giovedì 4 gennaio 2007

Repubblica 4.1.07
Le massime dello scrittore in un libro di padre Leonardo Sapienza, addetto al protocollo pontificio
Oscar Wilde riabilitato, svolta in Vaticano
Tentazioni. "Posso resistere a tutto, ma non alla tentazione"
Omosessuali. "L'amore di un anziano per un giovane non è innaturale"
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - Sorpresa. Oscar Wilde, grande scrittore e poeta dell´800, ma anche storica icona omosessuale della cultura europea, fa breccia in Vaticano. Le sue massime - provocatori aforismi del tipo «Posso resistere a tutto, ma non alle tentazione», oppure «L´unico modo di liberarsi di una tentazione è abbandonarsi ad essa» - sono state prese a modello in un libro scritto da un alto esponente della curia per dare una scossa a fedeli cristiani intiepiditi e uomini di buona volontà. Un obiettivo indicato fin dal titolo, "Pro-vocazioni", e dal sottotitolo, "Aforismi per un cristianesimo anticonformista" (Editrice Rogate). Ne è autore uno dei più stretti collaboratori di papa Benedetto XVI, il padre rogazionista Leonardo Sapienza, addetto al protocollo della Prefettura della Casa Pontificia. Il libro contiene un migliaio di frasi a carattere morale suddivise in 443 paragrafi selezionati in ordine alfabetico.
Quasi un mini vocabolario con le più importanti massime wildiane, insieme ai pensieri di un altro autore, meno noto, ma anch´esso dotato di una indubbia forza provocatoria, Nicolas Gomez Davila, scrittore cristiano colombiano scomparso nel 1994. Dei due, a sorprendere di più è certamente la presenza di Wilde, nato a Dublino, in Irlanda, il 16 ottobre 1854 e scomparso a Parigi il 30 novembre 1900, a soli 46 anni, convertitosi al cattolicesimo in punto di morte, dopo una vita di eccessi e di provocazioni nella Inghilterra vittoriana, ma costellata anche da grandi successi letterari.
Benché sposato e padre di due figli, Wilde fu condannato a 2 anni di lavori forzati per una relazione omosessuale col giovane lord Alfred Douglas. Aspetti - questi ultimi - non contemplati nel libro, nel quale l´autore preferisce invece delineare «la forza apparentemente paradossale» delle provocazioni del padre di "Ritratto di Dorian Grey". Padre Sapienza di propone di stimolare il «risveglio» di determinati ambienti cattolici, perché - come si legge nella prefazione citando Kierkegaard - «il cristianesimo doveva essere una cura radicale; invece se ne è fatto uno di quei rimedi che si usano contro il raffreddore». Da qui l´avvertimento di padre Sapienza: «Dobbiamo essere una spina nel fianco» per muovere le coscienze e per fronteggiare quello che oggi è il nemico numero uno della religione: l´indifferenza. Male particolarmente temuto da Benedetto XVI. Così la Santa Sede sembra ora riabilitare una figura scomoda come Wilde, scrittore «dotato di una intelligenza folgorante - scrive Sapienza - autore mordace, sarcastico e provocatorio, vissuto perigliosamemte e un po´ scandalosamente, ma che ha lasciato nelle sue pagine motti taglienti».


Repubblica 4.1.07
Mozart genio e memoria
Un libro del neuropsicologo e organista francese Bernard Lechevalier
di Piergiorgio Odifreddi


Che segreti ha un cervello come quello di Wolfgang? Era capace di ascoltare un concerto per la prima volta e di trascriverne a mente gli spartiti
Una memorizzazione speciale che coinvolge il sistema motorio ed è fondamentale nella musica

Nel 1638 Gregorio Allegri compose l´unica sua opera che ci è pervenuta: un Miserere a nove voci basato sul lamentoso Salmo 51, che da allora venne eseguito due sole volte l´anno, il mercoledí e il venerdí santo, dai cantori della Cappella Sistina. E la consuetudine durò fino al 1870, quando il coro venne sciolto in seguito alla caduta dello Stato Pontificio.
L´11 aprile 1770, appunto un mercoledí santo, il quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart e suo padre arrivarono a Roma, e riuscirono a intrufolarsi nella Cappella Sistina: il giovane fu infatti scambiato per un principe di Sassonia che risiedeva allora in Vaticano, e il padre per il suo maggiordomo. Tre giorni dopo quest´ultimo scrisse alla moglie: «Forse hai già sentito parlare del celebre Miserere di Roma, tenuto in tale stima che ai musicisti della Cappella è vietato, pena la scomunica, di far uscire la benché minima parte di questo brano, copiarlo o trasmetterlo a chiunque. Ebbene, «noi ce l´abbiamo: Wolfgang l´ha trascritto a memoria».
Ancora qualche giorno, e un´altra lettera annunciò: «Il papa in persona è al corrente che Wolfgang ha trascritto il Miserere. Ma non c´è nulla da temere: anzi, la cosa gli ha reso grande onore». Infatti, il cardinal Pallavicini aveva consegnato al ragazzo il decreto di Clemente IV che lo nominava cavaliere dello Speron d´Oro, ed egli fu poi una delle due sole persone al quale il papa offrí la partitura del celebre brano, visto che intanto ormai ce l´aveva comunque.
Mozart non era nuovo a imprese mnemotecniche: già qualche anno prima, nel 1765, lo scienziato inglese Daines Barrington l´aveva esaminato, e in una lettera a un membro della Royal Society di Londra racconta che il bambino di nove anni aveva terminato seduta stante una fuga interrotta da Johann Christian Bach, dopo averne memorizzato il tema e gli sviluppi. Mozart era anche solito trascrivere, nella corrispondenza col padre e la sorella, brani che aveva sentito in concerto e che gli erano particolarmente piaciuti, e spesso non scriveva le parti del solista per i suoi concerti, limitandosi a suonarle a memoria dopo averle composte nella testa.
Ora, che tipo di cervello bisogna avere, e quale tecnica si può usare, per essere in grado di compiere imprese del genere? Perché il Miserere di Allegri dura una quindicina di minuti, e memorizzarne tutte le nove voci è almeno tanto complesso quanto il trascrivere una conversazione di un quarto d´ora, in cui fino a nove persone arrivano a parlare contemporaneamente! E´ per rispondere a queste domande, e ad altre analoghe, che il neuropsicologo e organista francese Bernard Lechevalier ha scritto Il cervello di Mozart (Bollati Boringhieri, pagg. 276, euro 32), un libro che coniuga piacevolmente la neurofisiologia della musica con l´aneddotica storica (cioè, non inventata o mitologizzata, come nel film Amadeus di Milos Foreman) sul fenomeno Mozart.
Per incominciare appunto dalla memoria, il primo a distinguerne due tipi (a breve e a lungo termine) fu William James nei Princípi di psicologia del 1890. I due tipi sono indipendenti, si situano in zone diverse del cervello e funzionano in maniera diversa. La memoria a breve termine è costituita da un sistema centrale esecutivo localizzato nella corteccia frontale esterna, e da più sottosistemi subordinati che permettono di ripetere le informazioni e di rappresentarsele in vari modi.
Quanto alla memoria a lungo termine, essa può essere esplicita o implicita, a seconda che abbia a che fare con ricordi verbalizzabili o no: ad esempio, gli episodi autobiografici o le conoscenze semantiche fanno intervenire rispettivamente l´ippocampo e il lobo frontale anteriore sinistro, mentre le procedure di abilità tecnica coinvolgono anche il sistema motorio, oltre al cervelletto.
Che quest´ultima memoria procedurale sia fondamentale nella musica l´aveva già aveva notato Cartesio nel 1640, scrivendo in una lettera a padre Mersenne: «Un suonatore di liuto ha una parte della propria memoria nelle mani, perché la facilità di disporre le dita nei diversi modi, che ha acquisito per abitudine, lo aiuta a ricordarsi di quei passaggi per l´esecuzione dei quali le deve disporre in quel certo modo». Ma oltre a quella tattile, la memoria musicale ha anche altre componenti: prime fra tutte, quella uditiva della melodia, quella visiva dello spartito, quella semantica dell´armonia e, nel caso della musica cantata, anche quella verbale delle parole. Tutte queste memorie, e le relative aree cerebrali, confluiscono nell´esecuzione non letta dei brani musicali, che è una specialità abbastanza diffusa tra i grandi concertisti, da Mozart a Glenn Gould.
Naturalmente il vuoto di memoria è la spada di Damocle che pende sull´esecutore e può cadergli addosso per i motivi più svariati, da una discesa dell´attenzione a una salita dell´emozione. Spesso le dita vanno però avanti da sole, come nel famoso episodio in cui il violinista Maurice Vieux stava eseguendo una sonata col pianista Alfred Cortot, perse il filo, si chinò a chiedere: «Dove siamo?», ricevette la risposta: «Alla Carnegie Hall», e continuò come se niente fosse. Altre volte le dita si comportano invece come un treno che imbocca uno scambio sbagliato: soprattutto nella musica barocca, quando si rischia di scivolare da una voce o da una fuga in un´altra, a causa di qualche galeotto passaggio parallelo.
Un altro aspetto della memoria, che può essere servito a Mozart per il suo exploit vaticano, è che essa spesso si attiva inconsciamente. Arthur Rubinstein, ad esempio, raccontava che quando canticchiava un brano e poi smetteva per un po´, riprendeva riattaccando la melodia non nel punto in cui l´aveva lasciata, ma in quello in cui sarebbe giunto se avesse continuato senza fermarsi. E gli attori a volte si ritrovano ad aver miracolosamente imparato la propria parte anche senza averla mandata a memoria, quasi avessero veramente indossato i panni dei loro personaggi. Forse Mozart, come loro, si è semplicemente ritrovato in testa la partitura del Miserere, senza aver fatto nessuno sforzo particolare per memorizzarlo.
In fondo, si sa che la musica gli veniva facile in tante maniere.
Ad esempio, il musicista Andreas Schachtner ha testimoniato che a sei anni, quando ancora si chiamava Theophilus invece di Amadeus, un giorno Mozart gli disse: «Signor Schachtner, il violino su cui sto suonando è accordato a un ottavo di tono sotto quello che lei ha suonato prima», e che a una verifica risultò che era proprio così. Oggi sappiamo che l´orecchio assoluto, che permette di valutare l´altezza di suoni isolati, e non soltanto la loro distanza da altri suoni, non è affatto una dote naturale: lo possiede infatti il 95% dei musicisti che hanno imparato a suonare prima dei quattro anni, ma solo il 5% di coloro che hanno imparato dopo i dodici. Anche se, naturalmente, i geni aiutano (e sono aiutati): lo stesso Mozart, ad esempio, ha testimoniato che a volte suo figlio piangeva nella stessa tonalità dei brani che lui stava suonando.
Un altro dei modi in cui la musica gli veniva facile era la composizione. In una lettera pubblicata nel 1815, lui stesso ammise infatti: «Anche se un pezzo è lungo, lo posso abbracciare tutto in un unico colpo d´occhio, come un quadro o una statua. Nella mia immaginazione non possiedo l´opera nel suo svolgersi, come in una successione, ma ce l´ho tutta d´un blocco. L´invenzione, l´immaginazione, l´elaborazione: tutto avviene in me come un sogno magnifico e grandioso, e quando arrivo a dominare l´insieme nella sua totalità è il momento migliore». Eppure, a volte anche Mozart ha avuto bisogno di impegnarsi: ad esempio, per comporre i sei Quartetti Haydn del 1785, la cui stessa dedica ricorda che essi «sono il frutto di uno sforzo lungo e laborioso».
Ma, a parte i suoi doni musicali di orecchio, memoria e creazione, Mozart era comunque una persona normale. La figlia del consigliere Sals von Greiner, ad esempio, ha testimoniato che «lui e Haydn, che conoscevo bene, erano uomini che a frequentarli non manifestavano nessuna intelligenza superiore e in cui non si riscontrava pressoché alcun genere di cultura, né elevate aspirazioni alla conoscenza. Disposizioni d´animo banali, battute insulse e, nel primo, una vita frivola: tutto qui, quel che si poteva trovare nella loro frequentazione». E la stessa cosa potrebbe affermare chiunque abbia frequentato non soltanto artisti, ma anche letterati, filosofi e scienziati: in fondo, pensare, dire e fare stupidaggini è la natura umana, e i geni non sono coloro che non ne pensano, dicono o fanno mai nessuna, ma quelli che a volte riescono a non pensarne, dirne o farne qualcuna, per la propria e l´altrui felicità.

