sabato 30 dicembre 2006

Repubblica Saute 21.12.06
Recenti ricerche confermano l’origine genetica della sindrome di Asperger, una forma di autismo
Piccoli geni monotemaici
di Tina Simoniello


In “Rain Man” ne soffriva Dustin Hoffman, il fratello goffo e geniale di Tom Cruise. In “Codice Mercury” è Simon, il bambino dalla straordinaria abilità per le serie di lettere e numeri che identifica un codice militare segreto. Ne “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte”, il romanzo di Mark Haddon ne era vittima Christopher, un ragazzino un pò strano alla ricerca della sua mamma. La sindrome di Asperger la conosciamo più come soggetto cinematografico o narrativo che non per quello che in effetti è: un disturbo neuropsichiatrico classificato nello spettro dei disturbi autistici. Il 24 e il 25 novembre si è svolto a Roma il primo congresso nazionale sulla patologia.
Cosa è
«La sindrome di Asperger, dal nome del pediatra che per primo la descrisse nel 1944, è una forma lieve di autismo. Ha una natura prevalentemente genetica: sono una decina i geni interessati, tutti coinvolti nello sviluppo del sistema limbico cioè del cervello emotivo e sociale», spiega Paolo Curatolo, associato di Neuropsichiatria infantile, presso Roma-Tor Vergata e presidente della International child neurology association, «ne soffre una persona su 250, i maschi sono 4-5 volte più numerosi delle femmine». Ma quali sono i segni? Cosa fanno insomma i bambini, poi adulti, che ne sono affetti? «Gli Asperger hanno intelligenza e capacità linguistiche nella norma, però presentano evidenti difficoltà di relazione: sono poco interessati agli altri, indifferenti, scarsamente empatici. In loro la comprensione e l’espressione delle emozioni segue uno sviluppo anomalo. E poi, tipicamente, hanno interessi monotematici: se sono bambini possono parlare solo di dinosauri e giocare solo con i dinosauri». E così per le mappe, o per la matematica, le formule. Da adulti sono quelli che conoscono a memoria tutti gli orari dei treni, degli aeroporti, sono dei maghi nei quiz.
«Con un linguaggio poco scientifico ma efficace potremmo definirli persone strambe, fissate», riprende Curatolo. «A scuola possono andare bene, ma in modo settoriale: solo in matematica, solo in geografia. Tuttavia è frequente una carriera formativa problematica negli Asperger, ma dovuta alla mancata integrazione e a quello che ne consegue». Gli adolescenti infatti possono avere comportamenti dirompenti, impulsivi, presentare disturbi dell’attenzione. «Inoltre», die in neuropsichiatra, «questi ragazzi rischiano di più di ammalarsi di depressione, vista la difficoltà di trovare degli amici e più tardi un lavoro».
I trattamenti
Dal disturbo di Asperger non si guarisce. Ma esistono percorsi terapeutici «che devono essere definiti sul singolo bambino e in un centro di neuropsichiatria infantile», conclude Curatolo. «L’intervento è sintomatico e riabilitativo ed include interventi psicosociali, psicoterapici, l’educazione di genitori e fratelli. Anche gli insegnanti possono essere coinvolti nel percorso come alleati della famiglia nel sostenere il piccolo paziente valorizzando per esempio i suoi aspetti di genialità. Per giovani e adulti si può pensare anche a cure farmacologiche temporanee: regolatori del tono dell’umore, neurolettici e antidepressivi, a seconda del caso. Il supporto psicologico è importante per questi pazienti perché gli aiuta a prendere coscienza della loro malattia: hanno bisogno di rendersi conto del perché non riescono a integrarsi.
Sanno tutto solo di una cosa
Si parla di Asperger quando si osserva nel bambino, anche a soli tre anni, una forte e ripetuta tendenza ad estraniarsi dal gioco e dalla conversazione. Distrazione, incapacità ad interagire verbalmente: tono monocorde, scelta degli argomenti che non tiene conto degli altri, interessi monotematici. Carente gestualità, postura rigida, goffaggine motoria, assenza di contatto oculare. Incomprensione e disinteresse per le emozioni altrui. E poi scarsa autonomia personale, attaccamento alla routine, eccessiva attenzione per il particolare, comportamenti ripetitivi, rituali. «Dobbiamo far conoscere il disturbo agli insegnanti e anche alle Asl. L’ignoranza diffusa di questa forma di autismo condanna le famiglie a dolorosi sensi di colpa riguardo possibili errori di educazione. Invece alla base dello strano comportamento del bambino c’ è un disturbo oggettivo», spiega Laura Imbimbo, presidente del Gruppo Asperger onlus (www.asperger.it). «Solo con un intervento educativo tempestivo possiamo evitare a queste persone un avvenire di emarginazione umana e lavorativa». La diagnosi di Asperger va fatta dal Neuropsichiatra in una Neuropsichiatria infantile (in tutte le università) meglio se dotate di un centro per l’autismo.
Troppo testosterone nel sistema nervoso
Il disturbo di Asperger è il risultato dell’estremo funzionamento del cervello maschile. E’ l’ipotesi di un gruppo di ricercatori inglesi pubblicata (Cohen & al. Science, 2006 e Hormones and Behavior, 2006). E’ noto che il cervello è anche un carattere sessuale secondario che fino a un certo punto dello sviluppo intrauterino e poi, sotto l’effetto del testosterone fetale, e quindi solamente nei feti maschi, vira verso la mascolizzazione. «Noi già sapevamo che la capacità di empatia è più sviluppata nel cervello femminile, mentre in quello maschile lo è la sistematizzazione. il testosterone prodotto in maggiore quantità in risposta a caratteristiche genetiche del bambino Asperger potrebbe orientare lo sviluppo cerebrale in senso troppo maschile», spiega Curatolo.

venerdì 29 dicembre 2006

il manifesto 29.12.06
Caso Welby. Intervista al medico che ha staccato la spina
«Ho agito nella piena legalità»
di Cinzia Gubbini


