lunedì 8 gennaio 2007

l’Unità Lettere 8.1.07
Vittime dello tsunami e Papa pari (non) sono
Cara Unità, è interessante paragonare tre spese effettuate dalla Protezione Civile nel 2005, epoca di ristrettezze economiche. Per lo Tsunami (280.000 morti) sei milioni di euro, per gli «oneri connessi alle esequie del Papa e alla nomina dl nuovo Pontefice» quindici milioni di euro. E un altro milione di euro per «la Conferenza episcopale di Bari» (Fonte: Corriere della sera del primo novembre 2006, riportato da Critica Liberale).
Luciano Comida

l’Unità 8.1.07
IL LIBRO «Mi sono molto divertito» raccoglie 70 anni di scritti sul cinema e un testo «per» un film dell’uomo politico: una passione che ha segnato il suo percorso intellettuale
Quando Ingrao scriveva come Verga e stroncò «Don Camillo»
di Alberto Crespi


Se avete amato l’autobiografia di Pietro Ingrao Volevo la luna, uscita recentemente per Einaudi, procuratevi in gran fretta, dello stesso autore, Mi sono molto divertito. È un volume di 175 pagine curato da Sergio Toffetti e pubblicato dal Centro sperimentale di cinematografia, la gloriosa scuola di via Tuscolana che lo stesso Ingrao frequentò iscrivendosi, nel 1935, al corso di regia. Il sottotitolo, Scritti sul cinema (1936-2003) è esplicativo ma fin troppo modesto.
Il libro non contiene soltanto i numerosi interventi sul cinema scritti da Ingrao in un arco di tempo lungo quanto una vita; ci permette di leggere, finalmente, anche uno scritto «per» il cinema da sempre leggendario e, come spesso capita alle leggende, ignoto anche a chi lo cita a proposito e a sproposito: il trattamento della novella di Verga Jeli il pastore che Ingrao scrisse per Luchino Visconti durante la guerra. È un momento celeberrimo della storia del nostro cinema: la nascita del «Gruppo Cinema» ­ i giovani intellettuali che si raccolgono intorno alla rivista Cinema fondata nel ’36 da Vittorio Mussolini ­, il ritorno dalla Francia di Visconti forte dell’esperienza di lavoro con Jean Renoir, la possibilità di esercitare sulle colonne della rivista una blanda «fronda» nei confronti del regime, l’elaborazione che pian piano porterà alla realizzazione di Ossessione, opera prima di Visconti e del neorealismo tutto… sì, una storia nota, e bella, alla quale per molti di noi mancava un tassello: la lettura diretta del testo di Ingrao. Ora che l’abbiamo letto, possiamo consigliarvelo proprio in rapporto a Volevo la luna. Chi di voi ha letto quella ricca autobiografia sarà rimasto senz’altro colpito dallo stile letterario di Ingrao, che del resto è tale anche nelle sue poesie. Ebbene, leggendo Jeli il pastore si scopre, molto semplicemente, perché Ingrao scrive così.
La parola «trattamento» è importante per capire che tipo di testo è Jeli il pastore. Il trattamento non è il soggetto (che dev’essere un riassunto del film in 2-3 pagine), né la scaletta (che deve essere già strutturata scena per scena) né tantomeno la sceneggiatura (che deve contenere i dialoghi e corrispondere, il più possibile, al film finito). Il trattamento è un racconto di 20-25 cartelle che deve descrivere, in forma ancora «letteraria», la trama del film. Con l’aiuto di Mario Alicata Ingrao scrive, dunque, un racconto: già suddiviso in sequenze ma in tutto e per tutto letterario. E scrive… come Verga! Quel gusto della sintassi nervosa, del lessico al tempo stesso aulico e rustico, del tono alto ma scabro, capace di divenire violentemente realistico: ora lo sappiamo, vengono da Verga. E non si può negare che Ingrao si è scelto un magistero stilistico alto: mentre Visconti commissiona ai suoi giovani amici copioni ispirati a Verga per risalire alle fonti letterarie del nascente neorealismo, Ingrao usa lo scrittore dei Malavoglia come palestra linguistica. I risultati si vedranno nel tempo: dopo aver gironzolato intorno a Jeli il pastore e a L’amante di Gramigna, Visconti finirà (nel ’47) per girare La terra trema ispirato ai Malavoglia; mentre Ingrao, dopo aver studiato il mondo contadino attraverso lo sguardo verista del conservatore Verga, diventerà definitivamente comunista e farà il percorso politico, intellettuale ed esistenziale che ben conosciamo.
In fondo l’interesse di Mi sono tanto divertito è principalmente lì: nel vedere come il cinema sia stato un elemento formativo fondamentale per un leader politico unico nel suo genere. Piace pensare che la straordinaria umanità di Ingrao venga anche dalla sua cinefilia: anche se purtroppo ci sono tanti cinefili umanamente insopportabili. Il resto è gioco, divertimento. È divertente, ad esempio, rileggere certe stroncature dell’Ingrao critico e domandarsi cosa diavolo gli avesse fatto Akira Kurosawa, il cui Rashomon (in un pezzo da Venezia ’52 uscito su Rinascita) viene eletto rappresentante del «cinema senza verità» e fatto a pezzi senza pietà. È divertente scorrere un attacco spietato al primo Don Camillo di Duvivier per rivivere l’Italia divisa del post-’48, ma anche per vaccinarsi a certe agiografie postume su Guareschi (Ingrao lo definisce «disegnatore», e i suoi romanzi sono liquidati come «mediocrissime buffonerie»: magari esagera, ma non esagerano anche coloro che oggi fanno di Guareschi un padre della patria?). È divertente, insomma, leggere questo libro: come si è divertito, Pietro Ingrao, a scriverlo nell’arco di quasi 70 anni.

l’Unità 8.1.07
Da Galileo a Gödel la matematica è divina
di Michele Emmer


SCIENZA E FEDE Il gesuita Matteo Ricci usò la logica per convertire i cinesi, Galilei sostenne che il libro della natura e dell’universo è scritto con triangoli, cerchi e numeri. E Kurt Gödel tentò di dimostrare con le formule l’esistenza di Dio

Nel 1582 Matteo Ricci, un gesuita, partì per la Cina con la missione di evangelizzare quell’immenso paese. Non ci riuscirà, ma diventerà a pieno titolo un intellettuale cinese e sarà sepolto a Pechino con il nome che gli venne dato nel Celeste Impero, Li Madou. Ricci riteneva di dovere guidare gli intellettuali cinesi lungo la via della conoscenza cominciando dalla base, insegnando loro a ragionare utilizzando la logica matematica. Li avrebbe così portati a comprendere la descrizione dell’universo secondo Tolomeo per arrivare quindi a Dio creatore del mondo e delle leggi che lo governano. Scrive Michela Fontana, nel libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (2005), che si trattava di una via «dalla matematica alla teologia», la scienza delle certezze come strumento per arrivare a Dio.
Qualche anno dopo la morte in Cina di Ricci nel 1610, così scriveva Galileo Galilei nel Saggiatore (1623): «Parmi di scorgere ferma credenza che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. La cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola: senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto».
Il 25 febbraio 1616 il Sant’Uffizio, «per provedere al disordine e al danno», emana una sentenza: «Che il Sole sia centro del mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura». È stato riabilitato Galilei solo molto recentemente. In occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, il papa Giovanni Paolo II tenne un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze ed al Collegio dei Cardinali e, riferendosi a Galileo, esortò a fare luce su quella vicenda. Come conseguenza della presa di posizione del pontefice, il 3 luglio 1981, vi fu la nomina di una commissione pontificia per gli studi sul caso. Le conclusioni del lavoro vennero poi esposte dal Cardinale Paul Poupard il 31 ottobre 1992. Sebbene già in passato vi fossero stati passi formali che manifestano implicitamente il riconoscimento di un errore di valutazione da parte dei teologi chiamati a giudicare Galileo, in questa occasione si parla esplicitamente di un errore commesso dalla Chiesa.
Il famoso discorso di Galilei è stato di recente ripreso: «All’inizio dell’essere cristiano - e quindi all’origine della nostra testimonianza di credenti - non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, “che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. La fecondità di questo incontro si manifesta, in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale, anzitutto in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie. Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo - che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico - suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme». Chi scrive è Papa Benedetto XVI in occasione di un discorso a Verona il 10 ottobre 2006. Al di là di alcuni accenti che possono essere condivisi o meno è interessante che il Pontefice abbia tenuto un grande elogio della matematica. Naturalmente se lunga e senza fine è stata la lotta tra scienza e fede, in ogni parte del mondo, una delle sfide più interessanti è stato l’utilizzo della matematica, della sua struttura logica per dimostrare l’esistenza di Dio. Tema anch’esso senza fine. Vorrei solo concentrarmi su un piccolo libro uscito di recente in versione italiana.
Uno dei più famosi logici matematici del secolo scorso è stato Kurt Gödel. Soprattutto per aver risolto nel 1928 in senso negativo uno dei grandi problemi posti nel 1900 dal matematico David Hilbert. Nel 1928 Kurt Gödel poté dimostrare che l’aritmetica risulta necessariamente incompleta, nel senso che esistono proposizioni che non sono né dimostrabili né refutabili. Nel 1941 il logico austriaco abbozzò una dimostrazione dell’esistenza di Dio, chiarendo «che il suo interesse per la prova ontologica dell’esistenza di Dio era puramente di carattere logico». Rimaneggiò poi la «dimostrazione» nel 1954 e infine nel 1970, senza mai pubblicarla, ma comunicandola nel febbraio del 1970 al logico Dana Scott e poi all’economista Oskar Morgenstern.
Queste pochissime pagine sono al centro del libretto La prova matematica dell’esistenza di Dio, (Bollati Boringhieri, 2006) curato, come si legge sulla copertina, da Gabriele Lolli e Piergiogrio Odifreddi, entrambi logici all’università di Torino. Il testo di Gödel è ripreso dal volume terzo delle Opere complete con la nota introduttiva di Robert Merrihew Adams, (Bollati Boringhieri, 2006) riportata anche nel piccolo libro, senza però che il nome sia citato in copertina. Non è nemmeno citato l’autore del saggio che compare alla fine del libretto Roberto Magari, scomparso nel 1994, che Lolli descrive come «l’esponente più creativo della rinascita degli studi logici in Italia nella seconda metà del Novecento». E chi lo ha conosciuto non può che confermarlo.
Credo che il saggio di Magari sia la cosa più interessante, tenendo conto che le pagine di Gödel sono del tutto incomprensibili senza una spiegazione abbastanza dettagliata del significato dei simboli utilizzati. Tentativo che fa Magari, utilizzando una dote rara, una sottile ironia che era una delle sue doti umane più caratteristiche. Basterà citare l’inizio del suo saggio: «Molti uomini, anche fra i più grandi, hanno una notevole volontà di credere nelle cose più svariate, ma soprattutto come risulta almeno nella nostra cultura da circa venti secoli, nell’esistenza di un (e in genere uno solo) ente “supremo” compiutamente dotato di certe proprietà dette “positive”». Uomini che Magari chiama «teofili», amanti di Dio. Aggiungendo subito dopo che «Esistono naturalmente anche teofobi, (io lo sono di tutto cuore, aggiunge), e anche nel loro caso è opportuna una certa vigilanza su quanto costruiscono ed asseriscono». Conclude il suo saggio Magari osservando «Soprattutto gli esperti e gli specialisti che il pubblico può investire di reverente fiducia dovrebbero guardasi dall’avvalorare dischi volanti, omeopatia, astrologia, creazionismo o altro. Occorre in ogni caso stare molto in guardia contro tutto ciò che può essere suggerito dal desiderio di credere. Devo ammettere, con una certa riluttanza, che analogamente va trattato il desiderio di non credere, che però mi sembra assai più rara».

Corriere della Sera 8.1.07
«Il partito democratico? Nasce sulla sabbia
«Cari leader non siete più credibili»
Dibattito sul riformismo, nuovo contributo dell'economista che ha lasciato polemicamente i Ds
di Nicola Rossi


