Le massime dello scrittore in un libro di padre Leonardo Sapienza, addetto al protocollo pontificio
Oscar Wilde riabilitato, svolta in Vaticano
Tentazioni. "Posso resistere a tutto, ma non alla tentazione"
Omosessuali. "L'amore di un anziano per un giovane non è innaturale"
di Orazio La Rocca
CITTÀ DEL VATICANO - Sorpresa. Oscar Wilde, grande scrittore e poeta dell´800, ma anche storica icona omosessuale della cultura europea, fa breccia in Vaticano. Le sue massime - provocatori aforismi del tipo «Posso resistere a tutto, ma non alle tentazione», oppure «L´unico modo di liberarsi di una tentazione è abbandonarsi ad essa» - sono state prese a modello in un libro scritto da un alto esponente della curia per dare una scossa a fedeli cristiani intiepiditi e uomini di buona volontà. Un obiettivo indicato fin dal titolo, "Pro-vocazioni", e dal sottotitolo, "Aforismi per un cristianesimo anticonformista" (Editrice Rogate). Ne è autore uno dei più stretti collaboratori di papa Benedetto XVI, il padre rogazionista Leonardo Sapienza, addetto al protocollo della Prefettura della Casa Pontificia. Il libro contiene un migliaio di frasi a carattere morale suddivise in 443 paragrafi selezionati in ordine alfabetico.
Quasi un mini vocabolario con le più importanti massime wildiane, insieme ai pensieri di un altro autore, meno noto, ma anch´esso dotato di una indubbia forza provocatoria, Nicolas Gomez Davila, scrittore cristiano colombiano scomparso nel 1994. Dei due, a sorprendere di più è certamente la presenza di Wilde, nato a Dublino, in Irlanda, il 16 ottobre 1854 e scomparso a Parigi il 30 novembre 1900, a soli 46 anni, convertitosi al cattolicesimo in punto di morte, dopo una vita di eccessi e di provocazioni nella Inghilterra vittoriana, ma costellata anche da grandi successi letterari.
Benché sposato e padre di due figli, Wilde fu condannato a 2 anni di lavori forzati per una relazione omosessuale col giovane lord Alfred Douglas. Aspetti - questi ultimi - non contemplati nel libro, nel quale l´autore preferisce invece delineare «la forza apparentemente paradossale» delle provocazioni del padre di "Ritratto di Dorian Grey". Padre Sapienza di propone di stimolare il «risveglio» di determinati ambienti cattolici, perché - come si legge nella prefazione citando Kierkegaard - «il cristianesimo doveva essere una cura radicale; invece se ne è fatto uno di quei rimedi che si usano contro il raffreddore». Da qui l´avvertimento di padre Sapienza: «Dobbiamo essere una spina nel fianco» per muovere le coscienze e per fronteggiare quello che oggi è il nemico numero uno della religione: l´indifferenza. Male particolarmente temuto da Benedetto XVI. Così la Santa Sede sembra ora riabilitare una figura scomoda come Wilde, scrittore «dotato di una intelligenza folgorante - scrive Sapienza - autore mordace, sarcastico e provocatorio, vissuto perigliosamemte e un po´ scandalosamente, ma che ha lasciato nelle sue pagine motti taglienti».
Repubblica 4.1.07
Mozart genio e memoria
Un libro del neuropsicologo e organista francese Bernard Lechevalier
di Piergiorgio Odifreddi
Che segreti ha un cervello come quello di Wolfgang? Era capace di ascoltare un concerto per la prima volta e di trascriverne a mente gli spartiti
Una memorizzazione speciale che coinvolge il sistema motorio ed è fondamentale nella musica
Nel 1638 Gregorio Allegri compose l´unica sua opera che ci è pervenuta: un Miserere a nove voci basato sul lamentoso Salmo 51, che da allora venne eseguito due sole volte l´anno, il mercoledí e il venerdí santo, dai cantori della Cappella Sistina. E la consuetudine durò fino al 1870, quando il coro venne sciolto in seguito alla caduta dello Stato Pontificio.
L´11 aprile 1770, appunto un mercoledí santo, il quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart e suo padre arrivarono a Roma, e riuscirono a intrufolarsi nella Cappella Sistina: il giovane fu infatti scambiato per un principe di Sassonia che risiedeva allora in Vaticano, e il padre per il suo maggiordomo. Tre giorni dopo quest´ultimo scrisse alla moglie: «Forse hai già sentito parlare del celebre Miserere di Roma, tenuto in tale stima che ai musicisti della Cappella è vietato, pena la scomunica, di far uscire la benché minima parte di questo brano, copiarlo o trasmetterlo a chiunque. Ebbene, «noi ce l´abbiamo: Wolfgang l´ha trascritto a memoria».
Ancora qualche giorno, e un´altra lettera annunciò: «Il papa in persona è al corrente che Wolfgang ha trascritto il Miserere. Ma non c´è nulla da temere: anzi, la cosa gli ha reso grande onore». Infatti, il cardinal Pallavicini aveva consegnato al ragazzo il decreto di Clemente IV che lo nominava cavaliere dello Speron d´Oro, ed egli fu poi una delle due sole persone al quale il papa offrí la partitura del celebre brano, visto che intanto ormai ce l´aveva comunque.
Mozart non era nuovo a imprese mnemotecniche: già qualche anno prima, nel 1765, lo scienziato inglese Daines Barrington l´aveva esaminato, e in una lettera a un membro della Royal Society di Londra racconta che il bambino di nove anni aveva terminato seduta stante una fuga interrotta da Johann Christian Bach, dopo averne memorizzato il tema e gli sviluppi. Mozart era anche solito trascrivere, nella corrispondenza col padre e la sorella, brani che aveva sentito in concerto e che gli erano particolarmente piaciuti, e spesso non scriveva le parti del solista per i suoi concerti, limitandosi a suonarle a memoria dopo averle composte nella testa.
Ora, che tipo di cervello bisogna avere, e quale tecnica si può usare, per essere in grado di compiere imprese del genere? Perché il Miserere di Allegri dura una quindicina di minuti, e memorizzarne tutte le nove voci è almeno tanto complesso quanto il trascrivere una conversazione di un quarto d´ora, in cui fino a nove persone arrivano a parlare contemporaneamente! E´ per rispondere a queste domande, e ad altre analoghe, che il neuropsicologo e organista francese Bernard Lechevalier ha scritto Il cervello di Mozart (Bollati Boringhieri, pagg. 276, euro 32), un libro che coniuga piacevolmente la neurofisiologia della musica con l´aneddotica storica (cioè, non inventata o mitologizzata, come nel film Amadeus di Milos Foreman) sul fenomeno Mozart.