La sedazione praticata a Piergiorgio Welby la sera del 20 dicembre ha accelerato la sua morte? E' anche questo aspetto che i magistrati della Procura di Roma stanno accertando nell'inchiesta sulla morte di Piergiorgio Welby, che per ora non vede indagati. Per capirlo, saranno fondamentali i risultati dell'autopsia. Stabilire se l'iniezione praticata dall'anestesista di Cremona contemporaneamente al distacco del ventilatore sia stata fatale, non sarà complicato. Se, ad esempio, dalle analisi dovesse risultare che nel sangue di Welby c'è del potassio in alta concentrazione, o dei farmaci appartenenti alla famiglia dei curari - diretti a bloccare l'attività di cuore o polmoni - risulterebbe logico sostenere che nel comportamento del medico c'era volontà omicida (o meglio, eutanasica). Diversamente, sarà dimostrato che il cocktail di farmaci utilizzato da Riccio ha avuto un effetto solo sedativo. In effetti, tutti i sedativi possono produrre un «doppio effetto»: lenire il dolore, ma anche rilassare i muscoli e dunque anticipare di qualche minuto la morte. Tuttavia, questo secondo effetto viene generalmente considerato «buono» (anche dalla Chiesa) e non letale. In un corpo minato dalla malattia come quello di Welby, oltretutto, l'utilizzo di farmaci calmanti potrebbe avere - al contrario - ritardato di qualche minuto il momento del decesso. Il dottor Mario Riccio - che anche ieri si è recato a lavoro come tutti i giorni - ovviamente sa quale tipo di farmaco ha utilizzato, ma non vuole entrare in particolari: «C'è un provvedimento disciplinare nei miei confronti e un'indagine in corso. Come ho già detto, e come riportato nella cartella clinica, confermo di aver utilizzato un cocktail di farmaci sedativi».
Ma cosa ha ucciso Piergiorgio Welby?
La sua malattia. Senza l'aiuto del ventilatore polomonare non poteva sopravvivere se non per pochi minuti.
Durante il colloquio con il presidente dell'Ordine dei medici di Cremona è stato approfondito l'aspetto della sedazione?
Ho risposto per tre ore a domande molto accurate, preparate dal professor Bianchi. Abbiamo parlato di tutto, in un clima disteso. Ho consegnato portato la cartella medica in cui è riportata quantità e qualità dei farmaci utilizzati.
Cosa si aspetta? Sta pensando di rivolgersi a un avvocato?
Per ora non ho ancora deciso nulla, aspetto di capire se il consiglio mi convocherà per una nuova audizione. Ma sono sereno.
Ieri ha dichiarato che non lo rifarebbe
Non è vero. Ho soltanto detto che probailmente non mi troverò più in una situazione del genere: lavoro in ospedale, non a domicilio. Welby l'ho conosciuto perché mi interessava molto il suo caso, visto che da quindici anni mi occupo di bioetica. Ho avuto occasione di fare qualche osservazione, ad esempio il fatto che ritenevo sbagliato insistere sulla strada dell'eutanasia o di richiedere una legge ad hoc, come era stato fatto con la lettera al presidente Napolitano. Credevo, e ne sono convinto ancora oggi, che si potesse agire nel pieno della legalità, seguendo un percorso ben preciso. Quando sono stato contattato perché Welby aveva deciso di seguire quel percorso da me delineato, mi sono sentito in dovere di farlo. E obbedendo alla mia morale e alla mia coscienza, ho sospeso un trattamento terapeutico che un paziente cosciente rifiutava.
Dunque ha interrotto un accanimento terapeutico.
No, non esattamente. Sono d'accordo con il Consiglio superiore di sanità: non si può sostenere che nel caso di Welby ci fosse accanimento. Il ventilatore rispondeva, in effetti, a una sua necessità: quella di respirare. Ci trovavamo, invece, di fronte a un paziente che rifiutava le cure. E questo è un diritto pieno, di rango costituzionale.
E' così semplice?
Certo che lo è. Non voglio esagerare, ma io penso che non ci sia un «caso Welby». Ci sono migliaia di situazioni simili, e sempre il medico pianifica un percorso terapeutico. E sempre è previsto che il paziente possa, ad un certo punto, revocare il suo consenso e chiedere la sospensione del trattamento.
Vuol dire che è facile trovare un dottor Riccio per tutti coloro che sono nella condizione di Welby?
E' ovvio che il dibattito tra i medici è molto vivace. Io, quando sono intervenuto con Piergiorgio Welby, l'ho fatto all'interno di una relazione medico-paziente. Ma mi auguro che quanto avvenuto possa aiutare a chiarire i margini entro cui i medici possono operare.

il manifesto 29.12.06
Esperimenti di calore terapeutico per ripararsi dal vento della follia
Forme di cura. Lo sguardo agli antichi guaritori, per andare oltre l'etnopsichiatria
Studi di Alfredo Ancora. L'esperienza della psichiatria transculturale, in un libro edito da Franco Angeli
di Franco Voltaggio


La tradizione popolare più antica, in Italia e non solo in Italia, associa gli accessi di melanconia e l'aura di un incipiente disordine mentale all'influenza che su talune persone ha la tramontana, per cui chi «perde la testa» sarebbe vittima di un vento maligno e violento. L'universalità di questo contenuto nell'immaginario collettivo trova riscontro in una credenza della medicina sapienziale cinese che definisce «vento» ogni forma di follia e fa delle strategie terapeutiche attivate dal «medico scalzo» «trappole» per catturarlo. Accogliendo questa fantasia come metafora della malattia mentale, uno psichiatra romano, Alfredo Ancora, definisce «costruttori di trappole del vento» tutti gli psicoterapeuti, lui compreso, alle prese spesso con pazienti «difficili», soggetti i cui problemi, non meno dolorosi che complicati, configurano una sorta di tempesta incombente sulla loro testa di rifugiati, richiedenti asilo, migranti economici, che abitano nella «città del papa».
Di qui il tema del suo ultimo libro, I costruttori di trappole del vento. Formazione, pensiero, cura in psichiatria transculturale (Franco Angeli, 2006, pp. 234, euro 23) nelle cui pagine riconosce che la condizione di uno psichiatra istituzionale non è molto dissimile, nella sostanza, da quella dei guaritori primitivi (traditional healers), assumendosi una precisa responsabilità, conoscitiva e terapeutica, che corre a molti livelli. Sotto il profilo conoscitivo, infatti, Alfredo Ancora accoglie come doveroso impegno il fatto di non considerare sufficiente rifarsi al bagaglio di conoscenze proprie della psichiatria praticata in Occidente, giacché si tratta di cimentarla con le suggestioni che vengono da altre culture. Il fatto che queste siano lontane dal nostro modo di stare al mondo e, conseguentemente, non abbiano nulla a che vedere con gli strumenti concettuali della psicoterapia scientifica, è di per sé irrilevante. Lo è per due buone ragioni: essendo il malato soprattutto una vittima della più atroce delle sofferenze, il dolore e la bruciante solitudine della mente, poco importa quale sia la teoria di riferimento cui fare ricorso per attivare la cura; se il soggetto appartiene a un mondo idealmente diverso, è impensabile poterlo incontrare senza in qualche modo colludere con credi e orientamenti che pure sono estranei alla cultura e allo stile di pensiero del terapeuta. Di qui la necessità di quella speciale forma di psicoterapia che è la psichiatria transculturale. Ma che cosa è propriamente la psichiatria transculturale? Per i profani, e forse persino per qualche esperto, è l'equivalente dell'etnopsichiatria, una disciplina, dallo statuto concettuale quanto mai incerto, che si fonda su due assunti di base: a) vi sono forme di disordine mentale che sono peculiari di talune specifiche etnie; b) la conoscenza del retroterra culturale di un'etnia è condizione necessaria e sufficiente per mettere a punto la strategia terapeutica adeguata. Sotto certi aspetti, i due assunti parrebbero trovare giustificazione nelle osservazioni delle ricerche sul campo. A una attenta riflessione, tuttavia, essi mostrano di essere tanto fragili da non meritare di essere considerati veri assunti di base.
La prima asserzione, infatti, non tiene conto della circostanza per cui il paziente diverso non fa il suo ingresso in ambulatorio in quanto sofferente di una patologia originaria che il contatto con una realtà inedita ha semplicemente fatto esplodere, ma è piuttosto malato di una sindrome che, al di là della sua specificità, è l'esito soprattutto di una situazione generalizzata di «spaesamento». Vale a dire che l'interessato non parte già malato, ma si ammala qui e adesso. Ne consegue che la raccomandata conoscenza del suo retroterra culturale può anche essere una condizione necessaria, ma non è certo sufficiente per far decollare il processo di cura. Che fare allora? Ci si può avvicinare a una soluzione praticabile, considerando la dimensione transculturale alla stregua di un processo in cui lo psichiatra transita tra diverse culture mediante una feconda contaminazione con il mondo dell'altro. A questo punto, e qui sta la fecondità della proposta di Ancora, occorre individuare in quella terra di nessuno che è la turba mentale una soglia o confine in cui lo psichiatra incontra l'altro, tenuto conto del fatto, in sé incontrovertibile, che un confine non serve solo a dividere, ma anche a mettere in comunicazione gli esseri umani. Di fatto la cura può nascere non già dall'applicazione alla malattia di una prassi terapeutica consolidata e magari raffinata da qualche nozione di etnopsichiatria, ma dall'incontro tra paziente e psicoterapeuta. Detto così, sembra unicamente una mozione degli affetti, una mera irruzione dei buoni sentimenti in ambulatorio, la spia del nascosto - tra l'altro neppure tanto - terzomondismo dell'autore. In realtà non è così e a dimostrarlo sono i numerosi casi clinici esposti nei Costruttori di trappole del vento, di cui uno è particolarmente significativo. Ha per protagonista Ahmad, un giovane fotografo iraniano fuggito dal suo paese per evitare il carcere: è stato accusato dalla polizia di sovversione, perché sorpreso a fotografare un moto popolare. Ricevuto in Italia, in qualità di rifugiato politico, in un centro di accoglienza, manifesta ben presto i sintomi di una depressione che si aggrava progressivamente sino al punto di sfociare in un tentativo di suicidio. Dimesso, si presenta nell'ambulatorio di Ancora con una cartella clinica in cui è riportata la diagnosi «sindrome depressiva grave con tentativo di suicidio». Il terapeuta, prima di iniziare il trattamento, cerca di entrare in contatto con il giovane fotografo, invogliandolo a parlare di sé e del suo mondo e, per vincere il muro di diffidenza, si spinge sino ad accompagnarlo a visitare con lui una mostra di arte persiana. Segue un periodo in cui Ahmad non si fa vivo e le notizie che arrivano dal centro parlano di un ulteriore aggravamento della crisi depressiva e di un nuovo tentativo di suicidio. Ahmad ritorna un ambulatorio e parla con il terapeuta della moglie e della figlia, una bambina, che ha dovuto lasciare in Iran. A questo punto Ancora ha un'idea, mettere in comunicazione il paziente con il suo nucleo familiare, convincendo la direzione della struttura a farlo telefonare direttamente in Iran. Mentre la conversazione è in corso, Ancora, fa discretamente per allontanarsi, ma il paziente lo richiama, dicendogli «resta, anche tu fai parte della famiglia». Il trattamento può davvero decollare.
Che cosa è avvenuto? La solitudine di Ahmad è stata contrastata facendo dell'ambulatorio una sorta di cabina telefonica che, resa una «quasi casa», simula le pareti domestiche della casa iraniana adatta all'incontro del giovane con le persone che ama, sul filo di un contatto che, se non è fisico, non è, per questo, meno intenso. Resta l'angoscia di Ahamad, la sua malinconia, che però, divenute oggetto di colloquio con un amico, non sono più irretite nella solitudine della depressione. Resta lo psichiatra istituzionale romano Alfredo Ancora, che ha trasformato il suo bagaglio professionale, mettendolo alla prova con il dolore del paziente, senza spocchia e senza faciloneria.

