stanco di fondare o ridondare norme o codici morali, penso che si debbano migliorare quelle che ci sono».
A Giorello non piacciono le battaglie vetero-anticlericali: «Purtroppo questa è una battaglia di retroguardia, la difesa di un cittadino di uno stato, siamo costretti a combatterla perché siamo di fronte a un montante neofondamentalismo. Non so se sia peggio, a questo punto, quello islamico o quello papista. Io non ce l’ho con i cattolici ma, diciamo, con i papisti. Sia destra che sinistra fanno a gara per andare appresso al papa. Ratzinger teme che gli esseri umani decidano in base alle loro voglie, che io chiamo preferenze, come scrivono i teorici dell’economia del benessere come Stuart Mill e John Harsanyi». L’esempio negativo portato da Giorello è la Binetti, «è sconcio il discorso dell’obiezione di coscienza, ci sono ospedali laici dove una donna non può interrompere la gravidanza perché sono tutti obiettori di coscienza».
Per Giorello, Welby ha dato una «grande lezione» con il suo libro e le lettere, quella a Napolitano e quella ai direttori. «Sono state azioni ammirevoli, perché penso alla sofferenza, fisica e psicologica, che ha avuto. Mi sento schiacciato dall’idea di quanto deve essergli costata».
Tornando alle leggi, Giorello sostiene la posizione di Giuseppe Pisapia sul living will, ossia il testamento biologico, andando oltre alcuni rischi dell’eutanasia, fermo restando che considera il diritto al suicidio inalienabile: «Un living will potrebbe eliminare alcune perplessità anche legittime sull’eutanasia. Mi riferisco al rischio dell’abuso eventuale dell’eutanasia su coloro che non sanno esprimere in modo chiaro la propria volontà. Non amo l’eutanasia passiva e l’idea che qualcun altro decida per me. E poi ci sono casi di minori, bambini malformati e simili».
Una legge con il living will «liberalizza» il paese, continua Giorello, è «una buona prospettiva riformista. Ma non basta. Quando si ha a che fare con uomini e donne adulte, lo Stato non ha il diritto di mettere le sue zampacce. Anzi, come diceva Cromwell, non deve mettere le sue adunche unghie nella coscienza dell’individuo. Chi è religioso e vede la vita come un dono di Dio, come un affitto, scelga pure di soffrire, anche stoicamente. È un diritto sacrosanto, come è sacrosanto e inalienabile il diritto di scegliere diversamente. Non c’è burocrazia della morte che tenga, la scelta del vivente è libera. La modernità si apre con una battuta del filosofo ebreo e olandese Spinoza: a nulla pensa meno che alla morte l’uomo saggio, ma la sua è una meditazione non della morte bensì della vita. E Welby ha lottato per la vita, con coraggio, non possiamo che riconoscerglielo, con grande affetto e solidarietà. E soprattutto rispetto».

il manifesto 23.12.06
Benedetto XVI

«Preoccupato dai Pacs»
mi.de.ci.

Roma
. Coppie gay, assenza di Dio, positivismo, secolarismo: Benedetto XVI nel discorso di fine anno ai suoi più stretti collaboratori, i membri della curia romana, torna a contare i mali dell'Europa e della cultura occidentale. E' una sorta di discorso di un capo di governo di fronte al suo esecutivo: e infatti Benedetto lo ha concepito come un bilancio delle principali attività del 2006, passando in rassegna i suoi viaggi e i temi principali che lo hanno coinvolto. Balza all'occhio il fatto che il papa si sia mosso prevalentemente nella vecchia Europa, il continente culla del cristianesimo: dalla Polonia alla Spagna, dalla Germania alla Turchia, che pure si può considerare «una parente stretta», protesa verso l'Ue, e pone comunque seri interrogativi di carattere politico e sociale al vecchio continente.
Dell'Europa Ratzinger ha apprezzato la vitalità e la fede entusiasta ritrovata nei polacchi, visti come alveoli di un polmone sano, in grado di ossigenarle l'intero organismo che in tante membra (vedi Francia, Italia, Germania, Spagna) sembra avvizzire. «Per l'estraneo - sottolinea Ratzinger - quest'Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia»: proprio perché sta abdicando ai suoi valori, perché sta abbandonando il modello di famiglia fondata sul matrimonio, perché si sta lasciando morire crogiolandosi nel crollo demografico, perché sta cedendo alle coppie di fatto e alle unioni gay. Proprio sul valore della famiglia il papa si sofferma condannando senza appello le «nuove forme giuridiche relativizzano il matrimonio» e che mettono un sigillo giuridico sulla rinuncia a un legame definitivo. E, per le coppie che «non si sentono in grado di accettare il matrimonio», «decidersi diventa ancora più difficile», nota Ratzinger, intendendo così che le coppie vadano in qualche modo necessariamente indirizzate sulla scelta matrimoniale. Ma il peggio, per il pontefice, viene dopo: «Si aggiunge poi la relativizzazione della differenza dei sessi», che assimila le coppie uomo-donna a quelle gay. E qui il papa sfodera l'antropologia cristiana, che combatte contro alcune «teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana; teorie secondo cui l'uomo - cioè il suo intelletto e la sua volontà - deciderebbe autonomamente che cosa egli sia o non sia». In questo Ratzinger stigmatizza il tentativo dell'uomo di «emanciparsi dal suo corpo». Rivendicando, poi, di fronte a queste mostruosità, una legittima ingerenza, perché «è nostro dovere alzare la voce per difendere l'uomo», immagine di Dio. Ratzinger ha detto poi del viaggio in Germania e Turchia, ricordando altri due temi: quello del sacerdozio (con la conferma assoluta del celibato) e quella del dialogo con l'islam, ma sulla base di un rapporto con la ragione (vedi Ratisbona) e di un cammino di razionalizzazione che la religione di Maometto deve ancora compiere.