Repubblica 4.1.07
Vi racconto i miei incubi notturni
I sogni di uno scrittore
di Umberto Eco


Da giovane sognavo l'esame di maturità e il servizio militare Oggi sono afflitto dalla paura di essere in ritardo
Prima avevo il sonno profondo dei bambini e non riuscivo a ricordare la mia vita onirica. In età avanzata mi risulta più facile
Non ho mai preso pillole stimolanti. Ho sempre voluto avere la mente lucida. Una questione di orgoglio
Non insegno più agli studenti dei primi anni Invecchiando ti sorge il dubbio di aver torto su ciò che trasmetti agli altri

Fino a qualche anno fa non riuscivo a ricordare i sogni che facevo. Suppongo dipendesse dal fatto che avevo sempre il sonno pesantissimo. La mattina successiva non restava che una vaga idea di quello che avevo sognato. Ma non riuscivo a tenere memoria dei miei sogni. Oggi, in età avanzata, mi risulta più facile. Non riesco a darmi altra spiegazione se non che non dormo più il sonno profondo e lungo dei bambini. Nel frattempo riesco a ricordare cosa ho sognato, anche i sogni del passato. E mi piace.
I sogni più importanti e più interessanti sono quelli ricorrenti e gli incubi. Da studente sognavo spesso di non passare l´esame di maturità. A quest´incubo si sostituì in seguito quello in cui ero ancora soldato. I miei superiori mi avevano concesso la libera uscita, ma io semplicemente non ero rientrato in caserma. Ora rischiavo l´arresto. E´ un sogno che mi ha perseguitato a lungo. Bisogna sapere che nella vita reale ho fatto il servizio militare molto tardi. Ero riuscito a procrastinare la chiamata alla leva fino a ventisei anni adducendo a motivazione i miei ponderosi studi universitari. Ad un certo punto mi ritrovai per la prima volta davanti alla caserma, con gli occhiali e la macchina da scrivere sotto il braccio, entrambi a mo´ di scudo. Gli ufficiali più giovani, che in maggioranza non erano andati all´università, nutrivano un grande rispetto nei miei confronti. Ben presto mi venne affidata l´incombenza di tutto il lavoro di scrittura, potevo prendermi molte libertà e mi sentivo più importante di un generale. All´inizio ero di stanza a Como. Grazie ai miei buoni agganci riuscii a rientrare nella lista dei trasferiti al comando generale di Milano, cosa naturalmente a me più gradita, perché avevo ancora il mio appartamento da studente in città. Per lo più lavoravo in caserma fino alle due del pomeriggio, poi andavo in centro, pernottavo senza permesso nella mia stanza e rientravo solo la mattina dopo. Eravamo in tempo di pace e nell´esercito potevi fare in pratica quello che volevi. Ma nonostante il favore di cui godevo queste uscite comportavano un certo rischio. Comunque avevo sempre il timore che una volta o l´altra sarebbe finita male e si sarebbe alzato un gran polverone. Cosa che, per fortuna, non è mai successa. Quest´ansia però mi ha perseguitato fin nel sonno.
I sogni sulla maturità e sul militare sono entrambi legati all´ansia, l´ansia di non riuscire a concludere qualcosa, l´ansia di essere colto in fallo. Oggi, in più tarda età, mi affliggono in sogno altre ansie. Quando ad esempio sono in viaggio in America, sogno di perdere l´aereo. Mi vedo allora affannato nella mia stanza d´albergo a fare in fretta la valigia: ho il volo alle sei, ma sono già le cinque e ancora non ho finito di fare i bagagli. Lo so, di sicuro arriverò in ritardo. Se viaggio in Europa il sogno subisce qualche piccola variazione: sogno allora di perdere il treno. Mi precipito alla stazione, ma non riesco a trovare il binario giusto. Perché? Perché sono di nuovo in ritardo. E alla fine il treno parte senza di me. La cosa strana in tutto questo è che in vita mia non ho mai perso un treno o un aereo. Beh, non esattamente. Solo una volta, una sola, ho perso l´aereo a New Orleans. Ma è successo esclusivamente perché, per paura di far tardi, ero arrivato all´aeroporto con un anticipo eccezionale. Mi ero quindi seduto in sala d´attesa e subito riaddormentato. Così non sentii chiamare il volo. Lo persi per essere arrivato con troppo anticipo.
Nonostante questa sgradevole esperienza continuo a badare scrupolosamente ad essere sempre puntuale. Il motivo? Perché il sogno di arrivare in ritardo continua a terrorizzarmi. Indubbiamente si tratta di un´interessante interazione tra sogno e realtà.
Non ho mai avuto grande interesse ad annotare i miei sogni. Né ho mai preso pillole stimolanti. Ho sempre voluto avere la mente lucida ed efficiente. Per me è una questione di orgoglio. Sono convinto che la mente mi dia storie più entusiasmanti di quanto possano fare i miei sogni. Devo ammettere tuttavia che i sogni hanno talvolta influito sulle mie storie anche se in casi rarissimi. Nel mio romanzo Il pendolo di Foucault faccio vivere al redattore Jacopo Belbo uno dei miei sogni ansiogeni: mi trovo in una città sconosciuta che credo in realtà di conoscere bene. So che se svolto a destra arrivo in un luogo che mi piace molto. Il problema è che non lo ritrovo più.
Un altro sogno ha ispirato un capitolo del mio romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana. In quel sogno abito in una villa, cerco una stanza che credo di conoscere. Ma non riesco a trovarla. Era la mia stanza preferita, zeppa di splendidi mobili antichi e di libri interessanti. So che è in fondo a un corridoio. Ma lì c´è un muro impenetrabile. Al protagonista del libro accade una cosa simile, ma sfondando il muro trova la stanza. E´ la stanza della sua giovinezza, cioè il Paradiso.
Sto per compiere 75 anni. Probabilmente festeggerò nella mia casa di campagna vicino a Rimini. Vi ho trascorso già molti compleanni e alle pareti sono appese fotografie mie e dei miei ospiti scattate in quelle occasioni. Ho ancora ben vivo il ricordo del mio settantesimo compleanno. Allora avevo invitato solo i miei studenti. Non c´era neppure mia moglie. Ormai non insegno più agli studenti dei primi anni, anche se mi è sempre piaciuto molto lavorare con loro. Invecchiando però ti sorge il dubbio di aver torto su molto di ciò che trasmetti agli altri. E non vorrei corrompere i giovani. Per questo tengo solo seminari per dottorandi. In questo caso il docente può permettersi di aver torto e di provocare, aprendo sempre vivaci dibattiti. In ogni caso non ho ancora l´intenzione di ritirarmi e di andare in pensione.
Quando si scrive da anni, come nel mio caso spaziando dai saggi ai romanzi ai trattati scientifici, si diventa ad un certo punto prigionieri di questa situazione autonomamente creata da cui è impossibile evadere. Il che non è così negativo, perché amo scrivere. È una sorta di sogno. Solo che in questo caso ho il pieno controllo della mia fantasia.
Copyright Die Zeit
Testo raccolto da Martin Scholz
Traduzione di Emilia Benghi



Repubblica Milano 4.1.07
Weekend in convento
Lo spazio dei nostri cuori inquieti

La mente. Ogni tanto ha bisogno di fermarsi in una afasia salutare
di Umberto Galimberti


Da qualche anno s'è diffusa la tendenza a trascorrere parte delle proprie vacanze o il proprio weekend in un convento. È una scelta comune a credenti e a non credenti, uomini e donne, giovani e vecchi. Quel che si cerca in quei luoghi non sempre è Dio, o per lo meno non lo è per tutti. Molto più di frequente è una rivisitazione di sé, per potersi raccogliere e quindi ri-accogliere dal rumore e dalla dispersione del mondo. Sembra infatti che il dialogo quotidiano tra gli uomini sia insoddisfacente, che gli spazi di silenzio e di incomprensione, al di là della buona volontà e delle buone intenzioni, esigano una comprensione superiore. Sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana. Sembra che le vette della mente non sappiano perché si protendano verso il cielo, se il cielo è vuoto.
Nell´atmosfera creata da queste inquiete domande, tutte le parole che quotidianamente impieghiamo nel mondo rivelano la loro afasia. E allora il silenzio del convento, scandito dal suo ritmo, favorisce quel cedimento della mente che è necessario, perché, a differenza del cuore, la roccaforte della ragione è incapace di sfiorare la verità senza possederla. Ultima conoscenza sul labbro delle domande ultime, il cuore, infatti, domanda la genesi del mondo, della materia, della vita, del male, della distruzione, della corruzione, chiede perché iniqua è la distribuzione dei doni e dei dolori agli uomini, e attende di capire perché l´amore per Dio e l´amore per gli uomini sono pezzi che non collimano nella rifrazione prismatica dell´intero. Questo intreccio tra Dio e Amore, dove Amore vede in Dio il suo raggio di trascendenza e Dio vede in Amore la sua natura, altrimenti a lui stesso ignota, è forse ciò che i visitatori inquietamente cercano nell´apparente quiete conventuale. Non sentimentalismi, e neppure slanci mistici, ma questo indecifrabile nesso tra l´Amore e Dio, che non è un privilegio né dei virtuosi né dei saggi, perché, come scrive Christos Yannaras, il maggior teologo greco-ortodosso del nostro secolo, «Amore è offerto a tutti, con pari possibilità. Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo reale superamento della morte. Perché solo se esci dal tuo Io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui».

Il Foglio 30.12.06
La bionda, il vecchio e il mare
Hemingway la odiava, Scott Fitzgerald l’adorava. Così Zelda distrusse la coppia del secolo con un balletto
di Luca Rigoni