Per incominciare appunto dalla memoria, il primo a distinguerne due tipi (a breve e a lungo termine) fu William James nei Princípi di psicologia del 1890. I due tipi sono indipendenti, si situano in zone diverse del cervello e funzionano in maniera diversa. La memoria a breve termine è costituita da un sistema centrale esecutivo localizzato nella corteccia frontale esterna, e da più sottosistemi subordinati che permettono di ripetere le informazioni e di rappresentarsele in vari modi.
Quanto alla memoria a lungo termine, essa può essere esplicita o implicita, a seconda che abbia a che fare con ricordi verbalizzabili o no: ad esempio, gli episodi autobiografici o le conoscenze semantiche fanno intervenire rispettivamente l´ippocampo e il lobo frontale anteriore sinistro, mentre le procedure di abilità tecnica coinvolgono anche il sistema motorio, oltre al cervelletto.
Che quest´ultima memoria procedurale sia fondamentale nella musica l´aveva già aveva notato Cartesio nel 1640, scrivendo in una lettera a padre Mersenne: «Un suonatore di liuto ha una parte della propria memoria nelle mani, perché la facilità di disporre le dita nei diversi modi, che ha acquisito per abitudine, lo aiuta a ricordarsi di quei passaggi per l´esecuzione dei quali le deve disporre in quel certo modo». Ma oltre a quella tattile, la memoria musicale ha anche altre componenti: prime fra tutte, quella uditiva della melodia, quella visiva dello spartito, quella semantica dell´armonia e, nel caso della musica cantata, anche quella verbale delle parole. Tutte queste memorie, e le relative aree cerebrali, confluiscono nell´esecuzione non letta dei brani musicali, che è una specialità abbastanza diffusa tra i grandi concertisti, da Mozart a Glenn Gould.
Naturalmente il vuoto di memoria è la spada di Damocle che pende sull´esecutore e può cadergli addosso per i motivi più svariati, da una discesa dell´attenzione a una salita dell´emozione. Spesso le dita vanno però avanti da sole, come nel famoso episodio in cui il violinista Maurice Vieux stava eseguendo una sonata col pianista Alfred Cortot, perse il filo, si chinò a chiedere: «Dove siamo?», ricevette la risposta: «Alla Carnegie Hall», e continuò come se niente fosse. Altre volte le dita si comportano invece come un treno che imbocca uno scambio sbagliato: soprattutto nella musica barocca, quando si rischia di scivolare da una voce o da una fuga in un´altra, a causa di qualche galeotto passaggio parallelo.
Un altro aspetto della memoria, che può essere servito a Mozart per il suo exploit vaticano, è che essa spesso si attiva inconsciamente. Arthur Rubinstein, ad esempio, raccontava che quando canticchiava un brano e poi smetteva per un po´, riprendeva riattaccando la melodia non nel punto in cui l´aveva lasciata, ma in quello in cui sarebbe giunto se avesse continuato senza fermarsi. E gli attori a volte si ritrovano ad aver miracolosamente imparato la propria parte anche senza averla mandata a memoria, quasi avessero veramente indossato i panni dei loro personaggi. Forse Mozart, come loro, si è semplicemente ritrovato in testa la partitura del Miserere, senza aver fatto nessuno sforzo particolare per memorizzarlo.
In fondo, si sa che la musica gli veniva facile in tante maniere.
Ad esempio, il musicista Andreas Schachtner ha testimoniato che a sei anni, quando ancora si chiamava Theophilus invece di Amadeus, un giorno Mozart gli disse: «Signor Schachtner, il violino su cui sto suonando è accordato a un ottavo di tono sotto quello che lei ha suonato prima», e che a una verifica risultò che era proprio così. Oggi sappiamo che l´orecchio assoluto, che permette di valutare l´altezza di suoni isolati, e non soltanto la loro distanza da altri suoni, non è affatto una dote naturale: lo possiede infatti il 95% dei musicisti che hanno imparato a suonare prima dei quattro anni, ma solo il 5% di coloro che hanno imparato dopo i dodici. Anche se, naturalmente, i geni aiutano (e sono aiutati): lo stesso Mozart, ad esempio, ha testimoniato che a volte suo figlio piangeva nella stessa tonalità dei brani che lui stava suonando.
Un altro dei modi in cui la musica gli veniva facile era la composizione. In una lettera pubblicata nel 1815, lui stesso ammise infatti: «Anche se un pezzo è lungo, lo posso abbracciare tutto in un unico colpo d´occhio, come un quadro o una statua. Nella mia immaginazione non possiedo l´opera nel suo svolgersi, come in una successione, ma ce l´ho tutta d´un blocco. L´invenzione, l´immaginazione, l´elaborazione: tutto avviene in me come un sogno magnifico e grandioso, e quando arrivo a dominare l´insieme nella sua totalità è il momento migliore». Eppure, a volte anche Mozart ha avuto bisogno di impegnarsi: ad esempio, per comporre i sei Quartetti Haydn del 1785, la cui stessa dedica ricorda che essi «sono il frutto di uno sforzo lungo e laborioso».
Ma, a parte i suoi doni musicali di orecchio, memoria e creazione, Mozart era comunque una persona normale. La figlia del consigliere Sals von Greiner, ad esempio, ha testimoniato che «lui e Haydn, che conoscevo bene, erano uomini che a frequentarli non manifestavano nessuna intelligenza superiore e in cui non si riscontrava pressoché alcun genere di cultura, né elevate aspirazioni alla conoscenza. Disposizioni d´animo banali, battute insulse e, nel primo, una vita frivola: tutto qui, quel che si poteva trovare nella loro frequentazione». E la stessa cosa potrebbe affermare chiunque abbia frequentato non soltanto artisti, ma anche letterati, filosofi e scienziati: in fondo, pensare, dire e fare stupidaggini è la natura umana, e i geni non sono coloro che non ne pensano, dicono o fanno mai nessuna, ma quelli che a volte riescono a non pensarne, dirne o farne qualcuna, per la propria e l´altrui felicità.
Repubblica 4.1.07
Vi racconto i miei incubi notturni
I sogni di uno scrittore
di Umberto Eco
Da giovane sognavo l'esame di maturità e il servizio militare Oggi sono afflitto dalla paura di essere in ritardo
Prima avevo il sonno profondo dei bambini e non riuscivo a ricordare la mia vita onirica. In età avanzata mi risulta più facile
Non ho mai preso pillole stimolanti. Ho sempre voluto avere la mente lucida. Una questione di orgoglio
Non insegno più agli studenti dei primi anni Invecchiando ti sorge il dubbio di aver torto su ciò che trasmetti agli altri
Fino a qualche anno fa non riuscivo a ricordare i sogni che facevo. Suppongo dipendesse dal fatto che avevo sempre il sonno pesantissimo. La mattina successiva non restava che una vaga idea di quello che avevo sognato. Ma non riuscivo a tenere memoria dei miei sogni. Oggi, in età avanzata, mi risulta più facile. Non riesco a darmi altra spiegazione se non che non dormo più il sonno profondo e lungo dei bambini. Nel frattempo riesco a ricordare cosa ho sognato, anche i sogni del passato. E mi piace.