Repubblica 29.12.06
La polemica. L'Italia divisa tra laici e laicisti
di Miriam Mafai


CHI sono i laici, e chi sono i cosiddetti «laicisti» nel nostro paese? La domanda mi viene spontanea dopo aver letto l´intervista con la quale la senatrice Anna Serafini, dei Ds, mette in guardia il centrosinistra dal pericolo di scivolare nel «laicismo», con il rischio di provocare una «lacerazione della nostra società». Laici sì, laicisti no. Ma come distinguere gli uni dagli altri?
Qualche giorno fa, ho molto apprezzato la presenza del senatore Ignazio Marino ai funerali di Piergiorgio Welby e l´impegno che in quella sede ha pubblicamente confermato di voler portare avanti, fino al positivo esito, il dibattito già in corso nella commissione Sanità, sul tema del «testamento biologico». Il problema, ricorda lo stesso Marino, non è di oggi.
Le prime pronunce relative al diritto di morire con dignità riconoscendo legittima la volontà del soggetto sono state emesse negli Usa più di trent´anni fa, e anche nel nostro paese è ormai cresciuta la richiesta dei cittadini di poter esprimere in piena lucidità le proprie scelte da realizzare nel momento del trapasso. Era questo che Welby chiedeva in piena lucidità. Ma questa legge in Italia non c´è e per ottenerla bisognerà superare molte difficoltà e riserve delle gerarchie cattoliche. E dunque, il senatore Marino che su questo fronte è impegnato, va iscritto tra i laici o tra i laicisti?
Lo stesso senatore Marino ha condiviso e sostenuto la decisione presa dal ministro Fabio Mussi in sede europea a favore della ricerca sulle linee cellulari di staminali embrionali esistenti, e a favore della ricerca sugli embrioni attualmente congelati e abbandonati, una volta accertato il momento in cui gli stessi embrioni perdono la capacità riproduttiva. Anche in questo caso è legittima la domanda: il ministro Mussi è laico o laicista?
Il senatore Marino è un cattolico. Un cattolico laico, come ne abbiamo conosciuti molti nella storia della nostra Repubblica (anche in momenti di grande tensione e problematicità) e come ne conosciamo ancora molti. Laici e quindi disponibili al dibattito, al confronto, anche al compromesso che, in politica, è un passaggio non solo inevitabile, ma anche augurabile per raggiungere soluzioni condivise. Non solo quando siano in discussione materie che definiamo «eticamente sensibili».
Onestamente, non ho capito le preoccupazioni espresse ieri dalla senatrice Anna Serafini quando ci metteva in guardia dal pericolo di un presunto «laicismo». E non capisco bene, in verità, nemmeno cosa si intenda per «laicismo». In Italia nessuno ha proposto o propone, come è accaduto in Francia (ma ogni paese ha la sua storia) la esclusione dalla sfera pubblica di ogni forma e manifestazione della propria fede religiosa. In Italia siamo di fronte al fenomeno contrario. Se la religione cattolica, con il Concordato del 1984, non è più la sola religione dello Stato, la complessiva debolezza della politica consente, ormai da anni, una progressiva invadenza delle gerarchie e del Pontefice in prima persona su tutti i temi di pubblico interesse e materia di dibattito e decisioni politiche. Che si tratti di aborto o di procreazione assistita, di malattia o di autodeterminazione del paziente, della ricerca scientifica o dei diritti delle coppie di fatto e degli omosessuali. Tutti temi che definiamo «eticamente sensibili» e sui quali nessuno nega, naturalmente, alla Chiesa di esprimere le sue opinioni (e le sue preoccupazioni). Ma ciò che colpisce è la violenza e la mancanza di pietà di alcune affermazioni e la pretesa che la politica si pieghi alle sue richieste. Una pretesa che viene rivolta in modo specifico e particolare all´Italia ed alle sue assemblee rappresentative, cui si nega o si pretende di negare il diritto di legiferare liberamente su una serie di materie.
A questa situazione faceva riferimento mercoledì scorso un passaggio dell´articolo di fondo di Eugenio Scalfari, quando chiedeva al presidente Prodi di inserire tra i suoi impegni urgenti «la difesa della laicità delle istituzioni senza cedimenti intollerabili alle pretese della lobby della Conferenza Episcopale». Eugenio Scalfari è certamente un laico. Non so se possa essere collocato tra i «laicisti». A meno di non voler collocare tra i «laicisti» non solo il Conte di Cavour che voleva «una libera Chiesa in libero Stato», ma anche Enzo Bianchi, priore di Bose, che recentemente metteva in guardia il clero interventista dalla tentazione di occupare il vuoto lasciato dalla politica, ammonendo: «Non spetta alle figure ecclesiali della gerarchia entrare nella tecnica, nella economia e nella politica per trovarvi specifiche soluzioni»

