mercoledì 10 gennaio 2007

il manifesto 10.1.07
Marco Bellocchio, l'esercizio del cinema
Il regista racconta «Sorelle», girato a Bobbio con gli allievi della scuola che organizza da anni. Un raffinato gioco di specchi tra luoghi e protagonisti dei suoi film
di Cristina Piccino


Roma. Una bimba, due anziane zie, conflitti e riti familiari, l'universo della provincia, vicino a Piacenza, e il sogno insofferente di un altrove in fuga ... Sorelle è il nuovo lavoro di Marco Bellocchio, tre episodi che sono tre variazioni sul tempo di cinema e vita girati nel 1999, 2004, 2005 e impressi in modo particolare sulla bambina e i suoi mutamenti fisici, a cui si aggiungerà presto un quarto che per il regista segna anche il capitolo conclusivo. L'esperimento nasce all'interno di Fare cinema, la scuola che Bellocchio dirige ogni anno d'estate a Bobbio. Elena, che ne è la protagonista, è la figlia di Bellocchio «catturata» in complicità giocosa, Giorgio è il figlio Piergiorgio, poi ci sono le sue sorelle, le zie, Maria Luisa e Letizia, straordinarie. E gli allievi della scuola, attori amici come Donatella Finocchiaro che interpreta la mamma della bimba, finzione pura che ammicca alla realtà e soprattutto al cinema. Quello di Bellocchio intanto, un gioco di specchi raffinato e leggiadro in cui ritroviamo i luoghi della sua giovinezza, lo stridore - e le immagini - dei Pugni in tasca, gli interni di dissonanze familiari dei film più recenti come Il regista di matrimoni, L'ora di religione, Buongiorno, Notte composti con delicata e divertita armonia. Fino al finale che libera in una magnifica magia di cinema i volti femminili e le interpreti del regista, Paola Pitagora, Maruska Detmers, Pamela Villoresi, Maya Sansa... Ne parliamo con Bellocchio .
L'idea di un film unico a episodi era già all'origine di «Sorelle»?
In realtà è una struttura che prende forma a posteriori. Nelle due settimane di lavoro coi giovani, a Bobbio, siamo sempre consapevoli di essere in una finzione anche se agli attori professionisti che vengono per amicizia, lavorando gratuitamente, come è stato con Donatella Finocchiaro e gli altri, si mescolano amici, parenti. Vedendo dopo il diverso girato, mi sono reso conto che la maggior parte dei personaggi, Piergiorgio, Elena, le sorelle sono sempre presenti, e che quindi i primi due episodi potevano stare insieme. Il ritmo del tempo è molto evidente, specie sulla bambina, e ha un significato anche cinematografico. Le riprese coprono infatti anni diversi, tra il 1999 e e il 2006, l'anno del quarto episodio che non ho ancora di montato.
Su cosa si concentra il lavoro alla scuola?
L'idea è di realizzare un breve film in tutte le sue fasi, il soggetto, le riprese, il montaggio. Visto il poco tempo a disposizione, ho pensato che è meglio concentrarsi sulle riprese. Di solito arrivo con un'idea che tiene conto dell'ambiente, dei luoghi a diposizione. Il fatto di usare la casa dei Pugni in tasca non è per fetiscismo, ma è naturale visti i pochi mezzi che abbiamo, non costa niente.
Ci sono comuqnue anche altri riferimenti al tuo cinema.
C'erano a volte simmetrie talmente attraenti... In tre o quattro occasioni vediamo frammenti fulminei dei Pugni in tasca, fino all'apparizione finale dei primi piani femminili sulla canzone di Donatella Finocchiaro, che sono i personaggi e le attrici dei miei film, e dichiarano una ricerca proprio sull'immagine femminile. Forse è il tentativo stilistico più significante in Sorelle, con cui cerco di dare ai tre momenti una profondità.
Quanto la scuola entra nel tuo cinema? Il contatto cioè continuato con generazioni che vivono il fare cinema » in modo diverso, ha mutato anche il tuo sguardo?
La cosa fondamentale è che la scuola è un'esperienza libera e gratuita. Visto che la tecnologia, cambia con tanta rapidità, invece di insegnare le tecniche per me ora è più importante costruire un rapporto artistico e umano. La scuola si gioca anche sull'ipotesi che i ragazzi vengono a Bobbio perché hanno un interesse specifico verso il mio modo di fare cinema. E a me interessano i loro gusti.
Come funziona la selezione?
C'è un bando e di solito le richieste sono più alte del numero previsto di venti persone. Chiediamo di inviare dei piccoli lavori fatti prima, e la selezione si basa anche su questi. Di solito sono quindici giorni d'estate, a luglio, un periodo che mi piace molto, Bobbio per me erano le vacanze, i primi amori... Organizziamo anche un piccolo festival, quest'anno abbiamo premiato col Gobbo d'oro A est di Bucarest di Corneliu Porumboiu.
Parlavo prima della relazione con la scuola perché in «Sorelle» c'è una libertà che non è mai facile, specie poi «entrando» nel proprio cinema.
Poiché non ci sono fini in questa esperienza, e partendo da me stesso, cerco un tipo di divertimento e di coinvolgimento alti. La scuola diventa un'esperienza cinematografica proprio perché non ho i mezzi di cui dispongo di solito, quindi mi devo porre il problema di come inventare in poco tempo un racconto breve. È un impegno che ha bisogno di entusiasmo, lavoriamo molto sull'improvvisazione, per me è un esercizio, un allenamento personale, ma mai freddo, non potrei.
In che senso parli di improvvisazione?
Gli attori sono molto generosi, non possiamo pretendere un coinvolgimento come in un film di produzione, di solito arrivano e girano. È chiaro che anche qui ci vuole un minimo di preparazione, sarebbe velleitario sennò. Si arriva con un'idea, è importante anche avere in mente un certo interprete, ma può capitare di trovarne un altro al momento.
Parlavi del quarto episodio che vuole essere anche una conclusione. Il che conferma in qualche modo la compatezza di questa progressione.
Credo molto nei percorsi dell'inconscio, all'inizio come dicevo non avevo in mente di presentare questi film in un' unica storia. Forse è accaduto dal terzo episodio ma certo i ritorni nei luoghi, come Bobbio, si portano dietro anche delle immagini, nonostante poi lo sviluppo all'inizio sia molto labile. Riguardo il quarto episodio, mi sono preoccupato che avesse una corrispondenza con il resto. E voglio vedere se una volta montato funziona. Fratello e sorella, Piergiorgio e Donatella Finocchiaro, si ritrovano a Bobbio e lei vende la casa di famiglia facendo così quel salto che sottolinea in modo concreto la separazione.