I sogni più importanti e più interessanti sono quelli ricorrenti e gli incubi. Da studente sognavo spesso di non passare l´esame di maturità. A quest´incubo si sostituì in seguito quello in cui ero ancora soldato. I miei superiori mi avevano concesso la libera uscita, ma io semplicemente non ero rientrato in caserma. Ora rischiavo l´arresto. E´ un sogno che mi ha perseguitato a lungo. Bisogna sapere che nella vita reale ho fatto il servizio militare molto tardi. Ero riuscito a procrastinare la chiamata alla leva fino a ventisei anni adducendo a motivazione i miei ponderosi studi universitari. Ad un certo punto mi ritrovai per la prima volta davanti alla caserma, con gli occhiali e la macchina da scrivere sotto il braccio, entrambi a mo´ di scudo. Gli ufficiali più giovani, che in maggioranza non erano andati all´università, nutrivano un grande rispetto nei miei confronti. Ben presto mi venne affidata l´incombenza di tutto il lavoro di scrittura, potevo prendermi molte libertà e mi sentivo più importante di un generale. All´inizio ero di stanza a Como. Grazie ai miei buoni agganci riuscii a rientrare nella lista dei trasferiti al comando generale di Milano, cosa naturalmente a me più gradita, perché avevo ancora il mio appartamento da studente in città. Per lo più lavoravo in caserma fino alle due del pomeriggio, poi andavo in centro, pernottavo senza permesso nella mia stanza e rientravo solo la mattina dopo. Eravamo in tempo di pace e nell´esercito potevi fare in pratica quello che volevi. Ma nonostante il favore di cui godevo queste uscite comportavano un certo rischio. Comunque avevo sempre il timore che una volta o l´altra sarebbe finita male e si sarebbe alzato un gran polverone. Cosa che, per fortuna, non è mai successa. Quest´ansia però mi ha perseguitato fin nel sonno.
I sogni sulla maturità e sul militare sono entrambi legati all´ansia, l´ansia di non riuscire a concludere qualcosa, l´ansia di essere colto in fallo. Oggi, in più tarda età, mi affliggono in sogno altre ansie. Quando ad esempio sono in viaggio in America, sogno di perdere l´aereo. Mi vedo allora affannato nella mia stanza d´albergo a fare in fretta la valigia: ho il volo alle sei, ma sono già le cinque e ancora non ho finito di fare i bagagli. Lo so, di sicuro arriverò in ritardo. Se viaggio in Europa il sogno subisce qualche piccola variazione: sogno allora di perdere il treno. Mi precipito alla stazione, ma non riesco a trovare il binario giusto. Perché? Perché sono di nuovo in ritardo. E alla fine il treno parte senza di me. La cosa strana in tutto questo è che in vita mia non ho mai perso un treno o un aereo. Beh, non esattamente. Solo una volta, una sola, ho perso l´aereo a New Orleans. Ma è successo esclusivamente perché, per paura di far tardi, ero arrivato all´aeroporto con un anticipo eccezionale. Mi ero quindi seduto in sala d´attesa e subito riaddormentato. Così non sentii chiamare il volo. Lo persi per essere arrivato con troppo anticipo.
Nonostante questa sgradevole esperienza continuo a badare scrupolosamente ad essere sempre puntuale. Il motivo? Perché il sogno di arrivare in ritardo continua a terrorizzarmi. Indubbiamente si tratta di un´interessante interazione tra sogno e realtà.
Non ho mai avuto grande interesse ad annotare i miei sogni. Né ho mai preso pillole stimolanti. Ho sempre voluto avere la mente lucida ed efficiente. Per me è una questione di orgoglio. Sono convinto che la mente mi dia storie più entusiasmanti di quanto possano fare i miei sogni. Devo ammettere tuttavia che i sogni hanno talvolta influito sulle mie storie anche se in casi rarissimi. Nel mio romanzo Il pendolo di Foucault faccio vivere al redattore Jacopo Belbo uno dei miei sogni ansiogeni: mi trovo in una città sconosciuta che credo in realtà di conoscere bene. So che se svolto a destra arrivo in un luogo che mi piace molto. Il problema è che non lo ritrovo più.
Un altro sogno ha ispirato un capitolo del mio romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana. In quel sogno abito in una villa, cerco una stanza che credo di conoscere. Ma non riesco a trovarla. Era la mia stanza preferita, zeppa di splendidi mobili antichi e di libri interessanti. So che è in fondo a un corridoio. Ma lì c´è un muro impenetrabile. Al protagonista del libro accade una cosa simile, ma sfondando il muro trova la stanza. E´ la stanza della sua giovinezza, cioè il Paradiso.
Sto per compiere 75 anni. Probabilmente festeggerò nella mia casa di campagna vicino a Rimini. Vi ho trascorso già molti compleanni e alle pareti sono appese fotografie mie e dei miei ospiti scattate in quelle occasioni. Ho ancora ben vivo il ricordo del mio settantesimo compleanno. Allora avevo invitato solo i miei studenti. Non c´era neppure mia moglie. Ormai non insegno più agli studenti dei primi anni, anche se mi è sempre piaciuto molto lavorare con loro. Invecchiando però ti sorge il dubbio di aver torto su molto di ciò che trasmetti agli altri. E non vorrei corrompere i giovani. Per questo tengo solo seminari per dottorandi. In questo caso il docente può permettersi di aver torto e di provocare, aprendo sempre vivaci dibattiti. In ogni caso non ho ancora l´intenzione di ritirarmi e di andare in pensione.
Quando si scrive da anni, come nel mio caso spaziando dai saggi ai romanzi ai trattati scientifici, si diventa ad un certo punto prigionieri di questa situazione autonomamente creata da cui è impossibile evadere. Il che non è così negativo, perché amo scrivere. È una sorta di sogno. Solo che in questo caso ho il pieno controllo della mia fantasia.
