mercoledì 3 gennaio 2007

l’Unità 3.1.07
Saddam-Duce, folle paragone
di Bruno Gravagnuolo


Un falso parallello. Sì, è davvero insensato il paragone tra la sorte di Saddam e quella di Mussolini. Lasciamolo alla canea di Alessandra Mussolini, Calderoli, Antonio Martino, oltre che alla propaganda di un governo iracheno che ha agito in spregio d’ogni garantismo, all’ombra dell’occupante Usa. Norimberga? Era oro al confronto! Lì i giudici non erano nascosti, come i tre di Baghdad. I difensori non venivano accoppati. E la giuria benché di vincitori era internazionale. E quanto a Mussolini, gli Usa volevano salvarlo. Mentre Saddam è stato giustiziato esattamente come prevista sanzione della guerra ideologica di Bush jr. Un crimine giuridico dunque, e una follia politica, che rilancia l’odio civile in Iraq. Altro che «compromesso di pacificazione», come farnetica Carlo Pelanda sul Giornale. E sempre a proposito del Duce, com’è che nessuno sulla stampa ha commentato le rivelazioni di cui su l’Unità ha riferito nei giorni scorsi Vincenzo Vasile? Eppure trattasi di documenti chiave dell’Oss. Vale a dire: gli americani volevano vivo Mussolini. Cercarono di sottrarlo al Clnai che dal canto suo - riferisce la fonte segreta Oss - aveva deciso unitariamente al suo vertice l’esecuzione del prigioniero (e lo dice Cadorna). Cadono così le sciocchezze su una sentenza voluta dai soli comunisti. E si conferma che gli Usa avrebbero voluto giudicare loro il dittatore, e magari graziarlo, «espropriando» la Resistenza. Del resto non fu l’Oss a riciclare Borghese e altri saloini nel contesto dell’incipiente guerra fredda? Morale: contesti diversi e geopolitiche opposte nei due casi. E ricamare su presunte affinità serve solo a mascherare l’infame conclusione di un infame decisione a monte e basata su menzogne accalarate: la guerra in Iraq.
Delirium tremens. «L’uguaglianza uccide. Ed è questo che vogliono i nostri governanti: uccidere gli italiani. Il perché è chiaro: l’idea dell’Unione Europea è un’idea comunista e pertanto un’idea egualitaria». Calderoli? Rauti? Tilgher? No, Ida Magli, sul solito Giornale. Tremate, tremate, le streghe son tornate. E ogni tanto le sciolgono pure.

l’Unità 3.1.07
Massimo Salvadori. Lo storico torna sul paragone fatto dal premier iracheno: entrambi da vivi sarebbero stati pericolosi punti di riferimento per gli sconfitti
«Analogie tra Mussolini e il raìs ma contesti diversi»
di Umberto De Giovannangeli

«Vi sono eventi come i processi ai dittatori sconfitti in cui Kratos, il principio della forza, ha comunque la meglio su Ethos, il principio di moralità giuridica. È stato il caso di Mussolini, e per certi versi lo è anche per l’esecuzione di Saddam Hussein. L’analogia è che la resistenza italiana voleva impedire che Mussolini vivo potesse sopravvivere come punto di riferimento di un mondo neofascista che avrebbe avuto nel duce un referente pericoloso per l’Italia che provava a ricostruirsi sulle macerie della Guerra. Nel caso di Saddam, c’è un potere espressione della maggioranza curdo-sciita e sostenuto sul campo dagli angloamaericani, che ha ritenuto un Saddam in vita una sorta di “bomba” ad alto potenziale». A parlare è lo storico Massimo Salvadori.
Professor Salvadori, il portavoce del primo ministro iracheno ha ricordato al premier italiano che il «processo a Mussolini durò un minuto». È possibile a suo avviso individuare una qualche analogia tra questi due eventi?
«In effetti un’analogia può essere riscontrato e spero che su questo giudizio sia possibile riflettere in maniera non moralistica».
Qual è questa analogia?
«Noi sappiamo bene che gli americani e gli inglesi avrebbero voluto sottoporre Mussolini a un processo e sottrarre quindi il duce a una esecuzione da parte delle forze della resistenza, e questo perchè c’era la volontà esplicita della resistenza di lanciare con l’uccisione di Mussolini un messaggio esemplare, e cioè che le colpe di un dittatore che aveva trascinato il Paese alla rovina, devono essere regolate con una condanna irreversibile comminata ed eseguita da chi aveva subito le violenze del nazifascismo e che si candidava alla ricostruzione dell’Italia. In sostanza si voleva che i conti con Mussolini si regolassero in Italia da parte delle forze della resistenza. A prevalere fu anche la preoccupazione per le implicazioni che avrebbe avuto un processo pubblico a Mussolini, che avrebbe comportato con ogni probabilità un dibattito che avrebbe avuto delle fortissime ripercussioni politiche aprendo anche scenari di violenza. L’esecuzione del duce rispondeva anche a una logica di stabilizzazione del regime democratico nato dalla resistenza antifascista. Su questo piano, che è storico e politico, quell’esecuzione va giudicata e non su quello morale o giurisprudenziale».
E nel caso di Saddam?
«Nel caos del dittatore iracheno, si può parlare di un errore ma non di un crimine; il primo fa riferimento al piano della politica, il secondo implica una valutazione morale. Nel caso di Saddam, dobbiamo parlare di una decisione presa da un potere iracheno che è espressione della maggioranza sciita e curda. L’esecuzione dell’ex dittatore è un atto di una guerra civile ad opera della maggioranza curdo-sciita diretto contro i sunniti che sono legati all’eredità politica di Saddam. Certo, i contesti storici sono diversi, così come diversa è la percezione che si ha oggi della pena di morte rispetto a sessant’anni fa, ma se un’anologia tra i due eventi è possibile cogliere è che sia la resistenza italiana che il potere irachena ritenevano Mussolini e Saddam in vita due “bombe” dall’alto potenziale destabilizzante. Ciò detto va sottolineato che atti di questo genere vanno collocati nel contesto di guerra e della logica politica che ne è espressione, il che nulla toglie alla valutazione di merito del processo subito da Saddam».
Che processo è stato a suo avviso?
«È stato un processo-mostro, che ha obbedito ad una parvenza di diritto che è stata conculcata nei fatti e nelle procedure. In realtà in questi casi c’è un conflitto aperto tra “Ethos” (il principio di moralità giuridica) e “Kratos”, il principio della forza. Ma sia se si procede a una esecuzione sommaria sia che si passi per un “giusto processo”, è sempre “Kratos” che finisce per imporsi, perché a dominare è la logica della politica su quella umanitaria».
Romano Prodi ha ribadito la contrarietà dell’Italia all’esecuzione di Saddam impegnandosi ad una iniziativa in sede Onu per una moratoria della pena capitale.
«Prodi ha rappresentato al meglio quella coscienza civile dell’Europa che rifugge dal ricorso alla pena di morte come strumento per fare giustizia. Quella assunta dal premier italiano è una posizione che ha un suo significato nobile, che s’incardina nel principio dell”Ethos” ma che trova sulla sua strada un ostacolo difficile da rimuovere, costituito dal fatto che, ad esempio in Iraq, la logica della politica, che il più delle volte è la consacrazione dei rapporti di forza, ha visto nell’eliminazione di Saddam non solo un risarcimento per i crimini del passato perpetrati dal dittatore, ma anche un investimento sul(proprio) futuro».
Professo Salvadori, in conclusione del nostro colloquio vorrei tornare sul parallelismo Saddam-Mussolini. Giuliano Vassalli ritiene che paragonare l’uccisione di Mussolini all’esecuzione di Saddam sia un’operazione «frettolosa e volgare. «Non a caso - afferma tra l’altro l’ex presidente della Corte Costituzionale, «che tra il 1945 e il 2006 la situazione nel campo della pena di morte e della sua legittimità è profondamente cambiata».
«Il cambiamento dei tempi certamente è importante e indubbiamente bisogna tener conto che oggi è maturato un senso dei diritti umani e della loro tutela che rappresenta una conquista importante da tutelare e rafforzare. Detto questo, resto della convinzione che quando scattano certe logiche legate a questioni di potere, a questioni legate alla sopravvivenza di brutali e impietose logiche di realismo politico, purtroppo dobbiamo constatare che queste logiche finiscono in molti casi per prevalere su ogni altra considerazione di ordine giuridico e morale».

l’Unità Lettere 3.1.07
La fine di Saddam e quella di Mussolini: un paragone sbagliato
Cara Unità,
la piccata risposta del premier iracheno Maliki al commento di Prodi, sulla rapida esecuzione di Saddam Hussein è totalmente sbagliata quando si riferisce a quella di Mussolini.
Vorrei sottolineare la differenza tra le due cose: 1) Non è stato il governo Prodi, né la maggioranza che lo sostiene a “eseguire” Benito Mussolini. Tra l’altro tra i diversi episodi sono passati più di 50 anni e la maggioranza di centro sinistra al governo oggi in Italia è diversa dal CLNAI che decise all’unanimità (dai liberali ai comunisti) la liquidazione del dittatore italiano.
2) Il CLNAI con l’appoggio dei partiti nazionali italiani che inquadravano la Resistenza avviò una lotta contro il tempo con gli alleati angloamericani per la giustizia su Mussolini, temendo che una volta in mano degli alleati il dittatore divenisse una delle tante merci di scambio, nella logica della competizione Ovest-Est. E venisse sottratto alla logica totalmente diversa «Il popolo ritrovata la via della libertà giustizia il suo tiranno», mostrando una totale autonomia statuale da quella delle forze angloamericane. In Iraq la situazione è opposta: c’è la pesante ombra che il governo Maliki abbia agito, nella costruzione del processo, nelle irregolarità procedurali, finanche nei tempi dell’esecuzione, per compiacere e favorire le forze d’occupazione, da cui la sua sopravvivenza politica dipende.
3) Mussolini è stato giustiziato dai rappresentanti di un popolo esacerbato e tradito da cinque anni di una guerra rovinosa, che il dittatore italiano aveva scatenato contro gli anglo-americani, vantando pure di «spezzare le reni» a una delle due potenze. La guerra era mondiale. Lo scenario di tregenda scespiriana. Nel caso iracheno si è trattato di una guerra anglo-americana “improvocata” dall’Iraq per usare una espressione del «Today Usa», con motivazioni rivelatasi false, e per ragioni del tutto diverse da quelle dichiarate.
Massimo Ciocchetti, Roma

La Stampa 3.1.07
Saddam, Mussolini e la storia
di Luca Ricolfi

«Contestualizzazione» è una parola che non amo. Suona male, come molte parole nuove che finiscono in «one». Anche il verbo contestualizzare non mi piace per niente, così come i suoi sinonimi storicizzare, relativizzare, inquadrare, troppo spesso usati per giustificare ogni sorta di nefandezze storiche e individuali: il ragazzo che uccide i genitori, lo spacciatore che spadroneggia nel quartiere, le tribù africane (ora gentilmente denominate etnie) che si massacrano, i fanatici di ogni angolo della terra che ammazzano innocenti in nome di una causa politica o religiosa. Però, però...
Però contestualizzare è anche un’attività naturale della mente, sempre esistita da quando esiste la civiltà umana, dunque ben prima che qualcuno inventasse quell’orribile verbo.
Il bambino che assiste a uno spettacolo di marionette si immedesima in quel che vede, ma sa - per parafrasare Bennato - che «sono solo marionette»: non scappa spaventato se una marionetta ne accoltella un’altra. Il buon cristiano di oggi, quando apprende che Nerone i cristiani li faceva sbranare dai leoni, prova al massimo un senso di stupore: non pretende un risarcimento postumo dagli attuali discendenti degli antichi romani.
Leggendo le cronache di questi giorni sulla pena di morte inflitta a Saddam - insieme allo sgomento di (quasi) tutti di fronte a un’istituzione che noi europei non siamo più disposti ad accettare - ho provato anche una sensazione strana, la sensazione di un generale venir meno di quella nostra antica e fondamentale facoltà della mente: non già la (deprecabile) capacità di tutto giustificare, bensì la spontanea, naturale, non costruita capacità di vedere la distanza dove c’è. Perché è questo che non sappiamo vedere più. Giustamente le autorità irachene ci ricordano: e voi con Mussolini? È stato più giusto il processo cui è stato sottoposto il vostro dittatore? Qual è la differenza?
La differenza, anzi le differenze, cari iracheni, sono due. La prima è che oggi ci sono la tv e Internet, e chiunque può scaricarsi il film dell’esecuzione di Saddam; l’orrore è disponibile on line, e chi vuole indignarsi può servirsi «à la carte». La seconda differenza è che appena mezzo secolo fa, quando Mussolini venne «giustiziato» (altra parola detestabile), non esisteva ancora una «civiltà superiore» che ci potesse guardare, e stracciarsi le vesti per la nostra barbarie.
Adesso invece c’è: siamo noi. E soprattutto vede e si fa vedere, perché il mondo è completamente interconnesso, e noi viviamo - siamo costretti a vivere - in perenne mondovisione. Agli iracheni è toccato il guaio di celebrare il loro processo contro il loro dittatore in un momento storico in cui una parte del mondo è molto più avanti, o perlomeno presume di esserlo, in barba a ogni omaggio al pluralismo delle culture. Quando toccò a Mussolini, della civiltà europea come la conosciamo oggi non c’era la minima traccia: la maggior parte dei Paesi che contano aveva la pena di morte, e le sensibilità ecologiste-animaliste-umaniste di oggi erano largamente sconosciute. Sgozzare un maiale o una gallina nell’aia non faceva impressione a nessuno, la gente considerava normale morire per servire la patria, ma anche intervenire in un tram per fermare un tentativo di stupro. È di tutto questo, di questo suo recente (barbaro?) passato, che il sofisticato cittadino europeo pare non voler prendere atto. Eppure sarebbe importante fermarci e riflettere. Perché l’astrattezza che ci porta oggi a indignarci per l’esecuzione di Saddam, non capendo che l’Iraq vive in un altro tempo storico, è la stessa che ci ha portati ieri a credere che la democrazia si possa instaurare d’emblée, senza tappe intermedie, come si esporta una tecnologia. I falchi americani che credono di poter imporre a tutto il mondo il modello democratico, e le colombe europee che ragionano come se tutti vivessimo nello stesso tempo, sono vittime della medesima mentalità astorica.
C’è un po’ di spocchia, o di superficiale alterigia, nella nostra pretesa di giudicare un popolo che - sulla scala più o meno arbitraria della nostra civiltà - vive in un tempo ben anteriore a quello che portò gli italiani a fare i conti con il loro duce. Ma c’è anche tanta ingenuità, come quella di un bambino che volesse far arrestare gli attori che impersonano i «cattivi» in un dramma shakespeariano. Nel caso dell’Iraq, lo spettacolo è purtroppo reale, ma la distanza rispetto a noi è abissale come quella di un dramma shakespeariano. Per questo - perché è reale - la politica si adopera per cambiare le cose, e fa bene a farlo. Per questo - perché gli eventi si snodano in un tempo storico che non è il nostro - suonano sgradevoli le lezioni di civiltà impartite agli iracheni. Spero anch’io, un giorno, di vivere in un mondo in cui tutti considereremo inaccettabile la pena capitale. Ma in attesa di quel giorno, l’umana pietà è il solo sentimento che riesco a provare.