Repubblica 10.1.07
LE IDEE
Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?
di GUSTAVO ZAGREBELSKY


Il dialogo, anche quello così frequentemente auspicato tra i cattolici e gli altri (che si indicano, in negativo, come i non-cattolici), presuppone una condizione: che le parti si riconoscano pari, in razionalità e moralità. Se si parte dal presupposto che l´altro non è solo uno che pensa diversamente, ma è uno da meno o, addirittura, è un mentecatto o un immorale, il dialogo sarà perfettamente inutile; sarà tempo perduto, adescamento o simulazione. Dove vige questo pregiudizio, ci si ignora o ci si combatte. Si potrà anche fare finta di dialogare, come lo stratega che procrastina lo scontro e rafforza intanto le posizioni. Ma dialogare onestamente, no, non si potrà. Il maestro del dialogo è quel Socrate che giungeva perfino a gioire di soccombere nella discussione (chi è colto in errore, si libera di un male e quindi riceve un bene). Ma non occorre essere Socrate per comprendere che se non c´è reciproca disponibilità e apertura, tanto vale andarsene ognuno per la sua strada, sempre che non si voglia prendere a bastonate. Onde, se sinceramente si dice: "Il dialogo, così necessario, tra laici e cattolici" (J. Ratzinger, L´Europa nella crisi delle culture, Il Regno – documenti, 9/2005), si dovrebbe supporre che questo riconoscimento di razionalità e moralità sia acquisito. Ma è così?
Nei pubblici interventi della gerarchia cattolica sulla condizione della fede cristiana nel mondo attuale, domina un dubbio angoscioso circa la fine imminente di un ciclo storico, iniziato millesettecento anni fa, con l´unione della fede cristiana e della potenza politica, rappresentata allora dall´Impero romano. Il dubbio non è che la fede religiosa, e tanto meno la fede cristiana, in quanto tali, siano destinate a scomparire: l´evidenza mostra il contrario.
Il dubbio serpeggiante è invece che la fede cattolica sia destinata a essere assorbita nella sfera puramente soggettiva delle essenze spirituali individuali, perdendo così valore oggettivo e vincolante di coesione sociale. In una formula: credere senza appartenere. Così si spiega l´insistenza, mai stata così accentuata, sulla dimensione necessariamente pubblica o politica della religione cristiana cattolica (e solo di questa). L´Europa, si ripete all´infinito, è in decadenza e, si aggiunge, ciò deriva dal fatto che l´oggettività sembra essere diventato il privilegio esclusivo della scienza. Tutto ciò che scienza non è, sarebbe irrimediabilmente sottoposto al relativismo delle credenze individuali che, nella sfera pubblica democratica, si esprimono illimitatamente e arbitrariamente con la forza del numero.
Nihil sub sole novum. Se leggessimo oggi la Quanta cura, l´Enciclica del Sillabo (1861), troveremmo molte ragioni di riflessione comparativa tra lo spirito di allora e quello che domina oggi nelle alte sfere. In quella «tristissima età nostra», scriveva Pio IX, si trattava di difendersi dalla secolarizzazione politica, dal liberalismo, dalla libertà di coscienza, dalla riduzione dell´autorità a forza del numero, dalla filosofia senza teologia; in breve: dalla «moderna civiltà». Oggi molte cose sono cambiate, a iniziare dal linguaggio, onde non si parla più, ad esempio, di uomini empi «che schizzano come i flutti di procelloso mare la spuma delle loro fallacie e promettono libertà, mentre sono schiavi della corruzione» (una citazione tra tante). Ma la sensazione cattolica dell´assedio in «una Europa – diciamo così (così dice il papa Benedetto XVI) – in decadenza» non è diversa. Le cause sono ancora quelle di allora, attualizzate: non più il liberalismo ma la democrazia «insana», cioè basata sull´onnipotenza del numero; non più la libertà di coscienza ma il «relativismo etico»; non più la filosofia atea ma la scienza che non conosce limiti. Allora come oggi, la radice del male è il rifiuto di riconoscere nel magistero della Chiesa, in ultima e decisiva istanza, il fondamento vincolante della civiltà europea, un rifiuto che sottoporrebbe l´Europa di oggi a una "prova di trazione" fuori della tradizione cristiana.
Ciò che sembra diverso è l´atteggiamento: allora, alla denuncia del male, seguiva il rifiuto del mondo ostile; oggi, l´apertura al mondo. I nemici di allora sono diventati «i nostri amici che non credono», con i quali si cerca meritoriamente non solo di convivere, ma anche di collaborare. Non si lanciano anatemi, ma si danno consigli (come quello di «vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse») e si partecipa intensivamente a quelle procedure politiche della democrazia che, un tempo, erano condannate come opera del demonio (v. L. Zannotti, La sana democrazia. Verità della Chiesa e principi dello Stato, Torino, Giappichelli, 2005). Insomma: la Chiesa vuole essere "dialogante".
Purtroppo però, adottato un atteggiamento esteriore amichevole, non sembra mutato quello interiore. Gli interlocutori continuano a essere considerati non come dei diversi, ma come degli inferiori, sul piano morale e razionale.