Conviene partire dalla sera dell'ultimo dell'anno. Conviene partire dalle parole del Capo dello Stato sulla distanza fra la politica e la società e dal suo invito agli italiani a colmare quella distanza, a tornare a guardare alla politica non più come altro da sé. E dal corrispondente invito alla politica a dare di sé un'immagine tale da giustificare una ritrovata fiducia da parte dei cittadini. Parole sante, come si dice. Ma, sia detto con il massimo rispetto per chi le ha pronunciate, forse anche parziali. Perché il punto non è tanto - a mio modestissimo parere - quello del rumore della politica (che, sia chiaro, c'è ed è spesso molto sgradevole) ma quello, assai più serio, della qualità della politica che quel rumore sottende. Una qualità che porta oggi gli italiani non già all'irritazione e all'invettiva ma all'indifferenza. A considerare la politica come un peso di cui non è possibile liberarsi ma che, appunto, è solo un peso. Fastidioso e spesso ingiustificato. Maprima di affrontare quel punto, una premessa è essenziale, a scanso di equivoci. Chi scrive pensa non solo, come si dice con una punta di retorica, che i partiti sono uno strumento essenziale della democrazia, ma che la politica si fa, in primis, dentro e con i partiti. Comprendendone il ruolo, interpretandone i rituali, rispettandone le forme, ricordandone la storia, percorrendone tutte le articolazioni. Tutte attività non sempre gratificanti e a volte anche un pochino noiose ma senza le quali non si comprende, al tempo stesso, la durezza e la ricchezza della politica.
E chi scrive ne è tanto convinto che nel 2001 - memore della indicazione di Mitterrand ad un noto intellettuale francese del suo tempo - non ha chiesto di essere candidato a Siena o a Modena (nessuno si offenda, per favore, ho fatto solo due esempi) ma in un collegio meridionale saldamente tenuto da parecchi anni dagli avversari. Ciò detto, torniamo alla qualità della politica. Allentatosi il vincolo della ideologia, la politica è oggi più di tante altre cose, credibilità. Credibilità della classe politica nel suo insieme e credibilità dei singoli che fanno politica. E una politica credibile è quella che crede in quello che dice ed in quello che fa, o che cerca di fare. E' tutto qui il dibattito sul riformismo che andiamo facendo da qualche tempo o, meglio, da qualche anno. Non riguarda solo i risultati - che pure sono piuttosto magri - ma la convinzione che dovrebbe animare i protagonisti di quel dibattito. Cosa pensereste di un grande manager che oggi indica nel mercato cinese una opportunità da non mancare e promette, di lì a qualche tempo, di sbarcarci in forze e poi, qualche tempo dopo, vi dice che sì, poi, in fondo, il mercato cinese non è così importante? E cosa pensereste di un leader politico che a novembre annuncia urbi et orbi che per marzo il paese avrà messo un punto fermo sui temi della riforma previdenziale e poi a gennaio conclude che, in La citazione fondo, la cosa non è poi così urgente? Non pensereste quello che pensano molti italiani? E, gentilmente, non si tiri fuori l'argomento francamente un po' deboluccio relativo alle difficoltà entro le quali quotidianamente si muove la politica. Alla fatica - che c'è, lo sappiamo - della costruzione politica. Alla incertezza degli esiti: sappiamo anche questo, si può vincere e si può perdere. Il punto è un altro: da una classe politica si chiede - avrei voluto scrivere, si pretende - che spenda il proprio tempo a pensare come evitare o superare quelle difficoltà. La politica - mi si perdoni la franchezza - non è pagata per raccontare ai cittadini gli ostacoli che incontra giorno dopo giorno ma per superarli. Se ne è capace. E se non ne è, per lasciare ad altri la possibilità di provarci. Le difficoltà in cui si dibatte, giorno dopo giorno, l'odierna azione di governo sono il frutto malato di cinque anni di opposizione in cui - anche grazie a qualche editoriale domenicale non sempre illuminato - non un solo giorno è stato speso per costruire la cultura e le condizioni che sarebbero servite a governare e non è lecito, oggi, usare quelle difficoltà come un'attenuante. (E l'argomento vale, mutatis mutandis, per il governo della passata legislatura.) Si è seminato male e quindi si raccoglie poco. E si è seminato male perché non si credeva fino in fondo in quel che si diceva di voler fare. Una politica credibile è una politica che rischia e che si assume responsabilità. Che si espone al pericolo di perdere perché solo così si vince.
Che non trasforma un grande progetto politico come quello del Partito democratico - evidentemente difficile e rischioso - in un piccolo espediente tattico. Per quel pochissimo che capisco di politica mi sembra di poter sommessamente dire che non si costruisce un partito con un solo punto nell'agenda: consolidare gli equilibri esistenti. Politici e di potere (benedetti intellettuali! continuo a non riuscire a non tenere separate le due cose). Vedere per credere come, a livello locale, si vanno preparando i prossimi congressi. In molte regioni d'Italia (almeno una la conosco piuttosto bene) l'attività politica oggi prevalente è quella relativa alla attenta allocazione delle tessere ed al relativo "traffico". Perché il congresso non comporti il minimo rischio. Perché tutto sia noto e definito in anticipo. Perché le minoranze non manchino e le maggioranze siano definite per residuo. Nulla di nuovo e tanto meno di sorprendente. Lo si faceva anche negli anni d'oro della Prima Repubblica. Per quel che ricordo, spesso con più stile e certamente con più fantasia. Il punto grave è che tutto questo accade non già in vista di congressi di routine ma addirittura nella prospettiva di scelte che dovrebbero cambiare il modo stesso di essere della politica italiana. Che dovrebbero chiudere una transizione (che, ovviamente, non a caso è infinita). Come si può - lo chiedo a Michele Salvati - contemplare senza battere ciglio una abdicazione della politica di questa portata? Come si può, con il sorriso sulle labbra, esporre il sistema politico italiano - prima ancora che alcune sue parti - a pericoli fin troppo evidenti, perché partiti così sono costruiti sulla sabbia e possono scomparire al primo risultato elettorale non troppo esaltante, lasciando dietro di sé - e nel migliore dei casi - solo macerie? Come si può non vedere che l'Italia cresciuta, economicamente e socialmente, nell' ultimo quindicennio di un partito costruito su basi culturali e politiche così fragili non saprebbe che farsene e cercherebbe altrove le risposte alle proprie domande?
Se il Partito democratico fallirà - mi rivolgo ancora a Michele Salvati - non sarà a ragione di subdole ed infide iniziative trasversali (e, sia detto per inciso, è più subdolo ed infido discutere con Bruno Tabacci di pensioni o trattare sulla legge elettorale con Roberto Calderoli?), ma sarà a causa della mancanza di coraggio di chi pensa che il rischio sia pane quotidiano per le famiglie e per le imprese ma non per la politica. Una politica credibile è una politica che rispetta le regole. Che non si limita, giustamente, a chiedere giornalmente ai cittadini di rispettare le regole ma che rispetta essa per prima le regole che alla politica si applicano. E ce n'è una, in molti paesi e soprattutto in quelli che il maggioritario ce lo hanno da tempo, che non è nemmeno scritta: chi perde abbandona il campo. Definitivamente (salvo straordinarie eccezioni). Sia che perda elettoralmente, sia che perda politicamente (chiedere, per ulteriori dettagli, a Margaret Thatcher). E non è una astruseria. Ma una semplice - rozza, lo ammetto - norma di garanzia. Intesa ad evitare che chi c'è usi del proprio indubbio potere per rimanere. E, gentilmente, si eviti a questo punto di alzare il dito per osservare che nuove classi politiche all'orizzonte non si vedono. Perché non sappiamo se l'impresa entrante ci offrirà prodotti di qualità migliore e a un prezzo inferiore, ma consideriamo un bene pubblico il fatto che possa provarci e lo tuteliamo come tale. La politica italiana - credo di averlo detto e scritto in tempi non sospetti - è oggi guidata (al di là dei meriti o dei demeriti dei singoli) da due leadership entrambe sconfitte. E quindi automaticamente, inevitabilmente, al di là della loro volontà e delle loro capacità, non più credibili. Della politica non possiamo fare a meno. Quindi, quel che fa la differenza è la qualità della politica. Si può fare politica per una vita intera senza mai farla veramente e farla per un giorno solo mettendoci la passione di una intera vita.
Nicola Rossi

Repubblica 8.1.07
Importante scoperta degli scienziati Usa: potrebbe risolvere i dubbi etici sull'uso delle cellule
Staminali nel liquido amniotico
di Daniele Diena


ROMA - Poter finalmente disporre di un serbatoio di cellule staminali "pluripotenti", cioè capaci di generare i principali tessuti proprio come le embrionali, ma che, a differenza di queste, non dovrebbero più suscitare contestazioni bioetiche. Quello che fino a ieri era il sogno di tutti i ricercatori del settore è diventato realtà, almeno a livello di sperimentazione animale. E potrebbero essere finalmente superate le questioni etiche finora poste nell´ambito della ricerca sulle cellule staminali.
La buona notizia arriva ancora una volta dagli States. Un gruppo di ricercatori della Wake Forest University, nel North Carolina, è riuscito ad isolare nel liquido amniotico di donne incinte delle cellule staminali che, coltivate in vitro per alcuni anni, si sono poi trasformate in cellule progenitrici di diversi tessuti: quello muscolare, l´osseo, l´epatico, il sanguigno. Le cellule, trapiantate su animali, hanno confermato la loro potenzialità riproduttiva e senza causare tumori (problema talvolta riscontrato nelle embrionali). Cellule del sistema nervoso trapiantate in topolini lobotomizzati sono cresciute e hanno riparato l´area del cervello danneggiata: «Abbiamo assistito a un parziale ripristino della funzionalità», ha detto in una conferenza stampa Anthony Atala, autore della scoperta con Paolo De Coppi (italiano, 35 anni) - è stato anche appurato che le cellule neurali così ottenute riescono a produrre neurotrasmettitori, mentre quelle del fegato possono secernere urea».
La prima caratteristica, molto importante, osservata in queste nuove cellule è che, nel topo, hanno una formidabile velocità di moltiplicazione: solo 36 ore. Questo significa che in poche settimane si dispone di miliardi di cellule, un passo avanti che, il giorno che fosse confermato anche per l´uomo, darebbe una grossa accelerata alla cura di molte malattie. La scoperta è arrivata a confermare un´ipotesi che i ricercatori di mezzo mondo inseguivano da tempo, soprattutto dopo le dure contestazioni alla ricerca sulle staminali embrionali: si sapeva infatti che nel liquido amniotico c´è una grande quantità di cellule immature, ma non c´era ancora alcuna certezza che ci fossero delle vere e proprie staminali, cioè cellule capaci di differenziarsi poi nei diversi tessuti. Ora è dimostrato non solo che le staminali ci sono, ma anche che rappresentano circa l´1 per cento del totale di cellule immature del liquido amniotico. Tanto basta per far dire al professor Atala: «Con quattro milioni di parti l´anno, solo negli Stati Uniti sarà facile raccogliere abbastanza campioni di cellule fetali da accumulare una banca dati che soddisfi le necessità di trapianto dell´intera popolazione. E con una banca di 100mila campioni, il 99 per cento degli americani potrebbe trovarne uno geneticamente compatibile per un eventuale trapianto». Secondo lo studioso americano con questa nuova frontiera che è stata appena aperta sul fronte delle staminali si potrebbe, un giorno, arrivare a poter disporre di «una valida risorsa per la riparazione di tessuti malati e pure per una vera e propria creazione di nuovi organi, in sostituzione di quelli che non funzionano più».
Gli stessi ricercatori che hanno fatto la scoperta frenano però i facili entusiasmi: per quanto riguarda le possibili ricadute sull´uomo e i tempi necessari per raccogliere i primi risultati, si prevede infatti che occorreranno ancora alcuni anni. Forti comunque le aspettative che la scoperta serva a costruire una concreta alternativa all´utilizzo di staminali embrionali, pratica che ha suscitato tante contestazioni nel mondo intero, e quindi a dare nuovo impulso allo studio delle possibili applicazioni terapeutiche delle staminali che negli ultimi tempi ha incontrato fin troppo ostacoli.

Repubblica 8.1.07
La ricerca pubblicata su "Learning and Memory". Per l'esperimento usati i topi mutanti dei laboratori di Monterotondo (Roma)
In una molecola il segreto della memoria
Scoperta da un'équipe italo-spagnola, "incolla" l'informazione al cervello
L'abbraccio. Il dialogo tra le due cellule cerebrali si trasforma in un abbraccio stabile Oggi sappiamo come
di Elena Dusi


ROMA - Televisione, radio, libri, giornali. Un bombardamento di informazioni che tiene in continuo movimento il nostro cervello. È come se ogni nozione appresa - anche la più banale - creasse un´onda che mantiene sempre vivo il dinamismo dell´organo del pensiero. Per gli scienziati, mettere a fuoco i meccanismi dell´apprendimento e della memoria in questo mare sempre agitato era stato fino a ieri impossibile. Ci ha pensato Liliana Minichiello dell´European molecolar biology laboratory (Embl) di Monterotondo, in provincia di Roma, insieme ad alcuni colleghi dell´università di Siviglia, a scovare la molecola chiave che trasforma il flusso delle informazioni in un ricordo stabile e duraturo. Le loro ricerche sono pubblicate da Learning and Memory.
Il ruolo della molecola, battezzata TrkB, è di "incollare" l´informazione di un attimo (che si manifesta con una scarica elettrica istantanea fra due neuroni) al nostro cervello, trasformandola in un ricordo stabile. Il dialogo momentaneo fra le due cellule cerebrali si trasforma così in un abbraccio stabile, frutto di un processo che gli scienziati conoscono già da tempo con il nome di long-term potentiation. Per la prima volta oggi, grazie a dei topolini di laboratorio, è stato possibile capire quali segnali molecolari inducono le cellule del cervello a formare un legame stabile. A trasformare una notizia ascoltata un attimo alla radio in un ricordo duraturo.
Minichiello e i suoi colleghi sospettavano da tempo che la molecola TrkB svolgesse un ruolo chiave nel processo di memorizzazione. I neuroni sono in grado di riconoscerla, recepirla e attivare una cascata di eventi che sono ancora per la maggior parte oscuri, ma che di fatto si traducono nella formazione di un abbraccio stabile tra neuroni. Per dimostrare l´ipotesi, Minichiello si è servita dell´archivio dei topi mutanti di Monterotondo. All´Embl sono infatti conservati centinaia di ceppi di roditori modificati geneticamente. Uno di questi era stato trattato in modo da rendere parzialmente inattivo nel cervello il recettore della molecola TrkB. La cascata di eventi che porta normalmente alla formazione di un ricordo, nei topi modificati si blocca sul nascere, impedendo ogni processo di apprendimento.
L´esperimento utilizza il riflesso condizionato di Pavlov per verificare se il processo di apprendimento avvenga o meno. Un segnale sonoro avverte i topi che un soffio d´aria sta per colpirgli gli occhi, costringendoli a chiudere le palpebre. Ripetendo la sequenza, i roditori normali imparano a ripararsi gli occhi già dal momento in cui sentono il suono. Segno che nel loro cervello la rete dei neuroni si è modificata, organizzandosi in maniera tale da suggerire ai topi il comportamento migliore da adottare in coincidenza con la sirena. Gli animali geneticamente modificati invece reagiscono ogni volta come se udissero il suono per la prima volta. Mancando TrkB, il processo di apprendimento si è bloccato. Il cervello dei roditori non riesce a ricordare che al suono segue il soffio d´aria sugli occhi.
La differenza tra studiare le cellule del cervello con un microscopio e analizzare i processi in vivo, come è avvenuto con questo esperimento, è ben espresso da una frase che il ricercatore spagnolo, José Marìa Delgado Garcia, ha rilasciato al quotidiano El Pais: «Il cervello di Einstein, a riposo, era uguale al cervello di ogni altra persona. La differenza si poteva apprezzare solo quando lo scienziato elaborava un pensiero complesso. È in quel momento che è importante osservare come cambiano i neuroni».