Il romanzo dell’anima piagata da una incompiutezza tragica e fatale, il romanzo della coppia scorticata viva ma indissolubile, potrebbe cominciare così. Dalla scena madre. E’ il 28 maggio 1933. Siamo alla periferia di Baltimora, in una villa vittoriana con frontoni e portici, immersa in un bel parco, nella compitissima atmosfera del Maryland, quindici o sedici stanze, cadente, invasa dai rumori notturni. Una casa femminile, da nonna vedova. Si chiama, senza ironia, La Paix: e la scena si apre, alle due e mezzo di una domenica pomeriggio, sulla stanza della tortura di un matrimonio. I Fitzgerald decidono di alzare il sipario della loro crisi davanti a un pubblico minuscolo e spietato: Thomas Rennie, lo psichiatra che in quel periodo ha in cura Zelda, e una stenografa che registrerà tutto in presa diretta, in questa stravagante sessione di psicoterapia. Centoquattordici pagine di dialoghi. Rabbiosi, dolenti, acuminati, sarcastici. Che girano e rigirano, ostinati e spaesati come precoci mosconi primaverili, attorno a questo: che il romanziere di casa è lui, non lei, che il professionista è lui, non lei, che – come nel più squallido degli interni domestici: loro, che erano stati la schiuma dei giorni della Jazz Age – chi paga le bollette, comprese quelle salatissime delle cliniche, è lui, non lei. Lei, Zelda, l’anno prima aveva osato pubblicare un romanzo: 1392 copie vendute, 120 dollari e 73 cents incassati in diritti d’autore. Le aveva scritto per consolarla il suo editor, il leggendario Maxwell Perkins: Se non ci fossimo trovati negli abissi della Depressione il risultato sarebbe stato completamente diverso. Ma così come stavano le cose, niente poteva avere successo, a meno che non fosse opera di uno scrittore già noto per precedenti successi, o che rivestisse qualche particolarissimo interesse. Nella stanza di La Paix, nella penombra, a cominciare è Scott: E’ tutto sleale. Tutto sleale… Mi pagano un prezzo enorme, e non per niente. Mi pagano per una continua battaglia che so di poter sostenere… tutta la preparazione della mia vita è servita per farmi fare il romanziere… Ora, la differenza fra il professionista e il dilettante è qualcosa di spaventosamente difficile da analizzare: e spaventosamente impalpabile. Significa un robusto bagaglio; significa il sentore, il profumo del futuro in una sola riga. Zelda non ha nulla di essenziale da dire. Avere qualcosa da dire è questione di notti insonni: l’interminabile tentativo di scavare la verità essenziale. Ecco il nodo. Lui sta lavorando – dice – da sei, sette anni (in realtà sono ormai otto) a un romanzo che ha scritto e riscritto fino allo stremo, Tenera è la notte, e lei invece, in pochi mesi, in clinica ha composto di getto e dato alle stampe un libro, Save Me the Waltz, che scava nella stessa, incandescente materia, la loro vita. Scott scarica su Zelda tutte le incertezze e gli anni perduti: Tre di questi anni sono dipesi direttamente dalla sua malattia – dice rivolto al dottor Rennie – e i due anni precedenti indirettamente, perché lei, con la sua mania per la danza, ne è stata in parte responsabile. Esplode Zelda: Perché non dici che bevevi sempre! Questa è la verità. E questa è una delle ragioni per cui volevo diventare ballerina, perché non mi era rimasto nient’altro!. Ma man mano che la bobina si srotola, il dialogo torna sempre sullo stesso punto: chi è il vero scrittore? Io sono uno scrittore professionista – ripete Scott – ho un enorme seguito. Sono l’autore di racconti più pagato del mondo. Lo raggela Zelda: Allora mi sembra che tu stia portando un attacco un po’ troppo violento contro un talento di terz’ordine. Si tormentano per tutto il pomeriggio, mentre cala la luce, accompagnati dal fruscio della penna della dattilografa. Io sono il romanziere professionista e ti mantengo, affonda Scott. Tutto ciò che abbiamo fatto è mio, è tutto materiale mio! Di materiale tuo non ce n’è!. Replica lei: Sei così traboccante di autorimproveri per non aver scritto niente, che ti abbassi all’espediente di accusare me. Scott allora protegge il suo libro con lo scudo di un ultimatum: Devi smetterla di scrivere romanzi. E se scrivi una commedia non potrà trattare di psichiatria e non potrà essere ambientata sulla Costa Azzurra e non potrà essere ambientata in Svizzera. E qualunque sia l’idea, dovrà essere sottoposta a me. Così Zelda gli chiede: Che cos’è il nostro matrimonio? Niente altro che una lunga battaglia, mi sembra di ricordare. Lui: Non ne so niente. Eravamo la coppia più invidiata d’America attorno al 1921. Lei: Penso di sì. Eravamo attori fantastici. Lui: Eravamo terribilmente felici. Torniamo indietro. E’ il principio dell’estate del 1926, c’è una festicciola al Casinò di Juan-les-Pins, e Hemingway scatta questa istantanea: Zelda era bellissima e abbronzata e aveva una stupenda carnagione dorata e i suoi capelli erano di un bellissimo color oro scuro e lei era molto cordiale. I suoi occhi di falco erano chiari e pacati. Credevo che tutto fosse a posto e sarebbe andato per il meglio, quando lei si sporse in avanti e mi disse, confidandomi il suo grande segreto: 'Ernest, non credi che Al Jolson sia più grande di Gesù?'. Allora non ne sapevo nulla. Era solo un segreto che Zelda aveva diviso con me, come un falco potrebbe dividere qualcosa con un uomo. Ma i falchi non fanno a metà con nessuno. E’ l’immagine che di lei riceviamo dal suo più grande nemico. Per Hemingway, Zelda è la tremenda palla al piede di Scott, la moglie gelosa del suo lavoro. Né è più generosa, nel ricordo, Rebecca West: Lei era in piedi e mi voltava le spalle, e i suoi capelli erano belli, brillavano come quelli di un bambino… Poi si voltò e ne rimasi stupita, oserei quasi dire che il suo volto aveva una certa piatta bruttezza. C’era in esso una singolare disarmonia, quale si vede nei ritratti dei pazzi di Géricault. C’è però la Zelda degli amici, come i Murphy, la ricca ed elegante coppia di americani espatriati che fa da modello, in parte, a Dick e Nicole in Tenera è la notte: Gerald e Sara, ai quali il romanzo è dedicato. Dopo il primo crollo nervoso di Zelda, Sara Murphy scrisse a Scott: Penso così spesso al suo viso, e vorrei tanto che qualcuno lo avesse disegnato… Somiglia al viso di una giovane indiana, non fosse per gli occhi che ardono senza fiamma. Di sera, ricordo, se era agitata diventavano neri – e impenetrabili – ma sempre colmi di impazienza – per qualcosa, il mondo, penso. Lei non vi apparteneva comunque… Aveva una sua vita e sentimenti interiori che, suppongo, nessuno ha mai sfiorato – neppure tu. Gli occhi: ora di falco, ora vacui, assenti, distratti sempre da un altrove. (Ma Zelda, adesso sappiamo, dall’occhio destro era praticamente cieca: il medico della sua città natale, Montgomery in Alabama, sospettava che le mancasse la retina. Soffriva di forti emicranie per i problemi di vista, e possedeva una lorgnette che non usava mai, quasi certamente per vanità). Scrive Scott, a poche pagine dall’inizio di Tender Is the Night: her eyes brave and watchful, looking straight ahead toward nothing, gli occhi coraggiosi e attenti, guardando fisso di fronte verso il nulla. E’ lo sguardo della protagonista, Nicole. Ed è lo sguardo di Zelda, lungo l’ossessiva galleria di specchi che, di libro in libro, proiettano il riflesso di lei sulle pagine di Fitzgerald. E infatti Hemingway non riuscì a riconoscere il modello originario di Nicole, Sara Murphy, e criticò il libro: Se prendi delle persone reali e scrivi su di loro, non puoi far fare loro qualcosa che non farebbero. Devi mantenerle uguali… Non puoi fare di qualcuno qualcun altro. Mentre l’arte del romanzo, ricorda Pietro Citati in La morte della farfalla (Mondadori), il saggio mercuriale dedicato a Zelda e Scott, è proprio quella di prendere delle persone reali, decine di persone reali, mescolarle, fonderle e trasformarle in 'qualcun altro', facendogli fare cose che nessuno di loro avrebbe mai fatto nella realtà. Proprio così scriveva Fitzgerald, sempre a Sara Murphy, nel ferragosto del 1935, un anno e quattro mesi dopo la pubblicazione di Tenera è la notte: Nella mia teoria sulla narrativa, completamente opposta a quella di Ernest, cioè che ci vuole mezza dozzina di persone per ottenere una sintesi robusta abbastanza da creare un personaggio di finzione – in base a quella teoria, o piuttosto a dispetto di essa, ti ho utilizzata di nuovo e di nuovo in 'Tender': 'Her face was hard + lovely + pitiful', il suo volto era duro e incantevole e faceva pena…: qui come in cento altri punti ho cercato di evocare non te, ma l’effetto che tu produci sugli uomini – gli echi e i riverberi. Ma Nicole non è soltanto Sara: è, perlomeno, Sara più Zelda. E alla fine, più Zelda che Sara. Come le altre eroine di Fitzgerald. Non solo Daisy del Grande Gatsby , non soltanto Gloria di Belli e dannati che davanti al Plaza camminava agile e indolente davanti a lui, pronunciando frasi indifferenti che fluttuavano un attimo nell’aria abbacinante prima di giungere al suo orecchio. Il tunnel degli specchi rimbombante di echi porta fin dentro i Taccuini, il laboratorio segreto dello scrittore. Ed ecco, alla voce Giovani donne: Era una ragazza in un abito bianco da sera, dai capelli rosso oro, sotto i quali mostrava una faccia così coraggiosa e tragica che, parve, ogni occhio nella sala affollata doveva essere fisso e concentrato sulle sue più semplici avventure, sulla più lieve impressione incisa nel suo cuore. Zelda, Zelda e ancora Zelda. O un fantasma che in lei, per primo e per sempre, si è incarnato. In fondo, anche nella vita: chi furono, se non esangui, inadeguate controfigure, le amanti di Scott, la giovanissima attrice Lois Moran - la Rosemary di Tenera è la notte – o l’ultima, la gossip columnist Sheilah Graham? (Non proprio tutte: ci fu anche, brevemente e sbadatamente, nel caos alcolico di entrambi, Dorothy Parker). Di che cosa si ammalò – nel 1929 a ventinove anni – Zelda? Cosa la trascinò nelle cliniche francesi e poi svizzere e poi americane, costosissime, curata dai migliori psichiatri del tempo (Forel, Bleuler, Meyer), sofferente di allucinazioni, assalti di panico, attacchi isterici, il viso il collo le spalle coperti da orribili eczemi, fino a diventare una dolorosa piaga vivente ? E fino a morire, nel marzo del 1948, bruciata viva nell’incendio dello Highland Hospital, nel Nord Carolina, identificata solo grazie a una pianella carbonizzata? E quale parte di colpa, quanta responsabilità di questo male gravava su Scott? Non si ammalò, Zelda: o, per meglio dire, non prese mai nessuna malattia. Secondo la diagnosi del 1930 di Eugen Bleuler, era schizofrenica. La malattia, remotissima, annidata nell’infanzia più profonda era venuta alla luce cinque anni prima. Il marito non aveva colpa: forse avrebbe potuto ritardarne l’esplosione , avverte Citati. Gli psichiatri che oggi rileggono le lettere di Zelda a Scott preferirebbero parlare di disturbo bipolare: un tempo si chiamava sindrome maniaco-depressiva. Una forma di psicosi che spesso è ereditaria (e infatti tormentava i Sayre, la famiglia di Zelda) e che si manifesta con crisi alterne di depressione e eccitamento. Nel caso di Zelda – cercano di diagnosticare – questa patologia si era impiantata su di un temperamento ciclotimico, con continue variazioni di umore. Sarebbero forse bastati i sali di litio – provano a prescrivere – per tenere sotto controllo il disturbo, ma negli anni Trenta questi non venivano ancora usati. Sarebbero bastati a salvarla? Chissà. Torniamo alla catastrofe coniugale e alla sua miccia, l’unico romanzo compiuto di Zelda, Save Me the Waltz (Riservami il valzer, in Italia Il romanzo di Zelda). Il titolo è ricavato da un catalogo di dischi della Victory. Lei era perfettamente consapevole di quanto stava scrivendo: Sono fiera del mio romanzo… Ti piacerà – E’ decisamente scuola Fitzgerald, benché più estatico dei tuoi – Forse troppo. Essendo incapace di inventare uno stratagemma per evitare la ripetizione del ‘disse’, l’ho accentuata à la Ernest con mio sommo dispiacere. Lui è uno scrittore molto risoluto, ma anch’io morirò sulla breccia. Non finì così. Il libro racconta la vita di una ragazza del profondo Sud negli anni che precedono la Prima guerra mondiale e poi negli anni Venti a New York, Parigi e sulla Costa Azzurra al fianco del marito, artista di strepitoso successo. Lo stile è turgido riconosceva nel 1970 Nancy Milford, in una biografia che persino Cyril Connolly giudicò definitiva, tuttavia, per quanto eccentrico, per quanto difettoso, è carico dell’energia e della voce di Zelda. Affascinò anche Luchino Visconti e Suso Cecchi D’Amico, che nei primi anni Settanta ne trassero un soggetto per un film che non si fece. Ma è evidente che Il romanzo di Zelda dovesse spalancare, per la coppia, l’inferno: più che per le avventurette sentimentali di lei (con l’aviatore francese Edouard Jozan, storia apparentemente platonica) e di lui (la vendetta tutt’altro che platonica un paio d’anni dopo con la giovanissima Lois Moran), più che per le forsennate smanie per la danza di lei – troppo tardi, a ventisette anni – e la sua devozione per Madame Egorova, l’istruttrice della quale, a un certo punto, si convinse di essere innamorata. Il cristallo fragilissimo e di qualità diversa della loro creatività si scontrò e si ruppe, quello di Scott già sottoposto alle torsioni delle infinite riscritture di Tenera è la notte, quello di Zelda appannato dai trattamenti psichiatrici, eppure, a squarci, scintillante dell’improvvisa vitalità che le fece scrivere e pubblicare il suo romanzo tra il febbraio e l’ottobre del 1932. Quasi che l’incompiutezza della sua vita nell’arte - gli sforzi come ballerina, i tentativi come pittrice - le qualità poco più che amatoriali che riversava in tutto, fossero state spazzate via da una ventata che aveva attraversato i corridoi della clinica Phipps, dove allora era ricoverata. Non posso sempre stare tra Zelda e il mondo e vederla costruire quella sua dubbia carriera con pezzi di materia vivente strappati alla mia mente, al mio ventre, al mio sistema nervoso si lamentava, non senza compiacimento, Scott. Ma occorre uscire dalla stanza della tortura coniugale – e dal salotto buono, o pessimo, delle polemiche, da allora fino ad oggi: su chi fra i due avesse ispirato l’altro, su che cosa fra i due l’uno avesse sottratto all’altro, su chi fosse dei due, alla fine, l’imitatore di voci, il falsario. Per capire, forse è meglio affidarsi alla nipote Eleanor, figlia della loro unica figlia, l’amata Scottie. Prima di mostrare il suo romanzo a Scott, Zelda lo spedì in tutta fretta all’agente di lui, Maxwell Perkins. Scott, comprensibilmente, si arrabbiò. Zelda evidentemente prevedeva che Scott non avrebbe voluto che lei usasse esattamente lo stesso materiale di 'Tenera è la notte'. 'Save Me the Waltz' scatenò la loro più feroce lotta territoriale… Ma dei miei nonni era ammirevole la loro infinita capacità di perdono. Alla fine, Scott aiutò Zelda nelle revisioni, l’aiutò a pubblicare diversi articoli e a produrre la sua commedia, 'Scandalabra'. E quando Zelda si mise a dipingere seriamente, le organizzò una mostra a New York… Credo, come mia madre, che Scott e Zelda siano stati reciprocamente innamorati fino alla fine dei loro giorni. Forse divenne un amore impossibile e impraticabile – parte nostalgia e parte speranza. In Tenera è la notte, Dick e Nicole sull’onda della loro armonia si ribattezzano Dicole : poi tutto si incrina fino a spezzarsi. Ma in quegli strazianti mesi fra il 1932 e il 1933 di privata guerra territoriale, ebbe l’onestà e la forza di scrivere Scott: Ciascuno di noi farebbe bene a sbarazzarsi dell’altro – anche se, per colmo dell’ironia, non siamo mai stati così disperatamente innamorati l’uno dell’altra in vita nostra. L’alcol sulle mie labbra è dolce per lei; io adoro le sue più stravaganti allucinazioni. Se non è stata una coppia, questa.

L'Unità 31.12.06
L’eutanasia ossia le parole pesanti
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Perché non cominciare a chiamare le cose con il loro nome? In tanta confusione, non guasterebbe di certo: perché, sì, è comprensibile che le questioni «di vita e di morte» finiscano col polarizzare le posizioni in campo; ed è, di conseguenza, altrettanto comprensibile (e non per questo giustificabile) che le parole sfuggano di bocca e di penna, che si smarrisca - per dirla difficile - ogni rapporto tra «significante» e «significato». Ma, negli ultimi tempi quella sequenza di consonanti e vocali, che dà forma e suono al termine «eutanasia», è quantomai abusata e impiegata a sproposito. Innanzitutto: esistono pratiche mediche di accelerazione del decesso (di un decesso che si prevede come risultato inevitabile di una prognosi infausta e a breve termine) che non sono eutanasia. Valga, a titolo d'esempio, la questione della «sedazione terminale», laddove l'accompagnare «dolcemente» il malato verso una morte, comunque inevitabile, non ha nulla a che fare con l'interrompere una vita: e risponde, piuttosto, a un mero dovere deontologico del medico, nonché a un gesto di umanissima pietas. Altrettanti fraintendimenti si addensano sull'impiego della formula «eutanasia passiva», con la quale in molti accostano la pratica della sospensione delle cure a un «dare la morte», ancorché indirettamente. Forse è proprio sull'onda di questa interpretazione che una deriva, ambigua e perversa, porta a considerare la vicenda e la morte di Piergiorgio Welby come una questione eutanasica. Ma quella persona tutto ha chiesto fuorché di essere ucciso. Egli voleva, piuttosto, essere lasciato morire; voleva che alla sua malattia (dalla quale non poteva attendersi alcuna possibilità di guarigione e che s'era fatta dolore cieco), fosse lasciato corso naturale. Dunque, Welby intendeva sottrarsi a una condizione di vita assolutamente «artificiale», del tutto «non naturale», in cui le funzioni fisiologiche primarie sono assolte da macchine; una condizione nella quale trattamenti sanitari invasivi, vissuti come lesivi della dignità, supplivano a uno stato biologico «morente», altrimenti già morto da tempo.
Interrompere le cure, qualora il paziente lo richieda, è cosa assai distinta e ben distante dal ricorso all'eutanasia. Interrompere le cure quando esse costituiscono solo una forma di accanimento terapeutico, poi, è doppiamente doveroso e ragionevole: tanto che lo stesso codice deontologico dei medici condanna espressamente qualsivoglia pratica di accanimento.
Insomma, ci sono almeno due questioni sul piatto. La prima riguarda il diritto del malato (formulato nel dettato costituzionale e riconosciuto da più convenzioni internazionali, sottoscritte dall'Italia) a rifiutare qualunque intervento medico egli ritenga superfluo o dannoso o svilente della sua persona. Il paziente, in tal senso, è riconosciuto come unico e assoluto titolare del corpo che si vorrebbe curare; e, in quanto tale, capace di richiedere l'astensione da qualsiasi terapia. La seconda questione, invece, ha a che fare con la natura stessa della pratica medica: con il fatto, cioè, che si deve individuare un limite al suo raggio d'azione. Un limite che, essendo funzione dei tempi, delle scoperte scientifiche, delle conoscenze teoriche e pratiche, deve coincidere con un confine ragionevole tra vita e sopravvivenza.
Ne consegue che le polemiche addensatesi sul «caso Welby» non possono essere ridotte alla contrapposizione tra opzioni di ordine politico o ideologico. Discutere della vita e della morte di quella persona alla luce delle fratture «classiche», che percorrono la società italiana, si rivela inutile. Le opinioni di chi interviene sulla sua vicenda non possono essere scomposte nel confronto tra virtuosi estimatori del valore e della sacralità della vita e accaniti necrofili, cinici utilitaristi in vena di provocazioni. Altresì, quel confronto non coincide (neppure un po') con i confini tracciati dalla distinzione laici/cattolici. Basti leggere quanto segue: «Nell'immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, poiché vi è grande differenza etica tra procurare la morte e permettere la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa» (così la Pontificia Accademia per la vita nel dicembre 2000).
La partita vera si gioca tra chi ha voluto prendere sul serio la sofferenza di Welby e chi, con atteggiamento non scevro da paternalismo, ha ritenuto di potersi sostituire alla sua volontà per «salvarlo», per incatenarlo a una vita «lucida», ma insopportabile. Giorgio Israel si chiedeva, sul Foglio del 12 dicembre: «Immaginiamo di incontrare una persona che sta per lanciarsi da un ponte. Lo fermiamo e gli chiediamo il perché del suo gesto e lui ci racconta i tragici eventi che gli hanno tolto ogni ragione di vivere. Sono motivi talmente gravi che ci convinciamo che egli non possa fare altrimenti: lo aiutiamo a scavalcare l'alto parapetto e gli diamo una buona spinta per facilitare il suo gesto. Chi giudicherebbe ragionevole un simile comportamento? Di più: quale persona degna di questo nome si comporterebbe così? Eppure si chiede di fare questo nel caso di un dolore fisico: non aiutare, accompagnare, assistere, e alleviare con tutti i mezzi un inevitabile declino, ma sopprimere». E invece, diciamo noi, qui si trattava proprio di accompagnare, assistere e alleviare senza sopprimere. Il suicida di Israel può essere salvato: ma può tentare il suo gesto mille altre volte e infine portarlo a compimento. Welby no, non poteva neppure questo. Ed è stato costretto alla vita oltre la propria volontà non da qualche benintenzionato salvatore, ma da macchine che l'avevano reso l'ombra dolente dell'uomo che era. E infine, a ben vedere, quel «parapetto» di cui parla Israel, Welby lo aveva scavalcato da tempo, e giaceva al suolo morente. Si doveva prolungare la sua agonia, che lo avrebbe condotto comunque a morte certa, tra mille dolori, o aiutarlo a spegnersi senza che fosse sopraffatto da una sofferenza inutile? Che, poi, al suicida di Israel la Chiesa riconosca un funerale religioso e a Welby no, ebbene, questa è cosa altra; da far pensare alle parole di Gesù, poco prima della sua morte: «beati quelli che piangono».
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it