La morale. La questione non si pone – speriamo – nei termini triviali di una graduatoria di meriti e demeriti. Nessuno dovrebbe arrischiarsi a rivendicare un primato di questo genere. Non può esserci una competizione come questa, da cui tutti rischierebbero di uscire malconci. Accade però talvolta che siano proprio alcuni non credenti autolesionisti a tributare riconoscimenti di superiorità ai credenti; oppure, che da parte cattolica, anche altolocata, si ricorra ancora oggi a denunce di collusioni demoniache, non solo per modo di dire (la riduzione delle figure della fede a simboli è condannata) onde, anche chi scrive questo articolo potrebbe essere un adepto, nel migliore dei casi incosciente, di Satana. La questione è diversa; è, per così dire, di ontologia morale. Solo i credenti – questo il Leitmotiv – sarebbero capaci di "senso della vita". La vita eterna promessa da Dio ai suoi fedeli dà un significato alla loro vita mortale. Se tutto si consuma quaggiù, senza premi e punizioni lassù, allora una cosa vale l´altra e, per ricorrere a Dostoevskij, «tutto è permesso». Ecco allora il relativismo, l´indifferentismo, l´egoismo, il puro calcolo di utilità, la sopraffazione, la disperazione, il non-senso della vita: in breve, l´impossibilità di una morale esistenziale e, dunque, di una vita rivolta al bene piuttosto che al male. Così ragionando, però, non si è sfiorati dall´idea che si possa dire: la vita non ha un senso ma siamo noi a doverglielo dare e, come si può fondare una morale sulla vita immortale dell´al di là, così si possono cercare i fondamenti della vita morale nell´al di qua, precisamente nel comune destino di noi mortali. Non si considera la possibilità che qui, nella libertà, ci possa essere una ricerca morale – non facciamo graduatorie – degna almeno quanto la fede in promesse di ricompense e punizioni. Postulare una morale esterna, dispensata da un´autorità, sia pure paterna come la Provvidenza divina, significa, nel grande colloquio sulla libertà che occupa un celeberrimo capitolo (II, 5, 5) dei Karamazov, dare ragione all´Inquisitore e torto al Cristo.
La ragione. Secondo tradizione cattolica, fede e ragione coincidono. Entrambe procedono da Dio, e Dio non può contraddire se stesso. Se contraddizione c´è, è solo apparente, in quanto una «verità di ragione» contraria alla fede è, in realtà, «totalmente falsa» (Dei Filius, 1870, del Concilio Vaticano I). Questa impostazione subordinava bensì la ragione alla fede ma, almeno, ne riconosceva la distinzione, una distinzione che oggi sembra sfumare. Il magistero cattolico segue scoscesi percorsi con l´intento di proporre un Dio avente natura razionale (logos) e sostenere che, nella concezione cristiano-cattolica attuale, fede e ragione coincidono. L´essere umano "di ragione" è tale perché è anche "di fede", onde chi è senza o contro la fede, è anche senza o contro la ragione. Queste proposizioni rappresentano una svolta. Nella tradizione ebraico-cristiana (fino a poco fa la tradizione), Dio è potenza e amore; la nuova filogenesi greco-cristiana propone l´innesto del Cristianesimo nella concezione del Kosmos, quale ordine del mondo corrispondente alla ragione regolatrice sovrana. La "natura", poiché nessuno può pretendere di alterarla, diventa "diritto naturale"; logos e nomos finiscono per coincidere. Proclamandosi custode dell´ordine natural-razionale, la Chiesa può proporsi come custode dell´ortodossia della ragione; non solo della ragione filosofica, come è stato per secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della ragione applicata alle scienze naturali. Gli uomini di Chiesa diventano scienziati; anzi, scienziati accreditati più di tutti gli altri, perché la loro "ragione" onnicomprensiva, che si abbevera alla scienza di Dio, la teologia, può vantare un´esclusiva garanzia di verità. Per qualche misterioso ricorso storico, riappare il volto del cardinale Bellarmino, con la sola differenza che oggi, invece d´invocare l´autorità delle Scritture contro Galileo, si invoca il logos divino.
Su simili premesse, è chiaro che il dialogo onesto che si auspicava all´inizio è impossibile. L´interlocutore non cattolico, per la Chiesa, è uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno. A ben pensarci, la "amichevole" proposta ai non credenti di «vivere [almeno] come se Dio esistesse» è conseguenza di questo disprezzo. Se ci si confronta con loro, è perché le condizioni storiche concrete non consentono di fare altrimenti. Il dialogo non è questione di convinzione, ma di opportunismo dettato da forza maggiore o da ragioni tattiche, nell´attesa che cambi la situazione. C´è una distinzione molto cattolica tra tesi e ipotesi, una distinzione che consente alla Chiesa i più spericolati adattamenti pratici anche molto distanti dalle sue concezioni del bene e del giusto. La tesi è la dottrina cattolica nella sua purezza; l´ipotesi è quanto di essa le circostanze consentono di realizzare. Il dubbio è che il dialogo, per la Chiesa, sia solo "in ipotesi", in vista di tempi migliori, come è per lo stratega di cui si diceva, che prende tempo e accresce le sue munizioni.
Diverso era lo spirito del dialogo che anima molte pagine, aperte alla speranza, del Concilio Vaticano II, nelle quali il "mondo moderno" è assunto come interlocutore positivo, portatore di moralità ed espressivo di segni meritevoli di ascolto. Diversa era la concezione del rapporto tra fede e ragione, tra fede e attività dei cristiani nel mondo. La subordinazione al magistero della Chiesa nel campo della fede non era vista in contraddizione con la loro autonomia e responsabilità nei campi della ragione pratica. Questo era il terreno sul quale la speranza di un dialogo onesto era costruita, il terreno sul quale anche l´accettazione piena della democrazia da parte del mondo cattolico poteva fondarsi. Ma è ancora così?
Nel mese di dicembre del 2005, nel pieno di accese polemiche sulle nostre questioni di bioetica, durante le quali si dissero parole chiuse a ogni confronto («principi non negoziabili», appelli all´obiezione di coscienza, inviti al non-voto di candidati non in linea, ecc.), il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Ruini, denunciati ancora una volta il «secolarismo radicale» e il «relativismo» laico, sorprese tutti con queste parole: «Si tratta di affidarsi, anche in questi ambiti, al libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti democratici pure quando non possiamo condividerli […]; è bene che tutti ne prendiamo la più piena coscienza, per stemperare il clima di un confronto che prevedibilmente si protrarrà assai a lungo, arricchendosi di sempre nuovi argomenti». Sagge parole di dialogo. Ma sia lecita la domanda: pronunciate "in tesi" o "in ipotesi"?