sabato 6 gennaio 2007

l'Unità 6.1.07
Partire dalla laicità
di Carlo Flamigni


Sarebbe molto interessante se il consiglio dei Ministri discutesse del problema della definizione di laicità, per togliere dubbi e uscire dalla attuale confusione. Tutti abbiamo letto o ascoltato le interpretazioni più diverse, che ci sono state offerte da personaggi più o meno illustri e più o meno meritevoli di ascolto, ma tutti portatori di una loro personale verità. La conclusione è che molti di noi non capiscono più cosa è la laicità e dubitano che il concetto di stato laico in cui sono stati educati sia ancora attuale.
Per facilitare il compito ai nostri ministri, propongo una base di discussione, che individuo nella definizione proposta da un grande filosofo, Nicola Abbagnano. sui cui libri molti di noi hanno studiato: mi si dia atto che evito di chiamare in causa filosofi come Viano, Lecaldano, Giorello o Mori, generalmente considerati laici "radicali". Ed ecco i concetti salienti: lo stato laico è un sistema di governo politico e amministrativo della cosa pubblica che esige l'autonomia delle istituzioni e della società civile dalle ingerenze di qualsivoglia organizzazione confessionale e dalle direttive di tutti i poteri che si sono costituiti senza far ricorso alle regole imposte dalla democrazia (immagino che il riferimento sia alla massoneria e all'Opus Dei). Ciò significa separazione reale tra Stato e Chiesa, nessuna ingerenza da parte del Magistero, garanzia piena di libertà e di uguaglianza per tutti i cittadini nei confronti di entrambi i poteri; lo stato laico garantisce inoltre a tutti libertà di religione e di culto, considerando tutte le religioni su un piano di uguale libertà e dignità. Tralascio le cose veramente perfide che scriveva Abbagnano dei governi che legiferano tenendo conto dei desideri e delle ideologie delle religioni, per citare (molto brevemente) un cattolico laico, A.C..Jemolo, che nel lontano 1956 scriveva che i precetti della Chiesa non potranno mai avere altra sanzione che quella ecclesiastica e che nessun credente potrà pretendere dallo Stato un qualsiasi appoggio a quelle prescrizioni.
Debbo fermarmi qui per ragioni di spazio. Voglio però assicurare i Ministri che una loro comune definizione su un termine così sfortunato (e per alcuni di noi così importante), unita all'impegno di non tradirla in avvenire, sarebbe di grande aiuto e renderebbe più facile la discussione su alcuni temi (ad esempio, quello del Partito Democratico).
Ultimo rilievo: nel Dizionario di Filosofia di Abbagnano, la voce è laicismo, non laicità.

l'Unità 6.1.07
Parlate al cuore
di Clara Sereni


L'altra volta era San Martino in Campo, e ha funzionato: per un po' il governo ha parlato abbastanza all'unisono, senza eccessive stonature. Mi piacerebbe che anche a Caserta, intanto, si concordasse su questo: fase uno fase due o Topolino, parlate con una voce sola, per favore. Dopo aver ben ponderato le parole.
E parlate al cuore: cosa che alla politica riesce in generale poco, tutt'al più parla alla pancia. Ma dopo le abbuffate natalizie toccherà a tutti, chi più chi meno, cominciare a dimagrire: con buone ricadute sulla salute individuale e collettiva, ma anche con il bisogno di una speranza forte, che non può essere soltanto quella di mettersi in linea con la bilancia di casa e/o di Maastricht.
Al cuore si parla con i provvedimenti che cambiano la vita delle persone. Dunque forza con le unioni di fatto, forza con la battaglia in Consiglio di Sicurezza contro la pena di morte, forza con il conflitto di interessi così magari il nostro tempo libero sarà un po´ più decente, e soprattutto sarà chiaro che è finito – si spera per sempre – il tempo in cui qualcuno era più uguale degli altri.
A testa alta, a voce alta: perché la bandiera dei diritti sventoli finalmente senza incertezze.

l'Unità 6.1.07
Eutanasia clandestina, rompiamo il silenzio
Lettera aperta al Presidente della Camera dei Deputati Fausto Bertinotti
di Marco Cappato


Gentile Presidente,
è passato poco più di un mese da quando Le abbiamo consegnato le prime 10.000 firme della “petizione Welby” al Parlamento italiano volta a chiedere un’indagine conoscitiva sull’eutanasia clandestina e la calendarizzazione delle proposte di legge esistenti in materia. Le chiediamo oggi di intervenire contro la prematura archiviazione - avvenuta senza preavviso e senza dibattito - della proposta.
Sulla calendarizzazione, eravamo concordi nel ritenere prioritario il percorso parlamentare sul testamento biologico e nel considerare che ogni futura discussione sull’eutanasia - qualunque ne fosse stato l’eventuale esito sul piano legislativo - avrebbe beneficiato di un’indagine conoscitiva sul fenomeno. Nella scorsa legislatura, un’indagine parlamentare fu condotta - a pochi mesi dalle elezioni - sull’interruzione di gravidanza, un fenomeno per il quale si disponeva già di abbondanti cifre ufficiali e informazioni diffuse. Per le scelte e le pratiche di fine vita, invece, le informazioni sono relativamente scarse e spesso contraddittorie, tanto da pregiudicare una riflessione parlamentare che non voglia essere viziata da pregiudizi ideologici. La proposta raccolse il tuo interesse e il tuo impegno a consultare i Presidenti delle Commissioni competenti. Alcuni giorni dopo il nostro incontro, Piergiorgio Welby decise di voler essere - anche formalmente - il primo firmatario della petizione.
Mercoledì 20 dicembre, il nostro co-Presidente morì, a seguito della sedazione terminale e del distacco del respiratore da lui stabiliti nel rispetto della Costituzione. La firma della petizione è stato dunque il suo ultimo atto politico. Sempre il 20 dicembre, poche ore prima, una riunione dell’Ufficio di presidenza delle Commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera, integrato dai rappresentanti dei gruppi, esaminò la “petizione Welby”, senza che peraltro il punto fosse menzionato nell’avviso di convocazione. Tutti i rappresentanti dei partiti, ad eccezione della Rosa nel Pugno e dei Verdi, bocciarono l’indagine conoscitiva, con motivazioni che svelavano un vero e proprio terrore della realtà rispetto a un fenomeno certamente lontano dalle aule parlamentari, ma non dai reparti di rianimazione o dai capezzali dei malati italiani. Forza italia, Alleanza Nazionale, UdC, Udeur, ma anche Ulivo, Comunisti italiani, Rifondazione Comunista, Italia dei Valori: tutti uniti, quindi, non contro l’eutanasia, ma contro la conoscenza.
I partiti stabilirono invece di procedere a delle audizioni con alcuni “esperti”, da effettuarsi addirittura a porte chiuse! Le audizioni sono state convocate in tutta fretta, il 18 gennaio, cioè immediatamente alla riapertura dei lavori della Camera, per impedire persino alle personalità che saranno audite di realizzare un lavoro decente di raccolta di informazioni. L’importante, evidentemente, era chiudere quanto prima la pratica Welby. Se il Parlamento avesse semplicemente rifiutato di dare seguito alla petizione, la scelta, seppur politicamente per noi inqualificabile, sarebbe certamente stata più limpida per l’istituzione parlamentare.
Ci rendiamo perfettamente conto che la decisione sul trattamento da dare alla petizione Welby non è prerogativa esclusiva del Presidente, e che sono poi le forze parlamentari e i partiti a decidere. Riteniamo però necessario, proprio in omaggio all’attenzione e all'interesse che Lei ha prestato alla materia - con tutti i dubbi da Lei espressi su eventuali decisioni legislative, ma con la condivisione della necessità di conoscere i dati di fatto - rivolgerci di nuovo a Lei, come Presidente e come leader politico, per chiederLe di fare tutto quanto in Suo potere per impedire il perfezionamento di una pagina parlamentare davvero indecorosa.
Per parte nostra, non abbiamo alcuna intenzione di abbandonare l’obiettivo dell’indagine conoscitiva ed anzi riteniamo che l’episodio ne confermi la necessità e l’urgenza. Abbiamo nel frattempo raccolto altre 10.000 firme e continueremo la nostra campagna fino a che il Parlamento deciderà di non venire meno al compito fondamentale di collegamento con la società italiana.
Il 18 gennaio, accompagneremo le eventuali “audizioni farsa” con una cartellonata in Piazza Montecitorio. Distribuiremo lì i risultati - pur frammentari e non sempre omogenei - delle principali indagini sull’eutanasia clandestina condotte in Italia e all’estero. Nell’attesa che un’indagine sistematica e approfondita sulla “morte all’italiana” sia ufficialmente affidata, dal Parlamento o da altre istituzioni, a un soggetto in grado di realizzarla con professionalità, ad esempio l’Istituto nazionale di statistica.
Per l’Associazione Luca Coscioni:
Maria Antonietta Farina Coscioni
Gianfranco Spadaccia
Rocco Berardo


il manifesto 6.1.07
L'opinione. Picconate continue alla laicità
di Vera Pegna


La dichiarazione ufficiale rilasciata dalla sala stampa del Vaticano in occasione dell'esecuzione di Saddam è stata: «Una esecuzione capitale è sempre una notizia tragica, motivo di tristezza, anche quando si tratta di una persona che si è resa colpevole di gravi delitti. La posizione della Chiesa cattolica - contraria alla pena di morte - è stata più volte ribadita». Viene spontaneo chiedersi come la Chiesa cattolica, o meglio, il Papa e le gerarchie ecclesiastiche, concilino una condanna così netta della pena di morte con la canonizzazione di criminali patentati come Escrivà de Balaguer e Stepinac, responsabili della morte di decine di migliaia di persone, o con la celebrazione di fastose esequie religiose per il dittatore Pinochet, esequie - ricordardiamolo - negate al mite Piergiorgio Welby.
La risposta sta nei doppi binari sui quali si muovono le gerarchie cattoliche. Condannano la pena di morte ma la mantengono nel loro catechismo (articolo 2267), raccomandano il rispetto dei diritti umani ma appoggiano le peggiori dittature europee e sudamericane. Lodano la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo ma la Santa sede non la sottoscrive. Come non sottoscrive la Convenzione europea per i diritti dell'uomo che prevede sanzioni per gli Stati che non ne rispettano i principi. Ratzinger condanna la pedofilia ma continua a coprire i preti pedofili e a dare piena attuazione al documento «Crimen sollicitationis» della Congregazione per la dottrina della fede secondo cui la pedofilia è peccato ma non reato quindi bisogna evitare che i preti colpevoli finiscano nelle mani della giustizia. Grazie alla discrezione di cui sanno dare prova i nostri mass media quando in ballo sono i misfatti vaticani, pochi sanno che lo stesso Ratzinger è stato accusato davanti a un tribunale del Texas di «cospirazione in pedofilia» poco prima delle sua elezione a papa e che se l'è cavata per il rotto della cuffia in considerazione dell'immunità concessa ai capi di stato.
Se le gerarchie cattoliche si possono muovere con disinvoltura su doppi binari è perché sanno che comunque la fanno franca. Il prestigio morale della Chiesa è fuori discussione. La Chiesa è l'unica fonte di valori. La storia del Cristianesimo è immacolata e le radici cristiane sono il riferimento identitario dell'Europa.
Allora, avanti. Chiamiamo la prima stazione ferroviaria della capitale d'Italia stazione Papa Wojtyla, esponiamo il crocefisso in tutti gli edifici pubblici, finanziamo gli oratori e la scuola cattolica in barba alla Costituzione e che l'Europa unita nasca cristiana.
Queste picconate alla laicità fanno quasi rimpiangere gli strappi fatti dal Capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro, il quale nel suo discorso di capodanno del 1998 successivo alla visita del papa al parlamento disse: «Santità! Grazie per questa visita, che è venuta in un momento politico di grande rilievo ed è stata di enorme importanza. Grazie per i colloqui, grazie per l'amabilità. Grazie, soprattutto, per una cosa che tutti hanno sentito: che non era soltanto un grande atto di attenzione - ed era già gran cosa! - ma che era, soprattutto, un atto di amore per l'Italia e per il popolo italiano. Ed è il popolo italiano che, attraverso la mia voce le dice grazie anche per questa sua infrenabile, grazie a Dio, testimonianza di verità, di pace, di giustizia che vince ogni resistenza che la natura, a volte, le pone. Coraggio e avanti, Santità!».
La gratitudine da lui attribuita al «popolo italiano» per la «testimonianza di verità» data da Papa Wojtyla non suscitò allora particolari proteste, né gli atei e gli agnostici gli rimproverarono di essere poco rappresentativo di tutta la popolazione. Forse perché Scalfaro si era sempre comportato da laico consapevole e determinato, ma forse anche perché le gerarchie cattoliche si intromettevano meno platealmente nella vita politica del paese di quanto non facciano oggi. Ma ormai la misura è colma. Per fortuna il rifiuto delle doppiezze e delle ingerenze vaticane si allarga e si aggrega. È auspicabile che i nostri politici ne tengano conto.

il manifesto 6.1.07
Ninfe. L'osservazione del cielo è la grazia e la maledizione dell'uomo
In ogni immagine un anticipo e un ricordo
«La storia dell'umanità è sempre storia di fantasmi e di immagini, perché è nell'immaginazione che ha luogo la frattura fra l'individuale e l'impersonale, il molteplice e l'unico, il sensibile e l'intellegibile...»
di Giorgio Agamben

Anticipazioni. Una figura emblematica
In «Ninfe» - che uscirà per la collana Incipit di Bollati Boringhieri il 18 gennaio e di cui anticipiamo il primo, il secondo e il decimo capitolo (i sottotitoli sono redazionali) - Giorgio Agamben indaga la natura di queste figure che Paracelso definiva «in carne e ossa», create «a immagine dell'uomo» e che possono «acquistare un'anima solo unendosi con lui». Come già in altri suoi libri, Agamben riprende la lezione di Warburg, ricordando, tra l'altro, che le ricerche dello studioso tedesco sono contemporanee alla nascita del cinema e che con esso hanno in comune il problema della rappresentazione del corpo in movimento, (bewegstes Leben) di cui la ninfa costituisce l'esemplare canonico. Quel che a Warburg interessava era, in realtà, la vita delle immagini, e la sua scoperta - scrive Agamben - è che accanto alla loro persistenza retinica esse hanno una sopravvivenza storica, legata al persistere della loro carica mnestica. Warburg si accorse dunque per primo che le immagini trasmesse dalla memoria storica non sono inerti bensì dotate di una vita postuma, e che la loro sopravvivenza richiede una operazione del soggetto storico, che rende possibile rimettere in movimento il passato.