Copyright Die Zeit
Testo raccolto da Martin Scholz
Traduzione di Emilia Benghi
Testo raccolto da Martin Scholz
Traduzione di Emilia Benghi
Repubblica Milano 4.1.07
Weekend in convento
Lo spazio dei nostri cuori inquieti
La mente. Ogni tanto ha bisogno di fermarsi in una afasia salutare
di Umberto Galimberti
Da qualche anno s'è diffusa la tendenza a trascorrere parte delle proprie vacanze o il proprio weekend in un convento. È una scelta comune a credenti e a non credenti, uomini e donne, giovani e vecchi. Quel che si cerca in quei luoghi non sempre è Dio, o per lo meno non lo è per tutti. Molto più di frequente è una rivisitazione di sé, per potersi raccogliere e quindi ri-accogliere dal rumore e dalla dispersione del mondo. Sembra infatti che il dialogo quotidiano tra gli uomini sia insoddisfacente, che gli spazi di silenzio e di incomprensione, al di là della buona volontà e delle buone intenzioni, esigano una comprensione superiore. Sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana. Sembra che le vette della mente non sappiano perché si protendano verso il cielo, se il cielo è vuoto.
Nell´atmosfera creata da queste inquiete domande, tutte le parole che quotidianamente impieghiamo nel mondo rivelano la loro afasia. E allora il silenzio del convento, scandito dal suo ritmo, favorisce quel cedimento della mente che è necessario, perché, a differenza del cuore, la roccaforte della ragione è incapace di sfiorare la verità senza possederla. Ultima conoscenza sul labbro delle domande ultime, il cuore, infatti, domanda la genesi del mondo, della materia, della vita, del male, della distruzione, della corruzione, chiede perché iniqua è la distribuzione dei doni e dei dolori agli uomini, e attende di capire perché l´amore per Dio e l´amore per gli uomini sono pezzi che non collimano nella rifrazione prismatica dell´intero. Questo intreccio tra Dio e Amore, dove Amore vede in Dio il suo raggio di trascendenza e Dio vede in Amore la sua natura, altrimenti a lui stesso ignota, è forse ciò che i visitatori inquietamente cercano nell´apparente quiete conventuale. Non sentimentalismi, e neppure slanci mistici, ma questo indecifrabile nesso tra l´Amore e Dio, che non è un privilegio né dei virtuosi né dei saggi, perché, come scrive Christos Yannaras, il maggior teologo greco-ortodosso del nostro secolo, «Amore è offerto a tutti, con pari possibilità. Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo reale superamento della morte. Perché solo se esci dal tuo Io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui».
Il Foglio 30.12.06
La bionda, il vecchio e il mare
Hemingway la odiava, Scott Fitzgerald l’adorava. Così Zelda distrusse la coppia del secolo con un balletto
di Luca Rigoni
Il romanzo dell’anima piagata da una incompiutezza tragica e fatale, il romanzo della coppia scorticata viva ma indissolubile, potrebbe cominciare così. Dalla scena madre. E’ il 28 maggio 1933. Siamo alla periferia di Baltimora, in una villa vittoriana con frontoni e portici, immersa in un bel parco, nella compitissima atmosfera del Maryland, quindici o sedici stanze, cadente, invasa dai rumori notturni. Una casa femminile, da nonna vedova. Si chiama, senza ironia, La Paix: e la scena si apre, alle due e mezzo di una domenica pomeriggio, sulla stanza della tortura di un matrimonio. I Fitzgerald decidono di alzare il sipario della loro crisi davanti a un pubblico minuscolo e spietato: Thomas Rennie, lo psichiatra che in quel periodo ha in cura Zelda, e una stenografa che registrerà tutto in presa diretta, in questa stravagante sessione di psicoterapia. Centoquattordici pagine di dialoghi. Rabbiosi, dolenti, acuminati, sarcastici. Che girano e rigirano, ostinati e spaesati come precoci mosconi primaverili, attorno a questo: che il romanziere di casa è lui, non lei, che il professionista è lui, non lei, che – come nel più squallido degli interni domestici: loro, che erano stati la schiuma dei giorni della Jazz Age – chi paga le bollette, comprese quelle salatissime delle cliniche, è lui, non lei. Lei, Zelda, l’anno prima aveva osato pubblicare un romanzo: 1392 copie vendute, 120 dollari e 73 cents incassati in diritti d’autore. Le aveva scritto per consolarla il suo editor, il leggendario Maxwell Perkins: Se non ci fossimo trovati negli abissi della Depressione il risultato sarebbe stato completamente diverso. Ma così come stavano le cose, niente poteva avere successo, a meno che non fosse opera di uno scrittore già noto per precedenti successi, o che rivestisse qualche particolarissimo interesse. Nella stanza di La Paix, nella penombra, a cominciare è Scott: E’ tutto sleale. Tutto sleale… Mi pagano un prezzo enorme, e non per niente. Mi pagano per una continua battaglia che so di poter sostenere… tutta la preparazione della mia vita è servita per farmi fare il romanziere… Ora, la differenza fra il professionista e il dilettante è qualcosa di spaventosamente difficile da analizzare: e spaventosamente impalpabile. Significa un robusto bagaglio; significa il sentore, il profumo del futuro in una sola riga. Zelda non ha nulla di essenziale da dire. Avere qualcosa da dire è questione di notti insonni: l’interminabile tentativo di scavare la verità essenziale. Ecco il nodo. Lui sta lavorando – dice – da sei, sette anni (in realtà sono ormai otto) a un romanzo che ha scritto e riscritto fino allo stremo, Tenera è la notte, e lei invece, in pochi mesi, in clinica ha composto di getto e dato alle stampe un libro, Save Me the Waltz, che scava nella stessa, incandescente materia, la loro vita. Scott scarica su Zelda tutte le incertezze e gli anni perduti: Tre di questi anni sono dipesi direttamente dalla sua malattia – dice rivolto al dottor Rennie – e i due anni precedenti indirettamente, perché lei, con la sua mania per la danza, ne è stata in parte responsabile. Esplode Zelda: Perché non dici che bevevi sempre! Questa è la verità. E questa è una delle ragioni per cui volevo diventare ballerina, perché non mi era rimasto nient’altro!. Ma man mano che la bobina si srotola, il dialogo torna sempre sullo stesso punto: chi è il vero scrittore? Io sono uno scrittore professionista – ripete Scott – ho un enorme seguito. Sono l’autore