Repubblica 10.1.07
I preti spie del regime
In margine al caso Wielgus, la delazione al fascismo dei sacerdoti italiani
di Mauro Canali


Una pagina rimasta nel buio perché l´amnistia di Togliatti non permise una resa dei conti con il ventennio
Nutrito fu il drappello di monsignori e parroci reclutati dall´Ovra per controllare il dissenso antifascista
Quando monsignor Fogar vigilava su De Gasperi
Il nucleo più attivo fu quello che operò ai confini nord-orientali

I trascorsi spionistici del vescovo polacco Wielgus, che riferì alla polizia comunista sul movimento cattolico polacco e sugli esponenti di spicco della Chiesa del dissenso, richiama vicende analoghe della nostra storia risalenti al regime fascista, che tuttavia per il diverso contesto in cui si conclusero non giunsero mai, a differenza di quanto sta avvenendo in Polonia, all´attenzione dell´opinione pubblica. Le ragioni del differente epilogo risiedono nel diverso contesto internazionale in cui esse si sono concluse, dove l´impossibilità in Italia della cosiddetta "resa dei conti" col passato fascista - derivata dal quasi immediato avvio, dopo la guerra, di una lunga stagione di "guerra fredda" - si misura con una situazione in Polonia che non presenta alcun ostacolo né interno né internazionale ai processi di chiarificazione con il passato regime filosovietico.
Anche l´Ovra fascista reclutò tra il clero un cospicuo numero di spie che consentirono il controllo del Vaticano e degli ambienti cattolici contigui al dissenso antifascista. Alla caduta del fascismo, l´Alto commissario per i reati fascisti, grazie alla documentazione della polizia politica fascista su cui riuscì a mettere le mani, tentò d´istruire processi a carico dei sacerdoti più compromessi. Anche se rinviati a giudizio, essi si salvarono grazie all´amnistia di Togliatti del 1946.
Monsignor Enrico Pucci venne reclutato nell´ottobre del 1927 ed entrò a far parte della rete di spie dirette da Bice Pupeschi, amante di Bocchini, il potente capo della polizia fascista. Redattore del giornale cattolico Corriere d´Italia, l´amicizia col cardinale Spellmann aveva aperto a Pucci la strada alla collaborazione con autorevoli periodici cattolici americani, come il National Catholic, tanto che nel 1941 arrivò ad espletare "la maggior parte del servizio giornalistico vaticano per la stampa degli Stati Uniti". Alla stessa rete di Pucci appartenevano due alti prelati, monsignor Caterini e monsignor Stoppa. Altra spia di spicco fu monsignor Umberto Benigni, tra i maggiori protagonisti negli anni del pontificato di Pio X della battaglia antimodernista condotta dalla Chiesa sul terreno teologico e politico-culturale. Antisemita incallito e collegato alle destre europee più radicali, Benigni aveva contribuito alla diffusione in Europa dei falsi Protocolli dei Savi di Sion. Aveva fondato il settimanale Corrispondenza Romana e l´organizzazione segreta "Sodalitium Pianum", nota col nome di "Sapinière", di cui fu direttore generale. L´associazione era divenuta un potente strumento di controllo e spionaggio della vita privata dell´alto e del basso clero. Sebbene nel 1921 venisse ufficialmente sciolta da Benedetto XV, venne di fatto conservata in vita e messa da Benigni a disposizione del fascismo. Col numero di codice 42, egli la diresse fino alla morte avvenuta nel febbraio 1934. Nel suo gruppo, dove si mostrarono assai attivi alcuni sacerdoti, spiccò per l´intensa attività delatoria il francescano padre Vincenzo Riccio, che da Alessandria d´Egitto riferì dal 1924 al 1931 sull´antifascismo esule.
Nelle liste della zona Ovra della Sardegna appaiono i nomi di don Vito Sguotti, parroco di Carbonia e rappresentante locale dell´Onarmo, Opera nazionale assistenza religiosa morale operai, del parroco di Mamoiada, don Giovanni Bussa, e di quello di Iglesias, don Antioco Arrius. Per don Sguotti è stato addirittura avviato in questi anni, per iniziativa della comunità cattolica di Carbonia, un processo di beatificazione. La lista di esponenti del basso clero attivi nello spionaggio continua con don Giovanni Fortino, don Carlo Diana, il quale ancora nel 1927 celebrava messa nella chiesa romana di S. Eustachio; don Ottavio Seassaro, spia dell´Ovra nella zona nevralgica di confine Sanremo-Ventimiglia; don Dorbolò, il quale, oltre a spiare i fedeli della diocesi di Udine, si recava spesso a Lubiana per riferire sul fuoruscitismo antifascista.