Nei primi mesi del 2003 si poteva vedere al Getty Museum di Los Angeles una mostra di video di Bill Viola intitolata Passions. Durante un soggiorno di studio al Getty Research Institute, Viola aveva lavorato sul tema dell'espressione delle passioni, che era stato codificato nel XVII secolo da Charles Le Brun e ripreso poi nel XIX secolo, su base scientifico-sperimentale, da Duchenne de Boulogne e da Darwin. Risultato di questo periodo di studio erano i video esposti nella mostra. A prima vista, le immagini sullo schermo sembravano immobili, ma, dopo qualche secondo, esse cominciavano quasi impercettibilmente ad animarsi. Lo spettatore si rendeva allora conto che, in realtà, esse erano sempre state in movimento e che soltanto l'estremo rallentamento, dilatando il momento temporale, le faceva sembrare immobili. Questo spiega l'impressione insieme di familiarità e di estraneazione che le immagini suscitavano: era come se, entrando nelle sale di un museo dove erano esposte le tele di antichi maestri, queste cominciassero per miracolo a muoversi.
A questo punto, se aveva qualche familiarità con la storia dell'arte, lo spettatore riconosceva nelle tre figure estenuate di «Emergence» la Pietà di Masolino, nel quintetto attonito degli «Astonished» il Cristo deriso di Bosch, nella coppia piangente della «Dolorosa» il dittico attribuito a Dieric Bouts nella National Gallery di Londra. Decisiva ogni volta non era, però, tanto la trasposizione in abiti moderni, quanto la messa in movimento del tema iconografico. Sotto gli occhi increduli dello spettatore, il musée imaginaire diventava musée cinématographique.
Il tempo nelle immagini
In quanto l'evento che essi presentano può durare fino a una ventina di minuti, questi video esigono un'attenzione a cui non siamo più abituati. Se, come Benjamin ha mostrato, la riproduzione dell'opera d'arte si accontenta di uno spettatore distratto, i video di Viola costringono invece lo spettatore a un'attesa - e a un'attenzione - insolitamente lunghe. Se è entrato alla fine, egli - come si faceva al cinema da bambini - si sentirà obbligato a rivedere il video dall'inizio. In questo modo l'immobile tema iconografico si trasforma in storia. Ciò appare in modo esemplare in «Greetings», un video esposto alla Biennale di Venezia nel 1995. Qui lo spettatore poteva vedere le figure femminili, che la Visitazione di Pontormo ci presenta intrecciate, mentre si avvicinano lentamente l'una all'altra, fino a comporre alla fine il tema iconografico della tela di Carmignano.
Lo spettatore a questo punto si rende conto con sorpresa che a catturare la sua attenzione non è soltanto l'animazione di immagini che era abituato a considerare immobili. Si tratta, piuttosto, di una trasformazione che concerne la loro stessa natura. Quando, alla fine, il tema iconografico è stato ricomposto e le immagini sembrano arrestarsi, esse si sono in realtà caricate di tempo fin quasi a scoppiare e proprio questa saturazione cairologica imprime loro una sorta di tremito, che costituisce la loro aura particolare. Ogni istante, ogni immagine anticipa virtualmente il suo svolgimento futuro e ricorda i suoi gesti precedenti. Se si dovesse definire in una formula la prestazione specifica dei video di Viola, si potrebbe dire che essi non inseriscono le immagini nel tempo, ma il tempo nelle immagini. E poiché, nel moderno, non il movimento, ma il tempo è il vero paradigma della vita, ciò significa che vi è una vita delle immagini, che si tratta di comprendere. Come l'autore stesso afferma in un'intervista pubblicata nel catalogo: «l'essenza del medio visivo è il tempo... le immagini vivono dentro di noi... noi siamo databases viventi di immagini - collezionisti di immagini - e una volta che le immagini sono entrate in noi, esse non cessano di trasformarsi e di crescere».
Danzare per «fantasmata»
Come può un'immagine caricarsi di tempo? Che relazione vi è tra il tempo e le immagini? Intorno alla metà del Quattrocento, Domenico da Piacenza compone il suo trattato Dela arte di ballare et danzare. Domenico - o, piuttosto, Domenichino, come lo chiamavano amici e discepoli - era il più celebre coreografo del suo tempo, maestro di danza alla corte degli Sforza a Milano e a quella dei Gonzaga a Ferrara. Benché, all'inizio del suo libro, egli citi Aristotele e insista sulla dignità dell'arte della danza, che è «de tanto intelecto e fatica quanto ritrovare se possa», la trattazione si situa a metà fra il manuale didattico e il compendio esoterico legato alla tradizione orale da maestro ad allievo.
Domenico enumera sei elementi fondamentali dell'arte: misura, memoria, agilità, maniera, misura del terreno e «fantasmata». Quest'ultimo elemento - in verità assolutamente centrale - è definito in questo modo: «Dico a ti che chi del mestiero vole imparare, bisogna danzare per fantasmata e nota che fantasmata è una prestezza corporale, la quale è mossa cum lo intelecto del mesura... facendo requie a cadauno tempo che pari aver veduto lo capo di medusa, como dice el poeta, cioè che facto el moto, sii tutto di pietra in quello istante e in istante metti ale come falcone che per paica mosso sia, secondo la regola disopra, cioè operando mesura, memoria, maniera cum mesura de terreno e aire». Domenico chiama fantasma un arresto improvviso fra due movimenti, tale da contrarre virtualmente nella propria tensione interna la misura e la memoria dell'intera serie coreografica.
Gli storici della danza si sono interrogati sull'origine di questo «danzare per fantasmata», nella «quale similitudine», secondo la testimonianza degli allievi, il maestro intendeva esprimere «molte cose che non si possono dire». È certo che essa deriva dalla teoria aristotelica della memoria, compendiata nel breve trattato Sulla memoria e la reminiscenza, che aveva esercitato un'influenza determinante sulla psicologia medievale e rinascimentale. Qui il filosofo, legando strettamente insieme tempo, memoria e immaginazione, affermava che «solo gli esseri che percepiscono il tempo ricordano, e con la stessa facoltà con cui avvertono il tempo», cioè con l'immaginazione. La memoria non è, infatti, possibile senza un'immagine (phantasma), la quale è un'affezione, un pathos della sensazione o del pensiero. In questo senso, l'immagine mnemica è sempre carica di un'energia capace di muovere e turbare il corpo: «Che l'affezione (pathos) sia corporea e che la reminiscenza sia una ricerca in questo fantasma, appare da ciò, che taluni sono sconvolti quando non riescono a ricordare nonostante la forte applicazione della mente, e che l'agitazione perdura anche quando non cercano più di ricordare - soprattutto i melancolici, perché sono molto sconvolti dalle immagini. Il motivo per cui rammemorare non è in loro potere è che, come quelli che scagliano un dardo non hanno più la possibilità di trattenerlo, così anche colui che cerca nella memoria imprime un certo movimento alla parte corporea in cui tale passione risiede».
La danza è, dunque, per Domenichino, essenzialmente un'operazione condotta sulla memoria, una composizione dei fantasmi in una serie temporalmente e spazialmente ordinata. Il vero luogo del danzatore non è nel corpo e nel suo movimento, bensì nell'immagine come «capo di medusa», come pausa non immobile, ma carica, insieme, di memoria e di energia dinamica. Ma ciò significa che l'essenza della danza non è più il movimento - è il tempo. (...)
Al vertice dell'anima individuale
L'immaginazione è una scoperta della filosofia medievale. In questa, essa raggiunge la sua soglia critica - e, insieme, la sua formulazione più aporetica - nel pensiero di Averroè. L'aporia centrale dell'averroismo, che non cessa di suscitare le ostinate obiezioni degli scolastici, è, infatti, nel rapporto fra l'intelletto possibile, unico e separato, e i singoli individui. Secondo Averroè, questi si congiungono (copulantur) con l'intelletto unico attraverso i fantasmi che si trovano nel senso interno (in particolare, nella virtù imaginativa e nella memoria). L'immaginazione riceve in questo modo un rango in ogni senso decisivo: al vertice dell'anima individuale, al limite fra il corporeo e l'incorporeo, l'individuale e il comune, la sensazione e il pensiero, essa è l'estrema scoria che la combustione dell'esistenza individuale abbandona sulla soglia del separato e dell'eterno. In questo senso, l'immaginazione - e non l'intelletto - è il principio che definisce la specie umana.
Il progetto di Warburg
Resta che questa definizione è aporetica, perché - come Tommaso insistentemente obietta nella sua critica, affermando che, se si accetta la tesi averroista, il singolo uomo non può conoscere - essa situa l'immaginazione nel vuoto che si spalanca fra la sensazione e il pensiero, fra la molteplicità degli individui e l'unicità dell'intelletto. Di qui - come sempre ogni volta che si tratta di afferrare una soglia o un passaggio - il vertiginoso moltiplicarsi, nella psicologia medievale, delle distinzioni: virtù sensibile, virtù imaginativa, memoriale, intelletto materiale, adepto ecc. L'immaginazione circoscrive, cioè, uno spazio in cui non pensiamo ancora, in cui il pensiero diventa possibile solo attraverso una impossibilità di pensare. In questa impossibilità i poeti d'amore situano la loro glossa alla psicologia averroista: la copulatio dei fantasmi con l'intelletto possibile è un'esperienza amorosa e l'amore è, innanzitutto, amore di una imago, di un oggetto in qualche modo irreale, esposto, come tale, al rischio dell'angoscia (che gli stilnovisti chiamano «dottanza») e del mancamento. Le immagini, che costituiscono l'ultima consistenza dell'umano e il solo tramite della sua possibile salvezza, sono anche il luogo del suo incessante mancare a se stesso.
È su questo sfondo che si deve collocare il progetto warburghiano di raccogliere in un atlante - il cui nome è Mnemosyne - le immagini - le Pathosformeln - dell'umanità occidentale. La ninfa warburghiana sconta l'ambigua eredità dell'immagine, ma la sposta su un tutt'altro piano, storico e collettivo. Già Dante, nel De monarchia, aveva interpretato l'eredità averroista nel senso che, se l'uomo è definito non dal pensiero, ma da una possibilità di pensare, allora questa non può essere attuata da un singolo uomo, ma soltanto da una multitudo nello spazio e nel tempo, cioè sul piano della collettività e della storia. Lavorare sulle immagini significa in questo senso per Warburg lavorare all'incrocio non soltanto fra il corporeo e l'incorporeo, ma anche, e soprattutto, fra l'individuale e il collettivo. La ninfa è l'immagine dell'immagine, la cifra delle Pathosformeln che gli uomini si trasmettono di generazione in generazione e a cui legano la loro possibilità di trovarsi o di perdersi, di pensare o di non pensare. Le immagini sono, pertanto, un elemento decisamente storico; ma, secondo il principio benjaminiano per cui si dà vita di tutto ciò di cui si dà storia (e che qui si potrebbe riformulare nel senso che si dà vita di tutto ciò di cui si dà immagine), esse sono, in qualche modo, vive. Noi siamo abituati ad attribuire vita soltanto al corpo biologico. Ninfale è, invece, una vita puramente storica. Come gli spiriti elementari di Paracelso, le immagini hanno bisogno, per essere veramente vive, che un soggetto, assumendole, si unisca a loro; ma in quest'incontro - come nell'unione con la ninfa-ondina - è insito un rischio mortale. Nel corso della tradizione storica, infatti, le immagini si cristallizzano e trasformano in spettri, di cui gli uomini diventano schiavi e da cui sempre di nuovo occorre liberarli. L'interesse di Warburg per le immagini astrologiche ha la sua radice nella coscienza che «l'osservazione del cielo è la grazia e la maledizione dell'uomo», che la sfera celeste è il luogo in cui gli uomini proiettano la loro passione delle immagini. Come per il vir niger, l'enigmatico decano astrologico che egli aveva riconosciuto negli affreschi di Schifanoia, essenziale è, nell'incontro col dinamogramma carico di tensioni, la capacità di sospenderne e invertirne la carica, di trasformare il destino in fortuna. Le costellazioni celesti sono, in questo senso, il testo originale in cui l'immaginazione legge ciò che non è mai stato scritto.
La relazione con Giordano Bruno
Nella lettera a Vossler, inviata pochi mesi prima della morte, Warburg, riformulando il programma del suo atlante come una «teoria della funzione della memoria umana per immagini (Theorie des Funktion des menschlichen Bildgedächtnisses)», lo mette in relazione col pensiero di Giordano Bruno: «Lei vede, che io non devo qui lasciarmi sfuggire ad alcun costo, come ho fatto finora, la possibilità di entrare in rapporto con una figura che mi affascina da quarant'anni e che, per quanto posso vedere, non ha trovato finora la sua giusta collocazione nella storia dello spirito: Giordano Bruno».
Il Bruno a cui Warburg qui si riferisce in relazione all'atlante, non può essere che il Bruno dei trattati magico-mnemotecnici, come il De umbris idearum. È curioso che, nel suo studio sull'Arte della memoria, Frances Yates non si sia accorta che i sigilli che Bruno inserisce in questo libro hanno la forma di geniture astrologiche. Questa somiglianza con uno degli oggetti privilegiati delle sue ricerche non poteva non aver colpito Warburg, che, nel suo studio sulla divinazione nell'età di Lutero, riproduce geniture quasi identiche.
La lezione che Warburg trae da Bruno è che l'arte di padroneggiare la memoria - nel suo caso, il tentativo di comprendere attraverso l'atlante il funzionamento del Bildgedächtnis umano - ha a che fare con le immagini che esprimono la soggezione dell'uomo al destino. L'atlante è la mappa che deve orientare l'uomo nella sua lotta contro la schizofrenia della propria immaginazione. Il cosmo, che il mitico eroe omonimo sorregge sulle sue spalle (Davide Stimilli ha ricordato l'importanza di questa figura per Warburg) è il mundus imaginalis. La definizione dell'atlante come «storie di fantasmi per adulti» trova qui il suo senso ultimo.
Quel che Mnemosyne nomina
La storia dell'umanità è sempre storia di fantasmi e di immagini, perché è nell'immaginazione che ha luogo la frattura fra l'individuale e l'impersonale, il molteplice e l'unico, il sensibile e l'intellegibile e, insieme, il compito della sua dialettica ricomposizione. Le immagini sono il resto, la traccia di quanto gli uomini che ci hanno preceduto hanno sperato e desiderato, temuto e rimosso. E poiché è nell'immaginazione che qualcosa come una storia è diventata possibile, è attraverso l'immaginazione che essa deve ogni volta nuovamente decidersi.
La storiografia warburghiana (in questo vicinissima alla poesia, secondo l'indiscernibilità tra Clio e Melpomene che Jolles suggeriva in un bel saggio del 1925) è la tradizione e la memoria delle immagini e, insieme, il tentativo dell'umanità di liberarsi da esse, per aprire, al di là dell'«intervallo» fra la pratica mitico-religiosa e il puro segno, lo spazio di una immaginazione senza più immagini. Il titolo Mnemosyne nomina, in questo senso, il senza immagine, che è il congedo - e il rifugio - di tutte le immagini.