Repubblica 4.1.07
Criticato per aver snobbato la Bibbia, Keith Ellison spiazza i conservatori: giurerà su un testo musulmano "patriottico"
Il Corano del presidente Jefferson l'arma del primo deputato islamico
Un modo per rendere omaggio sia alla Costituzione che al principio della libertà religiosa


NEW YORK - Lo avevano accusato di essere un traditore. Di disprezzare la Bibbia in favore del Corano. Di dimenticare e offuscare i valori tradizionali degli Stati Uniti. Ma Keith Maurice Ellison, il primo musulmano a diventare deputato nei duecento anni di storia del Congresso, ha trovato un modo elegante per respingere le critiche e saldare i suoi valori religiosi con la cultura americana. Oggi, infatti, dopo il giuramento collettivo della nuova legislatura guidata da Nancy Pelosi, Ellison avrà in mano, durante il suo giuramento «privato», una copia del Corano del 1750 proveniente dalla biblioteca dell´ex presidente Thomas Jefferson.
«In questo modo», ha spiegato il braccio destro del deputato Rick Jauert (considerato anche l´ispiratore della abile mossa politica), «Ellison renderà omaggio sia alla Costituzione che ai principi della libertà religiosa sanciti da Jefferson e dagli altri padri della patria».
Le polemiche su Ellison erano cominciate il giorno stesso della sua elezione a novembre. Nato nel 1963 a Detroit, nel Michigan, Ellison, che è afro-americano, si era convertito dal cattolicesimo all´islamismo sunnita durante gli studi universitari. Diventato avvocato, si era gettato nell´attivismo sociale e nella carriera politica nelle file dei democratici, riuscendo a entrare nel parlamento del Minnesota. L´anno scorso il duplice salto: primo deputato afro-americano del Minnesota a finire alla Camera dei rappresentanti e soprattutto primo musulmano al Congresso. E la sua intenzione di giurare fedeltà sul Corano aveva subito provato molta irritazione tra i repubblicani più conservatori.
«E´ una offesa alla istituzione», aveva tuonato Virgil Goode, deputato della Virginia. Il quale, in una lettera pubblicata due settimane fa, aveva sollevato obiezioni sull´uso del Corano per il giuramento («la grande maggioranza dei miei elettori preferiscono che si usi la Bibbia») e approfittato della circostanza per parlare dei «pericoli» della immigrazione di musulmani negli Stati Uniti.
Dalla parte di Ellison si erano schierati tutti i gruppi musulmani. Ma per superare le polemiche, il neo parlamentare ha avuto l´aiuto di Mark Dimunation, responsabile dei libri e delle collezioni speciali della Biblioteca del Congresso. Dimunation ha trovato una copia del Corano tradotta in inglese da George Sale, che si era salvata dall´incendio del 1851 nella biblioteca privata di Jefferson e che nel frontespizio ha le iniziali dell´ex presidente. La copia - come è successo in occasioni analoghe - è stata prestata al neo deputato, che così potrà oggi evitare ogni critica.
Considerato il più influente tra i padri fondatori degli Stati Uniti, Jefferson era un uomo di grande cultura. Architetto e paleontologo, agronomo e filosofo della politica, aveva interessi in vari campi del sapere. Fondò l´università della Virginia. Scrisse buona parte della Costituzione. Divenne il terzo presidente. E gode ancora oggi in America di grande prestigio. Insomma, la persona giusta da cui «prendere in prestito» una copia del Corano per neutralizzare gli attacchi degli integralisti e della destra repubblicana.
(ar. zam.)


Repubblica 4.1.07
Lunedì la rockstar festeggerà il compleanno. Il suo carisma è immutato ma oggi evita ogni eccesso
Bowie, 60 anni da marziano
Ecco i mille travestimenti di un principe senza età
I suoi due occhi di colore diverso uno celeste l´altro verde, hanno saputo guardare il mondo come da un altro pianeta
di Gino Castaldo


ROMA - Anche i mutanti invecchiano, ma «con eleganza», come ha detto lui stesso un paio d´anni fa. Questa massima oggi la mette in pratica con puntigliosa metodicità, anche a costo di incidere dischi che non smuovono e non turbano più come quelli di una volta. Dischi classici, innocui, in cui prevale quella che lui definisce «una vocazione più impressionista». Ovvio: certi travestimenti esagerati non si addicono più a un principe rinascimentale catapultato nello sfavillante mondo del rock che lunedì prossimo compirà sessant´anni. David Bowie è ancora bello in modo inquietante, perfetto, forse lievemente ritoccato, ma non abbastanza da farlo notare in modo evidente, gode di un forte carisma di rendita, accumulato in anni travolgenti quando i suoi due occhi di colore diverso, uno celeste l´altro verde, guardavano il mondo come da un altro pianeta.
Ancora oggi forse c´è qualcuno disposto a credere che non sia del tutto umano, e che la storia raccontata in L´uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg non sia solo una metafora. Certo è che il suo viso rimane immutabile e la voracità con cui ha consumato trasgressioni, incerte identità sessuali, maschere, relazioni, florilegi d´artista, sembra proprio quella di qualcuno che il pianeta Terra l´ha scoperto all´improvviso e ci si è tuffato con la lussuria dell´esploratore di nuove terre.
Ma Bowie una gavetta l´ha fatta, come tutti, ha suonato con vari gruppetti negli anni giovanili, il primo disco lo ha inciso da cantautore psichedelico, e anche quando ha raggiunto il successo con Space oddity, non è bastato a farne una star indiscussa. I due dischi successivi sono splendidi ma non furono molto capiti, almeno finché non si presentò travestito da Ziggy Stardust, che era una metafora del successo planetario, come se avesse deciso che il successo, per ottenerlo, dovesse prima metterlo in scena. E così fu.
La novità fu subito chiara. Prima di lui il rock aveva parlato un linguaggio diretto, bisognava essere o far credere di essere se stessi, nel bene e nel male. Per la prima volta Bowie introdusse l´idea di maschera. Sul palco c´era, dichiaratamente, un personaggio, non il vero David Robert Jones, nato a Brixton l´8 gennaio 1947, in arte David Bowie, di volta in volta era Ziggy Stardust, poi Aladdin Sane (in cui era facile riconoscere, spostando le pause, la definizione A ladd insane, un ragazzo folle), poi il Duca Bianco e così via, in un vortice di trasformazioni senza sosta.
Vampiresco e eclettico, Bowie cambiava di continuo, prima raccontava il futuro, (nella trilogia conclusa con Diamond dogs) poi le contraddizioni del presente nella trilogia berlinese, (Low, Heroes e Lodger), poi giocava col pastic-soul e infine era di nuovo il Major Tom di Space oddity in Ashes to ashes, forse la sua ultima canzone-capolavoro, nella quale ironizzava sui suoi personaggi e alludeva con parole enigmatiche alla possibilità che il Major Tom perso nello spazio non fosse altro che un tossicodipendente perso nei suoi spazi interiori. Ora Bowie ha smesso le mutazioni, come se Picabia fosse diventato Monet, dipinge la sua vita a tinte pastello e amministra il sessantesimo genetliaco come uno sfarzoso principe. Ma continuiamo ad avere un sospetto: che la sua Brixton sia in provincia di Marte.

mercoledì 3 gennaio 2007

l’Unità 3.1.07
Saddam-Duce, folle paragone
di Bruno Gravagnuolo


Un falso parallello. Sì, è davvero insensato il paragone tra la sorte di Saddam e quella di Mussolini. Lasciamolo alla canea di Alessandra Mussolini, Calderoli, Antonio Martino, oltre che alla propaganda di un governo iracheno che ha agito in spregio d’ogni garantismo, all’ombra dell’occupante Usa. Norimberga? Era oro al confronto! Lì i giudici non erano nascosti, come i tre di Baghdad. I difensori non venivano accoppati. E la giuria benché di vincitori era internazionale. E quanto a Mussolini, gli Usa volevano salvarlo. Mentre Saddam è stato giustiziato esattamente come prevista sanzione della guerra ideologica di Bush jr. Un crimine giuridico dunque, e una follia politica, che rilancia l’odio civile in Iraq. Altro che «compromesso di pacificazione», come farnetica Carlo Pelanda sul Giornale. E sempre a proposito del Duce, com’è che nessuno sulla stampa ha commentato le rivelazioni di cui su l’Unità ha riferito nei giorni scorsi Vincenzo Vasile? Eppure trattasi di documenti chiave dell’Oss. Vale a dire: gli americani volevano vivo Mussolini. Cercarono di sottrarlo al Clnai che dal canto suo - riferisce la fonte segreta Oss - aveva deciso unitariamente al suo vertice l’esecuzione del prigioniero (e lo dice Cadorna). Cadono così le sciocchezze su una sentenza voluta dai soli comunisti. E si conferma che gli Usa avrebbero voluto giudicare loro il dittatore, e magari graziarlo, «espropriando» la Resistenza. Del resto non fu l’Oss a riciclare Borghese e altri saloini nel contesto dell’incipiente guerra fredda? Morale: contesti diversi e geopolitiche opposte nei due casi. E ricamare su presunte affinità serve solo a mascherare l’infame conclusione di un infame decisione a monte e basata su menzogne accalarate: la guerra in Iraq.
Delirium tremens. «L’uguaglianza uccide. Ed è questo che vogliono i nostri governanti: uccidere gli italiani. Il perché è chiaro: l’idea dell’Unione Europea è un’idea comunista e pertanto un’idea egualitaria». Calderoli? Rauti? Tilgher? No, Ida Magli, sul solito Giornale. Tremate, tremate, le streghe son tornate. E ogni tanto le sciolgono pure.

l’Unità 3.1.07
Massimo Salvadori. Lo storico torna sul paragone fatto dal premier iracheno: entrambi da vivi sarebbero stati pericolosi punti di riferimento per gli sconfitti
«Analogie tra Mussolini e il raìs ma contesti diversi»
di Umberto De Giovannangeli

