Saddam-Duce, folle paragone
di Bruno Gravagnuolo
Un falso parallello. Sì, è davvero insensato il paragone tra la sorte di Saddam e quella di Mussolini. Lasciamolo alla canea di Alessandra Mussolini, Calderoli, Antonio Martino, oltre che alla propaganda di un governo iracheno che ha agito in spregio d’ogni garantismo, all’ombra dell’occupante Usa. Norimberga? Era oro al confronto! Lì i giudici non erano nascosti, come i tre di Baghdad. I difensori non venivano accoppati. E la giuria benché di vincitori era internazionale. E quanto a Mussolini, gli Usa volevano salvarlo. Mentre Saddam è stato giustiziato esattamente come prevista sanzione della guerra ideologica di Bush jr. Un crimine giuridico dunque, e una follia politica, che rilancia l’odio civile in Iraq. Altro che «compromesso di pacificazione», come farnetica Carlo Pelanda sul Giornale. E sempre a proposito del Duce, com’è che nessuno sulla stampa ha commentato le rivelazioni di cui su l’Unità ha riferito nei giorni scorsi Vincenzo Vasile? Eppure trattasi di documenti chiave dell’Oss. Vale a dire: gli americani volevano vivo Mussolini. Cercarono di sottrarlo al Clnai che dal canto suo - riferisce la fonte segreta Oss - aveva deciso unitariamente al suo vertice l’esecuzione del prigioniero (e lo dice Cadorna). Cadono così le sciocchezze su una sentenza voluta dai soli comunisti. E si conferma che gli Usa avrebbero voluto giudicare loro il dittatore, e magari graziarlo, «espropriando» la Resistenza. Del resto non fu l’Oss a riciclare Borghese e altri saloini nel contesto dell’incipiente guerra fredda? Morale: contesti diversi e geopolitiche opposte nei due casi. E ricamare su presunte affinità serve solo a mascherare l’infame conclusione di un infame decisione a monte e basata su menzogne accalarate: la guerra in Iraq.
Delirium tremens. «L’uguaglianza uccide. Ed è questo che vogliono i nostri governanti: uccidere gli italiani. Il perché è chiaro: l’idea dell’Unione Europea è un’idea comunista e pertanto un’idea egualitaria». Calderoli? Rauti? Tilgher? No, Ida Magli, sul solito Giornale. Tremate, tremate, le streghe son tornate. E ogni tanto le sciolgono pure.
l’Unità 3.1.07
Massimo Salvadori. Lo storico torna sul paragone fatto dal premier iracheno: entrambi da vivi sarebbero stati pericolosi punti di riferimento per gli sconfitti
«Analogie tra Mussolini e il raìs ma contesti diversi»
di Umberto De Giovannangeli
«Vi sono eventi come i processi ai dittatori sconfitti in cui Kratos, il principio della forza, ha comunque la meglio su Ethos, il principio di moralità giuridica. È stato il caso di Mussolini, e per certi versi lo è anche per l’esecuzione di Saddam Hussein. L’analogia è che la resistenza italiana voleva impedire che Mussolini vivo potesse sopravvivere come punto di riferimento di un mondo neofascista che avrebbe avuto nel duce un referente pericoloso per l’Italia che provava a ricostruirsi sulle macerie della Guerra. Nel caso di Saddam, c’è un potere espressione della maggioranza curdo-sciita e sostenuto sul campo dagli angloamaericani, che ha ritenuto un Saddam in vita una sorta di “bomba” ad alto potenziale». A parlare è lo storico Massimo Salvadori.
Professor Salvadori, il portavoce del primo ministro iracheno ha ricordato al premier italiano che il «processo a Mussolini durò un minuto». È possibile a suo avviso individuare una qualche analogia tra questi due eventi?
«In effetti un’analogia può essere riscontrato e spero che su questo giudizio sia possibile riflettere in maniera non moralistica».
Qual è questa analogia?
«Noi sappiamo bene che gli americani e gli inglesi avrebbero voluto sottoporre Mussolini a un processo e sottrarre quindi il duce a una esecuzione da parte delle forze della resistenza, e questo perchè c’era la volontà esplicita della resistenza di lanciare con l’uccisione di Mussolini un messaggio esemplare, e cioè che le colpe di un dittatore che aveva trascinato il Paese alla rovina, devono essere regolate con una condanna irreversibile comminata ed eseguita da chi aveva subito le violenze del nazifascismo e che si candidava alla ricostruzione dell’Italia. In sostanza si voleva che i conti con Mussolini si regolassero in Italia da parte delle forze della resistenza. A prevalere fu anche la preoccupazione per le implicazioni che avrebbe avuto un processo pubblico a Mussolini, che avrebbe comportato con ogni probabilità un dibattito che avrebbe avuto delle fortissime ripercussioni politiche aprendo anche scenari di violenza. L’esecuzione del duce rispondeva anche a una logica di stabilizzazione del regime democratico nato dalla resistenza antifascista. Su questo piano, che è storico e politico, quell’esecuzione va giudicata e non su quello morale o giurisprudenziale».