Repubblica 3.1.07
LA POLEMICA
Mussolini e Saddam due giustizie diverse
di Giorgio Bocca

«Tacete voi che avete ucciso Mussolini dopo un processo di un´ora», ha detto il governo iracheno all´Italia. Ma non è andata esattamente così. Mussolini è stato condannato dalla maggioranza del popolo italiano negli anni delle guerre inutili e sanguinose e soprattutto nei venti mesi della occupazione nazista e della collaborazione di Salò con Hitler. E se proprio si vuole una giustificazione legalistica Mussolini è stato giustiziato su ordine del Clnai, il comitato di liberazione nazionale che governava nell´Italia occupata.
L´ordine era di passare per le armi chi nel giorno della insurrezione generale si fosse opposto con le armi in pugno. E Mussolini fu catturato a Dongo mentre tentava di fuggire in Valtellina e da lì nella Germania ancora nazista.
Della sua esecuzione sono state date centinaia di versioni. Noi crediamo, per quel che possa valere, che la più aderente al vero sia quella raccontata in una nostra storia della Repubblica di Salò. L´abbiamo appresa da Fermo Solari che quel 25 aprile era a Milano al comando partigiano del nord Italia.
«Telefonarono da Musso, un paese del lago di Como – mi raccontò Solari – e ci dissero che avevano catturato Mussolini. Luigi Longo uscì nel corridoio per trovare qualcuno da mandare sul posto. Tornò e mi disse: ho trovato solo Audisio». Non era proprio così: aveva trovato anche Lampredi uomo di partito e mandò anche lui con l´ordine di fucilarlo sul posto. «A me – disse Solari – ha detto: gli ho ordinato di portarlo a Milano». Lampredi e Audisio lo fucilarono, noi lo sapemmo a cose fatte e approvammo pienamente.
Ma la fucilazione di Mussolini e dei gerarchi a Dongo è politicamente assimilabile alla impiccagione di Saddam Hussein solo nelle linee generali. La fine di una tirannia non poteva allora essere che una giustizia sommaria del vincitore. Sotto questo aspetto quella di Mussolini è stato un fatto inevitabile, la scomparsa di un uomo perché la storia continui, un epilogo violento e drammatico perché da una tirannia possa nascere un paese libero. Ciò che persuade di meno della esecuzione del tiranno Saddam è che il tiranno era già caduto e vinto: nessuno, neppure i seguaci e consiglieri di Bush, può seriamente pensare che la democrazia sia esportabile con le armi e che i sudditi di Saddam, o almeno una importante minoranza, siano davvero convinti delle colpe del loro leader tanto è vero che a cadavere ancora caldo i sunniti lo piangono e si ripromettono di vendicarlo. Sicché la esecuzione barbara di Saddam più che l´inizio di una liberazione ha l´aria della convulsione di un terrore perdurante, di una ferocia che si ripete. E in questo senso si può considerarla un errore.
La condanna di Saddam è la condanna di un satrapo ma ha anche degli aspetti ignobili, inaccettabili. Il dittatore oggi ucciso ha goduto a lungo di una larga complicità internazionale proprio mentre commetteva quei reati per i quali ora è stato giustiziato. Complicità maldestramente rinnegate come quelle del presidente Bush che dormiva e di suo padre che giocava a golf perché oggi quel satrapo non serve più negli affari sporchi dei paesi del petrolio. Hanno un bell´affannarsi i grandi cinici di casa a ricordarci che così vanno le cose di questo mondo e che non saranno le anime belle a cambiarle ma l´errore della esecuzione di Saddam resta, come segno che i potenti della terra anche in questo orrendo episodio hanno scelto il gioco degli sporchi interessi, delle vendette senza fine, hanno confermato la umana vocazione al gioco sporco, al gioco furbo, al vinca il peggiore.
L´errore della esecuzione di Saddam con quella terribile esposizione di cappi, botole, boia mascherati, insulti sono stati un errore profondissimo, di quelli che fanno disperare degli uomini e del loro destino.


l’Unità 3.1.07
La guerra santa dei due Islam nemici
di Wladimiro Settimelli


I SUNNITI E GLI SCIITI sono i seguaci di due interpretazioni profondamente diverse della religione islamica e del Corano. Un’antica e sanguinosa frattura che si è tragicamente riaperta nell’Iraq del dopo-Saddam
La divisione risale ai primordi della storia musulmana e riguarda le modalità della successione a Maometto
Divisi su tutto: dall’esistenza del clero fino ai modi di contrazionedel matrimonio

Sciiti e sunniti, sunniti e sciiti. Se ne parla con ansia e paura, mentre una specie di tragico e terribile «prezzo di sangue» percorre le strade di Baghdad tra una strage e l’altra, tra un omicidio e l’altro, tra un rapimento e l’altro con morte dopo tortura. Tutto gronda odio, come se la testa di Hysain fosse stata appena spiccata e poi spedita a Damasco al califfo sunnita Yazid, tra i pianti e le urla delle «pie donne». Furono loro che andarono poi a riprendersela, riportandola a Kerbala per ricomporla con il corpo del «generato» di Alì e di Fatima, la figlia del Profeta dell’Islam. Era l’anno 61 dell’Egira e il 10 ottobre del 680, il giorno 10 di muharran. Muhammad era morto da meno di mezzo secolo.
In questi tempi di guerra americana e inglese fra il Tigri e l’Eufrate, morto o vivo Saddam, si sono risvegliati, come non mai da molti anni, antichi odii e rancori. E sono ricomparsi i trucidi scannamenti e le vendette che vengono da lontano, molto lontano, con gli sciiti e i sunniti, appunto, divisi da un odio profondo. Odio che ha radici nella fede e nelle diverse regole del credere nell’Islam. È un fuoco terribile che potrebbe propagarsi in tutto il mondo islamico, con conseguenze inimmaginabili. I più avvertiti, per l’Iraq, parlano ora di guerra civile e hanno ragione, perché tutto si sta dispiegando in questo senso, proprio con lo scontro tra sunniti e sciiti. I sunniti hanno già violato con diversi attentati e stragi, Nagiaf, la città del Mausoleo di Alì, il «principe dei credenti», dove tutti gli sciiti vogliono essere seppelliti nei grandi cimiteri. E attacchi ci sono stati a Kufa, dove è nata la scrittura araba e sviluppata la cultura sciita. E ancora moschee sciite sono state attaccate a Samarra e nella stessa Kerbala. E gli sciiti, ovviamente, rispondono colpo su colpo e senza pietà.
Il fatto è che Saddam e i suoi erano sunniti e avevano proibito, per anni, ogni manifestazione del dolore sciita e le celebri processioni con i fedeli che si colpivano fin quasi a morte con catene, coltelli e spade, come atto di fede, per volontà di espiazione e per sopportare il dolore della tragica fine di Husayn. Come se tutto fosse accaduto appena ieri, appunto.
È una storia vecchissima, mille volte raccontata e spiegata, ma che bisogna ancora una volta ricordare, per tentare di capire. Gli sciiti, con i loro imam, sono al potere in Iran, si sa. Anche gli hezbollah del Libano sono sciiti e stanno per riportare il paese sull’orlo della catastrofe. E sciiti sono molti siriani che, insieme ai sunniti del loro paese, si battono in realtà per la «grande Siria» a spese del Libano. Poi ecco gli altri paesi islamici a maggioranza assoluta sunnita o wahhabita (una forma estrema di sunnismo) intorno al quale è nato il regno dell’Arabia Saudita. Tutti sostengono, con profonda convinzione, la causa palestinese e vogliono, più o meno velatamente (salvo l’Egitto) la scomparsa di Israele. Il dramma e il caos sono, dunque, in ogni momento, dietro l’angolo.
Ma chi sono gli sciiti e i sunniti ? Che cosa divide in due il mondo islamico, anche se i sunniti sono, ovunque, una maggioranza schiacciante, ma non omogenea?
Tutto nasce alla morte di Muhammad che apparteneva alla stirpe dei banu Hascim, della tribù dei Coreisciti. Il «profeta di Dio», o «l’ultimo dei profeti», in pratica, non lascia figli maschi o «vicari» che rappresentino in qualche modo la nuova fede. Così cominciano subito i guai e le polemiche. La scelta di chi poteva in qualche modo sostituire Muhammad andava fatta per linea familiare, tramite il cugino e genero Alì, il marito della figlia Fatima, oppure discendenza elettiva scegliendo qualcuno dei primi compagni del profeta? Tra i beduini, in realtà gli ultimi ad abbracciare la fede, i capi e i successori venivano scelti in modo elettivo. Così fu anche per il dopo Muhammad. Ma chi parteggiava per Alì non era d’accordo e sosteneva che il profeta era morto tra le braccia di Alì e non tra quelle della adorata moglie Aisa. Non solo: era stato Alì - si diceva ancora - a lavare il corpo del profeta con unguenti particolari portati dall’arcangelo Gabriele. Lui, dunque doveva essere la guida naturale dell’Islam. Ma non andò così.
I successori del profeta, i «califfi ben guidati», i celeberrimi «rashidun», furono in realtà quattro: Abù Bakr, suocero di Muhammad, poi Omar Uthman e finalmente Alì. Omar è il califfo della grande espansione e delle conquiste. Otman, invece, sistematizzò il Corano e provvide a far raccogliere i racconti dei compagni del Profeta. Con Alì esplosero, invece, lotte intestine terribili e lo stesso genero del profeta, dopo appena cinque anni, venne ucciso con una spada avvelenata, mentre si recava alla preghiera. Gli successe Muawiyyah che trasferì il centro del potere a Damasco. Il solco tra sunniti e sciiti era, ormai, diventato un fossato. «Siia», in arabo, vuol dire semplicemente «partito» e gli uomini del partito di Alì non cessarono mai di chiedere che i califfi fossero scelti tra coloro che erano legati «alla sacra famiglia del profeta» o avevano una discendenza certa dalla tribù di Muhammad, o una altrettanto diretta discendenza da Alì o dalla sua famiglia. Insomma, una successione ereditaria per diritto divino. In questa lotta, anche il figlio del genero di Muhammad, Hasan venne ucciso con il veleno.
I sunniti, comunque, si consideravano e si considerano ancora oggi, i veri detentori della fede e dell’Islam: sono coloro che si rifanno direttamente ai detti, ai fatti, alle abitudini del profeta, alle tradizioni e ai modi di vivere e di credere dei primi fedeli. La grande divisione nasce, poi, sulla figura dell’imam. I sunniti non hanno un vero e proprio clero. Gli sciiti, invece, obbediscono agli imam che possiedono «l’infallibilità», «l’impeccabilità» e una «scienza sovrumana». Inoltre - affermano gli sciiti - l’insegnamento degli imam ha valore definitivo, come definitiva è la conoscenza di «ciò che è occulto». Hanno anche da ridire sul Corano, secondo loro, «espurgato» delle parti che riguardavano i diritti di Alì. Certo, anche loro vanno alla Mecca, osservano il digiuno e usano,ormai il Corano di tutti. Ovviamente, anche per gli sciiti, come per tutto l’Islam, Muhammad è il profeta, l’ultimo inviato da Dio sulla terra. Ma la tendenza è quella di esaltare Alì (l’amico o il leone di Dio) e il suo grande valore sul campo di battaglia: non ci fu mai guerriero come lui né spada come la sua, chiamata «Du’l fiqar». Scrisse anche un libro per il bene dell’umanità, pari agli scritti di 124 mila profeti. Ed è ad Alì - sempre secondo gli sciiti - che Muhammad rivelò il senso ultimo dell’Islam. Tanto gli sciiti moderati come i «gulat» (coloro che esagerano) concordano, comunque, che l’imam debba discendere in linea diretta da Alì ed essere il capo supremo della comunità. Dunque, l’imam sciita come il califfo sunnita. Anche se il califfato non esiste più.
Ma è con la morte di Hussein che gli sciiti raggiungono il massimo dell’esaltazione per il martirio. Hussein era l’ultimo figlio di Alì e Fatima e si avviò verso Kerbala, in Iraq, ben sapendo che sarebbe stato ucciso. Aveva, nel suo gruppo, mogli, amici, seguaci, bambini. Furono tutti massacrati per ordine del califfo Yazid. Hussein (era il 680 dell’egira), dopo essere stato fatto morire di sete ebbe la testa mozzata. Testa che venne spedita a Damasco al califfo ommayade. Ed è proprio in ricordo del «ritorno della testa» che gli sciiti organizzano le autoflagellazioni, le recite pie, i cori di dolore e di pianto per il 10 di Muharran. Da ogni credente e da ogni cosa, in quei giorni, emana un incredibile pathos. La gente, in corteo, piange, si dispera, e si «punisce». Nelle stampe popolari, il cavallo di Hussein corre sul campo di battaglia senza il cavaliere (il divieto di non raffigurare esseri umani viene rispettato) ma irto di frecce. I martiri di Kerbala sono spesso raffigurati come una lunga teoria di cammelli che marciano nel deserto, con in groppa una rosa purpurea, simbolo del martirio. E anche Alì è rappresentato da una rosa purpurea.
E oggi? È proprio nel campo sciita che nascono gli «shahid»: ossia i primi martiri che vanno volontariamente a morire per guadagnare il paradiso nel corso della «jihad». Furono proprio i ragazzini iraniani, i famosi «bassidji» che andavano a morire nella guerra contro l’Iraq di Saddam, aprendo la strada all’esercito, in mezzo ai campi minati. Ne morirono a migliaia. Avevano al collo una piccola chiave: la chiave del paradiso.
Tra gli sciiti, in realtà, la teologia del martirio, dopo il sacrificio di Husayn a Kerbala, trovava terreno più che fertile. I ragazzini, infatti, andavano a morire «sulla via di Dio» e alle loro famiglie il governo esprimeva gioia per il martirio e lutto per la morte di un figlio. I «martiri sulla via di Dio», compariranno poi anche tra i sunniti: i giovani di Hamas e della Jihad islamica. Poi in Libano e alle Torri Gemelle.
Le differenze tra sciiti e sunniti rimangono comunque tutte. Sono gli sciiti, tra l’altro, ad avere anche un imam «nascosto» nel pozzo di Samarra. Tornerà - spiegano- «alla fine dei tempi per riportare giustizia e gioia nel mondo». È l’atteso mahdi.
Ma c’è anche un modo di essere degli sciiti nei confronti di tutti gli altri. Lo spiega bene un vecchio testo che dice: «il tono spirituale del vero partigiano di Alì, deve essere la tristezza abituale manifestata anche all’esterno, in un comportamento malinconico poiché lo sciita è partigiano dei diritti di una famiglia il cui destino è stato l’avversità». Il riferimento, naturalmente, è alla famiglia di Alì.
Altra differenza tra gli sciiti e sunniti è una cosa di non poco conto: il matrimonio di piacere o temporaneo detto «mut’a», fermamente respinto dai sunniti. Si tratta di un contratto irrevocabile (lazim) per un periodo di tempo determinato. Lo sciita in viaggio, per esempio, può sposare una donna conosciuta casualmente anche solo per qualche mese. Poi tutto finirà automaticamente. Sara, in realtà, l’unico modo permesso alla coppia per poter stare insieme un po’ di tempo. Si tratta, quindi, di un matrimonio fuori da ogni regola. Nato, fu detto, anche per combattere la prostituzione. Ma era davvero troppo per l’altro Islam.