il manifesto 6.1.07
L'alterità cinese, a carte scoperte
In «Pensare l'efficacia in Cina e in Occidente», François Jullien ribadisce ancora una volta che il grande paese asiatico è l'unico altrove possibile per il «noi» europeo. Ma, ribatte il sinologo Jean-François Billeter, questo è un mito che può trovare legittimità solo in un contesto filosofico
di Marco Dotti


A dispetto delle critiche, talvolta molto dure, che di continuo gli vengono mosse, anche nel suo ultimo libro Pensare l'efficacia in Cina e in Occidente (traduzione di Massimiliano Guareschi, Laterza, pp. 102, euro 10), François Jullien non esita a ribadire l'idea guida che sta alla base della propria ricerca. Un'idea che vede rappresentati nella Cina elementi critici e di rottura a tal punto autonomi, quanto a genesi, e inclassificabili, quanto a forme e sviluppo, da farne - secondo l'ex direttore del Collège international de philosophie, oggi responsabile del Centro «Marcel Granet» dell'Università di Paris 7 - l'unico, vero altrove possibile rispetto all'ordine dell'Occidente. Chiunque intenda realmente uscire dal solco tracciato dai modelli e dal sistema di pensiero europeo, rivolgendosi così «fuori» e non semplicemente ai margini di tale percorso e al tempo stesso decida di abbandonare i punti di riferimento che gli sono familiari, addentrandosi in una sorta di «esteriorità delle lingua», della storia e della cultura, non ha alternativa che non sia rivolgersi all'apparente oscurità della Cina.
Una riflessione di Blaise Pascal, redatta a margine dei Pensieri, offre a Jullien lo spunto per soffermarsi sul percorso storico e sulla possibilità di comprendere, lontano dagli schemi dell'esotismo che dal sedicesimo secolo a oggi si sono succeduti, questa alternativa e la sua «oscurità» per molti versi sconcertante. «Chi è più credibile», si chiedeva Pascal, «Mosè o la Cina»? Benché Pascal, al pari di Montaigne, Voltaire, Leibniz o Hegel che pure ne scrissero, non vi si sia mai recato, attraverso quella semplice opposizione egli rivela di non ignorare la grande «forza di obiezione» che la Cina costituisce nei confronti del mondo europeo.
La forza della formula di Pascal risiederebbe appunto nel fatto di presentare il rapporto fra Cina e Occidente in termini di alternativa fra «due opzioni di pensiero e nel fatto che questa stessa alternativa è del tutto asimmetrica». A proposito di questa asimmetria, Jullien invita a osservare attentamente le figure messe in gioco da Pascal che se da un lato colloca Mosè, capace di simbolizzare «l'avventura dell'Europa attraverso il monoteismo», dall'altro non gli oppone alcuna immagine di un «padre fondatore», né Confucio, quindi, né Lao Tze ma «la Cina» stessa, intesa come spazio e conseguente apertura alla possibilità di un pensiero realmente «fuori quadro», rispetto agli schemi ordinari. Pensiero che non passa per la grande filiazione che, dalla tradizione ebraico-cristiana alla Grecia, «giunge fino a "noi, il "noi" europeo».
Al Libertino, suo doppio con cui nei Pensieri talvolta instaura un immaginario dialogo, Pascal farà poi pronunciare parole altrettanto significative e «efficaci», giocando sulla polisemia di un verbo, «obscurcir», che può indicare tanto il rendere incomprensibile qualcosa, quanto il gesto con cui il giocatore dissimula intenzioni e copre le proprie carte, durante una partita. «La Cina oscura» (obscurcit), si legge, «al che io rispondo: " Sì, la Cina è oscura, ma vi si può trovare chiarezza, cercatela"».
Come cercarla, dunque, questa chiarezza? A quali fonti rivolgersi, e soprattutto dove? È all'intelligenza, osserva Jullien, che Pascal affida la risposta, attribuendole il compito di «dissipare tutto ciò che può interporsi come uno schermo nebuloso fra il pensiero cinese e il nostro». Il ragionamento di Pascal sembra a sua volta chiarirsi grazie a quella che a Jullien appare come una vera e propria formulazione di un metodo: «Bisogna considerare tutto questo nel dettaglio, bisogna mettere le carte sul tavolo». Metterle sul tavolo, giocare a carte scoperte, corrisponde allora al moderno «lavorare localmente, con pazienza» attraverso una comparazione che non fugga più la frontalità, il faccia a faccia fra due sistemi di pensiero, ma soprattutto sappia seguirne ovunque le relative, talvolta insospettate diramazioni. Una comparazione, detto altrimenti, che cerchi i punti di frattura e non solo quelli di incontro fra le due culture.
Ma, nonostante i meriti delle sue intuizioni, almeno in questo contesto Pascal non si sottrae a una prospettiva ancora, suo malgrado, utopica. Dopo averlo fatto vacillare sotto il peso dell'altrove, il sistema stesso viene rimesso al suo posto. Ci si limita dunque a constatare l'esistenza di uno spazio lontano, di un luogo critico e fuori quadro, senza che tutto questo costituisca per il retroterra del pensiero europeo una «esteriorità» capace di porlo in discussione fin dentro le «sue evidenze, in ciò che costituisce il suo impensato». Jullien riprende la nozione di «esteriorità» da Foucault che, nel 1966, ne Le parole e le cose, chiosando un testo di Borges parlava di una «eterotopia» della Cina da distinguere dalla sua rassicurante «utopia». Se le utopie consolano, le eterotopie, scriveva Foucault, «inquietano, probabilmente perché minano segretamente il linguaggio, perché devastano la sintassi e non soltanto quella che costruisce frasi, ma anche quella, meno manifesta, che fa "tenere assieme"le parole e le cose"».
Non c'è da stupirsi che, proprio sul tema attorno al quale da anni Jullien articola le proprie indagini, si concentri una delle critiche più dure che, negli ultimi tempi, gli sono state rivolte. Quello dell'alterità radicale della Cina appare infatti a Jean François Billeter, sinologo e professore emerito dell'Università di Ginevra, un vero e proprio «mito», che può trovare la propria legittimità in un contesto propriamente filosofico ma che, se trasferito altrove, rischia di diventare un pericoloso vizio di forma, buono per tutti i tempi e per ogni occasione. Al pari del concetto di «efficacia» che, sviluppato dapprima in due dei suoi libri più noti, La propensione delle cose e Il trattato dell'efficacia, è stato infine sottratto al discorso tecnico e trasferito da Jullien in un «contesto manageriale e aziendale», con tutte le conseguenze del caso.
È singolare, afferma Billeter in Contre François Jullien (Allia, pp. 122, euro 6,10), libro che, a dispetto del titolo un po' brusco, ha avuto il merito di sollevare una serie di critiche su questioni per nulla secondarie, che simile impostazione sia in qualche modo riconducibile alla visione della Cina tramandata dai primi gesuiti e che quella stessa visione sia stata dapprima avallata dai loro più feroci avversari - Voltaire su tutti - poi sviluppata «nella sua forma estrema» da letterati laici di primo ordine come Victor Segalen e infine accolta dalla maggior parte degli intellettuali francesi che vi intravedono «la continuazione dell'elitarismo repubblicano che si illudono di incarnare». Billeter ritiene che, nel corso degli anni, il suo giovane collega abbia progressivamente annacquato le proprie posizioni, smettendo di «interrogare il pensiero dell'Occidente attraverso quello cinese», facendosi invece prendere la mano da ossessioni tutte sue e da quella che, a poco a poco, è diventata la raffigurazione immaginata di una terra promessa, altrettanto mitica e utopica di quella che si vorrebbe «liberare». Questo sarebbe testimoniato anche dall'improvvisa e alquanto singolare iperattività dell'autore: dei ventitré volumi pubblicati da Jullien, diciotto sono stati editi proprio dopo il 1989. Non soffermandosi solo su fattori esterni, più che uno scontato pamphlet, Contre François Jullien si rivela però un prezioso strumento di riflessione che, anche quando non se ne condividono finalità, stile e presupposti, non sarebbe sbagliato leggere in contrappunto a Pensare l'efficacia o al più articolato e stimolante Nutrire la vita. Senza aspirare alla felicità (traduzione di Mario Porro, pp. 190, euro 13,50) recentemente apparso per l'editore Cortina. Nella convinzione che solo critiche dure e precise siano quanto di meglio un autore possa chiedere, per allargare «una di quelle fessure» che, parafrasando lo stesso Jullien, stimolando l'opera, ne rinnovano anche la vita. Purché, per tornare a Pascal, le carte siano davvero tutte sul tavolo.

Repubblica 6.1.07
La provocazione del poeta candidato sindaco di Prc, Pdci ed ex-Ds alle primarie
Sanguineti: restauriamo l'odio di classe
I padroni ci odiano e non lo nascondono, noi dobbiamo aiutare i proletari a prenderne coscienza
di Raffaele Niri


GENOVA - Edoardo Sanguineti, 76 anni, candidato sindaco per il "Forum delle sinistre", da poeta sceglie accuratamente antiche parole: «Bisogna restaurare l'odio di classe. Bisogna promuovere la coscienza del proletariato: i padroni ci odiano e non lo nascondono, noi dobbiamo aiutare i proletari ad avere coscienza della propria classe».
E' mezzogiorno e nella sede nuova di zecca di "Unione a sinistra" - il movimento che raccoglie i "fuoriuscenti" dai Ds, che proprio ieri hanno mandato una lettera di dimissioni collettiva - cala il gelo: l'espressione "odio di classe" è assente dal programma elettorale firmato da Rifondazione, Comunisti italiani e "Unione a sinistra" che hanno scelto il Professor Edoardo Sanguineti come candidato sindaco.
E, in vista delle Primarie del centrosinistra del 4 febbraio, anche al centro del centrosinistra genovese si registrano grosse novità: l'ex presidente dell'Assindustria ed ex deputato ulivista Stefano Zara starebbe per sciogliere, positivamente, la riserva. Così la griglia di partenza comincia a farsi interessante: partendo da sinistra, Edoardo Sanguineti, l´eurodeputata Marta Vincenzi (scelta dai Ds e sostenuta, ufficialmente, anche dalla Margherita), probabilmente Stefano Zara (fondatore dell'Associazione per il Partito Democratico, sostenuto dal petroliere Riccardo Garrone e da ampi settori della società civile).
Ma se Zara scioglierà la riserva solo lunedì, l'uscita di Edoardo Sanguineti provoca smottamenti anche nella sua alleanza: la formula "odio di classe", in campagna elettorale, non si ascoltava dai tempi di Giancarlo Pajetta.
Il professore, naturalmente, argomenta le sue considerazioni: «Le condizioni di vita di un conducente di autobus genovese dipendono dalle oscillazioni della Borsa di Hong Kong. Oggi la merce-uomo è la più svenduta, nostro dovere è raccogliere la bandiera e difendere il proletariato. Naturalmente non penso alle armi, com'è noto sono assolutamente contrario alla violenza. Parlo di odio di classe a ragion veduta: i proletari devono odiare i loro padroni come i padroni odiano loro».
Così, nel giorno in cui 63 dirigenti cittadini dei Ds ufficializzano la sofferta uscita dal partito (tra gli altri, il presidente del consiglio regionale Mino Ronzitti, gli assessori Sassano, Massolo e Briano, tredici consiglieri su sedici della Valpolcevera) basta una battuta del candidato sindaco per spostare l'attenzione. Mugugnano gli alleati: il capogruppo dei Comunisti Italiani in Regione, Tirreno Bianchi, ha chiesto un immediato vertice, già convocato per martedì.

La Stampa 6.1.07
Il poeta e l'odio di classe
di Riccardo Barenghi

La provocazione di Edoardo Sanguineti ha quel suono ottocentesco che non si sentiva da parecchio tempo, un sapore nostalgico che fa anche tenerezza. Dice il Poeta, che però parla da politico visto che si candida alle primarie dell’Unione per scegliere il candidato a sindaco di Genova, che è giunta l’ora di «restaurare l’odio di classe perché i potenti odiano i proletari e l’odio deve essere ricambiato». Facce attonite in sala, ma il Poeta prosegue: «Oggi la merce uomo, il suo lavoro, è la più svenduta e chi dovrebbe averne coscienza, ossia la classe proletaria, non lo ha, inibita da una cultura dominata dalla tv». Parla con cognizione di causa, Sanguineti, lui non è «solo» un poeta ma anche un profondo intellettuale marxista: la materia, anzi il materialismo lo conosce. Ormai tredici anni fa, chi tirò fuori dalla storia l’odio di classe fu un personaggio che, secondo Sanguineti, ha contribuito non poco a «inibire i proletari» sommergendoli con la cultura dominata dalla tv. Fu infatti Silvio Berlusconi, nel suo discorso della discesa in campo, a spiegare che il suo «sogno» era quello di «una società libera...dove non ci sia la paura, dove al posto dell’invidia sociale e dell’odio di classe stiano la generosità, la dedizione, la solidarietà, l’amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita». Paradossalmente, Berlusconi aveva torto mentre ha ragione Sanguineti. Nel senso che quell’odio di classe, sbandierato e paventato dal Cavaliere ed evocato oggi dal Poeta, non esisteva nel 1994 e tantomeno esiste oggi.
Per fortuna, si dirà. O forse purtroppo, se si toglie alla parola «odio» quella carica violenta che contiene e che allude a rivoluzioni che non sono «un pranzo di gala ma atti di violenza» (Mao Tse Tung). E lo si derubrica a coscienza (di classe), consapevolezza di essere appunto una classe sociale e non un’altra, con una capacità di lottare per emancipare se stessi dalla condizione in cui si è ma senza voler a tutti i costi diventare qualcun altro, saltando il fosso e trasformandosi in poco probabili borghesi. Messa in questi termini, il Poeta non avrebbe tutti i torti. Se non fosse che proprio quel verbo da lui utilizzato non a caso – restaurare – dice che stiamo parlando di un qualcosa che assomiglia a un monumento, se vogliamo un’opera d’arte, forse un vecchio palazzo (d’inverno), insomma di un pezzo di antichità. Il quale, diroccato o restaurato che sia, resterà comunque un testimone del passato. Lo si può visitare, studiare, qualcuno lo potrà anche ammirare o rimpiangere, ma nessuno lo potrà resuscitare. Nemmeno un sindaco poeta.