di racconti più pagato del mondo. Lo raggela Zelda: Allora mi sembra che tu stia portando un attacco un po’ troppo violento contro un talento di terz’ordine. Si tormentano per tutto il pomeriggio, mentre cala la luce, accompagnati dal fruscio della penna della dattilografa. Io sono il romanziere professionista e ti mantengo, affonda Scott. Tutto ciò che abbiamo fatto è mio, è tutto materiale mio! Di materiale tuo non ce n’è!. Replica lei: Sei così traboccante di autorimproveri per non aver scritto niente, che ti abbassi all’espediente di accusare me. Scott allora protegge il suo libro con lo scudo di un ultimatum: Devi smetterla di scrivere romanzi. E se scrivi una commedia non potrà trattare di psichiatria e non potrà essere ambientata sulla Costa Azzurra e non potrà essere ambientata in Svizzera. E qualunque sia l’idea, dovrà essere sottoposta a me. Così Zelda gli chiede: Che cos’è il nostro matrimonio? Niente altro che una lunga battaglia, mi sembra di ricordare. Lui: Non ne so niente. Eravamo la coppia più invidiata d’America attorno al 1921. Lei: Penso di sì. Eravamo attori fantastici. Lui: Eravamo terribilmente felici. Torniamo indietro. E’ il principio dell’estate del 1926, c’è una festicciola al Casinò di Juan-les-Pins, e Hemingway scatta questa istantanea: Zelda era bellissima e abbronzata e aveva una stupenda carnagione dorata e i suoi capelli erano di un bellissimo color oro scuro e lei era molto cordiale. I suoi occhi di falco erano chiari e pacati. Credevo che tutto fosse a posto e sarebbe andato per il meglio, quando lei si sporse in avanti e mi disse, confidandomi il suo grande segreto: 'Ernest, non credi che Al Jolson sia più grande di Gesù?'. Allora non ne sapevo nulla. Era solo un segreto che Zelda aveva diviso con me, come un falco potrebbe dividere qualcosa con un uomo. Ma i falchi non fanno a metà con nessuno. E’ l’immagine che di lei riceviamo dal suo più grande nemico. Per Hemingway, Zelda è la tremenda palla al piede di Scott, la moglie gelosa del suo lavoro. Né è più generosa, nel ricordo, Rebecca West: Lei era in piedi e mi voltava le spalle, e i suoi capelli erano belli, brillavano come quelli di un bambino… Poi si voltò e ne rimasi stupita, oserei quasi dire che il suo volto aveva una certa piatta bruttezza. C’era in esso una singolare disarmonia, quale si vede nei ritratti dei pazzi di Géricault. C’è però la Zelda degli amici, come i Murphy, la ricca ed elegante coppia di americani espatriati che fa da modello, in parte, a Dick e Nicole in Tenera è la notte: Gerald e Sara, ai quali il romanzo è dedicato. Dopo il primo crollo nervoso di Zelda, Sara Murphy scrisse a Scott: Penso così spesso al suo viso, e vorrei tanto che qualcuno lo avesse disegnato… Somiglia al viso di una giovane indiana, non fosse per gli occhi che ardono senza fiamma. Di sera, ricordo, se era agitata diventavano neri – e impenetrabili – ma sempre colmi di impazienza – per qualcosa, il mondo, penso. Lei non vi apparteneva comunque… Aveva una sua vita e sentimenti interiori che, suppongo, nessuno ha mai sfiorato – neppure tu. Gli occhi: ora di falco, ora vacui, assenti, distratti sempre da un altrove. (Ma Zelda, adesso sappiamo, dall’occhio destro era praticamente cieca: il medico della sua città natale, Montgomery in Alabama, sospettava che le mancasse la retina. Soffriva di forti emicranie per i problemi di vista, e possedeva una lorgnette che non usava mai, quasi certamente per vanità). Scrive Scott, a poche pagine dall’inizio di Tender Is the Night: her eyes brave and watchful, looking straight ahead toward nothing, gli occhi coraggiosi e attenti, guardando fisso di fronte verso il nulla. E’ lo sguardo della protagonista, Nicole. Ed è lo sguardo di Zelda, lungo l’ossessiva galleria di specchi che, di libro in libro, proiettano il riflesso di lei sulle pagine di Fitzgerald. E infatti Hemingway non riuscì a riconoscere il modello originario di Nicole, Sara Murphy, e criticò il libro: Se prendi delle persone reali e scrivi su di loro, non puoi far fare loro qualcosa che non farebbero. Devi mantenerle uguali… Non puoi fare di qualcuno qualcun altro. Mentre l’arte del romanzo, ricorda Pietro Citati in La morte della farfalla (Mondadori), il saggio mercuriale dedicato a Zelda e Scott, è proprio quella di prendere delle persone reali, decine di persone reali, mescolarle, fonderle e trasformarle in 'qualcun altro', facendogli fare cose che nessuno di loro avrebbe mai fatto nella realtà. Proprio così scriveva Fitzgerald, sempre a Sara Murphy, nel ferragosto del 1935, un anno e quattro mesi dopo la pubblicazione di Tenera è la notte: Nella mia teoria sulla narrativa, completamente opposta a quella di Ernest, cioè che ci vuole mezza dozzina di persone per ottenere una sintesi robusta abbastanza da creare un personaggio di finzione – in base a quella teoria, o piuttosto a dispetto di essa, ti ho utilizzata di nuovo e di nuovo in 'Tender': 'Her face was hard + lovely + pitiful', il suo volto era duro e incantevole e faceva pena…: qui come in cento altri punti ho cercato di evocare non te, ma l’effetto che tu produci sugli uomini – gli echi e i riverberi. Ma Nicole non è soltanto Sara: è, perlomeno, Sara più Zelda. E alla fine, più Zelda che Sara. Come le altre eroine di Fitzgerald. Non solo Daisy del Grande Gatsby , non soltanto Gloria di Belli e dannati che davanti al Plaza camminava agile e indolente davanti a lui, pronunciando frasi indifferenti che fluttuavano un attimo nell’aria abbacinante prima di giungere al suo orecchio. Il tunnel degli specchi rimbombante di echi porta fin dentro i Taccuini, il laboratorio segreto dello scrittore. Ed ecco, alla voce Giovani donne: Era una ragazza in un abito bianco da sera, dai capelli rosso oro, sotto i quali mostrava una faccia così coraggiosa e tragica che, parve, ogni occhio nella sala affollata doveva essere fisso e concentrato sulle sue più semplici avventure, sulla più lieve impressione incisa nel suo cuore. Zelda, Zelda e ancora Zelda. O un fantasma che in lei, per primo e per sempre, si è incarnato. In fondo, anche nella vita: chi furono, se non esangui, inadeguate controfigure, le amanti di Scott, la giovanissima attrice Lois Moran - la Rosemary di