«Vi sono eventi come i processi ai dittatori sconfitti in cui Kratos, il principio della forza, ha comunque la meglio su Ethos, il principio di moralità giuridica. È stato il caso di Mussolini, e per certi versi lo è anche per l’esecuzione di Saddam Hussein. L’analogia è che la resistenza italiana voleva impedire che Mussolini vivo potesse sopravvivere come punto di riferimento di un mondo neofascista che avrebbe avuto nel duce un referente pericoloso per l’Italia che provava a ricostruirsi sulle macerie della Guerra. Nel caso di Saddam, c’è un potere espressione della maggioranza curdo-sciita e sostenuto sul campo dagli angloamaericani, che ha ritenuto un Saddam in vita una sorta di “bomba” ad alto potenziale». A parlare è lo storico Massimo Salvadori.
Professor Salvadori, il portavoce del primo ministro iracheno ha ricordato al premier italiano che il «processo a Mussolini durò un minuto». È possibile a suo avviso individuare una qualche analogia tra questi due eventi?
«In effetti un’analogia può essere riscontrato e spero che su questo giudizio sia possibile riflettere in maniera non moralistica».
Qual è questa analogia?
«Noi sappiamo bene che gli americani e gli inglesi avrebbero voluto sottoporre Mussolini a un processo e sottrarre quindi il duce a una esecuzione da parte delle forze della resistenza, e questo perchè c’era la volontà esplicita della resistenza di lanciare con l’uccisione di Mussolini un messaggio esemplare, e cioè che le colpe di un dittatore che aveva trascinato il Paese alla rovina, devono essere regolate con una condanna irreversibile comminata ed eseguita da chi aveva subito le violenze del nazifascismo e che si candidava alla ricostruzione dell’Italia. In sostanza si voleva che i conti con Mussolini si regolassero in Italia da parte delle forze della resistenza. A prevalere fu anche la preoccupazione per le implicazioni che avrebbe avuto un processo pubblico a Mussolini, che avrebbe comportato con ogni probabilità un dibattito che avrebbe avuto delle fortissime ripercussioni politiche aprendo anche scenari di violenza. L’esecuzione del duce rispondeva anche a una logica di stabilizzazione del regime democratico nato dalla resistenza antifascista. Su questo piano, che è storico e politico, quell’esecuzione va giudicata e non su quello morale o giurisprudenziale».
E nel caso di Saddam?
«Nel caos del dittatore iracheno, si può parlare di un errore ma non di un crimine; il primo fa riferimento al piano della politica, il secondo implica una valutazione morale. Nel caso di Saddam, dobbiamo parlare di una decisione presa da un potere iracheno che è espressione della maggioranza sciita e curda. L’esecuzione dell’ex dittatore è un atto di una guerra civile ad opera della maggioranza curdo-sciita diretto contro i sunniti che sono legati all’eredità politica di Saddam. Certo, i contesti storici sono diversi, così come diversa è la percezione che si ha oggi della pena di morte rispetto a sessant’anni fa, ma se un’anologia tra i due eventi è possibile cogliere è che sia la resistenza italiana che il potere irachena ritenevano Mussolini e Saddam in vita due “bombe” dall’alto potenziale destabilizzante. Ciò detto va sottolineato che atti di questo genere vanno collocati nel contesto di guerra e della logica politica che ne è espressione, il che nulla toglie alla valutazione di merito del processo subito da Saddam».
Che processo è stato a suo avviso?
«È stato un processo-mostro, che ha obbedito ad una parvenza di diritto che è stata conculcata nei fatti e nelle procedure. In realtà in questi casi c’è un conflitto aperto tra “Ethos” (il principio di moralità giuridica) e “Kratos”, il principio della forza. Ma sia se si procede a una esecuzione sommaria sia che si passi per un “giusto processo”, è sempre “Kratos” che finisce per imporsi, perché a dominare è la logica della politica su quella umanitaria».
Romano Prodi ha ribadito la contrarietà dell’Italia all’esecuzione di Saddam impegnandosi ad una iniziativa in sede Onu per una moratoria della pena capitale.
«Prodi ha rappresentato al meglio quella coscienza civile dell’Europa che rifugge dal ricorso alla pena di morte come strumento per fare giustizia. Quella assunta dal premier italiano è una posizione che ha un suo significato nobile, che s’incardina nel principio dell”Ethos” ma che trova sulla sua strada un ostacolo difficile da rimuovere, costituito dal fatto che, ad esempio in Iraq, la logica della politica, che il più delle volte è la consacrazione dei rapporti di forza, ha visto nell’eliminazione di Saddam non solo un risarcimento per i crimini del passato perpetrati dal dittatore, ma anche un investimento sul(proprio) futuro».
Professo Salvadori, in conclusione del nostro colloquio vorrei tornare sul parallelismo Saddam-Mussolini. Giuliano Vassalli ritiene che paragonare l’uccisione di Mussolini all’esecuzione di Saddam sia un’operazione «frettolosa e volgare. «Non a caso - afferma tra l’altro l’ex presidente della Corte Costituzionale, «che tra il 1945 e il 2006 la situazione nel campo della pena di morte e della sua legittimità è profondamente cambiata».
«Il cambiamento dei tempi certamente è importante e indubbiamente bisogna tener conto che oggi è maturato un senso dei diritti umani e della loro tutela che rappresenta una conquista importante da tutelare e rafforzare. Detto questo, resto della convinzione che quando scattano certe logiche legate a questioni di potere, a questioni legate alla sopravvivenza di brutali e impietose logiche di realismo politico, purtroppo dobbiamo constatare che queste logiche finiscono in molti casi per prevalere su ogni altra considerazione di ordine giuridico e morale».

l’Unità Lettere 3.1.07
La fine di Saddam e quella di Mussolini: un paragone sbagliato
Cara Unità,
la piccata risposta del premier iracheno Maliki al commento di Prodi, sulla rapida esecuzione di Saddam Hussein è totalmente sbagliata quando si riferisce a quella di Mussolini.
Vorrei sottolineare la differenza tra le due cose: 1) Non è stato il governo Prodi, né la maggioranza che lo sostiene a “eseguire” Benito Mussolini. Tra l’altro tra i diversi episodi sono passati più di 50 anni e la maggioranza di centro sinistra al governo oggi in Italia è diversa dal CLNAI che decise all’unanimità (dai liberali ai comunisti) la liquidazione del dittatore italiano.
2) Il CLNAI con l’appoggio dei partiti nazionali italiani che inquadravano la Resistenza avviò una lotta contro il tempo con gli alleati angloamericani per la giustizia su Mussolini, temendo che una volta in mano degli alleati il dittatore divenisse una delle tante merci di scambio, nella logica della competizione Ovest-Est. E venisse sottratto alla logica totalmente diversa «Il popolo ritrovata la via della libertà giustizia il suo tiranno», mostrando una totale autonomia statuale da quella delle forze angloamericane. In Iraq la situazione è opposta: c’è la pesante ombra che il governo Maliki abbia agito, nella costruzione del processo, nelle irregolarità procedurali, finanche nei tempi dell’esecuzione, per compiacere e favorire le forze d’occupazione, da cui la sua sopravvivenza politica dipende.
3) Mussolini è stato giustiziato dai rappresentanti di un popolo esacerbato e tradito da cinque anni di una guerra rovinosa, che il dittatore italiano aveva scatenato contro gli anglo-americani, vantando pure di «spezzare le reni» a una delle due potenze. La guerra era mondiale. Lo scenario di tregenda scespiriana. Nel caso iracheno si è trattato di una guerra anglo-americana “improvocata” dall’Iraq per usare una espressione del «Today Usa», con motivazioni rivelatasi false, e per ragioni del tutto diverse da quelle dichiarate.
Massimo Ciocchetti, Roma

La Stampa 3.1.07
Saddam, Mussolini e la storia
di Luca Ricolfi

«Contestualizzazione» è una parola che non amo. Suona male, come molte parole nuove che finiscono in «one». Anche il verbo contestualizzare non mi piace per niente, così come i suoi sinonimi storicizzare, relativizzare, inquadrare, troppo spesso usati per giustificare ogni sorta di nefandezze storiche e individuali: il ragazzo che uccide i genitori, lo spacciatore che spadroneggia nel quartiere, le tribù africane (ora gentilmente denominate etnie) che si massacrano, i fanatici di ogni angolo della terra che ammazzano innocenti in nome di una causa politica o religiosa. Però, però...
Però contestualizzare è anche un’attività naturale della mente, sempre esistita da quando esiste la civiltà umana, dunque ben prima che qualcuno inventasse quell’orribile verbo.
Il bambino che assiste a uno spettacolo di marionette si immedesima in quel che vede, ma sa - per parafrasare Bennato - che «sono solo marionette»: non scappa spaventato se una marionetta ne accoltella un’altra. Il buon cristiano di oggi, quando apprende che Nerone i cristiani li faceva sbranare dai leoni, prova al massimo un senso di stupore: non pretende un risarcimento postumo dagli attuali discendenti degli antichi romani.
Leggendo le cronache di questi giorni sulla pena di morte inflitta a Saddam - insieme allo sgomento di (quasi) tutti di fronte a un’istituzione che noi europei non siamo più disposti ad accettare - ho provato anche una sensazione strana, la sensazione di un generale venir meno di quella nostra antica e fondamentale facoltà della mente: non già la (deprecabile) capacità di tutto giustificare, bensì la spontanea, naturale, non costruita capacità di vedere la distanza dove c’è. Perché è questo che non sappiamo vedere più. Giustamente le autorità irachene ci ricordano: e voi con Mussolini? È stato più giusto il processo cui è stato sottoposto il vostro dittatore? Qual è la differenza?
La differenza, anzi le differenze, cari iracheni, sono due. La prima è che oggi ci sono la tv e Internet, e chiunque può scaricarsi il film dell’esecuzione di Saddam; l’orrore è disponibile on line, e chi vuole indignarsi può servirsi «à la carte». La seconda differenza è che appena mezzo secolo fa, quando Mussolini venne «giustiziato» (altra parola detestabile), non esisteva ancora una «civiltà superiore» che ci potesse guardare, e stracciarsi le vesti per la nostra barbarie.
Adesso invece c’è: siamo noi. E soprattutto vede e si fa vedere, perché il mondo è completamente interconnesso, e noi viviamo - siamo costretti a vivere - in perenne mondovisione. Agli iracheni è toccato il guaio di celebrare il loro processo contro il loro dittatore in un momento storico in cui una parte del mondo è molto più avanti, o perlomeno presume di esserlo, in barba a ogni omaggio al pluralismo delle culture. Quando toccò a Mussolini, della civiltà europea come la conosciamo oggi non c’era la minima traccia: la maggior parte dei Paesi che contano aveva la pena di morte, e le sensibilità ecologiste-animaliste-umaniste di oggi erano largamente sconosciute. Sgozzare un maiale o una gallina nell’aia non faceva impressione a nessuno, la gente considerava normale morire per servire la patria, ma anche intervenire in un tram per fermare un tentativo di stupro. È di tutto questo, di questo suo recente (barbaro?) passato, che il sofisticato cittadino europeo pare non voler prendere atto. Eppure sarebbe importante fermarci e riflettere. Perché l’astrattezza che ci porta oggi a indignarci per l’esecuzione di Saddam, non capendo che l’Iraq vive in un altro tempo storico, è la stessa che ci ha portati ieri a credere che la democrazia si possa instaurare d’emblée, senza tappe intermedie, come si esporta una tecnologia. I falchi americani che credono di poter imporre a tutto il mondo il modello democratico, e le colombe europee che ragionano come se tutti vivessimo nello stesso tempo, sono vittime della medesima mentalità astorica.
C’è un po’ di spocchia, o di superficiale alterigia, nella nostra pretesa di giudicare un popolo che - sulla scala più o meno arbitraria della nostra civiltà - vive in un tempo ben anteriore a quello che portò gli italiani a fare i conti con il loro duce. Ma c’è anche tanta ingenuità, come quella di un bambino che volesse far arrestare gli attori che impersonano i «cattivi» in un dramma shakespeariano. Nel caso dell’Iraq, lo spettacolo è purtroppo reale, ma la distanza rispetto a noi è abissale come quella di un dramma shakespeariano. Per questo - perché è reale - la politica si adopera per cambiare le cose, e fa bene a farlo. Per questo - perché gli eventi si snodano in un tempo storico che non è il nostro - suonano sgradevoli le lezioni di civiltà impartite agli iracheni. Spero anch’io, un giorno, di vivere in un mondo in cui tutti considereremo inaccettabile la pena capitale. Ma in attesa di quel giorno, l’umana pietà è il solo sentimento che riesco a provare.

Repubblica 3.1.07
LA POLEMICA
Mussolini e Saddam due giustizie diverse
di Giorgio Bocca

«Tacete voi che avete ucciso Mussolini dopo un processo di un´ora», ha detto il governo iracheno all´Italia. Ma non è andata esattamente così. Mussolini è stato condannato dalla maggioranza del popolo italiano negli anni delle guerre inutili e sanguinose e soprattutto nei venti mesi della occupazione nazista e della collaborazione di Salò con Hitler. E se proprio si vuole una giustificazione legalistica Mussolini è stato giustiziato su ordine del Clnai, il comitato di liberazione nazionale che governava nell´Italia occupata.
L´ordine era di passare per le armi chi nel giorno della insurrezione generale si fosse opposto con le armi in pugno. E Mussolini fu catturato a Dongo mentre tentava di fuggire in Valtellina e da lì nella Germania ancora nazista.
Della sua esecuzione sono state date centinaia di versioni. Noi crediamo, per quel che possa valere, che la più aderente al vero sia quella raccontata in una nostra storia della Repubblica di Salò. L´abbiamo appresa da Fermo Solari che quel 25 aprile era a Milano al comando partigiano del nord Italia.
«Telefonarono da Musso, un paese del lago di Como – mi raccontò Solari – e ci dissero che avevano catturato Mussolini. Luigi Longo uscì nel corridoio per trovare qualcuno da mandare sul posto. Tornò e mi disse: ho trovato solo Audisio». Non era proprio così: aveva trovato anche Lampredi uomo di partito e mandò anche lui con l´ordine di fucilarlo sul posto. «A me – disse Solari – ha detto: gli ho ordinato di portarlo a Milano». Lampredi e Audisio lo fucilarono, noi lo sapemmo a cose fatte e approvammo pienamente.
Ma la fucilazione di Mussolini e dei gerarchi a Dongo è politicamente assimilabile alla impiccagione di Saddam Hussein solo nelle linee generali. La fine di una tirannia non poteva allora essere che una giustizia sommaria del vincitore. Sotto questo aspetto quella di Mussolini è stato un fatto inevitabile, la scomparsa di un uomo perché la storia continui, un epilogo violento e drammatico perché da una tirannia possa nascere un paese libero. Ciò che persuade di meno della esecuzione del tiranno Saddam è che il tiranno era già caduto e vinto: nessuno, neppure i seguaci e consiglieri di Bush, può seriamente pensare che la democrazia sia esportabile con le armi e che i sudditi di Saddam, o almeno una importante minoranza, siano davvero convinti delle colpe del loro leader tanto è vero che a cadavere ancora caldo i sunniti lo piangono e si ripromettono di vendicarlo. Sicché la esecuzione barbara di Saddam più che l´inizio di una liberazione ha l´aria della convulsione di un terrore perdurante, di una ferocia che si ripete. E in questo senso si può considerarla un errore.
La condanna di Saddam è la condanna di un satrapo ma ha anche degli aspetti ignobili, inaccettabili. Il dittatore oggi ucciso ha goduto a lungo di una larga complicità internazionale proprio mentre commetteva quei reati per i quali ora è stato giustiziato. Complicità maldestramente rinnegate come quelle del presidente Bush che dormiva e di suo padre che giocava a golf perché oggi quel satrapo non serve più negli affari sporchi dei paesi del petrolio. Hanno un bell´affannarsi i grandi cinici di casa a ricordarci che così vanno le cose di questo mondo e che non saranno le anime belle a cambiarle ma l´errore della esecuzione di Saddam resta, come segno che i potenti della terra anche in questo orrendo episodio hanno scelto il gioco degli sporchi interessi, delle vendette senza fine, hanno confermato la umana vocazione al gioco sporco, al gioco furbo, al vinca il peggiore.
L´errore della esecuzione di Saddam con quella terribile esposizione di cappi, botole, boia mascherati, insulti sono stati un errore profondissimo, di quelli che fanno disperare degli uomini e del loro destino.


l’Unità 3.1.07
La guerra santa dei due Islam nemici
di Wladimiro Settimelli


I SUNNITI E GLI SCIITI sono i seguaci di due interpretazioni profondamente diverse della religione islamica e del Corano. Un’antica e sanguinosa frattura che si è tragicamente riaperta nell’Iraq del dopo-Saddam
La divisione risale ai primordi della storia musulmana e riguarda le modalità della successione a Maometto
Divisi su tutto: dall’esistenza del clero fino ai modi di contrazionedel matrimonio