Corriere della Sera 6.1.07
GENOVA / Il poeta è candidato dalla sinistra radicale. Pronto a scendere in campo l'imprenditore sostenuto da Garrone
Sanguineti rilancia l'«odio di classe»
«I ricchi detestano i poveri». E nella corsa a sindaco sfiderà l'industriale Zara
di Erika Dellacasa

Basta nascondersi, l'odio di classe esiste e va dichiarato. Lo ha detto il poeta Edoardo Sanguineti nella veste di candidato sindaco di Genova alle primarie dell'Ulivo, presentando il suo programma. Sanguineti è sostenuto dai fuoriusciti ds del correntone, da Rifondazione comunista e dai Comunisti italiani, mentre l'europarlamentare Marta Vincenzi è presentata da Ds e Margherita.
L'ODIO — «L'odio di classe — ha detto Sanguineti — è come il segreto di Pulcinella: c'è ma non se ne parla. Allora io propongo la sua restaurazione. I potenti odiano i poveri e il proletariato deve rispondere all'odio della borghesia con lo stesso sentimento». Bisogna avversare le logiche del capitale e dell'industria perché, insiste il poeta e intellettuale dell'avanguardia italiana, «il nemico di classe è una realtà. I poveri sono considerati il nemico dal potere dominante. Essere poveri è considerato un crimine. La logica brutale dell'industria è: ringraziami perché ti faccio lavorare. E chi dovrebbe averne coscienza è offuscato dalla cultura della tv». Necessario quindi dare voce al proletariato «oggi costituito anche da ingegneri e laureati precari e sottopagati. Esente dal discorso di Sanguineti ogni incitamento alla violenza. Il richiamo è alla lotta di classe in termini marxisti. Ciò non toglie che fra i sostenitori di Sanguineti qualcuno sia impallidito e riunioni sono state indette.
LA LISTA CIVICA — Mentre nella vicina sede dell'Associazione industriali si barcollava, grossi punti interrogativi si formavano sulla testa dei dirigenti ds e dl che preparano le primarie uliviste di febbraio. Primarie molto più frizzanti di quanto ci si poteva aspettare in una città dai poteri consolidati come Genova. Dopo l'indicazione di Ds e Margherita di Marta Vincenzi, il petroliere Riccardo Garrone, scontento, ha infatti annunciato di preparare una lista civica per candidare Stefano Zara, ex presidente dell'Associazione industriali di Genova ed ex deputato DL. «Mi lascia perplesso — ha commentato Adriano Sansa, ex sindaco di Genova — che qualche Berlusconi di sinistra scelga un suo candidato sindaco».
Zara si è riservato di decidere (scioglierà il nodo lunedì) ma si sa che scenderà in campo e che ha già un suo programma. Ieri si è incontrato con il sindaco di Genova Giuseppe Pericu e domani incontrerà Garrone. «Sono e resto ulivista — ha detto Zara —. Ma c'è un diffuso disagio per i metodi della politica e per come si è arrivati a queste primarie prive di un vero programma». Ha accettato così di rendersi interprete delle preoccupazioni degli industriali. Che, dopo le dichiarazioni di Sanguineti, si sentiranno preoccupati. «È legittimo che Zara si candidi per le primarie — ha commentato Sanguineti — anche se questo renderà più evidenti le differenze nella coalizione».
IL CONFRONTO — Si prospetta quindi un confronto tra il marxista puro Sanguineti, l'interprete delle esigenze degli industriali sostenuto da Garrone, Zara, e l'europarlamentare ds Marta Vincenzi uscita vittoriosa dal confronto con Mario Margini, ex segretario regionale ds e assessore della giunta Pericu. Il match fra Vincenzi e Margini, che aveva coinvolto tutte le sezioni dei Ds, sembrava il punto di massima tensione raggiunto nell'Ulivo per individuare il candidato sindaco. Da lì in poi tutto doveva andare in discesa.

Repubblica 6.1.07
I sacerdoti dell'alchimia
Esce l'antologia curata da Michele Pereira per i Meridiani
La pietra filosofale e la resurrezione di Cristo
I francescani e la dottrina della quinta essenza
L'elixir di Avicenna, le "ricette" di Scoto, l'"essenza sottile" di Paracelso
Per Goethe i testi magici erano monotoni, Newton invece li apprezzava

di Agostino Paravicini Bagliani


Per Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), uomo di scienza oltre che massimo scrittore tedesco, gli scritti alchemici erano di una «insopportabile monotonia», che «come uno scampanio ininterrotto induce più alla pazzia che al raccoglimento». Il giudizio dell´autore del Faust suonava di condanna per un genere letterario che aveva nutrito la cultura europea per quasi quindici secoli. Che la letteratura alchemica abbia invece una sua dignità culturale viene ampiamente dimostrato dall´antologia di testi alchemici che Michela Pereira, ha curato per i Meridiani (Alchimia. I testi della tradizione occidentale, Mondadori, pagg. CXXXVI - 1566, euro 55).
Qualche decennio prima di Goethe, il grande scienziato inglese Isaac Newton (1643-1727) scrisse di alchimia, ritenendola capace di «guardare al principio divino nella e attraverso la natura».
L´opera alchemica, aggiungeva, è congiunzione e generazione ed è quindi paragonabile all´essere umano, che discende «da padre e da madre, che sono il sole e la luna». La riduzione alla materia prima è il suo obiettivo principale, ma prima «deve essere purificata».
Ancora nel Settecento, in un trattato che Goethe conosceva, si legge che l´alchimia permette «di apprendere il bellissimo e semplicissimo ordine della natura», operando «sia dissolvendo, sia coagulando, in tutte quante le cose del mondo, sempre passando attraverso i gradi intermedi».
L´alchimia è insomma ricerca dell´universale, del primordiale e della materia prima che, nata nel caos, si rigenera; ed è così che «l´acqua caotica diventa lo sperma universale di tutte le cose, detto comunemente anima o spirito del mondo».
Erano secoli che in Occidente si sognava e si scriveva di alchimia. Le più antiche ricette risalgono all´epoca di Costantino (IV s.). Sono pratiche di «magia ludica» che mirano all´imitazione di oro ed argento, di pietre preziose, della tintura di porpora. Poco dopo appare l´associazione fra metalli e pianeti, ossia fra oro e argento, sole e luna. E nascono i primi simboli alchemici, l´uovo e il serpente, che mettono in relazione l´opus con la realtà cosmica.
Sorgono allora anche i primi apparecchi per la distillazione che Maria l´Ebrea descrive in un trattato sui forni andato perduto. Ma per Maria, i metalli erano composti di corpo, spirito e anima, come gli esseri viventi, cosicchè l´alchimia non è più soltanto tecnica di trasformazione dei metalli, ma strumento di purificazione dei corpi, alla ricerca della perfezione: «E questa è l´opera: ciò che è generato è perfetto». L´alchimia diventa «chimica mistica», che «consiste in simboli, grazie ai quali i corpi estratti dalle miniere e trasformati diventano piani ed eterei».
Secondo Geber, il padre fondatore dell´alchimia araba, riprodurre la vita artificialmente è opera che perfeziona la natura, le dà una nuova nascita, in un continuo va e vieni tra il manifesto e l´occulto, tra l´interno e l´esterno, tra unione e dissoluzione, di corpi e di spiriti: «I corpi si sciolgono per gli spiriti e gli spiriti si condensano per i corpi: ciò è quello che si richiede a una tintura completa e rapida».
Ed è per questo che l´alchimista ha bisogno del fuoco, elemento unificatore: «Infatti è il fuoco che decide la natura delle cose».
Nell´Europa cristiana medievale, la scienza alchemica penetra insieme alle traduzioni della scienza araba, dalla metà del XII in poi. Nel Testamento di Morieno Romano, tradotto da Roberto di Chester nel 1144 da un originale arabo andato perduto, l´opera alchemica è paragonabile al processo biologico del concepimento, della gravidanza e della nascita. Così disse Morieno al califfo: «Nel portare avanti quest´opera, ti sono necessarie le nozze, il concepimento, la gravidanza. Quest´opera somiglia alla creazione di un uomo». Anche negli scritti alchemici attribuiti ad Avicenna, l´elixir - definito «grande tesoro» - contiene in sé il principio della vita: «l´Uomo è dunque il magistero, cioè l´elixir»!
Intorno al 1200, Michele Scoto, il celebre astrologo dell´imperatore Federico II di Svevia, è cosciente che è dalla civiltà araba che l´Occidente ha ricevuto «questa nobile scienza assolutamente ignorata dai latini» (Europei): «nessuno ne sapeva nulla». Le ricette che egli descrive sarebbero il frutto di lunghi esperimenti: «Prendi del piombo e fondilo tre volte con calce, arsenico rosso, vetriolo sublimato, allume zuccherino, sempre immergendolo nel succo della portulaca marina e del cetriolo selvatico. E vedrai che il piombo si trasforma in ottimo sole, buono come il sole d´Arabia. Io, Michele Scoto, ho provato molte volte questa ricetta e l´ho sempre trovata vera».
Sono decenni fondamentali per la diffusione dell´alchimia in Occidente, soprattutto grazie ai francescani. Due generali dell´ordine, frate Elia da Cortona, un discepolo di san Francesco, e il provenzale Ramon Gaufredi hanno praticato l´alchimia. Intorno al 1260, Bonaventura d´Iseo propone l´elixir sotto forma di acqua medicinale:
«Delle acque artificiali si fanno a partire degli spiriti dei metalli, alcune dai metalli stessi, per esempio dall´argento, dallo stagno, dal piombo ecc.». In quegli stessi anni nasce con Ruggero Bacone la medicina alchemica (Alchimia e medicina nel Medioevo, Sismel Edizioni del Galluzzo, pagg. 400, euro 58), che si fonde sull´idea che vi è analogia tra la medicina dei metalli e la medicina dei corpi, così che sarebbe possibile «prolungare la vita per molti secoli», grazie dall´oro che viene "preparato" dall´alchimia. Sulla scia di Bacone, il Testamentum, dedicato nel 1332 a Edoardo III re d´Inghilterra, affermerà che pietra filosofale «trasforma ogni corpo imperfetto in sostanza capace di fare il vero sole e la vera luna, capace di guarire tutte le malattie del corpo umano; conforta le energie e le moltiplica, tanto da ringiovanire i vecchi».
A metà del Trecento, Giovanni da Rupescissa, un altro francescano, applica il processo di trasmutazione all´alcol distillato dal vino, che produce un farmaco detto «acqua di vita» e «acqua ardente». E´ la dottrina della «quinta essenza», quinta perché si aggiunge ai quattro elementi che sublima. La quinta essenza - «che l´Altissimo ha creato per preservare le quattro qualità del corpo umano» - si estrae dal vino («In ogni vino puro si cela la quinta essenza: stai bene certo che è la verità») ma anche dal sangue umano e serve a produrre l´elixir per eccellenza, l´oro «che incorpora in sé tutte le proprietà del sole celeste».
La quinta essenza produce miracoli e può aiutare la missione evangelica dei «poveri di Cristo», è un´alchimia che Lorenzo da Bisticci (inizio XV secolo) definirà addirittura come «il Cristo delle medicine». Nelle immagini alchemiche, la resurrezione di Cristo simboleggia la pietra filosofale, un´idea che verrà accolta dallo stesso Lutero: «L´arte alchemica mi sembra interessantissima anche per quella bellissima allegoria della resurrezione dei morti nel giorno del giudizio».
Un grande passo avanti sarà compiuto da Paracelso (1493-1541) - il «Lutero dei medici», come lo chiamarono i suoi detrattori - secondo cui l´alchimista deve ottenere l´ «essenza sottile» (arcanum) delle sostanze medicinali in collegamento con le energie macrocosmiche. Inoltre, la separazione, compiuta nei processi di calcinazione, sublimazione e distillazione, elimina il veleno che si trova in ogni sostanza se «la materia è racchiusa ben sigillata nel vaso filosofico e affidata al fuoco segreto».
Nel Rinascimento nascono nuove allegorie di sostanze e procedimenti alchemici che illustrano figure della mitologia classica, come quella del Vello d´oro. L´alchimia si trasforma sempre più in linguaggio, diventa «crogiuolo di parole», al cui centro appare però sempre «l´individuazione della materia prima, che non ha un nome e può averli tutti». E´ un linguaggio che cerca di dire l´indicibile, servendosi di un simbolismo che cela la «segreta aspirazione all´integrazione della mente col mondo».
L´alchimia è «una linfa nascosta», «un fiume carsico», fatto di segreti e di esoterismo, ma anche di poesia e di scienza, di tecnica e di simboli, di spiritualità e di materialità. Ha nutrito per secoli i sogni della salute perfetta e del prolungamento della vita, soprattutto a favore dei potenti (Chiara Crisciani, Il papa e l´alchimia, Viella, pagg. 218, euro 19) ed ha conosciuto crisi (Le crisi dell´alchimia, Sismel Edizioni del Galluzzo, 1992) e condanne (bolla Spondent di Giovanni XXI, 1317, contro i falsari).
Ma essa è nata per spingersi nelle profondità della materia riflettendo sul molteplice e «sull´infinita e cangiante varietà del mondo della materia», in alternativa al pensiero scientifico e filosofico dominante. L´alchimia vuole riprodurre in laboratorio la creazione, mettendone la materia - energia al servizio della dimensione umana; è sogno prometeico dell´homo faber (Mircea Eliade).
Insomma, è una storia letteraria fra le più affascinanti, che l´antologia di Michela Pereira ci permette di seguire nella sua straordinaria diversità e linearità.