La Sicilia 28.12.06
Se Kant fa i conti con l'«Apocalisse»
L'illuminista e l'eternità: nuova edizione italiana del saggio «La fine di tutte le cose»
di Roberto Fai


Negli anni in cui Federico Guglielmo II imperava in Prussia, in un clima di censura teso a difendere la fede positiva luterana, l'illuminista Immanuel Kant inviava all'amico ed editore Johann E. Biester un breve ma intenso saggio intitolato «La fine di tutte le cose», che sarebbe apparso nel numero della rivista dell'amico editore nel giugno del 1794, suscitando l'immediato rescritto censorio regio di Guglielmo II, il quale, in una missiva inviata tramite il ministro del Dipartimento per il Culto prussiano minacciava l'illustre filosofo di «provvedimenti spiacevoli» nei suoi confronti nel caso in cui avesse proseguito ancora con scritti di natura teologica, che invece dovevano essere riservate alla competenza dei teologi della Chiesa luterana.
Già nel titolo, il denso scritto kantiano mostrava il suo intento di operare un serrato confronto con «L'Apocalisse» di Giovanni, quale testo fondamentale, che, chiudendo la Scrittura, rappresentava, ad un tempo, la fine del Libro dei Libri e la profetica fine del mondo: la storia umana trovava il proprio senso attraverso la trama grandiosa che il «Libro» esponeva nell'annuncio del compimento escatologico.
Se è vero, come è stato efficacemente sostenuto, che nel toccare il tema della «fine di tutte le cose», in Kant aveva anche agito l'istanza di una «meditatio mortis», in ragione del suo stato di vecchiaia, aggravato dal timore dei pesanti provvedimenti censori che da diversi anni il governo prussiano minacciava nei suoi confronti, nel saggio del 1794, due sembrano essere le domande a cui Kant intendeva rispondere: affermare il "primato" geneaologico della ragione umana, rivendicare la priorità dell'azione morale dell'uomo, e - sul tema della "eternità", che il testo dell'Apocalisse evoca, in quel versetto cruciale dove recita che, alla fine dei tempi, «non vi sarà più il tempo» - riaffermare il "limite" del pensiero.
Di questo straordinario testo kantiano giunge in questi giorni una nuova edizione italiana, «La fine di tutte le cose», (Bollati Boringhieri, Euro 7,00), per la cura di Andrea Tagliapietra, che aggiunge un intenso saggio esplicativo.
Già alcuni decenni prima, il giovane Kant era stato attratto da interessi scientifici, affrontando il problema della "fine" da un punto di vista "fisico", tracciando un parallelo tra il declinare della Terra, il suo possibile tramonto e quello della vita umana. Tutti gli enti naturali - dalla terra all'uomo - connessi in un comune destino entropico sono destinati, per Kant, ad una "fine", dovuta al loro inevitabile dispendio energetico. Nel saggio del '94, il tema della "fine di tutte le cose" - in un serrato confronto con L'Apocalisse - assume invece una connotazione metafisica.
«Ma perché gli uomini si aspettano in generale una fine del mondo? E… perché proprio una fine accompagnata dal terrore?». Di fronte a tale angosciante domanda, c'è un modo attraverso cui la ragione può neutralizzare proprio "quell'Anticristo", la cui attesa/venuta annuncia drammaticamente il Giorno del Giudizio, e che il filosofo di Königsberg aveva risolto liberando il tempo dall'angoscia dell'attesa escatologica, dal momento che «l'apocalisse è ora» (Tagliapietra), è «già» ora: già, «a sempre».
Così come, per Kant, l'idea stessa di un passaggio dal tempo all'eternità, implicando «una fine di tutto il tempo» è, di per sé, un'idea contraddittoria, perché il «passaggio» esige sempre un «tempo», e se c'è tempo, non solo l'eternità è impossibile, ma rimane un concetto inaccessibile al pensiero. Finché pensa - come scrive magistralmente Tagliapietra - il pensiero non può che pensare temporalmente. La fine di tutte le cose diviene pensabile - scrive Tagliapietra - come immagine presente dell'azione morale, non «futura», come la speranza, ma «vicina» come l'amore. Corrispondendo così proprio a quanto annunciato nell'Apocalisse di Giovanni: «...perché il tempo è vicino».

giovedì 28 dicembre 2006

Corriere della Sera 27.12.2006
In prima pagina sul New York Times
Freud e la cognata, adulterio sulle Alpi
Rivelazioni. La prova della relazione nel registro di un hotel


Non era solo una malignità messa in giro da Carl Gustav Jung, l’allievo svizzero poi divenuto avversario strenuo di Sigmund Freud. Pare proprio che il padre della psicoanalisi abbia avuto una relazione con sua cognata Minna Bernays, sorella della moglie Martha, che viveva insieme ai coniugi Freud. La prova difficilmente oppugnabile dell’adulterio sta scritta a chiare lettere nell’elenco dei clienti di un albergo delle Alpi svizzere lo Schweizerhaus di Maloja. Qui Freud e la cognata, che stavano trascorrendo insieme una vacanza di due settimane, occuparono una camera matrimoniale il 13 agosto 1898, presentandosi come una coppia sposata. E lui si registrò con la donna come «il dottor Sigmund Freud e signora». Quindi, il giorno stesso, inviò alla moglie, che sapeva del viaggio, una cartolina in cui si soffermava sulla bellezza del paesaggio, ma definiva modesto l’albergo. Invece lo Schweizerhaus era e resta un hotel di lusso: evidentemente lo studioso austriaco non voleva insospettire la consorte. La scoperta, ripresa in prima pagina dal New York Times, si deve a un sociologo tedesco specialista in psicoanalisi, Franz Maciejewski, autore del saggio Il Mosè di Freud. Un fratello inquietante, uscito in Germania nello scorso ottobre presso l’editore Vandenhoeck & Ruprecht. A suo avviso la vicenda non inficia la validità del metodo psicoanalitico. Ma certo intacca l’immagine irreprensibile di Freud diffusa dai molti ammiratori. Anche il suo biografo Peter Gay, a lungo scettico sulla relazione con Minna, si dice pronto a rivedere i precedenti giudizi.
Antonio Carioti

il manifesto 27.12.06
Democrazia all'occidentale Come l'agenzia americana ha cambiato il mondo
«Sì, è stata la Cia». L'ex spia confessa
di Luca Celada

Intervista a Milt Bearden L'ex agente segreto è il consulente del film diretto da Robert De Niro «Good Shepherd», storia dello spionaggio americano dal dopoguerra al 1961 Cosa vuole sapere? Se abbiamo comprato le elezioni italiane nel 1948? Certo che sì! Avevamo delle valigie Samsonite più grandi di quelle dei russi, va bene? Se no avreste avuto Togliatti per 50 anni