Corriere della Sera 3.1.07
Norimberga. La giustiziua e i vincitori
di Sergio Romano


La condanna dei gerarchi del Terzo Reich doveva aprire la strada a una nuova idea di giustizia da applicare ai capi di regimi criminali, ma sessant'anni dopo l'obiettivo non è ancora raggiunto
Il diritto internazionale non nasce con la «giustizia dei vincitori»

Le discussioni e gli scambi di vedute fra gli Alleati sulla sorte dei leader sconfitti cominciarono agli inizi del 1944. Churchill sapeva che le clausole dei trattati di Versailles sui «criminali di guerra» erano state ignorate e disse a Stalin, un giorno, che sarebbe stato meglio giustiziarli sul posto, senza indugio, al momento della cattura.
Ma il «meraviglioso georgiano» gli rispose severamente che «in Unione Sovietica noi non giustiziamo senza processo». Era una dichiarazione «inglese», ispirata ai principi della tradizione giuridica britannica.
Churchill avrebbe potuto chiedergli se i processi a cui pensava non fossero per caso quelli delle grandi purghe che il dittatore aveva organizzato negli anni Trenta per sbarazzarsi dei suoi avversari. Ma preferì accusare il colpo e rispondere: «Naturalmente, naturalmente, ci vorrà un processo».
In America, nel frattempo, le soluzioni prospettate erano due. Secondo quella radicalmente punitiva del segretario al Tesoro Henry Morgenthau, i pesci grossi sarebbero stati giustiziati, i pesci piccoli cacciati ai confini del mondo e i prigionieri di guerra tedeschi impiegati come schiavi per la ricostruzione dell'Europa. Secondo il dipartimento della Guerra, invece, occorreva un processo in cui i leader sarebbero stati accusati di crimini di guerra o contro l'umanità e l'intero regime nazista sarebbe stato considerato un'«associazione a delinquere». Prevalse la seconda tesi. Dopo una decisione di principio a Yalta nel febbraio del 1945, la macchina americana fu più rapida delle altre. Alla fine di aprile, due settimane dopo la morte di Roosevelt e poco prima del suicidio di Hitler, il tribunale aveva già un pubblico ministero nella persona di Robert Jackson, giudice della Corte suprema. Ma era necessario scegliere una città, possibilmente in Germania, redigere un capo di accusa e, soprattutto, scrivere una specie di codice a cui giudici, pubblici ministeri e avvocati difensori avrebbero potuto appellarsi. Non bastava individuare gli imputati. Occorreva soprattutto inventare i canoni e le procedure di una nuova giustizia penale internazionale.
La città fu Norimberga, sede dei grandi raduni nazisti e luogo in cui erano state emanate le famigerate leggi razziali del 1935. Fu scelta per una sorta di ironica rappresaglia? No, le ragioni furono soprattutto pratiche. I bombardamenti alleati ne avevano distrutto più della metà, ma avevano lasciato miracolosamente intatti il palazzo di giustizia e il migliore albergo. Esistevano quindi un'aula per i dibattimenti, le celle per i carcerati, gli uffici per i giudici e i procuratori, i letti per gli addetti ai lavori e per i giornalisti. Restava da redigere il codice che si chiamò, alla fine dei lavori preparatori, «Carta del Tribunale militare internazionale». La maggiore preoccupazione fu quella di evitare che il processo si trasformasse in un comizio e che gli imputati approfittassero della presenza della stampa internazionale per lanciare al mondo i loro messaggi. Fu deciso che nessuno avrebbe avuto il diritto di invocare l'obbedienza agli ordini ricevuti o rimproverare le potenze accusatrici di avere commesso, in alcune circostanze, gli stessi crimini. In altre parole, il maresciallo dell'aria Göring non avrebbe potuto ricordare agli Alleati il bombardamento di Dresda e Alfred Rosenberg, teorico del razzismo, non avrebbe potuto evocare l'ombra dei 25 mila ufficiali polacchi massacrati dai sovietici nella foresta di Katyn.
Queste preoccupazioni furono in buona parte inutili. Forse l'aspetto più interessante del primo processo, e degli undici che si susseguirono fino al 1949, fu il grado di collaborazione degli imputati. Qualcuno (Göring in particolare) fu spavaldo e arrogante. Altri cercarono di difendersi, di giustificarsi e di attenuare le loro responsabilità (Albert Speer fu particolarmente abile). Ma alcuni di essi (i militari e i grandi tecnici ad esempio) si comportarono come gentiluomini tedeschi, educati nell'etica protestante della verità e della responsabilità, impegnati ad attraversare con la maggiore dignità possibile il momento più difficile della loro vita. Ne avevano dato prova, del resto, nei lunghi interrogatori che precedettero l'inizio del dibattimento. Uno storico inglese, Richard Overy, ha raccolto alcuni verbali in un volume, pubblicato da Mondadori nel 2002 (Interrogatori. Come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich) e ha indirettamente dimostrato che quegli uomini volevano lasciarsi alle spalle, per quanto possibile, la verità. Accadde persino che gli Alleati, sorpresi dall'atteggiamento dei futuri imputati, chiedessero ad alcuni di essi di preparare appunti e memorandum sul futuro della Germania.
Il primo processo cominciò alle dieci del mattino del 20 novembre. Il presidente del tribunale era un magistrato inglese, sir Geoffrey Lawrence e il collegio si componeva di un giudice principale e di un giudice supplente per ciascuna delle quattro potenze alleate. Gli imputati erano 21, schierati in fondo alla sala: da Karl Dönitz, capo del governo provvisorio dopo la morte di Hitler, a Albert Speer, ministro degli Armamenti, e Julius Streicher, direttore di una rivista antisemita. Erano soltanto una parte del Terzo Reich, risultato di una sorta di decimazione provocata dalle circostanze. Ma bastavano a un collegio giudicante che voleva soprattutto dare un esempio, lasciare agli atti della storia la propria versione del conflitto e creare una nuova categoria del diritto internazionale: lo «Stato canaglia», una categoria che gli americani hanno rimesso di moda in questi ultimi anni.
Tutti ascoltarono attentamente attraverso le loro cuffie la lunga arringa con cui Jackson aprì il dibattimento: una storia del nazismo dalla fase che precedette la conquista del potere sino ai crimini contro la classe operaia, le Chiese, gli ebrei, la pace e l'umanità. Quando Jackson richiuse la cartella che aveva tenuta aperta sotto i suoi occhi, il presidente del tribunale rinviò la seduta al giorno seguente per l'interrogatorio degli imputati. Il primo fu Göring, tracotante, provocatorio, il solo che sfuggì alla morte con una pillola di cianuro. Avrei accettato la fucilazione, scrisse in un ultimo messaggio alla corte, ma non posso accettare la corda e morirò come Annibale. Le esecuzioni furono dieci, le assoluzioni tre, gli altri imputati furono condannati all'ergastolo e a pene più brevi. Vi furono nei mesi seguenti altri undici processi contro magistrati del regime, medici che avevano applicato terapie inumane e spietati membri degli Einsatzgruppen, le formazioni speciali che soppressero decine di migliaia di ebrei in Europa orientale. Molti capirono subito che questa «giustizia dei vincitori» presentava troppi inconvenienti. Ma sperarono che quei processi aprissero un nuovo capitolo del diritto internazionale. Così sarebbe accaduto, effettivamente, se anche la maggiore potenza, negli anni Novanta, avesse accettato di sottoporre i propri cittadini alla giustizia del mondo. Ma gli Stati Uniti hanno rifiutato di ratificare il trattato per la costituzione del Tribunale penale internazionale e non vogliono che i loro cittadini siedano sul banco degli accusati. Il bicchiere della giustizia internazionale rimane mezzo vuoto.

martedì 2 gennaio 2007

Corriere della Sera 2.1.07
Ricerche. Un volume di Cesare Vetter analizza i termini chiave dell'ideologo francese
Robespierre, lessico per una rivoluzione
Il raggiungimento della felicità? Passa inevitabilmente dal Terrore
di Giovanni Belardelli