Tenera è la notte – o l’ultima, la gossip columnist Sheilah Graham? (Non proprio tutte: ci fu anche, brevemente e sbadatamente, nel caos alcolico di entrambi, Dorothy Parker). Di che cosa si ammalò – nel 1929 a ventinove anni – Zelda? Cosa la trascinò nelle cliniche francesi e poi svizzere e poi americane, costosissime, curata dai migliori psichiatri del tempo (Forel, Bleuler, Meyer), sofferente di allucinazioni, assalti di panico, attacchi isterici, il viso il collo le spalle coperti da orribili eczemi, fino a diventare una dolorosa piaga vivente ? E fino a morire, nel marzo del 1948, bruciata viva nell’incendio dello Highland Hospital, nel Nord Carolina, identificata solo grazie a una pianella carbonizzata? E quale parte di colpa, quanta responsabilità di questo male gravava su Scott? Non si ammalò, Zelda: o, per meglio dire, non prese mai nessuna malattia. Secondo la diagnosi del 1930 di Eugen Bleuler, era schizofrenica. La malattia, remotissima, annidata nell’infanzia più profonda era venuta alla luce cinque anni prima. Il marito non aveva colpa: forse avrebbe potuto ritardarne l’esplosione , avverte Citati. Gli psichiatri che oggi rileggono le lettere di Zelda a Scott preferirebbero parlare di disturbo bipolare: un tempo si chiamava sindrome maniaco-depressiva. Una forma di psicosi che spesso è ereditaria (e infatti tormentava i Sayre, la famiglia di Zelda) e che si manifesta con crisi alterne di depressione e eccitamento. Nel caso di Zelda – cercano di diagnosticare – questa patologia si era impiantata su di un temperamento ciclotimico, con continue variazioni di umore. Sarebbero forse bastati i sali di litio – provano a prescrivere – per tenere sotto controllo il disturbo, ma negli anni Trenta questi non venivano ancora usati. Sarebbero bastati a salvarla? Chissà. Torniamo alla catastrofe coniugale e alla sua miccia, l’unico romanzo compiuto di Zelda, Save Me the Waltz (Riservami il valzer, in Italia Il romanzo di Zelda). Il titolo è ricavato da un catalogo di dischi della Victory. Lei era perfettamente consapevole di quanto stava scrivendo: Sono fiera del mio romanzo… Ti piacerà – E’ decisamente scuola Fitzgerald, benché più estatico dei tuoi – Forse troppo. Essendo incapace di inventare uno stratagemma per evitare la ripetizione del ‘disse’, l’ho accentuata à la Ernest con mio sommo dispiacere. Lui è uno scrittore molto risoluto, ma anch’io morirò sulla breccia. Non finì così. Il libro racconta la vita di una ragazza del profondo Sud negli anni che precedono la Prima guerra mondiale e poi negli anni Venti a New York, Parigi e sulla Costa Azzurra al fianco del marito, artista di strepitoso successo. Lo stile è turgido riconosceva nel 1970 Nancy Milford, in una biografia che persino Cyril Connolly giudicò definitiva, tuttavia, per quanto eccentrico, per quanto difettoso, è carico dell’energia e della voce di Zelda. Affascinò anche Luchino Visconti e Suso Cecchi D’Amico, che nei primi anni Settanta ne trassero un soggetto per un film che non si fece. Ma è evidente che Il romanzo di Zelda dovesse spalancare, per la coppia, l’inferno: più che per le avventurette sentimentali di lei (con l’aviatore francese Edouard Jozan, storia apparentemente platonica) e di lui (la vendetta tutt’altro che platonica un paio d’anni dopo con la giovanissima Lois Moran), più che per le forsennate smanie per la danza di lei – troppo tardi, a ventisette anni – e la sua devozione per Madame Egorova, l’istruttrice della quale, a un certo punto, si convinse di essere innamorata. Il cristallo fragilissimo e di qualità diversa della loro creatività si scontrò e si ruppe, quello di Scott già sottoposto alle torsioni delle infinite riscritture di Tenera è la notte, quello di Zelda appannato dai trattamenti psichiatrici, eppure, a squarci, scintillante dell’improvvisa vitalità che le fece scrivere e pubblicare il suo romanzo tra il febbraio e l’ottobre del 1932. Quasi che l’incompiutezza della sua vita nell’arte - gli sforzi come ballerina, i tentativi come pittrice - le qualità poco più che amatoriali che riversava in tutto, fossero state spazzate via da una ventata che aveva attraversato i corridoi della clinica Phipps, dove allora era ricoverata. Non posso sempre stare tra Zelda e il mondo e vederla costruire quella sua dubbia carriera con pezzi di materia vivente strappati alla mia mente, al mio ventre, al mio sistema nervoso si lamentava, non senza compiacimento, Scott. Ma occorre uscire dalla stanza della tortura coniugale – e dal salotto buono, o pessimo, delle polemiche, da allora fino ad oggi: su chi fra i due avesse ispirato l’altro, su che cosa fra i due l’uno avesse sottratto all’altro, su chi fosse dei due, alla fine, l’imitatore di voci, il falsario. Per capire, forse è meglio affidarsi alla nipote Eleanor, figlia della loro unica figlia, l’amata Scottie. Prima di mostrare il suo romanzo a Scott, Zelda lo spedì in tutta fretta all’agente di lui, Maxwell Perkins. Scott, comprensibilmente, si arrabbiò. Zelda evidentemente prevedeva che Scott non avrebbe voluto che lei usasse esattamente lo stesso materiale di 'Tenera è la notte'. 'Save Me the Waltz' scatenò la loro più feroce lotta territoriale… Ma dei miei nonni era ammirevole la loro infinita capacità di perdono. Alla fine, Scott aiutò Zelda nelle revisioni, l’aiutò a pubblicare diversi articoli e a produrre la sua commedia, 'Scandalabra'. E quando Zelda si mise a dipingere seriamente, le organizzò una mostra a New York… Credo, come mia madre, che Scott e Zelda siano stati reciprocamente innamorati fino alla fine dei loro giorni. Forse divenne un amore impossibile e impraticabile – parte nostalgia e parte speranza. In Tenera è la notte, Dick e Nicole sull’onda della loro armonia si ribattezzano Dicole : poi tutto si incrina fino a spezzarsi. Ma in quegli strazianti mesi fra il 1932 e il 1933 di privata guerra territoriale, ebbe l’onestà e la forza di scrivere Scott: Ciascuno di noi farebbe bene a sbarazzarsi dell’altro – anche se, per colmo dell’ironia, non siamo mai stati così disperatamente innamorati l’uno dell’altra in vita nostra. L’alcol sulle mie labbra è dolce per lei; io adoro le sue più stravaganti allucinazioni. Se non è stata una coppia, questa.