Repubblica 6.1.07
La fede del Nuovo Mondo
L'America e il suo bisogno di religione
I fondatori, attraversato l'oceano come fosse il Mar Rosso, pensarono di aver trovato una nuova Terra Santa
C'è una complicità profonda tra stato di guerra, mobilitazione, autodifesa e necessità del sacro
Il desiderio di Freud ("più si educheranno gli uomini meno andranno a messa") non è stato esaudito
Tocqueville capì il legame esistente tra sentimento religioso e sentimento patriottico americano
di Regis Debray


Gli Stati Uniti sono l´unico paese al mondo dove il fondamentalismo ha avuto successo. L´intreccio tra quest´ultimo e l´ideologia democratica è sempre stato così forte che il credere in Dio è subito diventato un credere nazionale. Contrapporre un´America democratica a un´America religiosa è dunque un esercizio senza senso: la specificità degli Stati Uniti è proprio quella di aver istituito la democrazia come una religione al tempo stesso politica e nazionale. Gli Stati Uniti sono nati, come ricorda Alexis de Tocqueville, nel 1835, in Della democrazia in America, da un atto di protesta religioso dei «Founding Fathers».
I dissidenti che hanno attraversato l´Atlantico erano convinti di ripetere la traversata del mar Rosso degli Ebrei. Alla fine del viaggio, questo nuovo popolo eletto pensava trovare una nuova Terra santa. Questa percezione primordiale è rimasta nel codice genetico americano. Il Presidente degli Stati Uniti, per esempio, giura sulla Bibbia, il motto nazionale è «One Nation under God» e «God bless America» e i grandi discorsi dei presidenti americani, democratici e repubblicani, sono delle vere e proprie prediche, delle omelie. L´onnipresenza di questo sentimento religioso si manifesta anche nel fatto che il 91% degli americani dice di credere in un Dio personale e trascendente. E basta osservare una banconota americana da un dollaro, una sorta di professione di fede teologica quotidiana: sotto l´iscrizione «In God we trust», è rappresentato lo stemma nazionale, l´aquila, il ramo d´olivo della pace, le frecce della guerra e infine l´occhio divino che tutto osserva. Ci sono del resto più pratiche religiose negli Stati Uniti di oggi che all´epoca dell´indipendenza, nel 1776. Il desiderio di Freud, che sosteneva che più si educheranno gli uomini, meno andranno a messa, non sembra quindi essere stato esaudito e confermato dalla realtà di questo grande Paese protestante.
Nel «vecchio mondo», abbiamo un contenzioso con Dio che gli americani non hanno. Nell´universo cattolico, credenza fa rima con ubbidienza mentre nel mondo protestante fa rima con dissidenza (i dissenters americani erano in fondo i militanti di sinistra del 17esimo secolo). Mentre in Europa l´invocazione di Dio può generare divisioni, negli Stati Uniti è motivo di unione, di aggregazione. Il paese non è mai stato colpito da guerre di religione. Come suggerisce la formula «Et pluribus unum», gli americani hanno infatti immediatamente capito che, con l´esistenza e l´invocazione di un Dio unico, sarebbero stati in grado di riunire l´insieme della popolazione ed allontanare il pericolo di una guerra di tutti contro tutti.
E´ questa la vera differenza, perfettamente analizzata da Tocqueville nei suoi scritti, tra l´Europa e gli Stati Uniti. La Francia rappresenta un universo nel quale la Repubblica si è costituita contro la religione mentre negli Stati Uniti religione e Repubblica coabitano, sono intrinsecamente legate. Le varie dichiarazioni nazionali dei diritti dell´uomo sottolineano con chiarezza questa divergenza: l´uomo europeo ha dei diritti in quanto essere razionale mentre l´uomo americano ha dei diritti in quanto creatura di Dio. Un altro esempio: in un villaggio americano i due centri nevralgici sono la chiesa e il «drugstore»; in un villaggio francese i due centri di gravità sono invece il municipio e la scuola. Questa realtà, oggi, può forse apparire ovvia. Il merito di Tocqueville è di aver percepito, quando l´Europa iniziava appena a scristianizzarsi, la complicità esistente tra il sentimento religioso e il sentimento patriottico americano.
L´autore ci offre inoltre una seconda riflessione sulla religione che non dobbiamo trascurare. Senza mai essere stato un mistico, Tocqueville è riuscito a catturare l´essenza stessa della religione e capire come questa modifichi la nostra condizione temporale. La religione allunga il tempo, ci impedisce di vivere nell´attimo, scardina la dittatura dell´effimero. Al contrario, la democrazia vive in una dimensione temporale breve: il tempo del consumo, della moda, dell´opinione, del quotidiano, della televisione. L´inflazione del presente spinge gli uomini a trascurare i propri antenati, il proprio passato e annebbia la loro visione dell´avvenire. Non vi è nulla di più attuale che questa percezione profetica di Tocqueville. Oggi, pur possedendo tutte le tecnologie per controllare lo spazio (aereo, treno, Internet etc.), siamo sempre più incapaci di dominare il tempo.
Siamo infatti scivolati nella civiltà dello spazio, allontanandoci irrimediabilmente dalla civiltà del tempo. Ebbene, in questo contesto, il rituale religioso rappresenta il miglior modo di controllare il tempo e di vivere contemporaneamente nel passato, nel presente e nel futuro. Un esempio: quando si va a messa, assistendo all´eucaristia, diventiamo i testimoni di un rito che risale a due mila anni fa e che si svolgerà probabilmente ancora tra cento, mille anni. La religione ci offre in questo modo, nell´era dell´istantaneo, una visione a lungo termine e di ampio respiro che comprende passato e avvenire e che ci permette di liberarci dalla superstizione dell´immediato, dal culto dell´imminenza, dall´annichilimento dei tempi, dall´egemonia del presente.
Tuttavia, la religione non è solo uno strumento capace di riscattarci dal cinismo dell´istante. La storia e l´attualità ci dimostrano che esso rappresenta, innanzitutto, il più potente elemento federatore che esista. Negli Stati Uniti, dopo gli attentati dell´11 settembre 2001, tutte le chiese si sono riempite di fedeli e il «national prayer breakfast» ha dato inizio ad una lunga serie di esaltazioni patriottico-religiose inedite. Il fenomeno non è nuovo. Nel 1941, in un´Unione Sovietica invasa dai nazisti, Stalin fa appello al patriarca ortodosso e permette alla popolazione di entrare nelle chiese. E non vi è mai stata tanta gente a Notre Dame di Parigi per celebrare il Te deum come nel 1940, momento della capitolazione francese e, nel 1944, per la vittoria. Esiste dunque una complicità, una connivenza profonda tra lo stato di guerra, la mobilitazione, l´autodifesa collettiva e il sentimento religioso. Jean-Jacques Rousseau, uno dei padri della Rivoluzione francese, pensatore laico per il quale il concetto di sovranità popolare e il contratto sociale sostituiscono l´ubbidienza a un principio supremo, l´aveva perfettamente capito. Il filosofo spiega che i vincoli sociali e politici sono destinati a disfarsi se non sono accompagnati e legittimati da una trascendenza. E dà l´esempio dei polacchi: cosa sarebbero senza il cattolicesimo? E la comunità ebraica senza la Torah? E come può un cittadino partire in guerra, difendere la patria e sacrificare la propria vita in un campo di battaglia se non è sorretto da una religione civile, patriottica che possa esortarlo, guidarlo e che serva da coagulante sociale? Rousseau svela così una verità politica profonda e ancora attuale. Ebbene, come sottolinea il filosofo, il cristianesimo non è la religione più «utile» alla ragione di stato. Il cristiano non sa cosa sia una frontiera, crede che non ci siano differenze tra un indigeno e uno straniero. Se per un cristiano tutti gli uomini sono fratelli, cosa dovrebbe spingerlo allora a partire in guerra e sacrificare la sua vita per la difesa dello Stato? Inoltre, aggiunge Rousseau, i cristiani sono ambigui, instabili, preferiscono ubbidire al Papa piuttosto che al capo dello Stato, ai loro parroci piuttosto che ai loro deputati. Un cristiano non venera il suo presidente, il suo capo secolare: la sua lealtà suprema sarà sempre contesa tra cielo e terra. Il filosofo francese aveva allora anticipato, senza immaginarlo, la religione civile americana di oggi ma anche numerose religioni politiche che hanno rivoluzionato il corso della Storia (il comunismo, il fascismo...) e alcune religioni secolari, a volte prive di un loro Dio ma fondate su un principio forte di subordinazione dell´interesse individuale all´interesse collettivo.
La religione americana è tuttavia una religione senza peccato e senza inferno, un cristianesimo senza la Passione, senza la sofferenza come espiazione e senza la Croce (es. le chiese americane non dispongono mai di una Via Crucis). Negli Stati Uniti, tutta la tradizione europea del dolore è stata eliminata e prevale una versione utilitaristica e moralizzatrice della religione che esclude la tragedia, la dimensione dostoevskiana e gotica del mondo cristiano. Il protestantesimo rappresenta in effetti una specie di credo, di garanzia del benessere. Il protestante non sa se è un eletto, aspetta un segno divino e questo segnale è appunto la ricchezza, il patrimonio, il successo. Questo benessere individuale generalizzato è oggi considerato una delle principali ragioni alla base della straordinaria espansione del protestantesimo nel mondo. Il tempo del cattolicesimo non è finito ma è ovvio che l´ora del protestantesimo è giunta. Un esempio: ci sono attualmente nel mondo, anche in Cina e in America latina, molti più missionari protestanti che cattolici.
Questo sentimento religioso, liberato della sua dimensione tragica, è già stato analizzato da Friedrich Nietzsche. Il filosofo tedesco ha inoltre sottolineato un´altra caratteristica fondamentale del sentimento religioso che rappresenta, secondo lui, una specie di falsificazione necessaria, un errore essenziale la cui utilità individuale e sociale è vitale. Nietzsche parte dal presupposto che il desiderio di verità è un desiderio di morte e che il simbolo religioso è capace di unire gli uomini mentre il diavolo è una fonte di disgregazione continua. Una fede religiosa rappresenta dunque un forte operatore di unità e di vita che lotta contro l´ineluttabile decomposizione e dispersione dell´esistenza.
Ed è vero che, anche se non esiste un concetto universale di religione (ci sono ben 800 culture umane al mondo), possiamo individuare un senso e una radice comuni nelle espressioni che ritroviamo in moltissime lingue: « il cammino di vita», «la forza che ci aiuta a vivere», «siamo tutti uniti in Cristo». Il denominatore comune di tutto quello che chiamiamo «religione», dai culti della fertilità alle religioni senza Dio, è quindi questa esaltazione della vita e del generare che l´uomo lancia verso il cielo per respingere, dimenticare l´inesorabilità della morte.
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Il termine «religione» sembra ineluttabile. Questa parola non è tuttavia una chiave di lettura, rappresenta in realtà un ostacolo alla nostra comprensione del fenomeno religioso. Non dobbiamo essere accecati dalla nostra «vera religione del vero Dio», cattolica, apostolica e romana. Abbiamo il dovere di ampliare la nostra visione e di cercare di individuare quello che esiste di comune a tutte le visioni del mondo. Ebbene, questo denominatore comune è l´esistenza di un punto sublime, di un riferimento ideale che sussiste sia nel passato - un eroe, un testo, un avvenimento fondatore, una commemorazione - sia nel futuro - un´utopia che desideriamo realizzare, una supplica, un´implorazione... Ogni gruppo umano si aggrappa ad una dimensione verticale che permette a uno spazio orizzontale di costituirsi e di resistere allo sgretolamento del passaggio del tempo e alla dispersione.
«Ogni potere viene da Dio» dichiarava San Paolo. Per costituire un territorio è dunque sempre necessario ricorrere a un po´ di superstizione, ad un´assenza federatrice, all´esistenza di un Altro, un qualcosa di comune e di superiore a tutti, punto di coerenza trascendentale e fondatore, che chiamiamo appunto il sacro.
(Testo raccolto e tradotto da Silvia Benedetti)

Corriere della Sera 6.1.07
Uomo e progresso.
Migliora la società, non l'individuo
di Edoardo Boncinelli


Dietro l'idea di progresso c'è la convinzione che, per quanto lentamente, il consesso umano nel suo complesso vada avanti e che le cose umane migliorino. Io penso che questa idea abbia ancora una sua validità, a patto che si facciano alcune distinzioni. Si tenga distinto per esempio il progresso delle conoscenze e l'aumento del benessere materiale da una parte, dal progresso morale e sociale dall'altra; e all'interno di quest'ultimo si distingua poi il progresso dell'umanità come collettivo, da quello dei singoli.
Non c'è dubbio che c'è stato un enorme avanzamento di conoscenze e un aumento stupefacente del benessere materiale dell'umanità, anche se, purtroppo, in maniera non ancora uniforme sul globo. Anche i più acerrimi nemici della modernità non lo possono negare. I moderni mezzi di locomozione sono migliori e più alla portata di tutti della portantina; i trattori sono meglio della zappa e dell'aratro, che pure sono attrezzi modernissimi; e gli antibiotici sono meglio delle pozioni degli sciamani...
Unpo' diverso è il discorso del progresso civile. Se consideriamole società di oggi, paragonandole a quelle di ieri, non si può non notare un grande cambiamento, nella direzione di quella che noi definiamo società civile: più garanzie, più giustizia, più tolleranza, senso civico e solidarietà. Questo vale soprattutto per certe società, ma nelle sue grandi linee può essere considerato un fenomeno generalizzato. Si condanna e si imprigiona come una volta, ma chiunque ha diritto di essere ascoltato e di difendersi e soprattutto non si condanna senza un certo fondamento. I rapporti fra la gente sono civili, spesso educati e al limite del formalismo. Una società molto migliore insomma di quella dell' epoca delle caverne, e migliore anche di quella di cento anni fa, almeno per quanto riguarda il militarismo e la considerazione della guerra, la cui percezione è radicalmente cambiata.
Ma gli individui singoli sono cambiati? Gli esseri umani del XXI secolo sono intrinsecamente migliori di quelli di un secolo fa o di mille anni fa? Direi proprio di no. Alla nascita siamo ancora identici ai nostri antenati di migliaia di anni fa. Già a cinque anni, e a maggior ragione a dieci o a quindici, siamo molto diversi dai nostri antenati della stessa età, ma le differenze sono sovrapposte alla nostra natura, la coprono e ne costituiscono una sorta di vestito. Che peraltro ci sta a pennello, tanto che siamo in genere indotti a pensare di essere veramente diversi da coloro che ci hanno preceduto. Ma non è così e non potrebbe essere così. Non potrebbe essere così perché non esiste alcun meccanismo noto che possa far penetrare l'educazione dentro il nostro corpo, vale a dire dentro il nostro genoma, che è rimasto lo stesso di tanti millenni fa, perché non esiste barba di habitus mentale o comportamentale che possa trasferirsi da fuori a dentro, dalla nostra vita pubblica e dalle nostre maniere sociali al nostro essere biologico. Ci sono poi i fatti che dimostrano che non è così. Se è vero che l'educazione e la pressione sociale ci fanno comportare tutti abbastanza bene, è anche vero che di tanto in tanto — e in certe situazioni storiche particolari, piuttosto di frequente — ci mostriamo per quello che siamo, indulgendo in cattiverie e atrocità senza pari. Che ci colpiscono tanto di più in quanto contrastano in maniera stridente con il nostro modo di vivere ordinario e perché ci si è progressivamente convinti di essere veramente cambiati dentro. Questo è però un errore di prospettiva, come di chi pensasse che non esistono più i batteri perché li sappiamo controllare con disinfettanti e antibiotici. Sembra che non ci siano perché li combattiamo in continuazione, ma se solo allentassimo la sorveglianza tornerebbero micidiali come una volta. La nostra educazione e il nostro controllo sociale stanno alle intemperanze della nostra indole come i disinfettanti e gli antibiotici stanno ai batteri. Occorre in sostanza migliorare e rendere più persuasiva l'educazione e intensificare il controllo sociale dei comportamenti individuali e collettivi. Se il gioco c'è discretamente riuscito fino adesso, non c'è che da perfezionarlo e potenziarlo. Dando un po' più di fiducia all'uomo nel suo complesso. Che saprà sicuramente meritarsela.