Il nucleo più attivo dei sacerdoti al servizio della polizia politica fascista fu tuttavia quello che operò nelle zone nord-orientali del paese. Costoro, al servizio di Virginio Troiani, un ex giornalista del Paese, e personaggio importante dello spionaggio fascista, fornirono un contributo prezioso al regime nella lotta contro le popolazioni allogene ostili alla italianizzazione coatta condotta dal fascismo. Dai documenti risultano: don Giuseppe Juch, cappellano dell´Ospedale "Fatebenefratelli" di Gorizia, che si recava spesso in Jugoslavia per "mettersi in contatto" e riferire sui "fuorusciti giuliani". Della stessa rete spionistica facevano parte i sacerdoti Giovanni Resci, Andrea Pavlica e monsignor Federico Brumet. Al gruppo si unì, nel giugno 1942, Giuseppe Godina, pseudonimo "Gluck", un sacerdote del collegio "Vicentinum" di Lubiana, in passato segretario della federazione fra gli operai cattolici, che prese a riferire su alcuni gruppi di comunisti slavi con cui era in contatto.
Ma il nome eccellente del gruppo dei prelati gestiti da Troiani è quello di monsignor Luigi Fogar, che riferiva col numero di codice 90. Vescovo di Trieste e di Capodistria dal luglio 1923, fu l´alfiere della lotta contro l´italianizzazione coatta delle minoranze slave perseguita dal fascismo. Uscito sconfitto, la Santa Sede nel 1936 lo aveva nominato arcivescovo di Patrasso. Trasferitosi a Roma, egli - a quanto risulta dai documenti dell´Alto commissario per i reati fascisti, incaricato alla caduta del fascismo d´indagare sulla sua attività spionistica - collaborò con la polizia politica fascista dal 1939 al 1943. A conclusione dell´esame della documentazione presente nel fascicolo dell´Ovra, il magistrato compilò un impressionante elenco dei principali capi di accusa, secondo il quale Fogar nel solo 1943 aveva fornito alla polizia fascista, tra l´altro, informazioni riguardanti i sentimenti filo-inglesi e antifascisti di monsignor Santa, vicario apostolico di Gimma; aveva segnalato l´arrivo alla Segreteria di Stato vaticana di dispacci segreti sui rapporti tra Londra ed Ankara e puntualmente riferito sull´avversione verso il regime fascista di vari alti prelati vaticani tra cui monsignor Spada, il cardinale Fumasoni Biondi, monsignor Rossignani, monsignor Respighi; aveva inoltre fornito informazioni sul conto di monsignor Santin, dei cardinali Pizzardo e Salotti, e su un tentativo di mediazione diplomatica condotto dal Vaticano tra Usa e Giappone. Aveva infine riportato a Bocchini le impressioni e i commenti raccolti in Vaticano sulle frequenti perquisizioni della polizia presso persone e negli uffici dell´Azione Cattolica.
L´attività informativa di Fogar era proseguita anche dopo il 25 luglio 1943, quando, ad esempio, aveva trasmesso alla polizia politica "una lista di tedeschi antinazisti residenti a Roma". L´11 settembre 1943, registra sempre il documento del magistrato, Fogar aveva riferito le "dichiarazioni rese dall´ex deputato De Gasperi sull´andamento della guerra". L´attività di Fogar era continuata intensa per buona parte dell´esistenza della Rsi. Egli aveva riferito le reazioni in Vaticano alla notizia delle "atrocità tedesche" e di quelle "commesse a Ferrara dai fascisti repubblicani" e aveva rivelato "l´ingresso in Vaticano di tre soldati fuggiaschi", accolti da Osborne, ministro plenipotenziario inglese presso la Santa Sede; aveva infine riferito, forse perché la cosa lo toccava direttamente, "sui propositi degli Alleati per la punizione dei criminali di guerra e le spie dell´O. V. R. A.". Denunziato all´Autorità giudiziaria con l´imputazione "di aver contribuito con atti rilevanti, quale confidente dell´Ovra, a mantenere in vigore il regime fascista", si salvò perché in suo soccorso era nel frattempo sopraggiunta l´amnistia di Togliatti.

Repubblica 10.1.07
I viaggi di Ibn il Marco Polo dell’Islam
Un libro di straordinari reportage
di KHALED FOUAD ALLAM


Il suo è uno dei grandi testi della letteratura araba e un invito al dialogo fra culture
Dal 1325 girò per trent'anni quello che era il mondo dell'epoca, dal Marocco alla Cina
Dei cinesi descrive lìattaccamento al lavoro
Fu una fonte per conoscere usi e costumi di molte popolazioni
Di formazione era un giurista. Partì all'età di ventun anni
In India rimane sconvolto dal suicidio delle vedove