New York. L'accusa neocon più citata in questi giorni, quella che Bush rivolge ad esempio al rapporto della commissione Baker, è quella di essere troppo «reality based», cioé succubi della realtà. La Casa Bianca preferisce imporre ai fatti la propria volontà e disprezza l'eccesso di pragmatismo. Insomma, dopo un secolo e mezzo di egemonia della dottrina Monroe, la retorica neoconservatrice trasforma l'«eccesso di raziocinio» in demerito politico. Eppure nel dopoguerra gli Stati Uniti isolazionisti con il loro «pragmatismo strategico», che ha finito per far deragliare l'idealismo democratico da ogni etica, hanno centrato l'obiettivo. Se si accetta, infatti, che al primo posto ci siano gli interessi americani, è possibile giudicare Pinochet, con la sua prosperosa economia liberista, un «successo», pur con qualche spiacevole costo. Neppure la Baia dei porci e il Vietnam sarebbero fallimenti politici ma semmai operazioni tatticamente fallite, come anche il finanziamento dei Contras nicaraguensi con fondi neri iraniani o l'addetramento dei mujihadeen antisovietici, e via dicendo nella sequenza di operazioni clandestine che nell'ultimo mezzo secolo sono state parti integranti dell'ingegneria geopolitica di Washington.
All'origine di questa storia recente si rivolge Good Shepherd, il film diretto da Robert De Niro (uscito negli Usa in questi giorni, arriverà in Italia a febbraio). E come dichiara il sottotitolo, racconta la «storia segreta della nascita della Cia». In sostanza, mette in scena l'organizzazione dell'agenzia spionistica nata nel dopoguerra dalle ceneri dell'intelligence militare Oss sulle rovine fumanti del teatro europeo per far fronte alla nuova guerra, fredda e segreta, che avrebbe combattuto per i successivi 50 anni. Il film vorrebbe essere anche la cronaca della devoluzione degli «ideali democratici» americani in un groviglio progressivamente sempre più paranoico. È il racconto di come la stategia geopolitica della superpotenza mondiale venne appaltata alla sistematica e clandestina destabilizzazione di paesi, regimi e regioni del pianeta a seconda degli «interessi nazionali» degli Usa.
Sfortunatamente il film di de Niro vuole essere anche molto altro. Prodotto da Francis Ford Coppola, ha le velleità del Padrino, citato a tratti scena per scena. Ma non è tutto, la sceneggiatura di Eric Roth contiene almeno altri due film, un thriller nero nel registro di Le Carré e l'altro un dramma familiare sugli effetti perniciosi che l'attività destabilizzazione di «regimi subalterni» - svolta anche di domenica e nei giorni festivi - può avere alla lunga sul matrimonio.
Per questo ed altri dettagli tecnici, De Niro si è avvalso della consulenza di Milton Bearden, una carriera trentennale nella Cia costruita con abnegazione e iniziativa fino al manageriato medio-alto: capo della stazione nigeriana negli anni '70, responsabile delle operazioni clandestine in Sudan poi distaccato in Pakistan con responsabilità di addestramento dei mujihadeen negli anni '80 fino agli ultimi fuochi reaganiani della guerra fredda con postazione di supervisore delle operazioni est-europee
Oggi Milt Bearden è un reduce, rottamato dopo la vittoria sull'impero del male, se l'è cavata meglio di tanti colleghi ed ha una florida attività di «consulente» hollywoodiano, grazie anche a De Niro che lo aveva ingaggiato per assisterlo nella rappresentazione realistica di Jack Byrnes, il crudele agente Cia di Meet The Parents. Da qui l'incarico ben più consistente in Good Shepherd, dove la sua consulenza è stata utile per ricostruire campagne di disinformazione, assassinii, perfino la distruzione con le cavallette di raccolti nei campi di paesi centroamericani ritenuti eccessivamente filosovietici oltre che tecniche di interrogazione e tortura degne ante-litteram di Abu Ghraib. Forse per questo Bearden ha dichiarato al Los Angeles Times che per essere un agente della Cia occorre essere un «incorreggibile romantico» - o forse nutrire nostalgia per tempi più semplici quando per ristabilire le giuste influenze bastava abbattere qualche democrazia e instaurare un despota amico.
La politica clandestina della Cia è stata dunque parte integrante della politica americana del ventesimo secolo?
Sì, integrante. Ha espresso sempre la volontà del presidente degli Stati Uniti in carica...
Lei crede che le azioni dell'agenzia siano in parte responsabili dell'astio che esiste oggi verso gli Stati Uniti in molte parti del mondo?
Certamente ce n'è molto di astio verso di noi, non solo a causa della Cia, ma per molti dei fatti avvenuti nel mondo bipolare. Deve capire che quando gli Usa e l'Urss rappresentavano i due poli, quasi tutti gravitavano verso l'uno o l'altro. Gli Stati Uniti vennero criticati per molte cose.
Il Vietnam ad esempio o i missili pershing stazionati in Europa ci hanno fruttato le critiche di molti governi e tante piccole proteste, ma in fin dei conti la gente capiva che nella maggior parte dei paesi c'erano sempre 400.000 soldati russi pronti a marciare nella pianura tedesca e 400.000 americani a tenerli a bada. C'era cioè un equilibrio nel mondo. Da quando è caduta l'Unione Sovietica l'equilibrio non c'e più e quindi all'antiamericanismo gratuito ne è seguito uno molto più focalizzato e specifico e questo non credo sia un bene per la nostra sicurezza.
Ma la prassi di intervenire «strategicamente» nel mondo destabilizzando governi, distruggendo economie o peggio, a seconda degli «interessi nazionali degli Stati Uniti» era davvero necessario, non c'erano alternative?
Ci sono sempre alternative tattiche, momento per momento e potremmo riflettere e chiederci ad esempio Arbenz in Guatemala o Mossadeqh in Iran nel '53-'54, furono giustificati? Si potrebbe anche dire che la ragione di tutti i nostri attuali problemi sta nell'aver riportato al potere lo shah, e che l'incubo latinoamericano ha avuto inizio con l'intervento in Guatemala. Io direi che abbiamo semplicemente permesso ai cronisti del New York Times e del Washington Post di esagerare l'importanza di quei fatti. Nella realtà l'eliminazione di Arbenz e di Mossadeqh furono operazioni pressochè artigianali - hanno a malapena accelerato fatti che in tutta probabilità sarebbero avvenuti comunque. Ora se la sua domanda è se abbiamo avuto ragione nel farlo, dal punto di vista di allora direi «forse». Anche se parlando del Guatemala dove il segretario di stato e il capo della Cia nonché ufficiali del consiglio di sicurezza nazionale avevano rapporti con rappresentanti della United Fruit, società con forti interessi in un paese poi sovvertito, beh forse questo si potrebbe criticare. Ma se si tratta di vedere la Cia come una scheggia impazzita allora questo è un errore poichè ha sempre agito per precisa volontà dei presidenti in carica. Abbiamo fatto esattamente ciò che ci ordinavano.
Non trova che ci sia un problema etico intrinseco, una contraddizione, nell'uso di ingerenze clandestine da parte della maggiore democrazia mondiale in altre democrazie?
Cosa vuole sapere? Se abbiamo comprato le elezioni italiane del 1948? Certo che sì! E allora? Avevamo della valigie Samsonite più grandi di quelle dei russi, va bene? Lei potrebbe dire che è da li che è derivata l'instabilità di tutti quei governi uno dopo l'altro. Ok. Forse avremmo potuto non farlo e voi avreste avuto un governo davvero stabile che poteva durare 50 anni, quello di Togliatti. Forse sarebbe stato meglio? Questo dovete dirlo voi, non io...
Insisto, interferire con l'autodeterminazione dei popoli è compatibile per un paese che pretende di rappresentare la democrazia nel mondo?
Questa è una questione che ci riporta dritti ad oggi - potete cercarmi su Google e vedrete come la penso in merito. Credo che quello che dobbiamo fare a un certo punto è guardarci in faccia e chiederci onestamente cosa stiamo facendo. Riusciremo a realizzare i nostri ideali nel Medio Oriente? Mi spiace, ma probabilmente no.