Corriere della Sera 6.1.07
FILOSOFIA. Maurizio Ferraris ha dedicato un libro ai fondamenti del «credere»
Il bisogno di figure leggendarie e i limiti razionali della fede
Credere alla Befana, ultima sfida del relativismo
Ma è lo scetticismo scientifico il vero antidoto ai personaggi immaginari
di Giulio Giorello


Ricordate le storie a fumetti della Walt Disney Italia in cui i sortilegi della fattucchiera Nocciola si infrangono contro il "tignoso scetticismo" di Pippo? Il paradosso è che quella magia può funzionare solo se tra il pubblico non c'è un qualsiasi Pippo che si ostina a dire che "è tutto un trucco". Questo tema viene oggi modulato da un provocatorio filosofo italiano, Maurizio Ferraris, (nel suo
Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Bompiani, pp.154, e 11) e da un suo più serioso collega americano Michael Lynch ( La verità e i suoi nemici, di prossima pubblicazione in Italia).
Pur diversi, i due libri paiono entrambi visitati dallo spettro del relativismo. Sia Ferraris sia Lynch sono entrambi preoccupati che gli enti di cui si fanno garanti certe culture — per esempio, Babbo Natale nelle prospere contrade dell'Occidente o Dracula nella cupa Transilvania — vengano tranquillamente "giustificati" col pretesto che ogni cultura ha il diritto di ritagliarsi il mondo come meglio le pare (altrimenti, peccheremmo di pericoloso sciovinismo!): con il che, lo spirito critico impersonato da Pippo finirebbe col restare senza lavoro, nelle braccia "di Proserpina e Pluton", come recita il libretto di Lorenzo Da Ponte per il Don Giovanni di Mozart. A sua volta, però, Pippo non deve esagerare: se il suo scetticismo si esercitasse nei confronti degli "enti teorici" invocati nella pratica scientifica — "particelle e campi", per usare la sintetica battuta di Willard Van Orman Quine — allora passerebbe davvero il segno! Lynch teme che verrebbe meno l'autorità della scienza di fronte alle pretese delle più varie ideologie; Ferraris (nonostante il tono scherzoso) è più pessimista. Se gli etnologi riuscissero a persuaderci "che la visione scientifica del mondo è una mitologia occidentale, non diversa, in linea di principio, dai culti della dea Kali cara ai Thugs", allora si spalancherebbero le porte "a Padre Pio", mentre sarebbe lecito attendersi che i telegiornali dessero notizia "dell'avvenuto miracolo di San Gennaro con la stessa tranquilla sicurezza con cui parlano degli incidenti stradali".
Confesso di non avercela né con il patrono partenopeo né con il frate di Pietrelcina; ma capisco il punto: nelle appassionate parole di Ferraris, "se sostieni che nessuna legge di natura è certa al cento per cento, e soprattutto che le leggi sono costrutti teorici degli scienziati, allora si spiana la via per la tesi secondo cui nulla vieta di credere nei miracoli". L'argomento è chiaro e all'apparenza efficace. Però, come dice Maurizio di altri ragionamenti che non gli piacciono, è "sottilmente fallace". Il punto è che, come ha spiegato il matematico Bruno de Finetti (1906-1985) fin dagli anni Trenta del secolo scorso, non si danno "leggi di natura" che godano di certezza assoluta (o "al cento per cento" — per restare alla terminologia di Ferraris), bensì bisogna accontentarsi di percentuali minori, anche se nei settori scientifici più accreditati — dalla fisica delle particelle alla teoria darwiniana dell'evoluzione — queste bastano a darci una "certezza pratica" adeguata alle esigenze della tecnologia e della vita quotidiana.
Possiamo dir lo stesso dei cosiddetti miracoli?
A Ferraris l'ardua sentenza! Non capisco, comunque, il suo "vietare" di credere in Dracula, in Babbo Natale o magari nella resurrezione di Cristo. Le sue pagine hanno però il merito di indicare quello che è il nocciolo della questione: continuamente noi esseri umani abbiamo bisogno di arricchire l'arredo del mondo con un mucchio di "personaggi" o "entità" di cui non è affatto facile dare incontrovertibile prova. Dobbiamo allora ricorrere a una sorta di fenomenologia dell'invisibile, cioè una spregiudicata comprensione di come la comparsa di tali personaggi o entità cambi le nostre pratiche di vita. Per citare un esempio di Lynch, raccontare ai bambini che la notte del 24 dicembre Babbo Natale porta doni è ben diverso dal convincere il cittadino USA che un dato paese islamico dispone di armi di distruzione di massa (salvo poi dichiarare che "abbiamo sbagliato"). Non è quindi in gioco — come qualche filosofo analitico si ostina a ripetere — la "giustificazione" delle nostre credenze, ma il miglioramento autocritico e incessante delle nostre ipotesi in base alle quali pensiamo e agiamo. Se una differenza c'è tra le asserzioni scientifiche e quelle sui miracoli, è tutta qui: come diceva Gesù — "adulto" e non più "bambino" — è dalle loro opere che li riconoscerete. Cioè, dalla capacità di articolare le prospettive di ricerca invece che limitarsi alla sterile riaffermazione di questa o quella "verità rivelata".

Repubblica 6.1.07
Il pittore si spense il 18 gennaio 1987. Ancora oggi le testimonianze sul suo rapporto con la religione sono discordi
Guttuso e la fede, si riapre il giallo "La sua conversione fu autentica"
L'Avvenire vent'anni dopo: ecco le prove che morì da cristiano


ROMA - Quella di Renato Guttuso fu una conversione autentica e sincera. A vent´anni dalla morte del pittore, avvenuta il 18 gennaio del 1987, "Avvenire", il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, conferma che il pittore, perfettamente lucido secondo le parole di Natalino Sapegno, si spense riavvicinandosi alla fede cristiana. Per tutti quelli che lo consideravano una sorta di hidalgo comunista, pittore ateo per eccellenza, fu uno scandalo enorme.
A riproporre gli interrogativi sulla conversione, e sostanzialmente ad accreditarla, è stato ieri Marco Roncalli, pronipote di Papa Giovanni XXIII, il quale ricorda che tra l´autunno dell´85 e l´inverno dell´86 Guttuso confidò a più riprese: «Non potrei mai dire che sono stato ateo, perché mi sembrerebbe sbagliato affermarlo». E ancora: «Non penso sia importante dire se credo o non credo. Qualsiasi certezza avessi in un senso o nell´altro sarebbe frutto d´orgoglio».
Roncalli riferisce il ricordo personale di monsignor Fiorenzo Angelini, il quale ha raccontato come, nella messa celebrata a Palazzo del Grillo il giorno del suo ultimo Natale, il pittore si era commosso e aveva pianto. Prima della messa aveva voluto confessarsi. «Renato è sempre stato un credente non praticante - ha spiegato Angelini - In lui la fede, pur velata e sofferta, non è mai stata spenta. Non è il convertito nel senso di Sant´Agostino. Non è stato mai ateo. Parliamo di conversione come miglioramento. Guttuso non amava rispondere a chi gli chiedeva della sua fede, e soprattutto del rapporto con la sua adesione politica. Questi uomini, soprattutto gli artisti, hanno una vita piena di grovigli, magari originariamente con cause e colpe estranee».
"Avvenire" riferisce anche il parere dello storico d´arte Mariano Apa, il quale evidenzia come «dall´arte intesa come ideologia della didattica dell´emancipazione sociale Guttuso giungerà alla decantazione di un personalismo esistenziale». Esaminando i quadri, lo studioso osserva come «questa condizione stilistica esplicita l´evoluzione della sua affermazione religiosa». E aggiunge: «Non è un caso che dalla dirompente problematicità della Crocifissione, seconda al Premio Bergamo del 1942, si giunga all´incontro con monsignor Pasquale Macchi che nel 1983 gli commissiona la Fuga in Egitto per la terza Cappella del Sacro Monte a Varese».

Repubblica 6.1.07
La rabbia di Marta Marzotto, musa e amante dell´artista: lo conoscevo meglio di chiunque, fu tutta una forzatura
"Falsità, Renato era un ateo granitico la Chiesa lo voleva solo come trofeo"
Vittoria sul Pci. Era il pittore ufficiale del Pci, dire che credeva fu una vittoria per monsignor Angelini
Negli ultimi tre mesi fui espulsa come se avessi la lebbra: doveva andarsene in odore di santità
di Laura Laurenzi

ROMA - Ma quale conversione? Marta Marzotto non ha dubbi: «Renato Guttuso era ateo. È stato costretto a convertirsi. È stato forzato, è stato obbligato. Di un malato terminale, intontito dagli psicofarmaci, dagli antidolorifici, dall´alcol, dalla paura di morire, fai quello che vuoi. E lui hanno voluto farlo morire in odore di santità». Per vent´anni sua musa inquieta, sua modella ed amante - la sua Leda, Danae, Venere, Medusa, Madonna, Maria Maddalena, Minerva - la contessa Marzotto giura che Guttuso «era graniticamente ateo, e lo è stato per tutta la vita».
Da che cosa le deriva questa certezza?
«Nessuno lo conosceva bene come me. Mi diceva sempre: ma come fai a credere? Come fai a pensare che la Madonna fosse veramente vergine, che esista davvero il peccato originale, e che esista l´inferno? Se c´era una cosa che detestava erano gli intellettuali che, sentendo avvicinarsi la morte, si convertivano. Aborriva le conversioni di comodo. Ce l´aveva con Curzio Malaparte. Diceva: è morto tenendo in una mano un´immagine di Mao e nell´altra mano l´immagine di un prete».
E i suoi quadri sacri?
«Pochissimi. Ha dipinto un solo volto di Cristo, perché gliel´ho chiesto io come favore personale, un ritratto che ho voluto regalare a monsignor Pancino, il parroco che mi ha sposato, l´uomo che assieme a Emilio Pucci mise in salvo i Diari di Edda Ciano. A casa mia c´è una Maddalena, nuda e per niente pentita, che sono io, ai piedi di una croce. E i piedi di Cristo sono quelli di Lucio Magri, che lui odiava, di cui era gelosissimo. Quanto alla Fuga in Egitto, nessuno slancio religioso. La Madonna col manto turchese e la treccia bionda china su Gesù è il ritratto di mia figlia Paola che aveva appena avuto un bambino da Carlo Borromeo, e la Cappella del Sacro Monte è nelle terre dei Borromeo. Molto laico».
Perché fare convertire per forza Guttuso?
«Bè, Guttuso era il pittore ufficiale del Pci, il pictor optimus, premio Lenin per la Pace, di provata fede marxista. Una grande vittoria per monsignor Angelini, non c´è che dire. Quanto l´ho implorato di farmi rivedere Renato! Negli ultimi tre mesi, il tempo della sua agonia, io sono stata espulsa, come avessi la lebbra, la peste. Non c´era posto per me. Doveva morire in odore di santità, senza l´amante. Il giorno in cui morì sua moglie Mimise - lui stava già malissimo - mi telefonò implorando: corri Martina corri, stringo i denti fino a farmi male. Mi passò monsignor Angelini: venga contessa, noi due dobbiamo parlare. Mi precipitai, ma quando suonai al portone non mi fecero neppure salire. Mi è stato detto che Renato, in quei giorni di dolori terribili, con metastasi al cervello, beveva fino a tre bottiglie di whisky al giorno. È chiaro che la conversione gliel´hanno strappata».
Non parlava mai Guttuso della morte, e della fede religiosa?
«Era di un ateismo assoluto, il che non gli impediva di avere una grande tolleranza, o meglio, un grande rispetto verso tutte le religioni. In ognuna c´è qualcosa di buono, diceva. Ma parlava di Gesù come di un profeta. Ecco: rispetto è la parola giusta. Gli piaceva molto come si comportava Enrico Berlinguer, che accompagnava la moglie Letizia a messa, ma restava fuori della chiesa ad aspettarla. Quando fu battezzata la seconda bambina di mio fratello Arnaldo lui accettò di fare il padrino, ma non volle andare in chiesa. Quindi il battesimo si fece in casa, in un paesino vicino a Portogruaro».
È vero che Guttuso per lei riscrisse l'Ave Maria?
«Ma sì, per scherzo. Cominciava così: Ave Martina madre di Dia (sarebbe mia figlia Diamante). E finiva: e liberaci dal Magri e così sia. Si divertiva ad essere blasfemo».