Per il nuovo anno, la casa editrice Einaudi ha fatto al nostro paese un bellissimo regalo: ha pubblicato in un´edizione di prestigio la traduzione italiana dei Viaggi di Ibn Battuta (pagg. LXXVI-888, euro 85). La traduzione è il frutto di dieci anni di lavoro dell´arabista Claudia Tresso, docente all´università di Torino; presenta un apparato critico totalmente nuovo, che tiene conto delle più recenti ricerche degli specialisti di tutta la koiné scientifica che si occupa di islamologia.
L´opera è stata accolta con grande entusiasmo dal re del Marocco Mohammed V. Ma se l´autore è molto conosciuto nel mondo arabo e islamico, lo è molto meno nel mondo occidentale, dove l´opera iniziò a essere conosciuta solo nel XIX secolo; negli ultimi anni ne sono apparse alcune edizioni parziali, ma mai un´edizione completa.
Chi era Ibn Battuta, che i musulmani chiamano "il principe dei viaggiatori"? L´autore è considerato il Marco Polo dell´islam, un viaggiatore instancabile che per trent´anni girò quello che era il mondo dell´epoca, dal Marocco alla Cina. Partì all´età di ventuno anni, il 14 giugno dell´anno 1325 dell´era cristiana, per tornare in patria molti anni dopo. Come molti celebri musulmani suoi contemporanei, era un famoso giurista, e le sue conoscenze erano richieste in tutto il dar-al-islam.
Viaggiare significava anche portare la conoscenza altrove, nelle contrade più lontane dall´Arabia, come ad esempio la Malesia e l´Indonesia. Il suo viaggio è un succedersi di incontri con principi e sultani, ma non solo; Ibn Battuta è un osservatore attento della società della sua epoca. Egli non scrisse mai personalmente del suo viaggio, ma lo raccontò - nel solco della pura tradizione orale - a Ibn Juzzay, colui che trascrisse e rese pubblica la cronaca di quei trent´anni. La rihla - il resoconto scritto dei suoi viaggi - fu intrapresa perché i principi della corte dei merinidi che all´epoca governavano il Marocco volevano averne una traccia scritta. Essa rappresentava per loro fonte di informazione e conoscenza degli usi e costumi non solo dell´immenso dar-al-islam ma anche di altri popoli e culture.
Il lettore si sorprenderà ad esempio delle annotazioni di Ibn Battuta su due paesi che sono oggi oggetto di un nuovo sguardo, la Cina e l´India. L´autore sottolinea più volte lo stakanovismo dei cinesi e l´ottima organizzazione della loro società: «Per chi viaggia, la Cina è il paese più sicuro, il migliore della terra. Ci si può andare in giro da soli, anche per nove mesi, portandosi dietro notevoli ricchezze senza avere nulla da temere, perché è tutto molto ben organizzato».
Durante il suo viaggio in Cina, Ibn Battuta si accorge che il suo ritratto è appeso ai muri all´ingresso di ogni città. Chiedendone il motivo agli abitanti, gli viene risposto che questa era una loro usanza con gli stranieri: probabilmente durante l´udienza del governatore, qualcuno lo aveva ritratto e quel ritratto poi veniva copiato e ricopiato in più esemplari per essere inviato in ogni provincia della Cina, perché se lo straniero si fosse perduto o avesse commesso un atto illegale, sarebbe stato facilmente ritrovato o arrestato. E siamo nel XIV secolo!
Certo vi sono anche, nell´immenso racconto di Ibn Battuta, annotazioni sulla crudeltà di alcuni costumi. In India, ad esempio, l´autore rimane sconvolto dal suicidio delle donne, immolate sulla pira del marito morto: «Per gli Indù il rogo della donna dopo la morte del marito è un atto raccomandato ma non obbligatorio: però, se la vedova lo compie, assicura un grande onore ai membri della sua famiglia, che vengono celebrati per la sua fedeltà. La donna che invece non si dà alle fiamme indossa ruvide vesti e torna dai suoi genitori, misera e disprezzata, perché non è stata fedele - ma, comunque, nessuno la obbliga a salire sul rogo».
Ibn Battuta parla dunque del famoso rito della sati, l´immolazione, in uso essenzialmente nella casta guerriera dei rajput, per cui la donna aveva il dovere di accompagnare il marito, anche nella morte. Gandhi, in tempi più vicini a noi, condannò aspramente quel rito, a oggi non ancora scomparso; Ibn Battuta lo aveva stigmatizzato già nel XIV secolo.
Ciò che rimane di più importante dalla lettura di questi viaggi è lo sguardo di un arabo-musulmano partito da Tangeri sul mondo dell´epoca, e la sua riflessione sul significato stesso del viaggio: in esso non vi è distanza sociale tra vincitori e vinti, tra popoli sottomessi e popoli occupanti; non vi è spazio per qualcosa di simile alla formulazione di una "superiorità culturale" dell´Europa sulle società primitive o su quelle orientali.
Certo, nel XIV secolo l´antagonismo religioso fra Europa cristiana e mondo musulmano sfocia anche nelle guerre; ma è comunque un periodo in cui popoli e culture sanno comunicare. Certo, in quel periodo si polemizza fra cristiani e musulmani: ma la polemica è possibile perché alla base vi è una comunicazione. Oggi non è più così: a partire dal XIX secolo le frontiere fra i popoli e le culture cessano di essere permeabili. Si allarga lo scarto fra l´Europa e il resto del mondo - paesi musulmani e Cina compresi - non soltanto nei modi di vita, ma soprattutto nelle rappresentazioni che dal XIX secolo vengono diffuse da colonizzatori e ideologi. Si assiste dunque al crearsi di una specie di linea di demarcazione che separerà il mondo cosiddetto civilizzato dal resto della terra. Negli ultimi due secoli il viaggio diverrà una trasgressione; se per Hegel l´Oriente rappresenta l´"infanzia del mondo", la modernità segnerà il superamento di quell´infanzia, ma a caro prezzo: il prezzo delle guerre coloniali e dell´alienazione dell´uomo.
Ibn Battuta ci insegna che ovunque l´uomo si trovi, le diversità intrinseche al mondo non rappresentano il richiamo a una gerarchia bensì un contributo all´unità del creatore. Certo, le culture debbono lottare per eliminare ciò che contengono di peggiore: Ibn Battuta ce lo fa capire condannando ad esempio la sati o altre usanze crudeli; ma non possiamo distruggere questo irripetibile mosaico fatto di popoli e di culture, perché così facendo spezzeremmo lo specchio della nostra stessa identità.