E nel caso di Saddam?
«Nel caos del dittatore iracheno, si può parlare di un errore ma non di un crimine; il primo fa riferimento al piano della politica, il secondo implica una valutazione morale. Nel caso di Saddam, dobbiamo parlare di una decisione presa da un potere iracheno che è espressione della maggioranza sciita e curda. L’esecuzione dell’ex dittatore è un atto di una guerra civile ad opera della maggioranza curdo-sciita diretto contro i sunniti che sono legati all’eredità politica di Saddam. Certo, i contesti storici sono diversi, così come diversa è la percezione che si ha oggi della pena di morte rispetto a sessant’anni fa, ma se un’anologia tra i due eventi è possibile cogliere è che sia la resistenza italiana che il potere irachena ritenevano Mussolini e Saddam in vita due “bombe” dall’alto potenziale destabilizzante. Ciò detto va sottolineato che atti di questo genere vanno collocati nel contesto di guerra e della logica politica che ne è espressione, il che nulla toglie alla valutazione di merito del processo subito da Saddam».
Che processo è stato a suo avviso?
«È stato un processo-mostro, che ha obbedito ad una parvenza di diritto che è stata conculcata nei fatti e nelle procedure. In realtà in questi casi c’è un conflitto aperto tra “Ethos” (il principio di moralità giuridica) e “Kratos”, il principio della forza. Ma sia se si procede a una esecuzione sommaria sia che si passi per un “giusto processo”, è sempre “Kratos” che finisce per imporsi, perché a dominare è la logica della politica su quella umanitaria».
Romano Prodi ha ribadito la contrarietà dell’Italia all’esecuzione di Saddam impegnandosi ad una iniziativa in sede Onu per una moratoria della pena capitale.
«Prodi ha rappresentato al meglio quella coscienza civile dell’Europa che rifugge dal ricorso alla pena di morte come strumento per fare giustizia. Quella assunta dal premier italiano è una posizione che ha un suo significato nobile, che s’incardina nel principio dell”Ethos” ma che trova sulla sua strada un ostacolo difficile da rimuovere, costituito dal fatto che, ad esempio in Iraq, la logica della politica, che il più delle volte è la consacrazione dei rapporti di forza, ha visto nell’eliminazione di Saddam non solo un risarcimento per i crimini del passato perpetrati dal dittatore, ma anche un investimento sul(proprio) futuro».
Professo Salvadori, in conclusione del nostro colloquio vorrei tornare sul parallelismo Saddam-Mussolini. Giuliano Vassalli ritiene che paragonare l’uccisione di Mussolini all’esecuzione di Saddam sia un’operazione «frettolosa e volgare. «Non a caso - afferma tra l’altro l’ex presidente della Corte Costituzionale, «che tra il 1945 e il 2006 la situazione nel campo della pena di morte e della sua legittimità è profondamente cambiata».
«Il cambiamento dei tempi certamente è importante e indubbiamente bisogna tener conto che oggi è maturato un senso dei diritti umani e della loro tutela che rappresenta una conquista importante da tutelare e rafforzare. Detto questo, resto della convinzione che quando scattano certe logiche legate a questioni di potere, a questioni legate alla sopravvivenza di brutali e impietose logiche di realismo politico, purtroppo dobbiamo constatare che queste logiche finiscono in molti casi per prevalere su ogni altra considerazione di ordine giuridico e morale».
l’Unità Lettere 3.1.07
La fine di Saddam e quella di Mussolini: un paragone sbagliato
Cara Unità,
la piccata risposta del premier iracheno Maliki al commento di Prodi, sulla rapida esecuzione di Saddam Hussein è totalmente sbagliata quando si riferisce a quella di Mussolini.
Vorrei sottolineare la differenza tra le due cose: 1) Non è stato il governo Prodi, né la maggioranza che lo sostiene a “eseguire” Benito Mussolini. Tra l’altro tra i diversi episodi sono passati più di 50 anni e la maggioranza di centro sinistra al governo oggi in Italia è diversa dal CLNAI che decise all’unanimità (dai liberali ai comunisti) la liquidazione del dittatore italiano.
2) Il CLNAI con l’appoggio dei partiti nazionali italiani che inquadravano la Resistenza avviò una lotta contro il tempo con gli alleati angloamericani per la giustizia su Mussolini, temendo che una volta in mano degli alleati il dittatore divenisse una delle tante merci di scambio, nella logica della competizione Ovest-Est. E venisse sottratto alla logica totalmente diversa «Il popolo ritrovata la via della libertà giustizia il suo tiranno», mostrando una totale autonomia statuale da quella delle forze angloamericane. In Iraq la situazione è opposta: c’è la pesante ombra che il governo Maliki abbia agito, nella costruzione del processo, nelle irregolarità procedurali, finanche nei tempi dell’esecuzione, per compiacere e favorire le forze d’occupazione, da cui la sua sopravvivenza politica dipende.