30 anni di Usa
Chi è Milton Bearden
Consulente Cbs, opinionista del New York Times, autore, con James Risen, di «The Black Tulip: a novel of war in Afghanistan» ('98), sulla definitiva sfida Kgb/Cia, e coautore di due attacchi alla politica estera di Bush jr, «How did This Happen, Terrorism» e «The New War», Milton Bearden, ex agente della Cia, è nato a Oklahoma City e cresciuto a Washington, dove il padre lavorava al Manhattan Project. Dal '64 nei servizi segreti, dopo aver fatto il militare in aeronautica, in 30 anni di carriera ha operato in Pakistan, Nigeria, Sudan e Germania. Tra l'86 e l'89 ha addestrato i mujaheddin in Afghanistan e seguito il crollo del sistema sovietico dirigendo la divisione Urss/paesi dell'est. Insignito di alte onorificenze (anche in Rft) dopo aver lasciato il servizio attivo (ora vive a Reston, Virginia con la moglie francese, Marie-Catherine) ha lavorato con Robert De Niro («Meet the Parents», The Good Shepard» e il sequel «The Main Enemy»), partecipato ai programmi tv «Secret Warriors» (History Channel), «Covert Action» (Bbc), «Heroes under Fire» (History Channel) e ai migliori documentari storici d'oggi, «The Nightmare of Power, di Adam Curtis, 2004 e «Uncoverded: the war on Iraq» di Robert Greenwald (2004).

il manifesto 28.12.06
Intervista a Amos Luzzatto, ex presidente dell'Unione delle comunità ebraiche e per quaranta anni medico chirurgo negli ospedali italiani
«E' stata la fine di un incubo: andava rispettata la sua volontà»
di Eleonora Martini


«Quello che non capisco è come si possa dire no all'eutanasia e sì alla pena di morte». E' una contraddizione intollerabile per Amos Luzzatto, ex presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, che non comprende il senso di una condanna a morte nemmeno per «un criminale come Saddam Hussein», mentre vede in quella sentenza «il sintomo di una debolezza molto pericolosa per la società irachena». E avverte: «Così si ritorna alla legge del taglione, contemplata nelle 12 tavole romane e nelle leggi di Hammurabi, ma che è stata assolutamente cassata dalla tradizione ebraica successiva, al contrario di quanto di creda».
Dottor Luzzatto, lei che ha svolto per 40 anni la professione di medico chirurgo, cosa ha provato quando è morto Piergiorgio Welby?
Sono contento che finalmente si sia conclusa la sofferenza di un uomo che non poteva trovare un rimedio da solo e che nessuno voleva aiutare. Era un incubo: vedere che soffriva e che chiedeva di morire senza poter far niente è stata una cosa drammatica, angosciante.
Cosa pensa delle polemiche che questo caso ha suscitato?
Credo che in questo periodo si sia parlato troppo degli aspetti giuridici e morali, ma mai in termini di solidarietà umana. Le generalizzazioni in casi limite come quello di Welby sono sempre pericolose. Si pensi all'astrofisico Stefhen Hawking: lui desidera vivere con tutte le sue forze, anche se non so quanti di noi sarebbero in grado di dire la stessa cosa al suo posto. Nel suo caso sarebbe criminoso togliergli quel po' di vita che gli resta. E' troppo facile parlare quando non si è nella stessa situazione. Ascoltando alcuni giudizi sommari, ho trovato delle similitudini con l'esaltazione che si fa nei salotti in tempo di guerra delle sofferenze dei martiri e degli eroi.
Quale riflessione c'è nel pensiero ebraico su questi temi di fine vita: eutanasia e accanimento terapeutico?
Io vorrei che qualcuno mi dicesse qual è il confine tra l'interruzione dell'accanimento terapeutico e l'eutanasia, perché ognuno lo sposta dove meglio crede. Ogni atto potrebbe tranquillamente essere visto sia come un prolungamento della sofferenza con mezzi artificiali, sia come accelerazione della morte: è veramente molto labile il confine tra questi due eventi. E' un problema che è stato posto molte volte anche nel pensiero etico ebraico, ma che io cercherei di soggettivizzare. Durante la mia vita di chirurgo ho visto persone arrivare a questi stati limite e reagire in forme radicalmente diverse. C'era chi anelava a un attimo in più di respiro, a un momento di ulteriore funzione organica vitale, e chi invece implorava la morte. Nel primo caso qualunque terapia non può essere considerata accanimento terapeutico, nel secondo invece ogni ulteriore trattamento va chiamato col giusto nome: tortura. Noi parliamo prescindendo dalle sensazioni, della volontà e dal desiderio del soggetto interessato. Ognuno di noi è diverso per educazione, per risorse spirituali, morali e intellettuali. Non possiamo arrogarci il diritto di esaltare la sofferenza di un altro, altrimenti ritorniamo ai tempi in cui si bruciavano le streghe perché la loro anima venisse redenta.
Occorre quindi accelerare i tempi per una legge sul testamento biologico?
Sì, io sono d'accordo col testamento biologico. Anche se rispetto all'eutanasia, che è una sorta di suicidio assistito, io sarei favorevole ma con grandi riserve. Molte volte ho visto persone che hanno tentato il suicidio ma poi se ne sono pentiti. Dobbiamo insomma essere molto responsabili davanti ad atti di questo genere, ma senza chiudere drasticamente ogni possibilità.
Se queste domande fossero state poste ad un rabbino, come avrebbe risposto?
Avrebbe avuto più di una risposta, visto che nella tradizione ebraica ci sono vari esempi di suicidi osannati e ricordati nel testo biblico. Si potrebbe citare Masada, i cui morti vengono ancora onorati, o re Saul, il primo re di Israele, che si suicidò con la sua spada e la cui elegia composta dal suo successore David è un autentico salmo di gloria che è entrato nel testo biblico canonizzato ebraico. L'ebraismo non è una Chiesa dogmatica centralizzata dove c'è un Papa che indica il comportamento da adottare a tutti i fedeli che ne vogliono far parte. Nel mondo ebraico si dibatte di questi temi in modo non superficiale, ma con notevole disinvoltura. Eppoi c'è l'abitudine ebraica di soppesare il caso singolo con grande attenzione alle varianti soggettive. E' difficile che il più colto, il più istruito e informato dei rabbini si senta di dare dei giudizi drastici e validi per tutti i differenti casi. Mi dispiace constatare invece che nel nostro paese sia mancata, nell'insieme, una presa di posizione globale e generalizzata che difendesse il dovere di capire ciascun soggetto che soffre e di non sostituirci alla sua volontà.
l'Unità 27.12.06
MARIO RICCIO
L’anestesista che ha staccato la spina
«Nessuna eutanasia
E non c’è bisogno di nuove leggi»
«Era sereno Welby mercoledì sera, sono sereno io adesso: non è stata eutanasia - anche se era questo, questa parola che lui usava e voleva - ma solo una sedazione praticata mentre toglievo il respiratore. Nel pieno rispetto della legge». Mario Riccio è l’anestesista che ha staccato la spina. Quello che in molti hanno definito «dottor morte». «So che c’è chi ha pure chiesto che mi arrestassero... Non scherziamo. Sono 15 anni che mi occupo di bioetica, interrompere la ventilazione e sedare è assolutamente nel campo della legalità. Quando mi hanno chiamato quelli dell’associazione Coscioni mi sono detto: non puoi non mettere in atto praticamente ciò di cui sei convinto. Allora sono venuto a Roma».
Dottore, cosa è successo in quella stanza?
«Una cosa molto semplice. Ho praticato una sedazione venosa mentre stubavo Piergiorgio. Ho fatto le due operazioni contestualmente. Il professor D’Agostino, ex presidente della Consulta di bioetica e medico cattolico, ha sostenuto che prima stubare e poi sedare sarebbe stata una pratica ammissibile. Ma se anche un solo secondo Welby avesse sofferto?».
Ma lei ha agito, ha avuto un comportamento attivo. Perchè non è eutanasia? Perchè sostiene di non aver contravvenuto al nuovo codice deontologico dei medici che all’art. 17 prescrive che “il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte”?
«Perchè avrei dovuto somministrare un farmaco che portasse alla morte, ad esempio potassio cloruro. Oppure dare una sostanza paralizzante... Invece non c’è stata alcuna volontà eutanasica. E la conferma è che di eutanasia, adesso che della questione si sta finalmente dibattendo con un po’ di cognizione di causa in più, nessuno parla più seriamente, a parte qualche oltranzista».
Lei cosa richia per aver sedato Welby?
«Lo devono decidere altri, io so di essermi mosso nel pieno rispetto delle regole. Ed è quello che ho raccontato ai magistrati. Adesso aspettiamo l’autopsia di Welby, soprattutto per quanto riguarda i valori tossicologici».
In Italia esiste un buco legislativo su questi temi?
«No. Vede, che esista il diritto del paziente a rifiutare le cure lo ha detto la sentenza del tribunale di Roma. In maniera assoluta lo riconosce la Costituzione, lo riconoscono le sentenze della Cassazione, lo riconosce il codice deontologico dei medici e pure la Convenzione di Oviedo. Certo, si dice che non si riesce ad imporre al medico di andare a staccare la spina, ma io credo dipenda più da un caos tra organi competenti che da un vuoto di legge».
Esiste l’eutanasia clandestina?
«Io credo che con il no all’inchiesta conoscitiva del Parlamento si è persa una grande occasione. Non tanto per l’eutanasia, quanto per quel che si chiama “pianificazione della cura”. È quel che succede nelle aree critiche di molti ospedali: la dialisi, la respirazione meccanica sono trattamenti che insieme al paziente vengono decisi per un termine di tempo determinato. Se non va... ».
E il testamento biologico?
«No, questa è un’altra cosa. Che ci sia un problema lo spiego ricordando come la legge sulla donazione degli organi del ‘99 non è ancora stata attuata. Che significa? Che le donazioni di organi naturalmente si fanno, ma che è salvo il diniego del conuige o dei parenti... ».come nacque l´Adelphi