L a politica ha il potere di renderci felici? Ed è davvero auspicabile che cerchi di farlo? A sollevare di nuovo queste domande fondamentali è un volume sul lessico di Robespierre, curato da Cesare Vetter, che parte, necessariamente, dai modi opposti con i quali la questione venne affrontata alla fine del secolo XVIII sui due lati dell'Atlantico ( La felicità è un'idea nuova in Europa. Contributo al lessico della rivoluzione francese, a cura di Cesare Vetter, Edizioni Università di Trieste, pp. 269, e 20). Nel 1776, infatti, la Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America proclamava il diritto inalienabile di tutti gli uomini al «perseguimento della felicità». Una tale formula, dovuta alla penna di Thomas Jefferson, avrebbe avuto un successo straordinario contribuendo «più di qualsiasi altra cosa — come ha scritto Hannah Arendt — a una ideologia specificamente americana». Contemporaneamente, era destinata a sintetizzare una differenza fondamentale tra la democrazia liberale e le varie forme di democrazia radicale che si sarebbero sviluppate successivamente nel continente europeo, dal giacobinismo fino alle ideologie socialiste e comuniste.
Nel 1794 era proprio pensando alla formula americana che Saint-Just affermava: «La felicità è un'idea nuova in Europa». Ma la sua importazione in Francia avveniva in realtà sotto un segno radicalmente diverso. Mentre la felicità di cui avevano parlato i rivoluzionari americani era essenzialmente una felicità privata, quella proclamata dai giacobini si realizzava interamente nella dimensione pubblica.
Non solo: mentre l'espressione coniata da Jefferson poneva l'accento più che sul risultato (la felicità) sulla libera ricerca che ciascuno aveva il diritto di compiere, stabilendo autonomamente gli scopi della propria vita, la traduzione che ne fecero i giacobini non solo trasformava la felicità da privata in pubblica, ma postulava al contempo il sacrificio di ogni libertà di scelta individuale.
Il libro curato da Vetter, mentre presenta una minuziosa descrizione delle parole chiave del lessico di Robespierre, ottenuta attraverso una strumentazione informatica, mostra bene nel saggio introduttivo come questa idea di felicità rigorosamente pubblica costituisse un po' la chiave di volta della visione politica giacobina. A cominciare dall'idea che, per il buon cittadino, felicità e interessi privati come tali non esistano, poiché debbono sciogliersi e confondersi nella felicità e negli interessi pubblici. La «virtù», un concetto così centrale nel lessico di Robespierre, è anzitutto la capacità del singolo di rinunciare alla propria dimensione privata e ai «vizi» che la contraddistinguono, riuscendo a concepirsi soltanto come parte di un corpo collettivo.
In questo quadro, il cittadino è tanto più felice, cioè interamente dedito alla dimensione pubblica, quanto più i beni di cui dispone si limitano all'essenziale, a una vita sobria e frugale, di «povertà onorevole» come scrive Robespierre il quale, come molti suoi contemporanei, pensa che la ricchezza possa solo essere meglio distribuita, neppure immaginando lo straordinario aumento di beni che avverrà di lì a qualche decennio in tutta Europa. Senonché, e qui cominciano i guai, affinché si raggiunga una comunità di cittadini poveri, virtuosi e felici occorre appunto eliminare la possibilità che siano i singoli a cercare, attraverso tentativi ed errori, la propria felicità, occorre ottenere che ciascuno si adegui a «un modello di esistenza sociale postulato come unico, vero, razionale».
È necessario in un certo senso che la rivoluzione democratico-giacobina combatta proprio la rivoluzione americana e la sua promessa di un diritto per ciascuno di perseguire, ma come meglio crede, la propria felicità. In questo quadro l'educazione, intesa come pedagogia politica tesa a plasmare individui che infine pensino e vogliano ciò che «debbono» volere e pensare, è appunto la leva indispensabile ad attuare una tale idea, radicalmente «antiamericana», di democrazia. Si tratta di un'educazione inevitabilmente costrittiva, giacché non mira a sviluppare le facoltà individuali ma piuttosto a sopprimerle, con lo scopo di plasmare individui che abbiano tutti la stessa volontà e siano perciò egualmente «felici». In questo senso, nota giustamente Vetter, così come è concepito da Robespierre «il raggiungimento della felicità passa inevitabilmente attraverso il Terrore». Ed è per questo, per l'impossibilità di accettare gli esseri umani come sono e per la conseguente pretesa di plasmarli come invece dovrebbero essere, che nel progetto giacobino possiamo già vedere in nuce non pochi degli «esiti nefasti» del Novecento, dovuti a sistemi politici (i regimi comunisti e non solo) disposti a tutto pur di liberare gli esseri umani dalle loro imperfezioni (dai loro vizi, avrebbe detto Robespierre) per renderli partecipi di fini indiscutibili e perciò, così si pretendeva, «felici».

Repubblica 2.1.07
Intervista a Luciano Canfora
Il mondo greco e quello moderno
Congiure e rivolte scorre il sangue di re
di Simonetta Fiori


La storia greca. L'assassino del tiranno era universalmente considerato un eroe. Ma il più celebre tirannicidio nascondeva una storia d´amore
La chiesa Tommaso d'Aquino elaborò una complessa formulazione sulla legittimità del tirannicidio. Le sue tesi hanno resistito fino al Novecento
Chiunque pone la sua mano su di me per governarmi è un usurpatore e un tiranno, e dichiaro che egli è un mio nemico
Non c'è tirannia più crudele di quella che è perpetrata sotto lo scudo della legge e in nome della giustizia
L'albero della libertà deve essere rinvigorito di tanto in tanto con il sangue dei patrioti e dei tiranni. Esso ne è il concime naturale
Con l'uccisione dei governanti pronti alla guerra, si salvano le vite di migliaia di persone innocenti

«Il più celebre tirannicidio della storia greca, l´atto eroico su cui si fonda tutta la retorica classica, fu in realtà un delitto privato, una vicenda di gelosia sentimentale». Luciano Canfora, lo studioso che alla tirannide ha dedicato saggi fondamentali, ripercorre la storia del tirannicidio dall´età classica a quella contemporanea, mostrando anche gli aspetti più avventurosi di una nutrita mitografia.
L´archetipo di tutti i tirannicidi, quello commesso da Armodio e Aristogitone, fu dunque un falso?
«Sì, niente altro che una creazione ideologica. Ma suggerirei di procedere per ordine. Nella cultura greca antica, la maschera del cattivo s´identificava nel tiranno. In Omero, ad esempio, già Agamennone aveva i tratti del despota, con quel viziaccio di appropriarsi delle donne altrui. L´ira di Achille nasceva proprio dal fatto che gli voleva portare via Briseide. Dunque la liberazione dal despota era di per sé atto glorioso».
Sta dicendo che nella cultura classica il tirannicidio era considerato qualcosa di molto nobile.
«L´assassino del tiranno era universalmente considerato un eroe. Questo modello nacque intorno all´uccisione d´un figlio di Pisistrato a opera di due giovanotti coraggiosi che vi lasciarono anche la pelle. I due eroi si chiamavano Armodio e Aristogitone. Per secoli ha resistito una vulgata secondo la quale Armodio e Aristogitone avrebbero messo fine alla tirannide esercitata dal figlio di Pisistrato. Il mito fu tramandato ai romani, che vi trassero ispirazione per altri tirannicidi. Testimonia la loro fama il successo della statuaria ispirata dalla celebre coppia».
Non si trattò di un atto politico?
«No, tutt´altro. Fu una sofferta vicenda sentimentale: la vittima, Ipparco, s´era innamorato di Armodio, che era l´amante di Aristogitone, il quale sicuramente non gradì tutte queste attenzioni. Insomma, Aristogitone e Armodio sistemarono la faccenda facendo fuori Ipparco. Ma la cosa ancor più grave è che Ipparco era sì figlio di Pisistrato, ma non quello che esercitava la tirannide, ossia il maggiore Ippia. In conclusione, dopo la morte di Ipparco, Ippia continuò a fare il tiranno peggio di prima».
Ma la tradizione patriottica ateniese celebrò Armodio e Aristogitone come i grandi liberatori.
«Certo, però gli storici sapevano bene che non era così. Tucidide fece del sarcasmo. Secondo la retorica ufficiale, invece, quel tirannicidio fu l´atto fondativo della democrazia ateniese. Un modello così forte da ispirare i successivi tirannicidi in epoca romana. Anche Bruto e i senatori congiurati che si armarono contro Giulio Cesare si sentivano un po´ Aristogitoni e Armodi».
Fatti diversissimi accomunati da una stessa retorica ingannevole.
«L´assassinio di Cesare fu un deliberato atto politico, che ebbe conseguenze nella storia di Roma. L´uccisione di Ipparco fu invece un totale fallimento. In questo sì, due vicende lontane, classificate però entrambe come tirannicidi. Anche qui interviene l´arbitrio della definizione, che rimane relativa. Come per il tiranno, anche per il tirannicidio è una questione di interpretazione. Thomas Hobbes, un filosofo inglese molto approfondito da Bobbio, sosteneva che tra il re e il tiranno c´è poca differenza: usiamo il termine tiranno quando ci sentiamo danneggiati e il termine re quando ne siamo sostenitori».
Sta dicendo che il tirannicida da eroe può divenire parricida, a seconda del punto di vista?
«Accadde agli uccisori di Cesare, che al momento della sconfitta furono liquidati come assassini. Il giudizio è sempre provvisorio. Potrei fare anche altri esempi».
Il più celebre?
«Mi viene in mente il caso di Enrico IV, esempio luminoso di tolleranza religiosa. Morì per mano di un fanatico ultracattolico, François Ravaillac, il quale fu considerato dai suoi come un coraggioso liberatore dall´odioso despota. Come vede, l´opinione è relativa».
Anche la Chiesa cattolica ammetteva il tirannicidio?
«Un suo sostenitore era Tommaso d´Aquino, il quale elaborò una complessa formulazione sulla legittimità di quell´atto. Le sue tesi hanno resistito nella Chiesa fino al Novecento. Non dimentichiamo che l´attentato contro Hitler nel luglio del 1944 fu ordito da un gruppo di cattolici. L´eliminazione fisica di un distruttore di vite come Hitler era quasi un comandamento. Anche i fedeli che parteciparono alla lotta partigiana si richiamavano a questa clausola etica».
Nel caso di Saddam Hussein la posizione espressa dalla Chiesa è stata di segno contrario.
«Ma l´impiccagione di Saddam non può essere considerata un tirannicidio. La definizione regge quando si colpisce un satrapo che esercita ancora il potere. Saddam è stato ammazzato da prigioniero».
Anche Luigi XVI fu ghigliottinato da prigioniero.
«Ma non fu giustiziato in quanto tiranno, ma per aver tradito la Francia nel tentativo di propiziare l´invasione nemica del suo paese. Il capo d´imputazione era molto diverso. Il paragone non mi sembra appropriato».
Quale le sembra più appropriato?
«Credo che si possa parlare di tirannicidio solo quando un pugno di eroi insorge contro il tiranno al potere».
Allora secondo lei non lo si può usare per Mussolini, a proposito del quale la cultura antifascista s´è espressa a ragione in termini di tirannicidio.
«Alt, la definizione mi sembra più che appropriata. Il duce cercò di ingannare le forze di liberazione che ne avevano chiesto la resa. Da qui la decisione del Comitato di Liberazione Nazionale dell´Alta Italia di giustiziarlo, come lucidamente ha più volte ricordato Claudio Pavone. È un altro caso ancora di tirannicidio. La vicenda di Mussolini, però, niente ha a che vedere con quella di Saddam, catturato dall´esercito di un altro paese che poi l´ha processato e deciso l´impiccagione. L´analogia usata dai governanti iracheni mi è sembrata davvero forzata».
In una storia universale del tirannicidio, quale personaggio meriterebbe la copertina?
«Quello più forte sul piano dell´immaginario rimane Bruto. Mi viene in mente la battuta che Pier Paolo Boscoli, artefice della congiura contro i Medici, pronunziò in cattività: "Toglietemi dalla testa questo Bruto"».