Sciiti e sunniti, sunniti e sciiti. Se ne parla con ansia e paura, mentre una specie di tragico e terribile «prezzo di sangue» percorre le strade di Baghdad tra una strage e l’altra, tra un omicidio e l’altro, tra un rapimento e l’altro con morte dopo tortura. Tutto gronda odio, come se la testa di Hysain fosse stata appena spiccata e poi spedita a Damasco al califfo sunnita Yazid, tra i pianti e le urla delle «pie donne». Furono loro che andarono poi a riprendersela, riportandola a Kerbala per ricomporla con il corpo del «generato» di Alì e di Fatima, la figlia del Profeta dell’Islam. Era l’anno 61 dell’Egira e il 10 ottobre del 680, il giorno 10 di muharran. Muhammad era morto da meno di mezzo secolo.
In questi tempi di guerra americana e inglese fra il Tigri e l’Eufrate, morto o vivo Saddam, si sono risvegliati, come non mai da molti anni, antichi odii e rancori. E sono ricomparsi i trucidi scannamenti e le vendette che vengono da lontano, molto lontano, con gli sciiti e i sunniti, appunto, divisi da un odio profondo. Odio che ha radici nella fede e nelle diverse regole del credere nell’Islam. È un fuoco terribile che potrebbe propagarsi in tutto il mondo islamico, con conseguenze inimmaginabili. I più avvertiti, per l’Iraq, parlano ora di guerra civile e hanno ragione, perché tutto si sta dispiegando in questo senso, proprio con lo scontro tra sunniti e sciiti. I sunniti hanno già violato con diversi attentati e stragi, Nagiaf, la città del Mausoleo di Alì, il «principe dei credenti», dove tutti gli sciiti vogliono essere seppelliti nei grandi cimiteri. E attacchi ci sono stati a Kufa, dove è nata la scrittura araba e sviluppata la cultura sciita. E ancora moschee sciite sono state attaccate a Samarra e nella stessa Kerbala. E gli sciiti, ovviamente, rispondono colpo su colpo e senza pietà.
Il fatto è che Saddam e i suoi erano sunniti e avevano proibito, per anni, ogni manifestazione del dolore sciita e le celebri processioni con i fedeli che si colpivano fin quasi a morte con catene, coltelli e spade, come atto di fede, per volontà di espiazione e per sopportare il dolore della tragica fine di Husayn. Come se tutto fosse accaduto appena ieri, appunto.
È una storia vecchissima, mille volte raccontata e spiegata, ma che bisogna ancora una volta ricordare, per tentare di capire. Gli sciiti, con i loro imam, sono al potere in Iran, si sa. Anche gli hezbollah del Libano sono sciiti e stanno per riportare il paese sull’orlo della catastrofe. E sciiti sono molti siriani che, insieme ai sunniti del loro paese, si battono in realtà per la «grande Siria» a spese del Libano. Poi ecco gli altri paesi islamici a maggioranza assoluta sunnita o wahhabita (una forma estrema di sunnismo) intorno al quale è nato il regno dell’Arabia Saudita. Tutti sostengono, con profonda convinzione, la causa palestinese e vogliono, più o meno velatamente (salvo l’Egitto) la scomparsa di Israele. Il dramma e il caos sono, dunque, in ogni momento, dietro l’angolo.
Ma chi sono gli sciiti e i sunniti ? Che cosa divide in due il mondo islamico, anche se i sunniti sono, ovunque, una maggioranza schiacciante, ma non omogenea?
Tutto nasce alla morte di Muhammad che apparteneva alla stirpe dei banu Hascim, della tribù dei Coreisciti. Il «profeta di Dio», o «l’ultimo dei profeti», in pratica, non lascia figli maschi o «vicari» che rappresentino in qualche modo la nuova fede. Così cominciano subito i guai e le polemiche. La scelta di chi poteva in qualche modo sostituire Muhammad andava fatta per linea familiare, tramite il cugino e genero Alì, il marito della figlia Fatima, oppure discendenza elettiva scegliendo qualcuno dei primi compagni del profeta? Tra i beduini, in realtà gli ultimi ad abbracciare la fede, i capi e i successori venivano scelti in modo elettivo. Così fu anche per il dopo Muhammad. Ma chi parteggiava per Alì non era d’accordo e sosteneva che il profeta era morto tra le braccia di Alì e non tra quelle della adorata moglie Aisa. Non solo: era stato Alì - si diceva ancora - a lavare il corpo del profeta con unguenti particolari portati dall’arcangelo Gabriele. Lui, dunque doveva essere la guida naturale dell’Islam. Ma non andò così.
I successori del profeta, i «califfi ben guidati», i celeberrimi «rashidun», furono in realtà quattro: Abù Bakr, suocero di Muhammad, poi Omar Uthman e finalmente Alì. Omar è il califfo della grande espansione e delle conquiste. Otman, invece, sistematizzò il Corano e provvide a far raccogliere i racconti dei compagni del Profeta. Con Alì esplosero, invece, lotte intestine terribili e lo stesso genero del profeta, dopo appena cinque anni, venne ucciso con una spada avvelenata, mentre si recava alla preghiera. Gli successe Muawiyyah che trasferì il centro del potere a Damasco. Il solco tra sunniti e sciiti era, ormai, diventato un fossato. «Siia», in arabo, vuol dire semplicemente «partito» e gli uomini del partito di Alì non cessarono mai di chiedere che i califfi fossero scelti tra coloro che erano legati «alla sacra famiglia del profeta» o avevano una discendenza certa dalla tribù di Muhammad, o una altrettanto diretta discendenza da Alì o dalla sua famiglia. Insomma, una successione ereditaria per diritto divino. In questa lotta, anche il figlio del genero di Muhammad, Hasan venne ucciso con il veleno.
I sunniti, comunque, si consideravano e si considerano ancora oggi, i veri detentori della fede e dell’Islam: sono coloro che si rifanno direttamente ai detti, ai fatti, alle abitudini del profeta, alle tradizioni e ai modi di vivere e di credere dei primi fedeli. La grande divisione nasce, poi, sulla figura dell’imam. I sunniti non hanno un vero e proprio clero. Gli sciiti, invece, obbediscono agli imam che possiedono «l’infallibilità», «l’impeccabilità» e una «scienza sovrumana». Inoltre - affermano gli sciiti - l’insegnamento degli imam ha valore definitivo, come definitiva è la conoscenza di «ciò che è occulto». Hanno anche da ridire sul Corano, secondo loro, «espurgato» delle parti che riguardavano i diritti di Alì. Certo, anche loro vanno alla Mecca, osservano il digiuno e usano,ormai il Corano di tutti. Ovviamente, anche per gli sciiti, come per tutto l’Islam, Muhammad è il profeta, l’ultimo inviato da Dio sulla terra. Ma la tendenza è quella di esaltare Alì (l’amico o il leone di Dio) e il suo grande valore sul campo di battaglia: non ci fu mai guerriero come lui né spada come la sua, chiamata «Du’l fiqar». Scrisse anche un libro per il bene dell’umanità, pari agli scritti di 124 mila profeti. Ed è ad Alì - sempre secondo gli sciiti - che Muhammad rivelò il senso ultimo dell’Islam. Tanto gli sciiti moderati come i «gulat» (coloro che esagerano) concordano, comunque, che l’imam debba discendere in linea diretta da Alì ed essere il capo supremo della comunità. Dunque, l’imam sciita come il califfo sunnita. Anche se il califfato non esiste più.
Ma è con la morte di Hussein che gli sciiti raggiungono il massimo dell’esaltazione per il martirio. Hussein era l’ultimo figlio di Alì e Fatima e si avviò verso Kerbala, in Iraq, ben sapendo che sarebbe stato ucciso. Aveva, nel suo gruppo, mogli, amici, seguaci, bambini. Furono tutti massacrati per ordine del califfo Yazid. Hussein (era il 680 dell’egira), dopo essere stato fatto morire di sete ebbe la testa mozzata. Testa che venne spedita a Damasco al califfo ommayade. Ed è proprio in ricordo del «ritorno della testa» che gli sciiti organizzano le autoflagellazioni, le recite pie, i cori di dolore e di pianto per il 10 di Muharran. Da ogni credente e da ogni cosa, in quei giorni, emana un incredibile pathos. La gente, in corteo, piange, si dispera, e si «punisce». Nelle stampe popolari, il cavallo di Hussein corre sul campo di battaglia senza il cavaliere (il divieto di non raffigurare esseri umani viene rispettato) ma irto di frecce. I martiri di Kerbala sono spesso raffigurati come una lunga teoria di cammelli che marciano nel deserto, con in groppa una rosa purpurea, simbolo del martirio. E anche Alì è rappresentato da una rosa purpurea.
E oggi? È proprio nel campo sciita che nascono gli «shahid»: ossia i primi martiri che vanno volontariamente a morire per guadagnare il paradiso nel corso della «jihad». Furono proprio i ragazzini iraniani, i famosi «bassidji» che andavano a morire nella guerra contro l’Iraq di Saddam, aprendo la strada all’esercito, in mezzo ai campi minati. Ne morirono a migliaia. Avevano al collo una piccola chiave: la chiave del paradiso.
Tra gli sciiti, in realtà, la teologia del martirio, dopo il sacrificio di Husayn a Kerbala, trovava terreno più che fertile. I ragazzini, infatti, andavano a morire «sulla via di Dio» e alle loro famiglie il governo esprimeva gioia per il martirio e lutto per la morte di un figlio. I «martiri sulla via di Dio», compariranno poi anche tra i sunniti: i giovani di Hamas e della Jihad islamica. Poi in Libano e alle Torri Gemelle.
Le differenze tra sciiti e sunniti rimangono comunque tutte. Sono gli sciiti, tra l’altro, ad avere anche un imam «nascosto» nel pozzo di Samarra. Tornerà - spiegano- «alla fine dei tempi per riportare giustizia e gioia nel mondo». È l’atteso mahdi.
Ma c’è anche un modo di essere degli sciiti nei confronti di tutti gli altri. Lo spiega bene un vecchio testo che dice: «il tono spirituale del vero partigiano di Alì, deve essere la tristezza abituale manifestata anche all’esterno, in un comportamento malinconico poiché lo sciita è partigiano dei diritti di una famiglia il cui destino è stato l’avversità». Il riferimento, naturalmente, è alla famiglia di Alì.
Altra differenza tra gli sciiti e sunniti è una cosa di non poco conto: il matrimonio di piacere o temporaneo detto «mut’a», fermamente respinto dai sunniti. Si tratta di un contratto irrevocabile (lazim) per un periodo di tempo determinato. Lo sciita in viaggio, per esempio, può sposare una donna conosciuta casualmente anche solo per qualche mese. Poi tutto finirà automaticamente. Sara, in realtà, l’unico modo permesso alla coppia per poter stare insieme un po’ di tempo. Si tratta, quindi, di un matrimonio fuori da ogni regola. Nato, fu detto, anche per combattere la prostituzione. Ma era davvero troppo per l’altro Islam.

Corriere della Sera 3.1.07
Norimberga. La giustiziua e i vincitori
di Sergio Romano


La condanna dei gerarchi del Terzo Reich doveva aprire la strada a una nuova idea di giustizia da applicare ai capi di regimi criminali, ma sessant'anni dopo l'obiettivo non è ancora raggiunto
Il diritto internazionale non nasce con la «giustizia dei vincitori»