3) Mussolini è stato giustiziato dai rappresentanti di un popolo esacerbato e tradito da cinque anni di una guerra rovinosa, che il dittatore italiano aveva scatenato contro gli anglo-americani, vantando pure di «spezzare le reni» a una delle due potenze. La guerra era mondiale. Lo scenario di tregenda scespiriana. Nel caso iracheno si è trattato di una guerra anglo-americana “improvocata” dall’Iraq per usare una espressione del «Today Usa», con motivazioni rivelatasi false, e per ragioni del tutto diverse da quelle dichiarate.
Massimo Ciocchetti, Roma
La Stampa 3.1.07
Saddam, Mussolini e la storia
di Luca Ricolfi
«Contestualizzazione» è una parola che non amo. Suona male, come molte parole nuove che finiscono in «one». Anche il verbo contestualizzare non mi piace per niente, così come i suoi sinonimi storicizzare, relativizzare, inquadrare, troppo spesso usati per giustificare ogni sorta di nefandezze storiche e individuali: il ragazzo che uccide i genitori, lo spacciatore che spadroneggia nel quartiere, le tribù africane (ora gentilmente denominate etnie) che si massacrano, i fanatici di ogni angolo della terra che ammazzano innocenti in nome di una causa politica o religiosa. Però, però...
Però contestualizzare è anche un’attività naturale della mente, sempre esistita da quando esiste la civiltà umana, dunque ben prima che qualcuno inventasse quell’orribile verbo.
Il bambino che assiste a uno spettacolo di marionette si immedesima in quel che vede, ma sa - per parafrasare Bennato - che «sono solo marionette»: non scappa spaventato se una marionetta ne accoltella un’altra. Il buon cristiano di oggi, quando apprende che Nerone i cristiani li faceva sbranare dai leoni, prova al massimo un senso di stupore: non pretende un risarcimento postumo dagli attuali discendenti degli antichi romani.
Leggendo le cronache di questi giorni sulla pena di morte inflitta a Saddam - insieme allo sgomento di (quasi) tutti di fronte a un’istituzione che noi europei non siamo più disposti ad accettare - ho provato anche una sensazione strana, la sensazione di un generale venir meno di quella nostra antica e fondamentale facoltà della mente: non già la (deprecabile) capacità di tutto giustificare, bensì la spontanea, naturale, non costruita capacità di vedere la distanza dove c’è. Perché è questo che non sappiamo vedere più. Giustamente le autorità irachene ci ricordano: e voi con Mussolini? È stato più giusto il processo cui è stato sottoposto il vostro dittatore? Qual è la differenza?
La differenza, anzi le differenze, cari iracheni, sono due. La prima è che oggi ci sono la tv e Internet, e chiunque può scaricarsi il film dell’esecuzione di Saddam; l’orrore è disponibile on line, e chi vuole indignarsi può servirsi «à la carte». La seconda differenza è che appena mezzo secolo fa, quando Mussolini venne «giustiziato» (altra parola detestabile), non esisteva ancora una «civiltà superiore» che ci potesse guardare, e stracciarsi le vesti per la nostra barbarie.
Adesso invece c’è: siamo noi. E soprattutto vede e si fa vedere, perché il mondo è completamente interconnesso, e noi viviamo - siamo costretti a vivere - in perenne mondovisione. Agli iracheni è toccato il guaio di celebrare il loro processo contro il loro dittatore in un momento storico in cui una parte del mondo è molto più avanti, o perlomeno presume di esserlo, in barba a ogni omaggio al pluralismo delle culture. Quando toccò a Mussolini, della civiltà europea come la conosciamo oggi non c’era la minima traccia: la maggior parte dei Paesi che contano aveva la pena di morte, e le sensibilità ecologiste-animaliste-umaniste di oggi erano largamente sconosciute. Sgozzare un maiale o una gallina nell’aia non faceva impressione a nessuno, la gente considerava normale morire per servire la patria, ma anche intervenire in un tram per fermare un tentativo di stupro. È di tutto questo, di questo suo recente (barbaro?) passato, che il sofisticato cittadino europeo pare non voler prendere atto. Eppure sarebbe importante fermarci e riflettere. Perché l’astrattezza che ci porta oggi a indignarci per l’esecuzione di Saddam, non capendo che l’Iraq vive in un altro tempo storico, è la stessa che ci ha portati ieri a credere che la democrazia si possa instaurare d’emblée, senza tappe intermedie, come si esporta una tecnologia. I falchi americani che credono di poter imporre a tutto il mondo il modello democratico, e le colombe europee che ragionano come se tutti vivessimo nello stesso tempo, sono vittime della medesima mentalità astorica.