Repubblica 2.1.07
Il nuovo libro di Renata Pisu "Il drago rampante"
I mille volti della Cina
L'atteggiamento iconoclasta nelle nuove generazioni di Pechino e Shanghai
Le espressioni del post maoismo: dalla politica all'economia alla cultura
di Federico Rampini


Forse nessun altro periodo è così importante per capire la Cina di oggi, quanto il primo Novecento: la caduta della dinastia imperiale Qing la cui decadenza è accelerata dalla pressione dell´Occidente; l´instaurazione della Repubblica; il rigetto del passato e la tormentata ricerca di valori nuovi su cui fondare la modernizzazione; il rischio che l´appuntamento con il progresso stravolga l´antica e ricca identità culturale del paese. Sono temi che si riaffacciano in vari modi nei decenni seguenti: da Mao Zedong fino all´integrazione vincente della Cina nell´economia globale del XXI secolo, la nazione più grande del mondo continua a girare attorno allo stesso dilemma che non ha risolto all´inizio del Novecento: quanto può restare se stessa mentre accetta la sfida del cambiamento. Giustamente ai tumultuosi avvenimenti di cent´anni fa Renata Pisu dedica un capitolo del suo bel libro Cina il drago rampante (Sperling & Kupfer, pagg. 290, euro 16). Ricorda che l´Occidente si presentava allora con un volto odioso - la politica delle cannoniere - «ma anche con tante proposte nuove», proprio mentre un ceto dirigente antico di secoli crollava travolto dalla propria inefficienza e corruzione, e trascinava con sé nella stessa fine anche il prestigio del confucianesimo. «Era un´epoca strana - scrive la Pisu - di disperazione ma anche di effervescenza: tutte le teorie venute dall´Occidente erano avidamente assimilate da intellettuali che avevano studiato in Giappone, in Europa, negli Stati Uniti.. Tutti gli «ismi» dell´Occidente erano appassionatamente discussi e abbracciati o rigettati: darwinismo, romanticismo, anarchismo, populismo, socialismo. Scienza e Democrazia erano però i due concetti d´obbligo per ogni discorso». Nelle nuove generazioni di Pechino e Shanghai assetate di modernità all´inizio del Novecento «prevale un atteggiamento iconoclasta, che mette in dubbio o addirittura nega la necessità di conservare l´essenza cinese».
Quell´atteggiamento si sviluppa in correnti diverse: Shanghai si trasforma economicamente ed anche urbanisticamente modellandosi su New York; c´è chi guarda con interesse alla restaurazione Meiji, le riforme con cui il Giappone dal 1898 si lancia alla rincorsa dell´Occidente. Dopo decenni di guerra civile prevale la via marxista adattata da Mao, l´innesto di un pensiero rivoluzionario di matrice europea transitato attraverso la Russia di Lenin.
Proprio in Mao sopravvive a lungo uno dei tratti della generazione progressista del primo Novecento: l´ansia di liberarsi del passato, di scrivere una storia nuova trasformando la Cina in una pagina bianca, usando il suo popolo come materia grezza da plasmare ex novo, una tendenza che degenera negli autodafè e nella follìa distruttiva della Rivoluzione culturale degli anni Sessanta. Il libro di Renata Pisu racconta soprattutto la Cina post-maoista, che l´autrice conosce bene in tutte le sue espressioni e che percorre con vivacità e ritmo narrativo: la politica e l´economia, la cultura, l´evoluzione dei costumi, la vita quotidiana, i rapporti fra uomini e donne, il conflitto generazionale. Il filo conduttore è sempre quello, costante dal primo Novecento: la ricerca di una nuova identità che consenta di traghettare la Cina verso lo sviluppo e la conquista di un benessere diffuso, e al tempo stesso risponda alla richiesta di valori stabili, di un collante sociale, di un «senso» al percorso che si sta facendo. Si può dire che la Cina sta ancora digerendo gradualmente quell´immenso choc che fu il primo contatto brutale con l´apertura all´Occidente. All´inizio del Novecento l´impatto pose un problema inedito, quello di definirsi come nazione. Un concetto nuovo, imposto dalla forza dei nazionalismi europei. «Nel corso della sua lunga storia - scrive la Pisu - il problema nazionale non aveva mai toccato la Cina, che non si era mai pensata come identità da affermare rispetto ad altre identità nazionali. La civiltà cinese non era mai venuta in contatto con altre civiltà portatrici di valori con la stessa pretesa universale». Non è molto diverso il problema con cui il paese e la sua classe dirigente si misurano in questi ultimi trent´anni, da quando Deng Xiaoping ha sposato l´economia di mercato e ha riaperto una stagione ricca e fruttuosa di relazioni con il resto del mondo. Il capitalismo e la globalizzazione hanno ridisegnato stili di vita, consumi, mode, l´etica collettiva, oltre a creare una nuova gerarchia tra le classi, nuove tensioni sociali. Più la Cina è in mezzo a noi, ci penetra e ci condiziona, più essa stessa accetta di cambiarsi e di lasciarsi contaminare. Riscopre il suo passato, torna a nutrire orgoglio per la sua storia, ma non ha ancora scelto fra Confucio e Darwin, fra Adam Smith e il tao. La costruzione di una nuova memoria storica, funzionale a definire l´identità nazionale, viene seguita con molta attenzione dal regime autoritario che investe risorse nella propaganda patriottica, nella riscoperta del confucianesimo, nel rilancio di un buddismo addomesticato. Ma è una questione destinata a riesplodere continuamente in nuove forme. Il giorno in cui la Cina diventerà democratica, potremmo scoprire dentro la sua società civile delle correnti nazionaliste spontanee, forse perfino più radicali di quanto sospettiamo.

Repubblica 2.1.07
L'attendibilità del libro di Corrado Augias e Mauro Pesce
Gesù di Nazareth, la divinità e gli storici
Le critiche uscite sono largamente ingiustificate
I miracoli, la condanna a morte, i vangeli
di Enrico Norelli


L´Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce è una risposta seria alla necessità di proporre i risultati delle complesse ricerche degli specialisti a un pubblico più largo, il quale dispone per lo più di trattazioni orientate da un´opzione di fede o di libri che promettono, più o meno esplicitamente, di rivelare «tutto quel che la chiesa ha sempre voluto nascondere» mentre s´ispirano al più avvilente dogmatismo.
Ho trovato questo libro corretto, misurato, intelligente: un aiuto reale per chi, non essendo uno studioso delle origini cristiane, s´interroghi sulla figura storica di Gesù. Certo, contiene affermazioni che si possono discutere. Ma credo che le dure critiche che mi è avvenuto di leggere non solo siano largamente ingiustificate nel merito, ma soprattutto contengano errori di metodo, che danneggiano, essi sì, il lettore non specialista.
Che cosa si può conoscere storicamente di Gesù? La conoscenza storica, qual è praticata oggi, ha le sue regole. Una di esse è che non è lecito allo storico pronunziarsi sulla realtà di Dio e sulla sua azione nella storia. Chi fa storia metterà in luce le maniere in cui donne e uomini hanno sviluppato credenze religiose, caratterizzerà tali credenze, i loro presupposti, le loro trasformazioni e le conseguenze che hanno prodotto; spiegherà in che modo determinati gruppi hanno creduto che la divinità agisse nel mondo, e in quali maniere hanno creduto di mettersi in rapporto con essa. Ma non assumerà Dio come attore dei processi storici, perché l´esistenza di un Dio non lo riguarda, diversamente da quella di Alessandro il Grande o di Lenin. Da poeta cristiano, Alessandro Manzoni ha potuto chiedersi se e come Dio avesse agito in Napoleone; ma uno storico che volesse spiegare l´attività di Napoleone affermando che Dio si è servito di lui susciterebbe, a ragione, l´ilarità generale.
Il caso di Gesù di Nazareth non è diverso. Lo storico non si pronunzia sulla sua divinità, per la semplice ragione che si tratta di una questione estranea al suo campo e ai suoi mezzi d´indagine. E´ dunque letteralmente priva di senso l´obiezione di P. Giuseppe De Rosa su Civiltà cattolica, di aver negato la divinità di Gesù. Se Pesce e Augias avessero negato la divinità di Gesù, avrebbe avuto ragione di protestare, ma non per la negazione, bensì perché se ne sarebbero occupati; allo stesso modo avrebbe dovuto biasimarli se l´avessero affermata. Per la medesima ragione non condivido le considerazioni del P. Raniero Cantalamessa nell´Avvenire del 18 novembre, là dove afferma che fede e incredulità condizionano la ricerca storica allo stesso modo, anzi la seconda «enormemente di più». Se per «incredulità» intende la ricerca di spiegazioni accettabili dai paradigmi delle «scienze umane», questo atteggiamento è compatibile con il metodo storico. Del resto, la foga polemica conduce talora Cantalamessa a presentare in maniera distorta il pensiero di Pesce. Nel contesto ora citato, afferma che, se ci si accosta a Cristo da non credente, «i miracoli [non potranno che essere] frutto di suggestione». Pesce afferma il contrario, basta leggere a p. 134: «io stesso mi sono convinto che è necessario ammettere l´esistenza di persone in grado di compiere guarigioni considerate "miracolose", per le quali non esiste una spiegazione scientificamente verificabile. (...) La sua effettiva capacità taumaturgica (...) La sua capacità di fare miracoli (...)». Anzi, Pesce cita anche episodi come le resurrezioni, il controllo delle forze della natura, la moltiplicazione del cibo, commentando: «sono convinto che questi episodi non siano stati inventati, ma che i suoi seguaci furono realmente convinti di avere assistito a quei fatti straordinari». La foga mi sembra anche trascinare il Raniero Cantalamessa a errori evidenti, come quando se la prende con «la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche alla morte di Cristo», evidentemente dimenticando quanto Pesce afferma alle pagg. 160-161 sull´appoggio di una parte delle autorità di Gerusalemme alla condanna di Gesù. Tale foga è responsabile anche della furibonda tirata di Cantalamessa contro gli apocrifi, che si stenta a ricondurre a uno studioso competente come lui nel campo della letteratura cristiana antica. Come si può affermare che i critici più arditi «arrivano, con congetture, a datarli (= gli apocrifi) all´inizio del III o a metà del II secolo», quando citazioni da parte di autori ben datati, o papiri databili paleograficamente, consentono di assegnare praticamente con certezza al II secolo una quantità di apocrifi, tra cui il Vangelo di Pietro, il cosiddetto Protovangelo di Giacomo, i vangeli degli Ebrei e degli Egiziani, il Vangelo di Tommaso (abbiamo frammenti di due copie degli inizi del III secolo), la Predicazione di Pietro, l´Apocalisse di Pietro, e altri, senza menzionare quelli che si possono attribuire con enorme probabilità al II secolo sulla base del loro contenuto, come l´Ascensione di Isaia? E come si può affermare che «i vangeli apocrifi professano tutti [sic!], chi più chi meno, una rottura violenta con l´Antico Testamento», quando tra quelli ora menzionati, questo si può dire al più, e con molta incertezza, per il solo Vangelo di Tommaso, dove comunque tale tema non è minimamente esplicito? Non si dovrebbe accusare altri di distorcere i fatti e la valutazione delle fonti mentre si fa lo stesso, contribuendo a mantenere nei lettori un´immagine distorta degli apocrifi, dei quali si è scoperta negli ultimi decenni l´importanza fondamentale.
Un punto cruciale, cui non a caso dedicano ampio spazio sia Cantalamessa che De Rosa, è l´ebraicità di Gesù. Nessuno dei due la nega, né potrebbe, ma entrambi sottolineano la continuità tra Gesù ebreo e il cristianesimo; ora però, siccome «ebreo» non è «cristiano», sono obbligati a mettere l´accento sulle novità dell´insegnamento di Gesù. Questo finisce con il condurre a vere acrobazie, soprattutto nel caso del P. De Rosa.
In conclusione faccio notare come proprio quella che è divenuta l´ortodossia cristiana ha sempre affermato l´umanità di Gesù e, se è così, il credente non può rinunziare a cercar di capire Gesù come essere umano, sul piano storico. Anche vero, per contro, che la ricerca storica non potrà mai «dimostrare» la divinità di Gesù. Sono convinto che i cristiani, non meno degli altri, abbiano gran bisogno di un libro come questo, dovrebbero esserne grati agli autori.