Le discussioni e gli scambi di vedute fra gli Alleati sulla sorte dei leader sconfitti cominciarono agli inizi del 1944. Churchill sapeva che le clausole dei trattati di Versailles sui «criminali di guerra» erano state ignorate e disse a Stalin, un giorno, che sarebbe stato meglio giustiziarli sul posto, senza indugio, al momento della cattura.
Ma il «meraviglioso georgiano» gli rispose severamente che «in Unione Sovietica noi non giustiziamo senza processo». Era una dichiarazione «inglese», ispirata ai principi della tradizione giuridica britannica.
Churchill avrebbe potuto chiedergli se i processi a cui pensava non fossero per caso quelli delle grandi purghe che il dittatore aveva organizzato negli anni Trenta per sbarazzarsi dei suoi avversari. Ma preferì accusare il colpo e rispondere: «Naturalmente, naturalmente, ci vorrà un processo».
In America, nel frattempo, le soluzioni prospettate erano due. Secondo quella radicalmente punitiva del segretario al Tesoro Henry Morgenthau, i pesci grossi sarebbero stati giustiziati, i pesci piccoli cacciati ai confini del mondo e i prigionieri di guerra tedeschi impiegati come schiavi per la ricostruzione dell'Europa. Secondo il dipartimento della Guerra, invece, occorreva un processo in cui i leader sarebbero stati accusati di crimini di guerra o contro l'umanità e l'intero regime nazista sarebbe stato considerato un'«associazione a delinquere». Prevalse la seconda tesi. Dopo una decisione di principio a Yalta nel febbraio del 1945, la macchina americana fu più rapida delle altre. Alla fine di aprile, due settimane dopo la morte di Roosevelt e poco prima del suicidio di Hitler, il tribunale aveva già un pubblico ministero nella persona di Robert Jackson, giudice della Corte suprema. Ma era necessario scegliere una città, possibilmente in Germania, redigere un capo di accusa e, soprattutto, scrivere una specie di codice a cui giudici, pubblici ministeri e avvocati difensori avrebbero potuto appellarsi. Non bastava individuare gli imputati. Occorreva soprattutto inventare i canoni e le procedure di una nuova giustizia penale internazionale.
La città fu Norimberga, sede dei grandi raduni nazisti e luogo in cui erano state emanate le famigerate leggi razziali del 1935. Fu scelta per una sorta di ironica rappresaglia? No, le ragioni furono soprattutto pratiche. I bombardamenti alleati ne avevano distrutto più della metà, ma avevano lasciato miracolosamente intatti il palazzo di giustizia e il migliore albergo. Esistevano quindi un'aula per i dibattimenti, le celle per i carcerati, gli uffici per i giudici e i procuratori, i letti per gli addetti ai lavori e per i giornalisti. Restava da redigere il codice che si chiamò, alla fine dei lavori preparatori, «Carta del Tribunale militare internazionale». La maggiore preoccupazione fu quella di evitare che il processo si trasformasse in un comizio e che gli imputati approfittassero della presenza della stampa internazionale per lanciare al mondo i loro messaggi. Fu deciso che nessuno avrebbe avuto il diritto di invocare l'obbedienza agli ordini ricevuti o rimproverare le potenze accusatrici di avere commesso, in alcune circostanze, gli stessi crimini. In altre parole, il maresciallo dell'aria Göring non avrebbe potuto ricordare agli Alleati il bombardamento di Dresda e Alfred Rosenberg, teorico del razzismo, non avrebbe potuto evocare l'ombra dei 25 mila ufficiali polacchi massacrati dai sovietici nella foresta di Katyn.
Queste preoccupazioni furono in buona parte inutili. Forse l'aspetto più interessante del primo processo, e degli undici che si susseguirono fino al 1949, fu il grado di collaborazione degli imputati. Qualcuno (Göring in particolare) fu spavaldo e arrogante. Altri cercarono di difendersi, di giustificarsi e di attenuare le loro responsabilità (Albert Speer fu particolarmente abile). Ma alcuni di essi (i militari e i grandi tecnici ad esempio) si comportarono come gentiluomini tedeschi, educati nell'etica protestante della verità e della responsabilità, impegnati ad attraversare con la maggiore dignità possibile il momento più difficile della loro vita. Ne avevano dato prova, del resto, nei lunghi interrogatori che precedettero l'inizio del dibattimento. Uno storico inglese, Richard Overy, ha raccolto alcuni verbali in un volume, pubblicato da Mondadori nel 2002 (Interrogatori. Come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich) e ha indirettamente dimostrato che quegli uomini volevano lasciarsi alle spalle, per quanto possibile, la verità. Accadde persino che gli Alleati, sorpresi dall'atteggiamento dei futuri imputati, chiedessero ad alcuni di essi di preparare appunti e memorandum sul futuro della Germania.
Il primo processo cominciò alle dieci del mattino del 20 novembre. Il presidente del tribunale era un magistrato inglese, sir Geoffrey Lawrence e il collegio si componeva di un giudice principale e di un giudice supplente per ciascuna delle quattro potenze alleate. Gli imputati erano 21, schierati in fondo alla sala: da Karl Dönitz, capo del governo provvisorio dopo la morte di Hitler, a Albert Speer, ministro degli Armamenti, e Julius Streicher, direttore di una rivista antisemita. Erano soltanto una parte del Terzo Reich, risultato di una sorta di decimazione provocata dalle circostanze. Ma bastavano a un collegio giudicante che voleva soprattutto dare un esempio, lasciare agli atti della storia la propria versione del conflitto e creare una nuova categoria del diritto internazionale: lo «Stato canaglia», una categoria che gli americani hanno rimesso di moda in questi ultimi anni.
Tutti ascoltarono attentamente attraverso le loro cuffie la lunga arringa con cui Jackson aprì il dibattimento: una storia del nazismo dalla fase che precedette la conquista del potere sino ai crimini contro la classe operaia, le Chiese, gli ebrei, la pace e l'umanità. Quando Jackson richiuse la cartella che aveva tenuta aperta sotto i suoi occhi, il presidente del tribunale rinviò la seduta al giorno seguente per l'interrogatorio degli imputati. Il primo fu Göring, tracotante, provocatorio, il solo che sfuggì alla morte con una pillola di cianuro. Avrei accettato la fucilazione, scrisse in un ultimo messaggio alla corte, ma non posso accettare la corda e morirò come Annibale. Le esecuzioni furono dieci, le assoluzioni tre, gli altri imputati furono condannati all'ergastolo e a pene più brevi. Vi furono nei mesi seguenti altri undici processi contro magistrati del regime, medici che avevano applicato terapie inumane e spietati membri degli Einsatzgruppen, le formazioni speciali che soppressero decine di migliaia di ebrei in Europa orientale. Molti capirono subito che questa «giustizia dei vincitori» presentava troppi inconvenienti. Ma sperarono che quei processi aprissero un nuovo capitolo del diritto internazionale. Così sarebbe accaduto, effettivamente, se anche la maggiore potenza, negli anni Novanta, avesse accettato di sottoporre i propri cittadini alla giustizia del mondo. Ma gli Stati Uniti hanno rifiutato di ratificare il trattato per la costituzione del Tribunale penale internazionale e non vogliono che i loro cittadini siedano sul banco degli accusati. Il bicchiere della giustizia internazionale rimane mezzo vuoto.

martedì 2 gennaio 2007

Corriere della Sera 2.1.07
Ricerche. Un volume di Cesare Vetter analizza i termini chiave dell'ideologo francese
Robespierre, lessico per una rivoluzione
Il raggiungimento della felicità? Passa inevitabilmente dal Terrore
di Giovanni Belardelli


L a politica ha il potere di renderci felici? Ed è davvero auspicabile che cerchi di farlo? A sollevare di nuovo queste domande fondamentali è un volume sul lessico di Robespierre, curato da Cesare Vetter, che parte, necessariamente, dai modi opposti con i quali la questione venne affrontata alla fine del secolo XVIII sui due lati dell'Atlantico ( La felicità è un'idea nuova in Europa. Contributo al lessico della rivoluzione francese, a cura di Cesare Vetter, Edizioni Università di Trieste, pp. 269, e 20). Nel 1776, infatti, la Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America proclamava il diritto inalienabile di tutti gli uomini al «perseguimento della felicità». Una tale formula, dovuta alla penna di Thomas Jefferson, avrebbe avuto un successo straordinario contribuendo «più di qualsiasi altra cosa — come ha scritto Hannah Arendt — a una ideologia specificamente americana». Contemporaneamente, era destinata a sintetizzare una differenza fondamentale tra la democrazia liberale e le varie forme di democrazia radicale che si sarebbero sviluppate successivamente nel continente europeo, dal giacobinismo fino alle ideologie socialiste e comuniste.
Nel 1794 era proprio pensando alla formula americana che Saint-Just affermava: «La felicità è un'idea nuova in Europa». Ma la sua importazione in Francia avveniva in realtà sotto un segno radicalmente diverso. Mentre la felicità di cui avevano parlato i rivoluzionari americani era essenzialmente una felicità privata, quella proclamata dai giacobini si realizzava interamente nella dimensione pubblica.
Non solo: mentre l'espressione coniata da Jefferson poneva l'accento più che sul risultato (la felicità) sulla libera ricerca che ciascuno aveva il diritto di compiere, stabilendo autonomamente gli scopi della propria vita, la traduzione che ne fecero i giacobini non solo trasformava la felicità da privata in pubblica, ma postulava al contempo il sacrificio di ogni libertà di scelta individuale.
Il libro curato da Vetter, mentre presenta una minuziosa descrizione delle parole chiave del lessico di Robespierre, ottenuta attraverso una strumentazione informatica, mostra bene nel saggio introduttivo come questa idea di felicità rigorosamente pubblica costituisse un po' la chiave di volta della visione politica giacobina. A cominciare dall'idea che, per il buon cittadino, felicità e interessi privati come tali non esistano, poiché debbono sciogliersi e confondersi nella felicità e negli interessi pubblici. La «virtù», un concetto così centrale nel lessico di Robespierre, è anzitutto la capacità del singolo di rinunciare alla propria dimensione privata e ai «vizi» che la contraddistinguono, riuscendo a concepirsi soltanto come parte di un corpo collettivo.
In questo quadro, il cittadino è tanto più felice, cioè interamente dedito alla dimensione pubblica, quanto più i beni di cui dispone si limitano all'essenziale, a una vita sobria e frugale, di «povertà onorevole» come scrive Robespierre il quale, come molti suoi contemporanei, pensa che la ricchezza possa solo essere meglio distribuita, neppure immaginando lo straordinario aumento di beni che avverrà di lì a qualche decennio in tutta Europa. Senonché, e qui cominciano i guai, affinché si raggiunga una comunità di cittadini poveri, virtuosi e felici occorre appunto eliminare la possibilità che siano i singoli a cercare, attraverso tentativi ed errori, la propria felicità, occorre ottenere che ciascuno si adegui a «un modello di esistenza sociale postulato come unico, vero, razionale».
È necessario in un certo senso che la rivoluzione democratico-giacobina combatta proprio la rivoluzione americana e la sua promessa di un diritto per ciascuno di perseguire, ma come meglio crede, la propria felicità. In questo quadro l'educazione, intesa come pedagogia politica tesa a plasmare individui che infine pensino e vogliano ciò che «debbono» volere e pensare, è appunto la leva indispensabile ad attuare una tale idea, radicalmente «antiamericana», di democrazia. Si tratta di un'educazione inevitabilmente costrittiva, giacché non mira a sviluppare le facoltà individuali ma piuttosto a sopprimerle, con lo scopo di plasmare individui che abbiano tutti la stessa volontà e siano perciò egualmente «felici». In questo senso, nota giustamente Vetter, così come è concepito da Robespierre «il raggiungimento della felicità passa inevitabilmente attraverso il Terrore». Ed è per questo, per l'impossibilità di accettare gli esseri umani come sono e per la conseguente pretesa di plasmarli come invece dovrebbero essere, che nel progetto giacobino possiamo già vedere in nuce non pochi degli «esiti nefasti» del Novecento, dovuti a sistemi politici (i regimi comunisti e non solo) disposti a tutto pur di liberare gli esseri umani dalle loro imperfezioni (dai loro vizi, avrebbe detto Robespierre) per renderli partecipi di fini indiscutibili e perciò, così si pretendeva, «felici».

Repubblica 2.1.07
Intervista a Luciano Canfora
Il mondo greco e quello moderno
Congiure e rivolte scorre il sangue di re
di Simonetta Fiori


La storia greca. L'assassino del tiranno era universalmente considerato un eroe. Ma il più celebre tirannicidio nascondeva una storia d´amore
La chiesa Tommaso d'Aquino elaborò una complessa formulazione sulla legittimità del tirannicidio. Le sue tesi hanno resistito fino al Novecento
Chiunque pone la sua mano su di me per governarmi è un usurpatore e un tiranno, e dichiaro che egli è un mio nemico
Non c'è tirannia più crudele di quella che è perpetrata sotto lo scudo della legge e in nome della giustizia
L'albero della libertà deve essere rinvigorito di tanto in tanto con il sangue dei patrioti e dei tiranni. Esso ne è il concime naturale
Con l'uccisione dei governanti pronti alla guerra, si salvano le vite di migliaia di persone innocenti

«Il più celebre tirannicidio della storia greca, l´atto eroico su cui si fonda tutta la retorica classica, fu in realtà un delitto privato, una vicenda di gelosia sentimentale». Luciano Canfora, lo studioso che alla tirannide ha dedicato saggi fondamentali, ripercorre la storia del tirannicidio dall´età classica a quella contemporanea, mostrando anche gli aspetti più avventurosi di una nutrita mitografia.
L´archetipo di tutti i tirannicidi, quello commesso da Armodio e Aristogitone, fu dunque un falso?
«Sì, niente altro che una creazione ideologica. Ma suggerirei di procedere per ordine. Nella cultura greca antica, la maschera del cattivo s´identificava nel tiranno. In Omero, ad esempio, già Agamennone aveva i tratti del despota, con quel viziaccio di appropriarsi delle donne altrui. L´ira di Achille nasceva proprio dal fatto che gli voleva portare via Briseide. Dunque la liberazione dal despota era di per sé atto glorioso».
Sta dicendo che nella cultura classica il tirannicidio era considerato qualcosa di molto nobile.
«L´assassino del tiranno era universalmente considerato un eroe. Questo modello nacque intorno all´uccisione d´un figlio di Pisistrato a opera di due giovanotti coraggiosi che vi lasciarono anche la pelle. I due eroi si chiamavano Armodio e Aristogitone. Per secoli ha resistito una vulgata secondo la quale Armodio e Aristogitone avrebbero messo fine alla tirannide esercitata dal figlio di Pisistrato. Il mito fu tramandato ai romani, che vi trassero ispirazione per altri tirannicidi. Testimonia la loro fama il successo della statuaria ispirata dalla celebre coppia».
Non si trattò di un atto politico?
«No, tutt´altro. Fu una sofferta vicenda sentimentale: la vittima, Ipparco, s´era innamorato di Armodio, che era l´amante di Aristogitone, il quale sicuramente non gradì tutte queste attenzioni. Insomma, Aristogitone e Armodio sistemarono la faccenda facendo fuori Ipparco. Ma la cosa ancor più grave è che Ipparco era sì figlio di Pisistrato, ma non quello che esercitava la tirannide, ossia il maggiore Ippia. In conclusione, dopo la morte di Ipparco, Ippia continuò a fare il tiranno peggio di prima».
Ma la tradizione patriottica ateniese celebrò Armodio e Aristogitone come i grandi liberatori.
«Certo, però gli storici sapevano bene che non era così. Tucidide fece del sarcasmo. Secondo la retorica ufficiale, invece, quel tirannicidio fu l´atto fondativo della democrazia ateniese. Un modello così forte da ispirare i successivi tirannicidi in epoca romana. Anche Bruto e i senatori congiurati che si armarono contro Giulio Cesare si sentivano un po´ Aristogitoni e Armodi».
Fatti diversissimi accomunati da una stessa retorica ingannevole.
«L´assassinio di Cesare fu un deliberato atto politico, che ebbe conseguenze nella storia di Roma. L´uccisione di Ipparco fu invece un totale fallimento. In questo sì, due vicende lontane, classificate però entrambe come tirannicidi. Anche qui interviene l´arbitrio della definizione, che rimane relativa. Come per il tiranno, anche per il tirannicidio è una questione di interpretazione. Thomas Hobbes, un filosofo inglese molto approfondito da Bobbio, sosteneva che tra il re e il tiranno c´è poca differenza: usiamo il termine tiranno quando ci sentiamo danneggiati e il termine re quando ne siamo sostenitori».
Sta dicendo che il tirannicida da eroe può divenire parricida, a seconda del punto di vista?
«Accadde agli uccisori di Cesare, che al momento della sconfitta furono liquidati come assassini. Il giudizio è sempre provvisorio. Potrei fare anche altri esempi».
Il più celebre?
«Mi viene in mente il caso di Enrico IV, esempio luminoso di tolleranza religiosa. Morì per mano di un fanatico ultracattolico, François Ravaillac, il quale fu considerato dai suoi come un coraggioso liberatore dall´odioso despota. Come vede, l´opinione è relativa».
Anche la Chiesa cattolica ammetteva il tirannicidio?
«Un suo sostenitore era Tommaso d´Aquino, il quale elaborò una complessa formulazione sulla legittimità di quell´atto. Le sue tesi hanno resistito nella Chiesa fino al Novecento. Non dimentichiamo che l´attentato contro Hitler nel luglio del 1944 fu ordito da un gruppo di cattolici. L´eliminazione fisica di un distruttore di vite come Hitler era quasi un comandamento. Anche i fedeli che parteciparono alla lotta partigiana si richiamavano a questa clausola etica».
Nel caso di Saddam Hussein la posizione espressa dalla Chiesa è stata di segno contrario.
«Ma l´impiccagione di Saddam non può essere considerata un tirannicidio. La definizione regge quando si colpisce un satrapo che esercita ancora il potere. Saddam è stato ammazzato da prigioniero».
Anche Luigi XVI fu ghigliottinato da prigioniero.
«Ma non fu giustiziato in quanto tiranno, ma per aver tradito la Francia nel tentativo di propiziare l´invasione nemica del suo paese. Il capo d´imputazione era molto diverso. Il paragone non mi sembra appropriato».
Quale le sembra più appropriato?
«Credo che si possa parlare di tirannicidio solo quando un pugno di eroi insorge contro il tiranno al potere».
Allora secondo lei non lo si può usare per Mussolini, a proposito del quale la cultura antifascista s´è espressa a ragione in termini di tirannicidio.
«Alt, la definizione mi sembra più che appropriata. Il duce cercò di ingannare le forze di liberazione che ne avevano chiesto la resa. Da qui la decisione del Comitato di Liberazione Nazionale dell´Alta Italia di giustiziarlo, come lucidamente ha più volte ricordato Claudio Pavone. È un altro caso ancora di tirannicidio. La vicenda di Mussolini, però, niente ha a che vedere con quella di Saddam, catturato dall´esercito di un altro paese che poi l´ha processato e deciso l´impiccagione. L´analogia usata dai governanti iracheni mi è sembrata davvero forzata».
In una storia universale del tirannicidio, quale personaggio meriterebbe la copertina?
«Quello più forte sul piano dell´immaginario rimane Bruto. Mi viene in mente la battuta che Pier Paolo Boscoli, artefice della congiura contro i Medici, pronunziò in cattività: "Toglietemi dalla testa questo Bruto"».