C’è un po’ di spocchia, o di superficiale alterigia, nella nostra pretesa di giudicare un popolo che - sulla scala più o meno arbitraria della nostra civiltà - vive in un tempo ben anteriore a quello che portò gli italiani a fare i conti con il loro duce. Ma c’è anche tanta ingenuità, come quella di un bambino che volesse far arrestare gli attori che impersonano i «cattivi» in un dramma shakespeariano. Nel caso dell’Iraq, lo spettacolo è purtroppo reale, ma la distanza rispetto a noi è abissale come quella di un dramma shakespeariano. Per questo - perché è reale - la politica si adopera per cambiare le cose, e fa bene a farlo. Per questo - perché gli eventi si snodano in un tempo storico che non è il nostro - suonano sgradevoli le lezioni di civiltà impartite agli iracheni. Spero anch’io, un giorno, di vivere in un mondo in cui tutti considereremo inaccettabile la pena capitale. Ma in attesa di quel giorno, l’umana pietà è il solo sentimento che riesco a provare.
Repubblica 3.1.07
LA POLEMICA
Mussolini e Saddam due giustizie diverse
di Giorgio Bocca
«Tacete voi che avete ucciso Mussolini dopo un processo di un´ora», ha detto il governo iracheno all´Italia. Ma non è andata esattamente così. Mussolini è stato condannato dalla maggioranza del popolo italiano negli anni delle guerre inutili e sanguinose e soprattutto nei venti mesi della occupazione nazista e della collaborazione di Salò con Hitler. E se proprio si vuole una giustificazione legalistica Mussolini è stato giustiziato su ordine del Clnai, il comitato di liberazione nazionale che governava nell´Italia occupata.
L´ordine era di passare per le armi chi nel giorno della insurrezione generale si fosse opposto con le armi in pugno. E Mussolini fu catturato a Dongo mentre tentava di fuggire in Valtellina e da lì nella Germania ancora nazista.
Della sua esecuzione sono state date centinaia di versioni. Noi crediamo, per quel che possa valere, che la più aderente al vero sia quella raccontata in una nostra storia della Repubblica di Salò. L´abbiamo appresa da Fermo Solari che quel 25 aprile era a Milano al comando partigiano del nord Italia.
«Telefonarono da Musso, un paese del lago di Como – mi raccontò Solari – e ci dissero che avevano catturato Mussolini. Luigi Longo uscì nel corridoio per trovare qualcuno da mandare sul posto. Tornò e mi disse: ho trovato solo Audisio». Non era proprio così: aveva trovato anche Lampredi uomo di partito e mandò anche lui con l´ordine di fucilarlo sul posto. «A me – disse Solari – ha detto: gli ho ordinato di portarlo a Milano». Lampredi e Audisio lo fucilarono, noi lo sapemmo a cose fatte e approvammo pienamente.
Ma la fucilazione di Mussolini e dei gerarchi a Dongo è politicamente assimilabile alla impiccagione di Saddam Hussein solo nelle linee generali. La fine di una tirannia non poteva allora essere che una giustizia sommaria del vincitore. Sotto questo aspetto quella di Mussolini è stato un fatto inevitabile, la scomparsa di un uomo perché la storia continui, un epilogo violento e drammatico perché da una tirannia possa nascere un paese libero. Ciò che persuade di meno della esecuzione del tiranno Saddam è che il tiranno era già caduto e vinto: nessuno, neppure i seguaci e consiglieri di Bush, può seriamente pensare che la democrazia sia esportabile con le armi e che i sudditi di Saddam, o almeno una importante minoranza, siano davvero convinti delle colpe del loro leader tanto è vero che a cadavere ancora caldo i sunniti lo piangono e si ripromettono di vendicarlo. Sicché la esecuzione barbara di Saddam più che l´inizio di una liberazione ha l´aria della convulsione di un terrore perdurante, di una ferocia che si ripete. E in questo senso si può considerarla un errore.
La condanna di Saddam è la condanna di un satrapo ma ha anche degli aspetti ignobili, inaccettabili. Il dittatore oggi ucciso ha goduto a lungo di una larga complicità internazionale proprio mentre commetteva quei reati per i quali ora è stato giustiziato. Complicità maldestramente rinnegate come quelle del presidente Bush che dormiva e di suo padre che giocava a golf perché oggi quel satrapo non serve più negli affari sporchi dei paesi del petrolio. Hanno un bell´affannarsi i grandi cinici di casa a ricordarci che così vanno le cose di questo mondo e che non saranno le anime belle a cambiarle ma l´errore della esecuzione di Saddam resta, come segno che i potenti della terra anche in questo orrendo episodio hanno scelto il gioco degli sporchi interessi, delle vendette senza fine, hanno confermato la umana vocazione al gioco sporco, al gioco furbo, al vinca il peggiore.