* è Professore di storia del cristianesimo delle origini all´Università di Ginevra

lunedì 1 gennaio 2007

il manifesto 31.12.06
Michel de Certeau interprete di Freud
Tre libri del grande erudito francese consentono di mettere a fuoco tanto le sue strategie di lettura quanto i suoi interessi, che si estendevano dalla psiconalisi ai rapporti tra la chiesa e la politica
di Marco Dotti


Fra tutte le opere di Freud, L'uomo Mosè e la religione monoteistica si presenta come una delle più insidiose, non fosse altro per l'oggetto, in gran parte sfuggente, attorno al quale si sviluppa e si articola quel discorso storico insieme alla sua strategia di scrittura. In bilico fra l'erudizione propriamente detta e un trattamento sui generis delle fonti, nei tre saggi terminati fra il 1934 e il 1938 che compongono l'ultimo controverso e spiazzante progetto della scrittura freudiana, il grande psicoanalista offre il campo a molte letture che, di volta in volta, tendono a valorizzare oppure a sminure l'uso e l'interpretazione del materiale storiografico raccolto. Particolarmente degna di considerazione appariva a Michel de Certeau - dotato di una proverbiale erudizione, psicoanalista, storico delle religioni, religioso gesuita motu proprio, osservatore dei movimenti politici e sociali - la lettura che insiste nel sottolineare lo sguardo rigorosamente obliquo a cui Freud sottopose gli «oggetti della storia» e le loro infinite interpretazioni.
A metà tra scienza e finzione
Freud si muoveva, qui, su un terreno che, in un primo momento, sembrava per sua esplicita ammissione non appartenergli, tanto che in una lettera indirizzata a Arnold Zweig parlò di questo suo lavoro come di «una fantasia». Fantasia destinata a fornire, però, una inedita spiegazione all'«origine della leggenda» di Mosè, ponendosi quindi a metà strada fra «scienza e finzione», come sempre capita ogni volta che ci si confronti radicalmente con quello che Michel de Certeau definiva «il fare della storia». Cosa accade, si chiede lo studioso francese, quando si passa dall'analisi e dalla ricognizione delle fonti a una vera e propria «produzione di discorso sulla storia»? Esiste un «linguaggio comune» a queste due fasi della ricerca e dell'indagine? E ancora, come è possibile cogliere la continua frattura fra questi due poli della «scienza storica» senza servirsi, appunto, di uno «sguardo obliquo» e di una critica oscillante sulla sua «finzione» che, nel Freud del Mosè, trovano una ineludibile pietra di paragone?
Freud si muove avendo ben chiaro che proprio in quell'altrove che è la lingua si giocano problemi, politica e destini dell'altro e della sua differenza. Questioni fondamentali che rimettono in causa tanto l'ambito e il modo attraverso cui la storiografia si costituisce come discorso scientifico, quanto «il territorio» che non è se non «il prodotto testuale» di tale storiografia. Una filosofia implicita, dominata dalla «logica del nome e del luogo», che de Certeau definì - sintonizzandosi con una eco di certo proveniente da Deleuze - «stanziale», sembra essere messa così in discussione da quel vero e proprio «romanzo» che è il Mosè. Un testo che, calato nell'ambito tecnico del «fare storia», se ne sottrae introducendo di continuo elementi «fuori posto»: de Certeau lo interpreta, in questa prospettiva, come un vero e proprio «lavoro della differenza»: un lavoro «che cambia il discorso didattico e scientifico della storia, in una scrittura fuori quadro (in se stessa e rispetto alla disciplina), cioè in un romanzo» e in una «fantasia».
«Finzione», scriveva lo storico francese - che nel 1950 entrò a far parte della Compagnia di Gesù e nel 1964 partecipò all'avventura della fondazione dell'Ecole freudienne di Parigi - «è una parola pericolosa». Affonda lontano le proprie radici e rimanda alla guerra intestina «fra la storia e le sue storie», fra luoghi del tempo e spazi del racconto.
A maggior ragione, quando passa tra le mani di Freud la parola non perde nulla del suo statuto incerto e inevitabilmente lo accresce in un gioco di rimandi e di implicazioni che fa assumere al termine «fantasia» talvolta proprio il significato di «finzione (fingere, plasmare, fabbricare)», altre volte di travestimento, rivestimento o inganno.
Non a caso Freud avrebbe parlato del Mosé come di un «mio romanzo», forse per chiarire meglio che si trattava proprio di un gioco «fra oggetto spiegato e discorso analizzante», condotto nell'ambito al tempo stesso incerto e dimesso in cui sembrano destinati a incontrarsi ciò che la storia crea e ciò che ogni ogni racconto, per sua necessità interiore, dissimula. Ma Freud tutto fa «fuorché creare un altro luogo» per questo incontro. Non sembra intenzionato a porre il romanzo in un campo diverso rispetto a quello della storia, cadendo così nel tranello di quella «legge di spazializzazione che scaccia via l'alterità, in un posto fittizio». Se per Sade l'«arte di scrivere romanzi» si acquisisce solo attraverso viaggi e disgrazie, il testo di Freud - nota ancora de Certeau - reca entrambe le ferite. Nasce da un'invisibile traccia di sangue che lo trasforma in una scrittura fuori posto, «allo stesso modo in cui si dice 'persone fuori posto'». La finzione altro non sarebbe, dunque, che la traccia della lingua dell'altro, del suo déplacement, e della sua perturbante presenza. È proprio su tali questioni, confrontandosi col terrain vague sul quale questi e altri problemi si agitano, che nel 1975 - accantonate le vicende della mistica a cui aveva recato un fondamentale contributo critico - de Certeau elaborò l'ultima parte del suo lavoro dedicato alla Scrittura della storia, un saggio ora riproposto da Jaca Book in una nuova edizione italiana curata da Silvano Facioni (pp.377, euro 34), che si avvale ancora della traduzione di Anna Jeronimidis, apparsa nel '77 per le edizioni del Lavoro scientifico, ampiamente elogiata dall'autore stesso in una premessa scritta per l'occasione. Il saggio che de Certau dedicò al Freud del Mosé costituisce - come sottolinea Luce Giard nello scritto che accompagna un altro libro dello studioso francese da poco in libreria, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione (Bollati-Boringhieri, pp. 238, euro 32) - uno di quei punti in cui si coglie nella maniera forse più compiuta il suo sforzo volto a una «definizione teorica» della disciplina storica, e - al tempo stesso - l'assoluto rigore del suo metodo. Oltre questo ambito, il percorso umano di de Certeau era e rimane, fuor di dubbio, quello che con le sue stesse parole potrebbe definirsi «un viaggio trasversale». A spingere Michel de Certeau a superare confini e ambiti disciplinari non erano però inquietudini esistenziali e dimensioni puramente esperienziali del suo fare, ma gli oggetti stessi e l'«urgenza del lavoro in corso».
Per questo - nota ancora Giard - quando stava per attraversare la soglia di una nuova disciplina, cercava di farlo con discrezione, riservandosi lo «scrupolo di ribadire l'identità di origine e i limiti della propria competenza». Un pensiero per nulla debole, quello di de Certeau, ma che proprio nella fragilità trovava chissà come l'ennesima chance di aprire uno spazio per ribadire la questione della différence.
Tra la politica e la chiesa
A questo rimandano anche gli scritti, solo all'apparenza più meditativi e personali, centrati sul tema del cristianesimo e raccolti in una preziosa antologia edita da Città Aperta e titolata La debolezza di credere (traduzione di Stella Morra, pp. 305, euro 22). «Sentendo svanire il suolo cristiano su cui credevo di avanzare», si legge, «vedendo avvicinarsi i messaggeri della fine, riconoscendo così il mio rapporto alla storia nella forma di una morte senza futuro proprio e di una credenza senza luogo sicuro, scopro una violenza dell'istante. Una necessità poetica nasce dalla perdita che apre alla debolezza. Come se, avendo spiato i segni di ciò che ci manca, nascesse a poco a poco la grazia di essere attenti attraverso ciò che ci si mostra come la realtà più fragile e fondamentale».
La preghiera, il rapporto fra la politica della Chiesa e i golpe latino americani riaffiorano come temi della raccolta. Eppure, anche nelle questioni che potrebbero risultare più marginali, de Certeau non rinuncia a condurre fino in fondo «quel viaggio senza ritorno» che coincide a pieno titolo con un'esperienza del pensiero non riconciliata, eccentrica, ma, sopra ogni cosa, mai priva di rigorosa e inesausta passione militante.

il manifesto 31.12.06
Una grande rivista per la psiche
«Psicoterapia e Scienze Umane» venne fondata nel 1967 nel quadro di un più ampio progetto culturale concepito da Pier Francesco Galli. Oggi un numero speciale ripercorre i momenti più significativi dei suoi quarant'anni di militanza sul fronte della sofferenza mentale
di Alberto Burgio


La rivista «Psicoterapia e Scienze Umane» compie quaranta anni, spazio lungo nella vita degli esseri umani e non breve, ormai, nelle cose che realizzano. Il traguardo è stato festeggiato con un numero speciale che costituisce di per sé un contributo non irrilevante alla storia della cultura psicoterapeutica e psichiatrica in Italia, e forse anche alla storia della cultura tout court. «Psicoterapia e Scienze Umane» vide la luce nel 1967 nel quadro di un più ampio progetto culturale (e politico) concepito da Pier Francesco Galli e da quello che all'epoca si chiamava Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia, informalmente costituitosi a Milano nel 1960.
La rivista veniva a completare, secondo una divisione di ruoli di notevole organicità, una triade che già contava sulle collane editoriali progettate dallo stesso Galli e da lui dirette presso Feltrinelli (la «Biblioteca di psichiatria e di psicologia clinica», curata insieme a Gaetano Benedetti, attivo a Basilea) e presso Boringhieri (il «Programma di Psicologia Psichiatria Psicoterapia») che si può dire abbiano fatto la storia della psicoterapia in Italia. Si trattava di una osmosi. Le collane - è lo stesso Galli a dirlo oggi, nel suo prezioso saggio In viaggio con i libri: 1959-2006 - erano state concepite come «una grande rivista aperta»; mentre la rivista si sviluppava a sua volta come una collana capace di stemperare ogni idiosincrasia, e dunque rispettosa del pensiero in ogni sua linea di sviluppo.
Il taglio interdisciplinare (poco proclamato ma sempre praticato), il dialogo tra le scienze, il dibattito sulle battaglie anti-istituzionali, tutto ciò ne faceva una feconda fonte di suggestioni non solo per gli esperti, ma anche per quanti - giovani iscritti ai corsi di laurea in filosofia, psicologia e sociologia - si muovessero nel solco della riflessione critica e cercassero di contribuire alla battaglia, in senso forte politica, contro gli stereotipi e il tecnicismo dei saperi, nonché contro i chiusi culti di qualsiasi Chiesa, inclusa quella psicoanalitica.
L'intento complessivo del progetto era squisitamente «pedagogico»: si trattava di recuperare il ritardo in cui versava la cultura legata alla sofferenza mentale in Italia traducendo opere e scritti già classici o comunque imprescindibili e sollecitando una produzione originale, all'altezza di quella internazionale. Quest'ultimo compito, evidentemente il più arduo e ambizioso, fu assolto con risultati che suscitano, restrospettivamente, ammirazione. Nel '63, nella collana di Feltrinelli, uscì - per fare solo un esempio - il saggio di Mara Selvini Palazzoli sull'Anoressia mentale, un testo all'epoca davvero innovativo. Quelle collane venivano rapidamente colmando un enorme vuoto culturale nella psichiatria italiana e non soltanto in essa. Del resto, la «miseria» di una psichiatria ancora per tutti gli anni '50 contrassegnata da un biologismo dogmatico dichiarava se stessa attraverso le pratiche del custodialismo e dell'elettroshock, e non poteva contare su un insegnamento specifico. Soppresso durante il fascismo,infatti, l'esame di Clinica psichiatrica sarebbe stato reintrodotto nel corso di studi della facoltà medica soltanto nel 1976.
Precisamente questo è il tema centrale - rilevante anche dal punto di vista della storia più recente - di questo fascicolo davvero speciale: il fatto che in Italia, almeno fino agli anni '80, la formazione psichiatrica, necessaria anche alla medicina di base per far fronte ai problemi delle malattie mentali, abbia avuto luogo, piuttosto che grazie all'Università, attraverso canali editoriali (collane e riviste) e per iniziativa di singoli o di gruppi impegnati sul territorio.
In questo contesto, «Psicoterapia e Scienze Umane» ha sempre offerto un esempio inconsueto di concreta interdisciplinarità e di dialogo tra indirizzi diversi (freudiano, daseinsanalista, interpersonalista, junghiano, kleininano, tra gli altri). Soprattutto è stata costantemente impegnata a mantenere vivo l'esercizio della critica come metodo di ricerca, nonché a promuovere una visione laica della psicoterapia e della psicoanalisi. Ne fanno fede anche i saggi raccolti in questo numero, concepito come una sorta di indice ideale e di sintesi del cammino percorso: dalle pagine di Benedetti (un po' il manifesto teorico della rivista, scritto nel 1962), ai saggi di Parin, Morgenthaler, Cremerius, Friedman e Shevrin, allo scritto di Paolo Boringhieri, scomparso l'estate scorsa, che nel 1989 illustrava il progetto editoriale dell'edizione italiana delle opere di Freud. E ancora una intervista a Michele Ranchetti (tra i più assidui collaboratori), i contributi di Enzo Codignola, Manlio Iofrida e Alberto Merini e - tra i più recenti - quelli di Gallese, Migone e Eagle sulla neuropsicanalisi e di Babini e Giacanelli su temi di storia della psichiatria. Particolarmente avvincente è, infine, il racconto di Marianna Bolko e Berthold Rothschild, corredato da belle immagini fotografiche. Gli autori furono protagonisti di un episodio solitamente trascurato dalle storiografie accademiche, il «contro-congresso» romano della International Psychoanalitic Association. Vennero messe allora in discussione - anzi «contestate» - la logica conservatrice del training e la struttura tradizionale, gerarchica e poco tollerante, delle stesse società psicoanalitiche. Correva l'anno 1969, come sappiamo caldo anche su altri fronti.

sabato 30 dicembre 2006

Repubblica Saute 21.12.06
Recenti ricerche confermano l’origine genetica della sindrome di Asperger, una forma di autismo
Piccoli geni monotemaici
di Tina Simoniello