il manifesto 10.1.07
Chi impiccherà George W. Bush?
di Slavoj Zizek


Sulla morte di Saddam non c'è da versare lacrime. Le sue immagini ripetute all'infinito sui nostri teleschermi prima della guerra (Saddam che agita un fucile e spara in aria) hanno fatto di lui una specie di Charlton Heston iracheno: il presidente non solo dell'Iraq, ma anche dell'Associazione irachena armi da fuoco... Riserviamo le nostre lacrime per qualcos'altro.
Uno degli eroi pop della guerra Usa-Iraq è stato senza dubbio Muhammed Saeed al-Sahaf, lo sfortunato ministro dell'informazione iracheno che nelle sue quotidiane conferenze stampa negava eroicamente persino i fatti più evidenti, pur di attenersi alla linea politica irachena. Quando i tank americani erano solo a centinaia di metri dal suo ufficio, lui continuava a sostenere che le riprese televisive americane dei tank nelle strade di Baghdad erano solo effetti speciali hollywoodiani. Funzionando da caricatura eccessiva, egli ha rivelato la verità nascosta dell'informazione «normale»: nei suoi commenti non c'erano manipolazioni raffinate, ma solo una negazione bella e buona.
Nei suoi interventi c'era qualcosa di piacevolmente liberatorio, che mostrava uno sforzo emancipato dalla morsa dei fatti e dunque dal bisogno di mascherare i loro aspetti spiacevoli. La sua posizione era del tipo: «A chi credete, ai vostri occhi o alle mie parole?». Inoltre, a volte, egli coglieva persino una strana verità - come quando, messo di fronte al fatto che gli americani controllavano una parte di Baghdad, rispose: «Loro non controllano niente - non controllano nemmeno se stessi!».
Che cosa, esattamente, gli americani non controllano? Nel saggio Dictators and Double Standards, apparso su Commentary nel 1979, Jeanne Kirkpatrick tracciava una distinzione tra regimi «autoritari» e regimi «totalitari». Questa serviva a giustificare la politica Usa, che prevedeva la collaborazione con dittatori di destra riservando allo stesso tempo un trattamento molto più duro ai regimi comunisti: i dittatori autoritari sono governanti pragmatici a cui stanno a cuore il proprio potere e la propria ricchezza e, anche se dicono di aderire a qualche causa importante, sono indifferenti alle questioni ideologiche.
Per contro, i leader totalitari sono fanatici disinteressati che credono nella loro ideologia e sono pronti a mettere a rischio ogni cosa per i loro ideali.Perciò è possibile trattare con i governanti autoritari che reagiscono razionalmente e prevedibilmente alle minacce materiali e militari, mentre i leader totalitari sono molto più pericolosi e vanno affrontati di petto...
L'ironia è che questa distinzione enuclea perfettamente ciò che non ha funzionato nell'occupazione Usa in Iraq: Saddam era un corrotto dittatore autoritario in lotta per il potere e guidato da brutali considerazioni pragmatiche (che lo portarono a collaborare con gli Usa per tutti gli anni '80).
La prova definitiva della sua natura laica è il fatto paradossale che, nelle elezioni irachene dell'ottobre 2002 in cui Saddam Hussein ottenne il 100% dei consensi, battendo così i migliori risultati staliniani del 99,95%, la canzone usata durante la campagna, trasmessa continuamente da tutti i media statali, altro non era che I Will Always Love You di Whitney Houston.
Uno degli esiti dell'intervento Usa in Iraq è l'aver generato una costellazione politico-ideologica «fondamentalista» molto più intransigente, il risultato ultimo dell'occupazione in Iraq essendo la predominanza delle forze politiche filo-iraniane. Fondamentalmente, l'intervento ha portato l'Iraq nella sfera d'influenza iraniana. Possiamo immaginare che il presidente Bush, se dovesse essere giudicato da una corte marziale stalinista, sarebbe immediatamente condannato come agente iraniano... Le esplosioni violente della recente politica di Bush non sono dunque esercizi di potere ma piuttosto di panico, irrazionali passages a l'acte.
Si pensi alla vecchia storiella dell'operaio sospettato di rubare: ogni sera, quando lascia lo stabilimento, la carriola che spinge davanti a sé viene attentamente ispezionata. Le guardie però non riescono a trovare niente, è sempre vuota - finché, alla fine, capiscono: l'operaio sta rubando proprio le carriole... Questo è lo scherzo che cercano di tirarci quanti oggi sostengono: «Ma il mondo è comunque migliore senza Saddam!». Essi dimenticano di mettere in conto gli effetti dello stesso intervento militare contro di lui. Sì, il mondo è migliore senza Saddam - ma lo è se includiamo nel quadro generale gli effetti ideologici e politici di questa occupazione?
Gli Usa come gendarme globale - perché no? La situazione del dopo guerra fredda richiedeva che qualche potenza globale riempisse quel vuoto. Il problema sta altrove: si pensi alla comune percezione degli Usa come un nuovo Impero romano. Oggi il problema degli Stati uniti non è che siano un nuovo Impero globale, ma che non lo sono, ossia che, mentre fingono di esserlo, continuano ad agire come uno stato-nazione che persegue spietatamente i propri interessi. È come se la linea di condotta della recente politica americana fosse uno strano rovesciamento del noto motto degli ecologisti: «agire globalmente, pensare localmente».
Dopo l'11 settembre gli Usa hanno avuto l'opportunità di capire di che tipo di mondo fanno parte. Avrebbero potuto sfruttare questa opportunità - ma non lo hanno fatto, preferendo invece riaffermare i loro impegni ideologici tradizionali: basta con la responsabilità, basta sentirsi in colpa per la povertà del terzo mondo, ora le vittime siamo noi! A proposito del Tribunale dell'Aja, Timothy Garton Ash ha pateticamente sostenuto: «A nessun Führer o Duce, a nessun Pinochet, Idi Amin o Pol Pot deve essere più consentito di sentirsi al sicuro dall'intervento della giustizia popolare dentro i palazzi della sovranità». Dovremmo semplicemente prendere nota di cosa manca in questa serie di nomi che, a parte la classica coppia Hitler-Mussolini, contiene tre dittatori del terzo mondo: dov'è almeno un nome dei Sette grandi? O, avvicinandoci all'elenco standardizzato dei cattivi, perché Ash, Michael Ignatieff & Co., altrimenti pieni di patetici elogi per il Tribunale dell'Aja, tacciono sull'idea di consegnare Noriega e Saddam all'Aja? Perché Milosevic e non Noriega? Perché contro Noriega non c'è stato nemmeno un processo pubblico? Forse perché egli avrebbe rivelato il suo passato nella Cia, compreso il modo in cui gli Usa l'hanno perdonato per la sua partecipazione all'omicidio di Omar Torrijos Herrera?
Analogamente, il regime di Saddam era un abominevole stato autoritario, colpevole di molti crimini, e in primo luogo verso il proprio popolo. Va però osservato il fatto strano ma cruciale che i rappresentanti americani e gli accusatori iracheni, nell'enumerare le colpe di Saddam, hanno sistematicamente omesso quello che senza dubbio è stato il suo crimine più grande (in termini di sofferenze umane e di violazione della giustizia internazionale): l'aggressione all'Iran.
Perché? Perché gli Usa e la maggioranza degli stati stranieri aiutarono attivamente l'Iraq in questa aggressione. E non è tutto: ora gli Usa stanno prolungando con altri mezzi il crimine più grande di Saddam, il suo tentativo di rovesciare il governo iraniano - ragione di più per chiedere: chi impiccherà George W. Bush?