L´errore della esecuzione di Saddam con quella terribile esposizione di cappi, botole, boia mascherati, insulti sono stati un errore profondissimo, di quelli che fanno disperare degli uomini e del loro destino.
l’Unità 3.1.07
La guerra santa dei due Islam nemici
di Wladimiro Settimelli
I SUNNITI E GLI SCIITI sono i seguaci di due interpretazioni profondamente diverse della religione islamica e del Corano. Un’antica e sanguinosa frattura che si è tragicamente riaperta nell’Iraq del dopo-Saddam
La divisione risale ai primordi della storia musulmana e riguarda le modalità della successione a Maometto
Divisi su tutto: dall’esistenza del clero fino ai modi di contrazionedel matrimonio
Sciiti e sunniti, sunniti e sciiti. Se ne parla con ansia e paura, mentre una specie di tragico e terribile «prezzo di sangue» percorre le strade di Baghdad tra una strage e l’altra, tra un omicidio e l’altro, tra un rapimento e l’altro con morte dopo tortura. Tutto gronda odio, come se la testa di Hysain fosse stata appena spiccata e poi spedita a Damasco al califfo sunnita Yazid, tra i pianti e le urla delle «pie donne». Furono loro che andarono poi a riprendersela, riportandola a Kerbala per ricomporla con il corpo del «generato» di Alì e di Fatima, la figlia del Profeta dell’Islam. Era l’anno 61 dell’Egira e il 10 ottobre del 680, il giorno 10 di muharran. Muhammad era morto da meno di mezzo secolo.
In questi tempi di guerra americana e inglese fra il Tigri e l’Eufrate, morto o vivo Saddam, si sono risvegliati, come non mai da molti anni, antichi odii e rancori. E sono ricomparsi i trucidi scannamenti e le vendette che vengono da lontano, molto lontano, con gli sciiti e i sunniti, appunto, divisi da un odio profondo. Odio che ha radici nella fede e nelle diverse regole del credere nell’Islam. È un fuoco terribile che potrebbe propagarsi in tutto il mondo islamico, con conseguenze inimmaginabili. I più avvertiti, per l’Iraq, parlano ora di guerra civile e hanno ragione, perché tutto si sta dispiegando in questo senso, proprio con lo scontro tra sunniti e sciiti. I sunniti hanno già violato con diversi attentati e stragi, Nagiaf, la città del Mausoleo di Alì, il «principe dei credenti», dove tutti gli sciiti vogliono essere seppelliti nei grandi cimiteri. E attacchi ci sono stati a Kufa, dove è nata la scrittura araba e sviluppata la cultura sciita. E ancora moschee sciite sono state attaccate a Samarra e nella stessa Kerbala. E gli sciiti, ovviamente, rispondono colpo su colpo e senza pietà.
Il fatto è che Saddam e i suoi erano sunniti e avevano proibito, per anni, ogni manifestazione del dolore sciita e le celebri processioni con i fedeli che si colpivano fin quasi a morte con catene, coltelli e spade, come atto di fede, per volontà di espiazione e per sopportare il dolore della tragica fine di Husayn. Come se tutto fosse accaduto appena ieri, appunto.
È una storia vecchissima, mille volte raccontata e spiegata, ma che bisogna ancora una volta ricordare, per tentare di capire. Gli sciiti, con i loro imam, sono al potere in Iran, si sa. Anche gli hezbollah del Libano sono sciiti e stanno per riportare il paese sull’orlo della catastrofe. E sciiti sono molti siriani che, insieme ai sunniti del loro paese, si battono in realtà per la «grande Siria» a spese del Libano. Poi ecco gli altri paesi islamici a maggioranza assoluta sunnita o wahhabita (una forma estrema di sunnismo) intorno al quale è nato il regno dell’Arabia Saudita. Tutti sostengono, con profonda convinzione, la causa palestinese e vogliono, più o meno velatamente (salvo l’Egitto) la scomparsa di Israele. Il dramma e il caos sono, dunque, in ogni momento, dietro l’angolo.
Ma chi sono gli sciiti e i sunniti ? Che cosa divide in due il mondo islamico, anche se i sunniti sono, ovunque, una maggioranza schiacciante, ma non omogenea?
Tutto nasce alla morte di Muhammad che apparteneva alla stirpe dei banu Hascim, della tribù dei Coreisciti. Il «profeta di Dio», o «l’ultimo dei profeti», in pratica, non lascia figli maschi o «vicari» che rappresentino in qualche modo la nuova fede. Così cominciano subito i guai e le polemiche. La scelta di chi poteva in qualche modo sostituire Muhammad andava fatta per linea familiare, tramite il cugino e genero Alì, il marito della figlia Fatima, oppure discendenza elettiva scegliendo qualcuno dei primi compagni del profeta? Tra i beduini, in realtà gli ultimi ad abbracciare la fede, i capi e i successori venivano scelti in modo elettivo. Così fu anche per il dopo Muhammad. Ma chi parteggiava per Alì non era d’accordo e sosteneva che il profeta era morto tra le braccia di Alì e non tra quelle della adorata moglie Aisa. Non solo: era stato Alì - si diceva ancora - a lavare il corpo del profeta con unguenti particolari portati dall’arcangelo Gabriele. Lui, dunque doveva essere la guida naturale dell’Islam. Ma non andò così.