In “Rain Man” ne soffriva Dustin Hoffman, il fratello goffo e geniale di Tom Cruise. In “Codice Mercury” è Simon, il bambino dalla straordinaria abilità per le serie di lettere e numeri che identifica un codice militare segreto. Ne “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte”, il romanzo di Mark Haddon ne era vittima Christopher, un ragazzino un pò strano alla ricerca della sua mamma. La sindrome di Asperger la conosciamo più come soggetto cinematografico o narrativo che non per quello che in effetti è: un disturbo neuropsichiatrico classificato nello spettro dei disturbi autistici. Il 24 e il 25 novembre si è svolto a Roma il primo congresso nazionale sulla patologia.
Cosa è
«La sindrome di Asperger, dal nome del pediatra che per primo la descrisse nel 1944, è una forma lieve di autismo. Ha una natura prevalentemente genetica: sono una decina i geni interessati, tutti coinvolti nello sviluppo del sistema limbico cioè del cervello emotivo e sociale», spiega Paolo Curatolo, associato di Neuropsichiatria infantile, presso Roma-Tor Vergata e presidente della International child neurology association, «ne soffre una persona su 250, i maschi sono 4-5 volte più numerosi delle femmine». Ma quali sono i segni? Cosa fanno insomma i bambini, poi adulti, che ne sono affetti? «Gli Asperger hanno intelligenza e capacità linguistiche nella norma, però presentano evidenti difficoltà di relazione: sono poco interessati agli altri, indifferenti, scarsamente empatici. In loro la comprensione e l’espressione delle emozioni segue uno sviluppo anomalo. E poi, tipicamente, hanno interessi monotematici: se sono bambini possono parlare solo di dinosauri e giocare solo con i dinosauri». E così per le mappe, o per la matematica, le formule. Da adulti sono quelli che conoscono a memoria tutti gli orari dei treni, degli aeroporti, sono dei maghi nei quiz.
«Con un linguaggio poco scientifico ma efficace potremmo definirli persone strambe, fissate», riprende Curatolo. «A scuola possono andare bene, ma in modo settoriale: solo in matematica, solo in geografia. Tuttavia è frequente una carriera formativa problematica negli Asperger, ma dovuta alla mancata integrazione e a quello che ne consegue». Gli adolescenti infatti possono avere comportamenti dirompenti, impulsivi, presentare disturbi dell’attenzione. «Inoltre», die in neuropsichiatra, «questi ragazzi rischiano di più di ammalarsi di depressione, vista la difficoltà di trovare degli amici e più tardi un lavoro».
I trattamenti
Dal disturbo di Asperger non si guarisce. Ma esistono percorsi terapeutici «che devono essere definiti sul singolo bambino e in un centro di neuropsichiatria infantile», conclude Curatolo. «L’intervento è sintomatico e riabilitativo ed include interventi psicosociali, psicoterapici, l’educazione di genitori e fratelli. Anche gli insegnanti possono essere coinvolti nel percorso come alleati della famiglia nel sostenere il piccolo paziente valorizzando per esempio i suoi aspetti di genialità. Per giovani e adulti si può pensare anche a cure farmacologiche temporanee: regolatori del tono dell’umore, neurolettici e antidepressivi, a seconda del caso. Il supporto psicologico è importante per questi pazienti perché gli aiuta a prendere coscienza della loro malattia: hanno bisogno di rendersi conto del perché non riescono a integrarsi.
Sanno tutto solo di una cosa
Si parla di Asperger quando si osserva nel bambino, anche a soli tre anni, una forte e ripetuta tendenza ad estraniarsi dal gioco e dalla conversazione. Distrazione, incapacità ad interagire verbalmente: tono monocorde, scelta degli argomenti che non tiene conto degli altri, interessi monotematici. Carente gestualità, postura rigida, goffaggine motoria, assenza di contatto oculare. Incomprensione e disinteresse per le emozioni altrui. E poi scarsa autonomia personale, attaccamento alla routine, eccessiva attenzione per il particolare, comportamenti ripetitivi, rituali. «Dobbiamo far conoscere il disturbo agli insegnanti e anche alle Asl. L’ignoranza diffusa di questa forma di autismo condanna le famiglie a dolorosi sensi di colpa riguardo possibili errori di educazione. Invece alla base dello strano comportamento del bambino c’ è un disturbo oggettivo», spiega Laura Imbimbo, presidente del Gruppo Asperger onlus (www.asperger.it). «Solo con un intervento educativo tempestivo possiamo evitare a queste persone un avvenire di emarginazione umana e lavorativa». La diagnosi di Asperger va fatta dal Neuropsichiatra in una Neuropsichiatria infantile (in tutte le università) meglio se dotate di un centro per l’autismo.
Troppo testosterone nel sistema nervoso
Il disturbo di Asperger è il risultato dell’estremo funzionamento del cervello maschile. E’ l’ipotesi di un gruppo di ricercatori inglesi pubblicata (Cohen & al. Science, 2006 e Hormones and Behavior, 2006). E’ noto che il cervello è anche un carattere sessuale secondario che fino a un certo punto dello sviluppo intrauterino e poi, sotto l’effetto del testosterone fetale, e quindi solamente nei feti maschi, vira verso la mascolizzazione. «Noi già sapevamo che la capacità di empatia è più sviluppata nel cervello femminile, mentre in quello maschile lo è la sistematizzazione. il testosterone prodotto in maggiore quantità in risposta a caratteristiche genetiche del bambino Asperger potrebbe orientare lo sviluppo cerebrale in senso troppo maschile», spiega Curatolo.

venerdì 29 dicembre 2006

il manifesto 29.12.06
Caso Welby. Intervista al medico che ha staccato la spina
«Ho agito nella piena legalità»
di Cinzia Gubbini


La sedazione praticata a Piergiorgio Welby la sera del 20 dicembre ha accelerato la sua morte? E' anche questo aspetto che i magistrati della Procura di Roma stanno accertando nell'inchiesta sulla morte di Piergiorgio Welby, che per ora non vede indagati. Per capirlo, saranno fondamentali i risultati dell'autopsia. Stabilire se l'iniezione praticata dall'anestesista di Cremona contemporaneamente al distacco del ventilatore sia stata fatale, non sarà complicato. Se, ad esempio, dalle analisi dovesse risultare che nel sangue di Welby c'è del potassio in alta concentrazione, o dei farmaci appartenenti alla famiglia dei curari - diretti a bloccare l'attività di cuore o polmoni - risulterebbe logico sostenere che nel comportamento del medico c'era volontà omicida (o meglio, eutanasica). Diversamente, sarà dimostrato che il cocktail di farmaci utilizzato da Riccio ha avuto un effetto solo sedativo. In effetti, tutti i sedativi possono produrre un «doppio effetto»: lenire il dolore, ma anche rilassare i muscoli e dunque anticipare di qualche minuto la morte. Tuttavia, questo secondo effetto viene generalmente considerato «buono» (anche dalla Chiesa) e non letale. In un corpo minato dalla malattia come quello di Welby, oltretutto, l'utilizzo di farmaci calmanti potrebbe avere - al contrario - ritardato di qualche minuto il momento del decesso. Il dottor Mario Riccio - che anche ieri si è recato a lavoro come tutti i giorni - ovviamente sa quale tipo di farmaco ha utilizzato, ma non vuole entrare in particolari: «C'è un provvedimento disciplinare nei miei confronti e un'indagine in corso. Come ho già detto, e come riportato nella cartella clinica, confermo di aver utilizzato un cocktail di farmaci sedativi».
Ma cosa ha ucciso Piergiorgio Welby?
La sua malattia. Senza l'aiuto del ventilatore polomonare non poteva sopravvivere se non per pochi minuti.
Durante il colloquio con il presidente dell'Ordine dei medici di Cremona è stato approfondito l'aspetto della sedazione?
Ho risposto per tre ore a domande molto accurate, preparate dal professor Bianchi. Abbiamo parlato di tutto, in un clima disteso. Ho consegnato portato la cartella medica in cui è riportata quantità e qualità dei farmaci utilizzati.
Cosa si aspetta? Sta pensando di rivolgersi a un avvocato?
Per ora non ho ancora deciso nulla, aspetto di capire se il consiglio mi convocherà per una nuova audizione. Ma sono sereno.
Ieri ha dichiarato che non lo rifarebbe
Non è vero. Ho soltanto detto che probailmente non mi troverò più in una situazione del genere: lavoro in ospedale, non a domicilio. Welby l'ho conosciuto perché mi interessava molto il suo caso, visto che da quindici anni mi occupo di bioetica. Ho avuto occasione di fare qualche osservazione, ad esempio il fatto che ritenevo sbagliato insistere sulla strada dell'eutanasia o di richiedere una legge ad hoc, come era stato fatto con la lettera al presidente Napolitano. Credevo, e ne sono convinto ancora oggi, che si potesse agire nel pieno della legalità, seguendo un percorso ben preciso. Quando sono stato contattato perché Welby aveva deciso di seguire quel percorso da me delineato, mi sono sentito in dovere di farlo. E obbedendo alla mia morale e alla mia coscienza, ho sospeso un trattamento terapeutico che un paziente cosciente rifiutava.
Dunque ha interrotto un accanimento terapeutico.
No, non esattamente. Sono d'accordo con il Consiglio superiore di sanità: non si può sostenere che nel caso di Welby ci fosse accanimento. Il ventilatore rispondeva, in effetti, a una sua necessità: quella di respirare. Ci trovavamo, invece, di fronte a un paziente che rifiutava le cure. E questo è un diritto pieno, di rango costituzionale.
E' così semplice?
Certo che lo è. Non voglio esagerare, ma io penso che non ci sia un «caso Welby». Ci sono migliaia di situazioni simili, e sempre il medico pianifica un percorso terapeutico. E sempre è previsto che il paziente possa, ad un certo punto, revocare il suo consenso e chiedere la sospensione del trattamento.
Vuol dire che è facile trovare un dottor Riccio per tutti coloro che sono nella condizione di Welby?
E' ovvio che il dibattito tra i medici è molto vivace. Io, quando sono intervenuto con Piergiorgio Welby, l'ho fatto all'interno di una relazione medico-paziente. Ma mi auguro che quanto avvenuto possa aiutare a chiarire i margini entro cui i medici possono operare.

il manifesto 29.12.06
Esperimenti di calore terapeutico per ripararsi dal vento della follia
Forme di cura. Lo sguardo agli antichi guaritori, per andare oltre l'etnopsichiatria
Studi di Alfredo Ancora. L'esperienza della psichiatria transculturale, in un libro edito da Franco Angeli
di Franco Voltaggio