L'Unità 31.12.06
L’eutanasia ossia le parole pesanti
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Perché non cominciare a chiamare le cose con il loro nome? In tanta confusione, non guasterebbe di certo: perché, sì, è comprensibile che le questioni «di vita e di morte» finiscano col polarizzare le posizioni in campo; ed è, di conseguenza, altrettanto comprensibile (e non per questo giustificabile) che le parole sfuggano di bocca e di penna, che si smarrisca - per dirla difficile - ogni rapporto tra «significante» e «significato». Ma, negli ultimi tempi quella sequenza di consonanti e vocali, che dà forma e suono al termine «eutanasia», è quantomai abusata e impiegata a sproposito. Innanzitutto: esistono pratiche mediche di accelerazione del decesso (di un decesso che si prevede come risultato inevitabile di una prognosi infausta e a breve termine) che non sono eutanasia. Valga, a titolo d'esempio, la questione della «sedazione terminale», laddove l'accompagnare «dolcemente» il malato verso una morte, comunque inevitabile, non ha nulla a che fare con l'interrompere una vita: e risponde, piuttosto, a un mero dovere deontologico del medico, nonché a un gesto di umanissima pietas. Altrettanti fraintendimenti si addensano sull'impiego della formula «eutanasia passiva», con la quale in molti accostano la pratica della sospensione delle cure a un «dare la morte», ancorché indirettamente. Forse è proprio sull'onda di questa interpretazione che una deriva, ambigua e perversa, porta a considerare la vicenda e la morte di Piergiorgio Welby come una questione eutanasica. Ma quella persona tutto ha chiesto fuorché di essere ucciso. Egli voleva, piuttosto, essere lasciato morire; voleva che alla sua malattia (dalla quale non poteva attendersi alcuna possibilità di guarigione e che s'era fatta dolore cieco), fosse lasciato corso naturale. Dunque, Welby intendeva sottrarsi a una condizione di vita assolutamente «artificiale», del tutto «non naturale», in cui le funzioni fisiologiche primarie sono assolte da macchine; una condizione nella quale trattamenti sanitari invasivi, vissuti come lesivi della dignità, supplivano a uno stato biologico «morente», altrimenti già morto da tempo.
Interrompere le cure, qualora il paziente lo richieda, è cosa assai distinta e ben distante dal ricorso all'eutanasia. Interrompere le cure quando esse costituiscono solo una forma di accanimento terapeutico, poi, è doppiamente doveroso e ragionevole: tanto che lo stesso codice deontologico dei medici condanna espressamente qualsivoglia pratica di accanimento.
Insomma, ci sono almeno due questioni sul piatto. La prima riguarda il diritto del malato (formulato nel dettato costituzionale e riconosciuto da più convenzioni internazionali, sottoscritte dall'Italia) a rifiutare qualunque intervento medico egli ritenga superfluo o dannoso o svilente della sua persona. Il paziente, in tal senso, è riconosciuto come unico e assoluto titolare del corpo che si vorrebbe curare; e, in quanto tale, capace di richiedere l'astensione da qualsiasi terapia. La seconda questione, invece, ha a che fare con la natura stessa della pratica medica: con il fatto, cioè, che si deve individuare un limite al suo raggio d'azione. Un limite che, essendo funzione dei tempi, delle scoperte scientifiche, delle conoscenze teoriche e pratiche, deve coincidere con un confine ragionevole tra vita e sopravvivenza.
Ne consegue che le polemiche addensatesi sul «caso Welby» non possono essere ridotte alla contrapposizione tra opzioni di ordine politico o ideologico. Discutere della vita e della morte di quella persona alla luce delle fratture «classiche», che percorrono la società italiana, si rivela inutile. Le opinioni di chi interviene sulla sua vicenda non possono essere scomposte nel confronto tra virtuosi estimatori del valore e della sacralità della vita e accaniti necrofili, cinici utilitaristi in vena di provocazioni. Altresì, quel confronto non coincide (neppure un po') con i confini tracciati dalla distinzione laici/cattolici. Basti leggere quanto segue: «Nell'immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, poiché vi è grande differenza etica tra procurare la morte e permettere la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa» (così la Pontificia Accademia per la vita nel dicembre 2000).
La partita vera si gioca tra chi ha voluto prendere sul serio la sofferenza di Welby e chi, con atteggiamento non scevro da paternalismo, ha ritenuto di potersi sostituire alla sua volontà per «salvarlo», per incatenarlo a una vita «lucida», ma insopportabile. Giorgio Israel si chiedeva, sul Foglio del 12 dicembre: «Immaginiamo di incontrare una persona che sta per lanciarsi da un ponte. Lo fermiamo e gli chiediamo il perché del suo gesto e lui ci racconta i tragici eventi che gli hanno tolto ogni ragione di vivere. Sono motivi talmente gravi che ci convinciamo che egli non possa fare altrimenti: lo aiutiamo a scavalcare l'alto parapetto e gli diamo una buona spinta per facilitare il suo gesto. Chi giudicherebbe ragionevole un simile comportamento? Di più: quale persona degna di questo nome si comporterebbe così? Eppure si chiede di fare questo nel caso di un dolore fisico: non aiutare, accompagnare, assistere, e alleviare con tutti i mezzi un inevitabile declino, ma sopprimere». E invece, diciamo noi, qui si trattava proprio di accompagnare, assistere e alleviare senza sopprimere. Il suicida di Israel può essere salvato: ma può tentare il suo gesto mille altre volte e infine portarlo a compimento. Welby no, non poteva neppure questo. Ed è stato costretto alla vita oltre la propria volontà non da qualche benintenzionato salvatore, ma da macchine che l'avevano reso l'ombra dolente dell'uomo che era. E infine, a ben vedere, quel «parapetto» di cui parla Israel, Welby lo aveva scavalcato da tempo, e giaceva al suolo morente. Si doveva prolungare la sua agonia, che lo avrebbe condotto comunque a morte certa, tra mille dolori, o aiutarlo a spegnersi senza che fosse sopraffatto da una sofferenza inutile? Che, poi, al suicida di Israel la Chiesa riconosca un funerale religioso e a Welby no, ebbene, questa è cosa altra; da far pensare alle parole di Gesù, poco prima della sua morte: «beati quelli che piangono».
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it
Repubblica 4.1.07
Criticato per aver snobbato la Bibbia, Keith Ellison spiazza i conservatori: giurerà su un testo musulmano "patriottico"
Il Corano del presidente Jefferson l'arma del primo deputato islamico
Un modo per rendere omaggio sia alla Costituzione che al principio della libertà religiosa
NEW YORK - Lo avevano accusato di essere un traditore. Di disprezzare la Bibbia in favore del Corano. Di dimenticare e offuscare i valori tradizionali degli Stati Uniti. Ma Keith Maurice Ellison, il primo musulmano a diventare deputato nei duecento anni di storia del Congresso, ha trovato un modo elegante per respingere le critiche e saldare i suoi valori religiosi con la cultura americana. Oggi, infatti, dopo il giuramento collettivo della nuova legislatura guidata da Nancy Pelosi, Ellison avrà in mano, durante il suo giuramento «privato», una copia del Corano del 1750 proveniente dalla biblioteca dell´ex presidente Thomas Jefferson.