Repubblica 27.12.06
COSÌ INVENTAMMO I "LIBRI UNICI"
Da Nietzsche a Kubin, Hesse e Walser
di Roberto Calasso


Era il maggio del 1962 quando Bobi Bazlen parlò per la prima volta di quella che sarebbe stata la nuova casa editrice. Le opere del filosofo, una collana di classici e la diffusione del pensiero irrazionale
Fu la grande sapienza editoriale di Luciano Foà a pilotare quei volumi verso una sola collana: la Biblioteca
Fin dall'esordio conservammo un'apertura totale verso ogni anfratto del passato, verso tutti i generi e gli autori

All´inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C´erano solo pochi dati sicuri: l´edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato.
Sarebbero stati stampati da Mardersteig, come anche il Nietzsche. Allora ci sembrava normale, quasi doveroso. Oggi sarebbe inconcepibile (costi decuplicati, ecc.). Ci piaceva che quei libri fossero affidati all´ultimo dei grandi stampatori classici. Ma ancora di più ci piaceva che quel maestro della tipografia avesse lavorato a lungo con Kurt Wolff, l´editore di Kafka.
Per Bazlen, che aveva una velocità mentale come non ho più incontrato, l´edizione critica di Nietzsche era quasi una giusta ovvietà. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l´epiteto "irrazionale" implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni "irrazionale" non poteva che essere Nietzsche. Per il resto, sotto l´etichetta di quell´incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche vasta parte dell´essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all´editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante.
In letteratura l´irrazionale amava congiungersi con il decadente, altro termine di deprecazione senza appello. Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido. Già da questo si capirà che l´idea di avere al numero 1 della Biblioteca Adelphi un romanzo come L´altra parte di Alfred Kubin, esempio di fantastico allo stato chimicamente puro, poteva anche suonare provocatorio. Tanto più se aggravato dalla vicinanza, al numero 3 della collana, di un altro romanzo fantastico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (e non importava se in questo caso si trattava di un libro che, guardando alle date, avrebbe potuto essere considerato un classico).
Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi - posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, dove Bazlen e Ljuba Blumenthal erano ospiti per qualche giorno -, evidentemente accennò subito all´edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici. E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa. Di un classico tibetano (Milarepa) o di un ignoto autore inglese di un solo libro (Christopher Burney) o dell´introduzione più popolare a quel nuovo ramo della scienza che era allora l´etologia (L´anello di re Salomone) o di un testo sul teatro No scritto fra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo.
Furono questi alcuni fra i primi libri da fare che Bazlen mi nominava. Che cosa li teneva insieme? Non era chiarissimo. Fu allora che Bazlen, per farsi intendere, si mise a parlare di libri unici.
Che cos´è un libro unico? L´esempio più eloquente, ancora una volta, è il numero 1 della Biblioteca: L´altra parte di Alfred Kubin. Unico romanzo di un non-romanziere. Libro che si legge come entrando e permanendo in una allucinazione possente. Libro che fu scritto all´interno di un delirio durato tre mesi. Nulla di simile, nella vita di Kubin, prima di quel momento; nulla di simile dopo. Il romanzo coincide perfettamente con qualcosa che è accaduto, un´unica volta, all´autore. Ci sono solo due romanzi che precedono quelli di Kafka e dove già si respirava l´aria di Kafka: L´altra parte di Kubin e Jakob von Gunten di Robert Walser. Entrambi avrebbero trovato il loro posto nella Biblioteca. Anche perché se, in parallelo all´idea del libro unico, si dovesse parlare di un autore unico per il Novecento, non ci sarebbero dubbi: sarebbe Kafka.
In definitiva: libro unico è quello dove subito si riconosce che all´autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto.
E a questo punto occorre tenere presente che in Bazlen c´era una ben avvertibile insofferenza per la scrittura. Paradossalmente, considerando che Bazlen aveva passato la vita sempre e soltanto fra i libri, il libro era per lui un risultato secondario, che presupponeva qualcos´altro. Occorreva che lo scrivente fosse stato attraversato da questo altro, che vi fosse vissuto dentro, che lo avesse assorbito nella fisiologia, eventualmente (ma non era obbligatorio) trasformandolo in stile.
Se così era accaduto, quelli erano i libri che più attiravano Bazlen. Per capire tutto questo, è bene ricordare che Bazlen era cresciuto negli anni della massima pretesa di autosufficienza della pura parola letteraria, gli anni di Rilke, di Hofmannsthal, di George. E di conseguenza aveva sviluppato certe allergie. La prima volta che lo vidi, mentre parlava con Cristina Campo delle sue - meravigliose - versioni di William Carlos Williams, insisteva solo su un punto: «Non bisogna sentire troppo il Dichter», il "poeta-creatore", nel senso di Gundolf e di tutta una tradizione tedesca che discendeva da Goethe (e di cui Bazlen, per altro, conosceva perfettamente l´alto significato).
I libri unici erano perciò anche libri che molto avevano rischiato di non diventare mai libri. L´opera perfetta è quella che non lascia tracce, si poteva desumere da Zhuang-zi (il vero maestro, se uno si dovesse nominare, di Bazlen). I libri unici erano simili al residuo, shesha, ucchishta, su cui non cessavano di speculare gli autori dei Brahmana e a cui l´Atharva Veda dedica un inno grandioso.
Non c´è sacrificio senza residuo - e il mondo stesso è un residuo. Perciò occorre che i libri esistano. Ma occorre anche ricordare che, se il sacrificio fosse riuscito a non lasciare un residuo, i libri non ci sarebbero mai stati.