La tradizione popolare più antica, in Italia e non solo in Italia, associa gli accessi di melanconia e l'aura di un incipiente disordine mentale all'influenza che su talune persone ha la tramontana, per cui chi «perde la testa» sarebbe vittima di un vento maligno e violento. L'universalità di questo contenuto nell'immaginario collettivo trova riscontro in una credenza della medicina sapienziale cinese che definisce «vento» ogni forma di follia e fa delle strategie terapeutiche attivate dal «medico scalzo» «trappole» per catturarlo. Accogliendo questa fantasia come metafora della malattia mentale, uno psichiatra romano, Alfredo Ancora, definisce «costruttori di trappole del vento» tutti gli psicoterapeuti, lui compreso, alle prese spesso con pazienti «difficili», soggetti i cui problemi, non meno dolorosi che complicati, configurano una sorta di tempesta incombente sulla loro testa di rifugiati, richiedenti asilo, migranti economici, che abitano nella «città del papa».
Di qui il tema del suo ultimo libro, I costruttori di trappole del vento. Formazione, pensiero, cura in psichiatria transculturale (Franco Angeli, 2006, pp. 234, euro 23) nelle cui pagine riconosce che la condizione di uno psichiatra istituzionale non è molto dissimile, nella sostanza, da quella dei guaritori primitivi (traditional healers), assumendosi una precisa responsabilità, conoscitiva e terapeutica, che corre a molti livelli. Sotto il profilo conoscitivo, infatti, Alfredo Ancora accoglie come doveroso impegno il fatto di non considerare sufficiente rifarsi al bagaglio di conoscenze proprie della psichiatria praticata in Occidente, giacché si tratta di cimentarla con le suggestioni che vengono da altre culture. Il fatto che queste siano lontane dal nostro modo di stare al mondo e, conseguentemente, non abbiano nulla a che vedere con gli strumenti concettuali della psicoterapia scientifica, è di per sé irrilevante. Lo è per due buone ragioni: essendo il malato soprattutto una vittima della più atroce delle sofferenze, il dolore e la bruciante solitudine della mente, poco importa quale sia la teoria di riferimento cui fare ricorso per attivare la cura; se il soggetto appartiene a un mondo idealmente diverso, è impensabile poterlo incontrare senza in qualche modo colludere con credi e orientamenti che pure sono estranei alla cultura e allo stile di pensiero del terapeuta. Di qui la necessità di quella speciale forma di psicoterapia che è la psichiatria transculturale. Ma che cosa è propriamente la psichiatria transculturale? Per i profani, e forse persino per qualche esperto, è l'equivalente dell'etnopsichiatria, una disciplina, dallo statuto concettuale quanto mai incerto, che si fonda su due assunti di base: a) vi sono forme di disordine mentale che sono peculiari di talune specifiche etnie; b) la conoscenza del retroterra culturale di un'etnia è condizione necessaria e sufficiente per mettere a punto la strategia terapeutica adeguata. Sotto certi aspetti, i due assunti parrebbero trovare giustificazione nelle osservazioni delle ricerche sul campo. A una attenta riflessione, tuttavia, essi mostrano di essere tanto fragili da non meritare di essere considerati veri assunti di base.
La prima asserzione, infatti, non tiene conto della circostanza per cui il paziente diverso non fa il suo ingresso in ambulatorio in quanto sofferente di una patologia originaria che il contatto con una realtà inedita ha semplicemente fatto esplodere, ma è piuttosto malato di una sindrome che, al di là della sua specificità, è l'esito soprattutto di una situazione generalizzata di «spaesamento». Vale a dire che l'interessato non parte già malato, ma si ammala qui e adesso. Ne consegue che la raccomandata conoscenza del suo retroterra culturale può anche essere una condizione necessaria, ma non è certo sufficiente per far decollare il processo di cura. Che fare allora? Ci si può avvicinare a una soluzione praticabile, considerando la dimensione transculturale alla stregua di un processo in cui lo psichiatra transita tra diverse culture mediante una feconda contaminazione con il mondo dell'altro. A questo punto, e qui sta la fecondità della proposta di Ancora, occorre individuare in quella terra di nessuno che è la turba mentale una soglia o confine in cui lo psichiatra incontra l'altro, tenuto conto del fatto, in sé incontrovertibile, che un confine non serve solo a dividere, ma anche a mettere in comunicazione gli esseri umani. Di fatto la cura può nascere non già dall'applicazione alla malattia di una prassi terapeutica consolidata e magari raffinata da qualche nozione di etnopsichiatria, ma dall'incontro tra paziente e psicoterapeuta. Detto così, sembra unicamente una mozione degli affetti, una mera irruzione dei buoni sentimenti in ambulatorio, la spia del nascosto - tra l'altro neppure tanto - terzomondismo dell'autore. In realtà non è così e a dimostrarlo sono i numerosi casi clinici esposti nei Costruttori di trappole del vento, di cui uno è particolarmente significativo. Ha per protagonista Ahmad, un giovane fotografo iraniano fuggito dal suo paese per evitare il carcere: è stato accusato dalla polizia di sovversione, perché sorpreso a fotografare un moto popolare. Ricevuto in Italia, in qualità di rifugiato politico, in un centro di accoglienza, manifesta ben presto i sintomi di una depressione che si aggrava progressivamente sino al punto di sfociare in un tentativo di suicidio. Dimesso, si presenta nell'ambulatorio di Ancora con una cartella clinica in cui è riportata la diagnosi «sindrome depressiva grave con tentativo di suicidio». Il terapeuta, prima di iniziare il trattamento, cerca di entrare in contatto con il giovane fotografo, invogliandolo a parlare di sé e del suo mondo e, per vincere il muro di diffidenza, si spinge sino ad accompagnarlo a visitare con lui una mostra di arte persiana. Segue un periodo in cui Ahmad non si fa vivo e le notizie che arrivano dal centro parlano di un ulteriore aggravamento della crisi depressiva e di un nuovo tentativo di suicidio. Ahmad ritorna un ambulatorio e parla con il terapeuta della moglie e della figlia, una bambina, che ha dovuto lasciare in Iran. A questo punto Ancora ha un'idea, mettere in comunicazione il paziente con il suo nucleo familiare, convincendo la direzione della struttura a farlo telefonare direttamente in Iran. Mentre la conversazione è in corso, Ancora, fa discretamente per allontanarsi, ma il paziente lo richiama, dicendogli «resta, anche tu fai parte della famiglia». Il trattamento può davvero decollare.
Che cosa è avvenuto? La solitudine di Ahmad è stata contrastata facendo dell'ambulatorio una sorta di cabina telefonica che, resa una «quasi casa», simula le pareti domestiche della casa iraniana adatta all'incontro del giovane con le persone che ama, sul filo di un contatto che, se non è fisico, non è, per questo, meno intenso. Resta l'angoscia di Ahamad, la sua malinconia, che però, divenute oggetto di colloquio con un amico, non sono più irretite nella solitudine della depressione. Resta lo psichiatra istituzionale romano Alfredo Ancora, che ha trasformato il suo bagaglio professionale, mettendolo alla prova con il dolore del paziente, senza spocchia e senza faciloneria.

Repubblica 29.12.06
La polemica. L'Italia divisa tra laici e laicisti
di Miriam Mafai


CHI sono i laici, e chi sono i cosiddetti «laicisti» nel nostro paese? La domanda mi viene spontanea dopo aver letto l´intervista con la quale la senatrice Anna Serafini, dei Ds, mette in guardia il centrosinistra dal pericolo di scivolare nel «laicismo», con il rischio di provocare una «lacerazione della nostra società». Laici sì, laicisti no. Ma come distinguere gli uni dagli altri?
Qualche giorno fa, ho molto apprezzato la presenza del senatore Ignazio Marino ai funerali di Piergiorgio Welby e l´impegno che in quella sede ha pubblicamente confermato di voler portare avanti, fino al positivo esito, il dibattito già in corso nella commissione Sanità, sul tema del «testamento biologico». Il problema, ricorda lo stesso Marino, non è di oggi.
Le prime pronunce relative al diritto di morire con dignità riconoscendo legittima la volontà del soggetto sono state emesse negli Usa più di trent´anni fa, e anche nel nostro paese è ormai cresciuta la richiesta dei cittadini di poter esprimere in piena lucidità le proprie scelte da realizzare nel momento del trapasso. Era questo che Welby chiedeva in piena lucidità. Ma questa legge in Italia non c´è e per ottenerla bisognerà superare molte difficoltà e riserve delle gerarchie cattoliche. E dunque, il senatore Marino che su questo fronte è impegnato, va iscritto tra i laici o tra i laicisti?
Lo stesso senatore Marino ha condiviso e sostenuto la decisione presa dal ministro Fabio Mussi in sede europea a favore della ricerca sulle linee cellulari di staminali embrionali esistenti, e a favore della ricerca sugli embrioni attualmente congelati e abbandonati, una volta accertato il momento in cui gli stessi embrioni perdono la capacità riproduttiva. Anche in questo caso è legittima la domanda: il ministro Mussi è laico o laicista?
Il senatore Marino è un cattolico. Un cattolico laico, come ne abbiamo conosciuti molti nella storia della nostra Repubblica (anche in momenti di grande tensione e problematicità) e come ne conosciamo ancora molti. Laici e quindi disponibili al dibattito, al confronto, anche al compromesso che, in politica, è un passaggio non solo inevitabile, ma anche augurabile per raggiungere soluzioni condivise. Non solo quando siano in discussione materie che definiamo «eticamente sensibili».
Onestamente, non ho capito le preoccupazioni espresse ieri dalla senatrice Anna Serafini quando ci metteva in guardia dal pericolo di un presunto «laicismo». E non capisco bene, in verità, nemmeno cosa si intenda per «laicismo». In Italia nessuno ha proposto o propone, come è accaduto in Francia (ma ogni paese ha la sua storia) la esclusione dalla sfera pubblica di ogni forma e manifestazione della propria fede religiosa. In Italia siamo di fronte al fenomeno contrario. Se la religione cattolica, con il Concordato del 1984, non è più la sola religione dello Stato, la complessiva debolezza della politica consente, ormai da anni, una progressiva invadenza delle gerarchie e del Pontefice in prima persona su tutti i temi di pubblico interesse e materia di dibattito e decisioni politiche. Che si tratti di aborto o di procreazione assistita, di malattia o di autodeterminazione del paziente, della ricerca scientifica o dei diritti delle coppie di fatto e degli omosessuali. Tutti temi che definiamo «eticamente sensibili» e sui quali nessuno nega, naturalmente, alla Chiesa di esprimere le sue opinioni (e le sue preoccupazioni). Ma ciò che colpisce è la violenza e la mancanza di pietà di alcune affermazioni e la pretesa che la politica si pieghi alle sue richieste. Una pretesa che viene rivolta in modo specifico e particolare all´Italia ed alle sue assemblee rappresentative, cui si nega o si pretende di negare il diritto di legiferare liberamente su una serie di materie.
A questa situazione faceva riferimento mercoledì scorso un passaggio dell´articolo di fondo di Eugenio Scalfari, quando chiedeva al presidente Prodi di inserire tra i suoi impegni urgenti «la difesa della laicità delle istituzioni senza cedimenti intollerabili alle pretese della lobby della Conferenza Episcopale». Eugenio Scalfari è certamente un laico. Non so se possa essere collocato tra i «laicisti». A meno di non voler collocare tra i «laicisti» non solo il Conte di Cavour che voleva «una libera Chiesa in libero Stato», ma anche Enzo Bianchi, priore di Bose, che recentemente metteva in guardia il clero interventista dalla tentazione di occupare il vuoto lasciato dalla politica, ammonendo: «Non spetta alle figure ecclesiali della gerarchia entrare nella tecnica, nella economia e nella politica per trovarvi specifiche soluzioni»

La Sicilia 28.12.06
Se Kant fa i conti con l'«Apocalisse»
L'illuminista e l'eternità: nuova edizione italiana del saggio «La fine di tutte le cose»
di Roberto Fai


Negli anni in cui Federico Guglielmo II imperava in Prussia, in un clima di censura teso a difendere la fede positiva luterana, l'illuminista Immanuel Kant inviava all'amico ed editore Johann E. Biester un breve ma intenso saggio intitolato «La fine di tutte le cose», che sarebbe apparso nel numero della rivista dell'amico editore nel giugno del 1794, suscitando l'immediato rescritto censorio regio di Guglielmo II, il quale, in una missiva inviata tramite il ministro del Dipartimento per il Culto prussiano minacciava l'illustre filosofo di «provvedimenti spiacevoli» nei suoi confronti nel caso in cui avesse proseguito ancora con scritti di natura teologica, che invece dovevano essere riservate alla competenza dei teologi della Chiesa luterana.
Già nel titolo, il denso scritto kantiano mostrava il suo intento di operare un serrato confronto con «L'Apocalisse» di Giovanni, quale testo fondamentale, che, chiudendo la Scrittura, rappresentava, ad un tempo, la fine del Libro dei Libri e la profetica fine del mondo: la storia umana trovava il proprio senso attraverso la trama grandiosa che il «Libro» esponeva nell'annuncio del compimento escatologico.
Se è vero, come è stato efficacemente sostenuto, che nel toccare il tema della «fine di tutte le cose», in Kant aveva anche agito l'istanza di una «meditatio mortis», in ragione del suo stato di vecchiaia, aggravato dal timore dei pesanti provvedimenti censori che da diversi anni il governo prussiano minacciava nei suoi confronti, nel saggio del 1794, due sembrano essere le domande a cui Kant intendeva rispondere: affermare il "primato" geneaologico della ragione umana, rivendicare la priorità dell'azione morale dell'uomo, e - sul tema della "eternità", che il testo dell'Apocalisse evoca, in quel versetto cruciale dove recita che, alla fine dei tempi, «non vi sarà più il tempo» - riaffermare il "limite" del pensiero.
Di questo straordinario testo kantiano giunge in questi giorni una nuova edizione italiana, «La fine di tutte le cose», (Bollati Boringhieri, Euro 7,00), per la cura di Andrea Tagliapietra, che aggiunge un intenso saggio esplicativo.
Già alcuni decenni prima, il giovane Kant era stato attratto da interessi scientifici, affrontando il problema della "fine" da un punto di vista "fisico", tracciando un parallelo tra il declinare della Terra, il suo possibile tramonto e quello della vita umana. Tutti gli enti naturali - dalla terra all'uomo - connessi in un comune destino entropico sono destinati, per Kant, ad una "fine", dovuta al loro inevitabile dispendio energetico. Nel saggio del '94, il tema della "fine di tutte le cose" - in un serrato confronto con L'Apocalisse - assume invece una connotazione metafisica.
«Ma perché gli uomini si aspettano in generale una fine del mondo? E… perché proprio una fine accompagnata dal terrore?». Di fronte a tale angosciante domanda, c'è un modo attraverso cui la ragione può neutralizzare proprio "quell'Anticristo", la cui attesa/venuta annuncia drammaticamente il Giorno del Giudizio, e che il filosofo di Königsberg aveva risolto liberando il tempo dall'angoscia dell'attesa escatologica, dal momento che «l'apocalisse è ora» (Tagliapietra), è «già» ora: già, «a sempre».
Così come, per Kant, l'idea stessa di un passaggio dal tempo all'eternità, implicando «una fine di tutto il tempo» è, di per sé, un'idea contraddittoria, perché il «passaggio» esige sempre un «tempo», e se c'è tempo, non solo l'eternità è impossibile, ma rimane un concetto inaccessibile al pensiero. Finché pensa - come scrive magistralmente Tagliapietra - il pensiero non può che pensare temporalmente. La fine di tutte le cose diviene pensabile - scrive Tagliapietra - come immagine presente dell'azione morale, non «futura», come la speranza, ma «vicina» come l'amore. Corrispondendo così proprio a quanto annunciato nell'Apocalisse di Giovanni: «...perché il tempo è vicino».