«In questo modo», ha spiegato il braccio destro del deputato Rick Jauert (considerato anche l´ispiratore della abile mossa politica), «Ellison renderà omaggio sia alla Costituzione che ai principi della libertà religiosa sanciti da Jefferson e dagli altri padri della patria».
Le polemiche su Ellison erano cominciate il giorno stesso della sua elezione a novembre. Nato nel 1963 a Detroit, nel Michigan, Ellison, che è afro-americano, si era convertito dal cattolicesimo all´islamismo sunnita durante gli studi universitari. Diventato avvocato, si era gettato nell´attivismo sociale e nella carriera politica nelle file dei democratici, riuscendo a entrare nel parlamento del Minnesota. L´anno scorso il duplice salto: primo deputato afro-americano del Minnesota a finire alla Camera dei rappresentanti e soprattutto primo musulmano al Congresso. E la sua intenzione di giurare fedeltà sul Corano aveva subito provato molta irritazione tra i repubblicani più conservatori.
«E´ una offesa alla istituzione», aveva tuonato Virgil Goode, deputato della Virginia. Il quale, in una lettera pubblicata due settimane fa, aveva sollevato obiezioni sull´uso del Corano per il giuramento («la grande maggioranza dei miei elettori preferiscono che si usi la Bibbia») e approfittato della circostanza per parlare dei «pericoli» della immigrazione di musulmani negli Stati Uniti.
Dalla parte di Ellison si erano schierati tutti i gruppi musulmani. Ma per superare le polemiche, il neo parlamentare ha avuto l´aiuto di Mark Dimunation, responsabile dei libri e delle collezioni speciali della Biblioteca del Congresso. Dimunation ha trovato una copia del Corano tradotta in inglese da George Sale, che si era salvata dall´incendio del 1851 nella biblioteca privata di Jefferson e che nel frontespizio ha le iniziali dell´ex presidente. La copia - come è successo in occasioni analoghe - è stata prestata al neo deputato, che così potrà oggi evitare ogni critica.
Considerato il più influente tra i padri fondatori degli Stati Uniti, Jefferson era un uomo di grande cultura. Architetto e paleontologo, agronomo e filosofo della politica, aveva interessi in vari campi del sapere. Fondò l´università della Virginia. Scrisse buona parte della Costituzione. Divenne il terzo presidente. E gode ancora oggi in America di grande prestigio. Insomma, la persona giusta da cui «prendere in prestito» una copia del Corano per neutralizzare gli attacchi degli integralisti e della destra repubblicana.
(ar. zam.)
Repubblica 4.1.07
Lunedì la rockstar festeggerà il compleanno. Il suo carisma è immutato ma oggi evita ogni eccesso
Bowie, 60 anni da marziano
Ecco i mille travestimenti di un principe senza età
I suoi due occhi di colore diverso uno celeste l´altro verde, hanno saputo guardare il mondo come da un altro pianeta
di Gino Castaldo
ROMA - Anche i mutanti invecchiano, ma «con eleganza», come ha detto lui stesso un paio d´anni fa. Questa massima oggi la mette in pratica con puntigliosa metodicità, anche a costo di incidere dischi che non smuovono e non turbano più come quelli di una volta. Dischi classici, innocui, in cui prevale quella che lui definisce «una vocazione più impressionista». Ovvio: certi travestimenti esagerati non si addicono più a un principe rinascimentale catapultato nello sfavillante mondo del rock che lunedì prossimo compirà sessant´anni. David Bowie è ancora bello in modo inquietante, perfetto, forse lievemente ritoccato, ma non abbastanza da farlo notare in modo evidente, gode di un forte carisma di rendita, accumulato in anni travolgenti quando i suoi due occhi di colore diverso, uno celeste l´altro verde, guardavano il mondo come da un altro pianeta.
Ancora oggi forse c´è qualcuno disposto a credere che non sia del tutto umano, e che la storia raccontata in L´uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg non sia solo una metafora. Certo è che il suo viso rimane immutabile e la voracità con cui ha consumato trasgressioni, incerte identità sessuali, maschere, relazioni, florilegi d´artista, sembra proprio quella di qualcuno che il pianeta Terra l´ha scoperto all´improvviso e ci si è tuffato con la lussuria dell´esploratore di nuove terre.
Ma Bowie una gavetta l´ha fatta, come tutti, ha suonato con vari gruppetti negli anni giovanili, il primo disco lo ha inciso da cantautore psichedelico, e anche quando ha raggiunto il successo con Space oddity, non è bastato a farne una star indiscussa. I due dischi successivi sono splendidi ma non furono molto capiti, almeno finché non si presentò travestito da Ziggy Stardust, che era una metafora del successo planetario, come se avesse deciso che il successo, per ottenerlo, dovesse prima metterlo in scena. E così fu.
La novità fu subito chiara. Prima di lui il rock aveva parlato un linguaggio diretto, bisognava essere o far credere di essere se stessi, nel bene e nel male. Per la prima volta Bowie introdusse l´idea di maschera. Sul palco c´era, dichiaratamente, un personaggio, non il vero David Robert Jones, nato a Brixton l´8 gennaio 1947, in arte David Bowie, di volta in volta era Ziggy Stardust, poi Aladdin Sane (in cui era facile riconoscere, spostando le pause, la definizione A ladd insane, un ragazzo folle), poi il Duca Bianco e così via, in un vortice di trasformazioni senza sosta.
Vampiresco e eclettico, Bowie cambiava di continuo, prima raccontava il futuro, (nella trilogia conclusa con Diamond dogs) poi le contraddizioni del presente nella trilogia berlinese, (Low, Heroes e Lodger), poi giocava col pastic-soul e infine era di nuovo il Major Tom di Space oddity in Ashes to ashes, forse la sua ultima canzone-capolavoro, nella quale ironizzava sui suoi personaggi e alludeva con parole enigmatiche alla possibilità che il Major Tom perso nello spazio non fosse altro che un tossicodipendente perso nei suoi spazi interiori. Ora Bowie ha smesso le mutazioni, come se Picabia fosse diventato Monet, dipinge la sua vita a tinte pastello e amministra il sessantesimo genetliaco come uno sfarzoso principe. Ma continuiamo ad avere un sospetto: che la sua Brixton sia in provincia di Marte.