I successori del profeta, i «califfi ben guidati», i celeberrimi «rashidun», furono in realtà quattro: Abù Bakr, suocero di Muhammad, poi Omar Uthman e finalmente Alì. Omar è il califfo della grande espansione e delle conquiste. Otman, invece, sistematizzò il Corano e provvide a far raccogliere i racconti dei compagni del Profeta. Con Alì esplosero, invece, lotte intestine terribili e lo stesso genero del profeta, dopo appena cinque anni, venne ucciso con una spada avvelenata, mentre si recava alla preghiera. Gli successe Muawiyyah che trasferì il centro del potere a Damasco. Il solco tra sunniti e sciiti era, ormai, diventato un fossato. «Siia», in arabo, vuol dire semplicemente «partito» e gli uomini del partito di Alì non cessarono mai di chiedere che i califfi fossero scelti tra coloro che erano legati «alla sacra famiglia del profeta» o avevano una discendenza certa dalla tribù di Muhammad, o una altrettanto diretta discendenza da Alì o dalla sua famiglia. Insomma, una successione ereditaria per diritto divino. In questa lotta, anche il figlio del genero di Muhammad, Hasan venne ucciso con il veleno.
I sunniti, comunque, si consideravano e si considerano ancora oggi, i veri detentori della fede e dell’Islam: sono coloro che si rifanno direttamente ai detti, ai fatti, alle abitudini del profeta, alle tradizioni e ai modi di vivere e di credere dei primi fedeli. La grande divisione nasce, poi, sulla figura dell’imam. I sunniti non hanno un vero e proprio clero. Gli sciiti, invece, obbediscono agli imam che possiedono «l’infallibilità», «l’impeccabilità» e una «scienza sovrumana». Inoltre - affermano gli sciiti - l’insegnamento degli imam ha valore definitivo, come definitiva è la conoscenza di «ciò che è occulto». Hanno anche da ridire sul Corano, secondo loro, «espurgato» delle parti che riguardavano i diritti di Alì. Certo, anche loro vanno alla Mecca, osservano il digiuno e usano,ormai il Corano di tutti. Ovviamente, anche per gli sciiti, come per tutto l’Islam, Muhammad è il profeta, l’ultimo inviato da Dio sulla terra. Ma la tendenza è quella di esaltare Alì (l’amico o il leone di Dio) e il suo grande valore sul campo di battaglia: non ci fu mai guerriero come lui né spada come la sua, chiamata «Du’l fiqar». Scrisse anche un libro per il bene dell’umanità, pari agli scritti di 124 mila profeti. Ed è ad Alì - sempre secondo gli sciiti - che Muhammad rivelò il senso ultimo dell’Islam. Tanto gli sciiti moderati come i «gulat» (coloro che esagerano) concordano, comunque, che l’imam debba discendere in linea diretta da Alì ed essere il capo supremo della comunità. Dunque, l’imam sciita come il califfo sunnita. Anche se il califfato non esiste più.
Ma è con la morte di Hussein che gli sciiti raggiungono il massimo dell’esaltazione per il martirio. Hussein era l’ultimo figlio di Alì e Fatima e si avviò verso Kerbala, in Iraq, ben sapendo che sarebbe stato ucciso. Aveva, nel suo gruppo, mogli, amici, seguaci, bambini. Furono tutti massacrati per ordine del califfo Yazid. Hussein (era il 680 dell’egira), dopo essere stato fatto morire di sete ebbe la testa mozzata. Testa che venne spedita a Damasco al califfo ommayade. Ed è proprio in ricordo del «ritorno della testa» che gli sciiti organizzano le autoflagellazioni, le recite pie, i cori di dolore e di pianto per il 10 di Muharran. Da ogni credente e da ogni cosa, in quei giorni, emana un incredibile pathos. La gente, in corteo, piange, si dispera, e si «punisce». Nelle stampe popolari, il cavallo di Hussein corre sul campo di battaglia senza il cavaliere (il divieto di non raffigurare esseri umani viene rispettato) ma irto di frecce. I martiri di Kerbala sono spesso raffigurati come una lunga teoria di cammelli che marciano nel deserto, con in groppa una rosa purpurea, simbolo del martirio. E anche Alì è rappresentato da una rosa purpurea.
E oggi? È proprio nel campo sciita che nascono gli «shahid»: ossia i primi martiri che vanno volontariamente a morire per guadagnare il paradiso nel corso della «jihad». Furono proprio i ragazzini iraniani, i famosi «bassidji» che andavano a morire nella guerra contro l’Iraq di Saddam, aprendo la strada all’esercito, in mezzo ai campi minati. Ne morirono a migliaia. Avevano al collo una piccola chiave: la chiave del paradiso.