Repubblica 2.1.07
Il nuovo libro di Renata Pisu "Il drago rampante"
I mille volti della Cina
L'atteggiamento iconoclasta nelle nuove generazioni di Pechino e Shanghai
Le espressioni del post maoismo: dalla politica all'economia alla cultura
di Federico Rampini


Forse nessun altro periodo è così importante per capire la Cina di oggi, quanto il primo Novecento: la caduta della dinastia imperiale Qing la cui decadenza è accelerata dalla pressione dell´Occidente; l´instaurazione della Repubblica; il rigetto del passato e la tormentata ricerca di valori nuovi su cui fondare la modernizzazione; il rischio che l´appuntamento con il progresso stravolga l´antica e ricca identità culturale del paese. Sono temi che si riaffacciano in vari modi nei decenni seguenti: da Mao Zedong fino all´integrazione vincente della Cina nell´economia globale del XXI secolo, la nazione più grande del mondo continua a girare attorno allo stesso dilemma che non ha risolto all´inizio del Novecento: quanto può restare se stessa mentre accetta la sfida del cambiamento. Giustamente ai tumultuosi avvenimenti di cent´anni fa Renata Pisu dedica un capitolo del suo bel libro Cina il drago rampante (Sperling & Kupfer, pagg. 290, euro 16). Ricorda che l´Occidente si presentava allora con un volto odioso - la politica delle cannoniere - «ma anche con tante proposte nuove», proprio mentre un ceto dirigente antico di secoli crollava travolto dalla propria inefficienza e corruzione, e trascinava con sé nella stessa fine anche il prestigio del confucianesimo. «Era un´epoca strana - scrive la Pisu - di disperazione ma anche di effervescenza: tutte le teorie venute dall´Occidente erano avidamente assimilate da intellettuali che avevano studiato in Giappone, in Europa, negli Stati Uniti.. Tutti gli «ismi» dell´Occidente erano appassionatamente discussi e abbracciati o rigettati: darwinismo, romanticismo, anarchismo, populismo, socialismo. Scienza e Democrazia erano però i due concetti d´obbligo per ogni discorso». Nelle nuove generazioni di Pechino e Shanghai assetate di modernità all´inizio del Novecento «prevale un atteggiamento iconoclasta, che mette in dubbio o addirittura nega la necessità di conservare l´essenza cinese».
Quell´atteggiamento si sviluppa in correnti diverse: Shanghai si trasforma economicamente ed anche urbanisticamente modellandosi su New York; c´è chi guarda con interesse alla restaurazione Meiji, le riforme con cui il Giappone dal 1898 si lancia alla rincorsa dell´Occidente. Dopo decenni di guerra civile prevale la via marxista adattata da Mao, l´innesto di un pensiero rivoluzionario di matrice europea transitato attraverso la Russia di Lenin.
Proprio in Mao sopravvive a lungo uno dei tratti della generazione progressista del primo Novecento: l´ansia di liberarsi del passato, di scrivere una storia nuova trasformando la Cina in una pagina bianca, usando il suo popolo come materia grezza da plasmare ex novo, una tendenza che degenera negli autodafè e nella follìa distruttiva della Rivoluzione culturale degli anni Sessanta. Il libro di Renata Pisu racconta soprattutto la Cina post-maoista, che l´autrice conosce bene in tutte le sue espressioni e che percorre con vivacità e ritmo narrativo: la politica e l´economia, la cultura, l´evoluzione dei costumi, la vita quotidiana, i rapporti fra uomini e donne, il conflitto generazionale. Il filo conduttore è sempre quello, costante dal primo Novecento: la ricerca di una nuova identità che consenta di traghettare la Cina verso lo sviluppo e la conquista di un benessere diffuso, e al tempo stesso risponda alla richiesta di valori stabili, di un collante sociale, di un «senso» al percorso che si sta facendo. Si può dire che la Cina sta ancora digerendo gradualmente quell´immenso choc che fu il primo contatto brutale con l´apertura all´Occidente. All´inizio del Novecento l´impatto pose un problema inedito, quello di definirsi come nazione. Un concetto nuovo, imposto dalla forza dei nazionalismi europei. «Nel corso della sua lunga storia - scrive la Pisu - il problema nazionale non aveva mai toccato la Cina, che non si era mai pensata come identità da affermare rispetto ad altre identità nazionali. La civiltà cinese non era mai venuta in contatto con altre civiltà portatrici di valori con la stessa pretesa universale». Non è molto diverso il problema con cui il paese e la sua classe dirigente si misurano in questi ultimi trent´anni, da quando Deng Xiaoping ha sposato l´economia di mercato e ha riaperto una stagione ricca e fruttuosa di relazioni con il resto del mondo. Il capitalismo e la globalizzazione hanno ridisegnato stili di vita, consumi, mode, l´etica collettiva, oltre a creare una nuova gerarchia tra le classi, nuove tensioni sociali. Più la Cina è in mezzo a noi, ci penetra e ci condiziona, più essa stessa accetta di cambiarsi e di lasciarsi contaminare. Riscopre il suo passato, torna a nutrire orgoglio per la sua storia, ma non ha ancora scelto fra Confucio e Darwin, fra Adam Smith e il tao. La costruzione di una nuova memoria storica, funzionale a definire l´identità nazionale, viene seguita con molta attenzione dal regime autoritario che investe risorse nella propaganda patriottica, nella riscoperta del confucianesimo, nel rilancio di un buddismo addomesticato. Ma è una questione destinata a riesplodere continuamente in nuove forme. Il giorno in cui la Cina diventerà democratica, potremmo scoprire dentro la sua società civile delle correnti nazionaliste spontanee, forse perfino più radicali di quanto sospettiamo.

Repubblica 2.1.07
L'attendibilità del libro di Corrado Augias e Mauro Pesce
Gesù di Nazareth, la divinità e gli storici
Le critiche uscite sono largamente ingiustificate
I miracoli, la condanna a morte, i vangeli
di Enrico Norelli


L´Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce è una risposta seria alla necessità di proporre i risultati delle complesse ricerche degli specialisti a un pubblico più largo, il quale dispone per lo più di trattazioni orientate da un´opzione di fede o di libri che promettono, più o meno esplicitamente, di rivelare «tutto quel che la chiesa ha sempre voluto nascondere» mentre s´ispirano al più avvilente dogmatismo.
Ho trovato questo libro corretto, misurato, intelligente: un aiuto reale per chi, non essendo uno studioso delle origini cristiane, s´interroghi sulla figura storica di Gesù. Certo, contiene affermazioni che si possono discutere. Ma credo che le dure critiche che mi è avvenuto di leggere non solo siano largamente ingiustificate nel merito, ma soprattutto contengano errori di metodo, che danneggiano, essi sì, il lettore non specialista.
Che cosa si può conoscere storicamente di Gesù? La conoscenza storica, qual è praticata oggi, ha le sue regole. Una di esse è che non è lecito allo storico pronunziarsi sulla realtà di Dio e sulla sua azione nella storia. Chi fa storia metterà in luce le maniere in cui donne e uomini hanno sviluppato credenze religiose, caratterizzerà tali credenze, i loro presupposti, le loro trasformazioni e le conseguenze che hanno prodotto; spiegherà in che modo determinati gruppi hanno creduto che la divinità agisse nel mondo, e in quali maniere hanno creduto di mettersi in rapporto con essa. Ma non assumerà Dio come attore dei processi storici, perché l´esistenza di un Dio non lo riguarda, diversamente da quella di Alessandro il Grande o di Lenin. Da poeta cristiano, Alessandro Manzoni ha potuto chiedersi se e come Dio avesse agito in Napoleone; ma uno storico che volesse spiegare l´attività di Napoleone affermando che Dio si è servito di lui susciterebbe, a ragione, l´ilarità generale.
Il caso di Gesù di Nazareth non è diverso. Lo storico non si pronunzia sulla sua divinità, per la semplice ragione che si tratta di una questione estranea al suo campo e ai suoi mezzi d´indagine. E´ dunque letteralmente priva di senso l´obiezione di P. Giuseppe De Rosa su Civiltà cattolica, di aver negato la divinità di Gesù. Se Pesce e Augias avessero negato la divinità di Gesù, avrebbe avuto ragione di protestare, ma non per la negazione, bensì perché se ne sarebbero occupati; allo stesso modo avrebbe dovuto biasimarli se l´avessero affermata. Per la medesima ragione non condivido le considerazioni del P. Raniero Cantalamessa nell´Avvenire del 18 novembre, là dove afferma che fede e incredulità condizionano la ricerca storica allo stesso modo, anzi la seconda «enormemente di più». Se per «incredulità» intende la ricerca di spiegazioni accettabili dai paradigmi delle «scienze umane», questo atteggiamento è compatibile con il metodo storico. Del resto, la foga polemica conduce talora Cantalamessa a presentare in maniera distorta il pensiero di Pesce. Nel contesto ora citato, afferma che, se ci si accosta a Cristo da non credente, «i miracoli [non potranno che essere] frutto di suggestione». Pesce afferma il contrario, basta leggere a p. 134: «io stesso mi sono convinto che è necessario ammettere l´esistenza di persone in grado di compiere guarigioni considerate "miracolose", per le quali non esiste una spiegazione scientificamente verificabile. (...) La sua effettiva capacità taumaturgica (...) La sua capacità di fare miracoli (...)». Anzi, Pesce cita anche episodi come le resurrezioni, il controllo delle forze della natura, la moltiplicazione del cibo, commentando: «sono convinto che questi episodi non siano stati inventati, ma che i suoi seguaci furono realmente convinti di avere assistito a quei fatti straordinari». La foga mi sembra anche trascinare il Raniero Cantalamessa a errori evidenti, come quando se la prende con «la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche alla morte di Cristo», evidentemente dimenticando quanto Pesce afferma alle pagg. 160-161 sull´appoggio di una parte delle autorità di Gerusalemme alla condanna di Gesù. Tale foga è responsabile anche della furibonda tirata di Cantalamessa contro gli apocrifi, che si stenta a ricondurre a uno studioso competente come lui nel campo della letteratura cristiana antica. Come si può affermare che i critici più arditi «arrivano, con congetture, a datarli (= gli apocrifi) all´inizio del III o a metà del II secolo», quando citazioni da parte di autori ben datati, o papiri databili paleograficamente, consentono di assegnare praticamente con certezza al II secolo una quantità di apocrifi, tra cui il Vangelo di Pietro, il cosiddetto Protovangelo di Giacomo, i vangeli degli Ebrei e degli Egiziani, il Vangelo di Tommaso (abbiamo frammenti di due copie degli inizi del III secolo), la Predicazione di Pietro, l´Apocalisse di Pietro, e altri, senza menzionare quelli che si possono attribuire con enorme probabilità al II secolo sulla base del loro contenuto, come l´Ascensione di Isaia? E come si può affermare che «i vangeli apocrifi professano tutti [sic!], chi più chi meno, una rottura violenta con l´Antico Testamento», quando tra quelli ora menzionati, questo si può dire al più, e con molta incertezza, per il solo Vangelo di Tommaso, dove comunque tale tema non è minimamente esplicito? Non si dovrebbe accusare altri di distorcere i fatti e la valutazione delle fonti mentre si fa lo stesso, contribuendo a mantenere nei lettori un´immagine distorta degli apocrifi, dei quali si è scoperta negli ultimi decenni l´importanza fondamentale.
Un punto cruciale, cui non a caso dedicano ampio spazio sia Cantalamessa che De Rosa, è l´ebraicità di Gesù. Nessuno dei due la nega, né potrebbe, ma entrambi sottolineano la continuità tra Gesù ebreo e il cristianesimo; ora però, siccome «ebreo» non è «cristiano», sono obbligati a mettere l´accento sulle novità dell´insegnamento di Gesù. Questo finisce con il condurre a vere acrobazie, soprattutto nel caso del P. De Rosa.
In conclusione faccio notare come proprio quella che è divenuta l´ortodossia cristiana ha sempre affermato l´umanità di Gesù e, se è così, il credente non può rinunziare a cercar di capire Gesù come essere umano, sul piano storico. Anche vero, per contro, che la ricerca storica non potrà mai «dimostrare» la divinità di Gesù. Sono convinto che i cristiani, non meno degli altri, abbiano gran bisogno di un libro come questo, dovrebbero esserne grati agli autori.

* è Professore di storia del cristianesimo delle origini all´Università di Ginevra