I libri unici erano libri dove - in situazioni, epoche, circostanze, maniere diversissime - si era giocato il Grande Gioco, nel senso del Grand Jeu che aveva dato nome alla rivista di Daumal e Gilbert-Lecomte. Quei due adolescenti tormentati, che a vent´anni avevano messo in piedi una rivista rispetto alla quale il surrealismo di Breton (di poco più anziano di loro) appariva paludato, tronfio e spesso retrivo, erano per Bazlen la prefigurazione di una nuova, fortemente ipotetica antropologia, verso la quale i libri unici si rivolgevano. Antropologia che appartiene ancora, quanto e più di prima, a un eventuale futuro.
Quando il Sessantotto irruppe, pochi anni dopo, mi sembrò innanzitutto irritante, come una goffa parodia. Se si pensava al Grand Jeu, quella era una maniera modesta e gregaria di ribellarsi, come sarebbe apparso anche troppo chiaro negli anni successivi.
Il Monte Analogo a cui Daumal dedicò il suo romanzo incompiuto (che sarebbe diventato il numero 19 della Biblioteca, accompagnato da un saggio densissimo di Claudio Rugafiori) era l´asse - visibile e invisibile - verso cui la flottiglia dei libri unici orientava la rotta. Ma questo non deve far pensare che quei libri dovessero ogni volta sottintendere un qualche esoterismo. A provare il contrario basterebbe il numero 2 della Biblioteca, Padre e figlio di Edmund Gosse: resoconto minuzioso, calibrato e lacerante di un rapporto padre-figlio in età vittoriana. Storia di una inevitabile incomprensione fra due esseri solitari, un bambino e un adulto, che sanno al tempo stesso inflessibilmente rispettarsi. Sullo sfondo: geologia e teologia. Edmund Gosse sarebbe poi diventato un ottimo critico letterario. Ma senza quasi più tracce di quell´essere che si racconta in Padre e figlio, l´essere a cui Padre e figlio accade. Perciò Padre e figlio, come testo memorialistico, ha qualcosa dell´unicità di quel romanzo, L´altra parte, che nella Biblioteca lo aveva preceduto.
Fra libri a tal punto disparati, quale poteva essere allora il requisito indispensabile, quello che comunque si doveva riconoscere? Forse soltanto il "suono giusto", altra espressione che Bazlen talvolta usava, come argomento ultimativo. Nessuna esperienza, di per sé, era sufficiente per far nascere un libro. C´erano tanti casi di storie affascinanti e significative, che però avevano dato origine a libri inerti. Anche qui soccorreva un esempio: durante l´ultima guerra molti avevano subìto prigionie, deportazioni, torture. Ma, se si voleva constatare come l´esperienza dell´isolamento totale e della totale inermità potesse elaborarsi e diventare una scoperta di qualcos´altro, che si racconta con sobrietà e nitidezza, bisognava leggere Cella d´isolamento di Christopher Burney (numero 18 della Biblioteca). E l´autore, dopo quel libro, sarebbe tornato a confondersi nell´anonimato. Forse perché non intendeva essere scrittore di un´opera ma perché un´opera (quel singolo libro) si era servita di lui per esistere.
Per un certo periodo, pensammo che i libri unici dovessero essere unici anche di aspetto. Ciascuno con un impianto diverso della copertina - e magari con formati diversi. Ma, quanto più ci si avvicinava alla pubblicazione, tanto più diventavano evidenti gli ostacoli. Fu la sapienza editoriale di Luciano Foà, a un certo punto, a pilotare i vari libri unici verso una sola collana: la Biblioteca. All´inizio ci sembrò quasi un ripiego, da accettare a malincuore, mentre era l´unica soluzione giusta. Ora occorreva trovare un nome - qualcosa di neutro e onnicomprensivo.
L´appiglio venne dalla più nobile delle collane allora in circolazione: la Bibliothek Suhrkamp, che Peter Suhrkamp aveva avviato nel 1951. E non c´era rischio di sovrapposizione, perché la Bibliothek Suhrkamp aveva avuto dall´inizio un carattere soltanto letterario, ben chiaro e netto come la sua nitida impostazione grafica, opera di Willy Fleckhaus. E gli autori erano solo moderni, inclusi quelli che presto sarebbero stati chiamati "i classici moderni".
Una brochure di Suhrkamp presentava così la collana: «La Bibliothek Suhrkamp è dedicata al vero amico dei libri, a quella élite di lettori a cui sentono il bisogno di appartenere tutti coloro per i quali un libro buono o squisito è diventato un bene vitale indispensabile. Saranno pubblicati testi in sé conchiusi - racconti, brevi romanzi, drammi in versi, poesie, saggi, monografie, biografie e aforismi - in una forma sotto ogni aspetto pregevole, a un prezzo fra DM 3.50 e DM 4.50. Questi libri, di lunghezza oscillante fra le 130 e le 200 pagine, si prestano particolarmente a essere regalati». Da notare come Peter Suhrkamp usasse allora senza timori la parola élite, che venti anni dopo la sua casa editrice sarebbe stata la prima a bandire come famigerata. E da notare anche come la collana avesse fin dall´inizio isolato i generi che intendeva proporre, mentre il formato la obbligava ad accogliere solo testi non più lunghi di duecento pagine. Con ciò avvicinandosi, più che alla Biblioteca, alla Piccola Biblioteca Adelphi, che anni dopo volemmo inaugurare con lo stesso libro che aveva inaugurato la Bibliothek Suhrkamp: Il pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse.
La Biblioteca Adelphi, all´opposto, aveva avuto sin dal primo momento un carattere di apertura totale: verso ogni anfratto del passato, verso tutti i generi, verso ogni specie di autori, dal giovane e ignoto scrittore vivente (un giorno sarebbe stato Chatwin, con In Patagonia, a darne esempio) fino all´autore anonimo, oscuro e remoto, come colui che scrisse Il libro del Signore di Shang. Pubblicare i libri unici all´interno di una collana non doveva servire a smussarne gli angoli, ma al contrario a dar loro un supporto che li tenesse insieme pur nelle loro disparate fisionomie ed evitasse - si sperava e di fatto così fu - che i singoli titoli venissero dispersi in zone varie delle librerie. Di questo rimane una traccia visibile in poche righe che si potevano leggere sulla seconda aletta della sovraccoperta nei primi titoli della collana - e poi vennero eliminate, per ragioni di spazio, a partire dal numero 4: «Una serie di "libri unici", scelti secondo un unico criterio: la profondità dell´esperienza da cui nascono e di cui sono viva testimonianza. Libri di oggi e di ieri - romanzi, saggi, autobiografie, opere teatrali - esperienze della realtà o dell´immaginazione, del mondo degli affetti o del pensiero».
(1. Continua. Copyright )