Tra gli sciiti, in realtà, la teologia del martirio, dopo il sacrificio di Husayn a Kerbala, trovava terreno più che fertile. I ragazzini, infatti, andavano a morire «sulla via di Dio» e alle loro famiglie il governo esprimeva gioia per il martirio e lutto per la morte di un figlio. I «martiri sulla via di Dio», compariranno poi anche tra i sunniti: i giovani di Hamas e della Jihad islamica. Poi in Libano e alle Torri Gemelle.
Le differenze tra sciiti e sunniti rimangono comunque tutte. Sono gli sciiti, tra l’altro, ad avere anche un imam «nascosto» nel pozzo di Samarra. Tornerà - spiegano- «alla fine dei tempi per riportare giustizia e gioia nel mondo». È l’atteso mahdi.
Ma c’è anche un modo di essere degli sciiti nei confronti di tutti gli altri. Lo spiega bene un vecchio testo che dice: «il tono spirituale del vero partigiano di Alì, deve essere la tristezza abituale manifestata anche all’esterno, in un comportamento malinconico poiché lo sciita è partigiano dei diritti di una famiglia il cui destino è stato l’avversità». Il riferimento, naturalmente, è alla famiglia di Alì.
Altra differenza tra gli sciiti e sunniti è una cosa di non poco conto: il matrimonio di piacere o temporaneo detto «mut’a», fermamente respinto dai sunniti. Si tratta di un contratto irrevocabile (lazim) per un periodo di tempo determinato. Lo sciita in viaggio, per esempio, può sposare una donna conosciuta casualmente anche solo per qualche mese. Poi tutto finirà automaticamente. Sara, in realtà, l’unico modo permesso alla coppia per poter stare insieme un po’ di tempo. Si tratta, quindi, di un matrimonio fuori da ogni regola. Nato, fu detto, anche per combattere la prostituzione. Ma era davvero troppo per l’altro Islam.
Corriere della Sera 3.1.07
Norimberga. La giustiziua e i vincitori
di Sergio Romano
La condanna dei gerarchi del Terzo Reich doveva aprire la strada a una nuova idea di giustizia da applicare ai capi di regimi criminali, ma sessant'anni dopo l'obiettivo non è ancora raggiunto
Il diritto internazionale non nasce con la «giustizia dei vincitori»
Le discussioni e gli scambi di vedute fra gli Alleati sulla sorte dei leader sconfitti cominciarono agli inizi del 1944. Churchill sapeva che le clausole dei trattati di Versailles sui «criminali di guerra» erano state ignorate e disse a Stalin, un giorno, che sarebbe stato meglio giustiziarli sul posto, senza indugio, al momento della cattura.
Ma il «meraviglioso georgiano» gli rispose severamente che «in Unione Sovietica noi non giustiziamo senza processo». Era una dichiarazione «inglese», ispirata ai principi della tradizione giuridica britannica.
Churchill avrebbe potuto chiedergli se i processi a cui pensava non fossero per caso quelli delle grandi purghe che il dittatore aveva organizzato negli anni Trenta per sbarazzarsi dei suoi avversari. Ma preferì accusare il colpo e rispondere: «Naturalmente, naturalmente, ci vorrà un processo».
In America, nel frattempo, le soluzioni prospettate erano due. Secondo quella radicalmente punitiva del segretario al Tesoro Henry Morgenthau, i pesci grossi sarebbero stati giustiziati, i pesci piccoli cacciati ai confini del mondo e i prigionieri di guerra tedeschi impiegati come schiavi per la ricostruzione dell'Europa. Secondo il dipartimento della Guerra, invece, occorreva un processo in cui i leader sarebbero stati accusati di crimini di guerra o contro l'umanità e l'intero regime nazista sarebbe stato considerato un'«associazione a delinquere». Prevalse la seconda tesi. Dopo una decisione di principio a Yalta nel febbraio del 1945, la macchina americana fu più rapida delle altre. Alla fine di aprile, due settimane dopo la morte di Roosevelt e poco prima del suicidio di Hitler, il tribunale aveva già un pubblico ministero nella persona di Robert Jackson, giudice della Corte suprema. Ma era necessario scegliere una città, possibilmente in Germania, redigere un capo di accusa e, soprattutto, scrivere una specie di codice a cui giudici, pubblici ministeri e avvocati difensori avrebbero potuto appellarsi. Non bastava individuare gli imputati. Occorreva soprattutto inventare i canoni e le procedure di una nuova giustizia penale internazionale.
La città fu Norimberga, sede dei grandi raduni nazisti e luogo in cui erano state emanate le famigerate leggi razziali del 1935. Fu scelta per una sorta di ironica rappresaglia? No, le ragioni furono soprattutto pratiche. I bombardamenti alleati ne avevano distrutto più della metà, ma avevano lasciato miracolosamente intatti il palazzo di giustizia e il migliore albergo. Esistevano quindi un'aula per i dibattimenti, le celle per i carcerati, gli uffici per i giudici e i procuratori, i letti per gli addetti ai lavori e per i giornalisti. Restava da redigere il codice che si chiamò, alla fine dei lavori preparatori, «Carta del Tribunale militare internazionale». La maggiore preoccupazione fu quella di evitare che il processo si trasformasse in un comizio e che gli imputati approfittassero della presenza della stampa internazionale per lanciare al mondo i loro messaggi. Fu deciso che nessuno avrebbe avuto il diritto di invocare l'obbedienza agli ordini ricevuti o rimproverare le potenze accusatrici di avere commesso, in alcune circostanze, gli stessi crimini. In altre parole, il maresciallo dell'aria Göring non avrebbe potuto ricordare agli Alleati il bombardamento di Dresda e Alfred Rosenberg, teorico del razzismo, non avrebbe potuto evocare l'ombra dei 25 mila ufficiali polacchi massacrati dai sovietici nella foresta di Katyn.
Queste preoccupazioni furono in buona parte inutili. Forse l'aspetto più interessante del primo processo, e degli undici che si susseguirono fino al 1949, fu il grado di collaborazione degli imputati. Qualcuno (Göring in particolare) fu spavaldo e arrogante. Altri cercarono di difendersi, di giustificarsi e di attenuare le loro responsabilità (Albert Speer fu particolarmente abile). Ma alcuni di essi (i militari e i grandi tecnici ad esempio) si comportarono come gentiluomini tedeschi, educati nell'etica protestante della verità e della responsabilità, impegnati ad attraversare con la maggiore dignità possibile il momento più difficile della loro vita. Ne avevano dato prova, del resto, nei lunghi interrogatori che precedettero l'inizio del dibattimento. Uno storico inglese, Richard Overy, ha raccolto alcuni verbali in un volume, pubblicato da Mondadori nel 2002 (Interrogatori. Come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich) e ha indirettamente dimostrato che quegli uomini volevano lasciarsi alle spalle, per quanto possibile, la verità. Accadde persino che gli Alleati, sorpresi dall'atteggiamento dei futuri imputati, chiedessero ad alcuni di essi di preparare appunti e memorandum sul futuro della Germania.
Il primo processo cominciò alle dieci del mattino del 20 novembre. Il presidente del tribunale era un magistrato inglese, sir Geoffrey Lawrence e il collegio si componeva di un giudice principale e di un giudice supplente per ciascuna delle quattro potenze alleate. Gli imputati erano 21, schierati in fondo alla sala: da Karl Dönitz, capo del governo provvisorio dopo la morte di Hitler, a Albert Speer, ministro degli Armamenti, e Julius Streicher, direttore di una rivista antisemita. Erano soltanto una parte del Terzo Reich, risultato di una sorta di decimazione provocata dalle circostanze. Ma bastavano a un collegio giudicante che voleva soprattutto dare un esempio, lasciare agli atti della storia la propria versione del conflitto e creare una nuova categoria del diritto internazionale: lo «Stato canaglia», una categoria che gli americani hanno rimesso di moda in questi ultimi anni.
Tutti ascoltarono attentamente attraverso le loro cuffie la lunga arringa con cui Jackson aprì il dibattimento: una storia del nazismo dalla fase che precedette la conquista del potere sino ai crimini contro la classe operaia, le Chiese, gli ebrei, la pace e l'umanità. Quando Jackson richiuse la cartella che aveva tenuta aperta sotto i suoi occhi, il presidente del tribunale rinviò la seduta al giorno seguente per l'interrogatorio degli imputati. Il primo fu Göring, tracotante, provocatorio, il solo che sfuggì alla morte con una pillola di cianuro. Avrei accettato la fucilazione, scrisse in un ultimo messaggio alla corte, ma non posso accettare la corda e morirò come Annibale. Le esecuzioni furono dieci, le assoluzioni tre, gli altri imputati furono condannati all'ergastolo e a pene più brevi. Vi furono nei mesi seguenti altri undici processi contro magistrati del regime, medici che avevano applicato terapie inumane e spietati membri degli Einsatzgruppen, le formazioni speciali che soppressero decine di migliaia di ebrei in Europa orientale. Molti capirono subito che questa «giustizia dei vincitori» presentava troppi inconvenienti. Ma sperarono che quei processi aprissero un nuovo capitolo del diritto internazionale. Così sarebbe accaduto, effettivamente, se anche la maggiore potenza, negli anni Novanta, avesse accettato di sottoporre i propri cittadini alla giustizia del mondo. Ma gli Stati Uniti hanno rifiutato di ratificare il trattato per la costituzione del Tribunale penale internazionale e non vogliono che i loro cittadini siedano sul banco degli accusati. Il bicchiere della giustizia internazionale rimane mezzo vuoto.