Traduzione Marina Impallomeni

il manifesto 10.1.07
Tutti a Caserta
Prima riforma: basta con i riformisti
Da domani il vertice che dovrebbe rilanciare il governo
Intervista al ministro dell'università Fabio Mussi: «Caricaturale la descrizione dei massimalisti dell'Unione e interessata l'enfasi su Nicola Rossi, che pure dice alcune cose giuste. I problemi sono la precarietà, l'ambiente e la ricerca. Ed è un problema il mio partito, i Ds, perché non ha più una funzione di sinistra»
di Andrea Fabozzi


Sostiene Piero Fassino intervenendo all'assemblea dell'area A sinistra per il socialismo europeo, la componente di sinistra dei Ds, che «c'è un'enfatizzazione strumentale della dialettica tra radicali e riformisti della maggioranza». Secondo Fassino chi enfatizza «vuole dimostrare l'inconciliabilità delle posizioni e dunque la necessità di cambiare governo». Replica Fabio Mussi - ormai in veste di candidato alla segreteria per l'ex correntone ora unito all'area di Cesare Salvi, agli ambientalisti di Fulvia Bandoli e ai laburisti di Valdo Spini - che il modo migliore di evitare le strumentalizzazioni è «evitare di alimentarle». E invece anche nei Ds «il riformismo è diventato uno slogan ossessivo». Tanto che ormai «il nostro è l'unico paese al mondo in cui si discute di riformismo e non di riforme» e dove «si racconta la favola di una finanziaria figlia dei ricatti dei massimalisti quando è servita per il rientro rapido nei parametri di Maastricht». La «rivincita dei riformisti» è attesa per domani al vertice di Caserta, dove ci sarà anche il ministro dell'università Fabio Mussi.
Ministro Mussi, chi vincerà tra riformisti e radicali?
Non so se da Caserta si uscirà con vincitori e vinti. Io spero che ne esca rafforzata l'unità politica del centrosinistra. E il profilo innovatore del governo, che per me significa piena e buona occupazione, formazione e ricerca, sviluppo sostenibile, una strategia di riduzione della flessibilità. Ma lo scontro tra riformisti e radicali è solo una caricatura allestita da sceneggiatori interessati, ci sono persino degli editoriali che fanno l'elenco dei riformisti e dei massimalisti. La verità è che quando si passa al merito delle riforme il campo è molto più mosso.
Non sarà una sfida ma per ottenere qualcosa sull'università lei ha dovuto minacciare le dimissioni. Fassino, allora, era tra i riformisti o tra i radicali?
Sono mesi che Fassino e il mio partito dicono che università e ricerca sono una priorità, poi nella finanziaria non è andata esattamente così. Lunedì sera nell'incontro con i ministri dei Ds ho detto che il primo partito dell'Unione non si può preoccupare solo della coalizione, ma deve esercitare pienamente la sua funzione. Se vuole una cosa perché ci crede veramente quella cosa deve ottenerla.
Cioè lei dice che i Ds non tirano a sinistra?
Dovrebbe farlo e non lo fanno. Dovrebbero avere una funzione di proposta e riuscire a mettere sulle proposta una forza politica.
Altra sfida evidente, al punto che si mette in discussione il programma, è quella sui diritti delle coppie di fatto.
Che sui temi etici sia necessario un compromesso ci può stare. Ma il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto non è materia eticamente sensibile. Appartiene alla sfera dei diritti delle persone che hanno diritto di scegliere stile di vita e comportamento sessuale che vogliono. Per cui nessun compromesso, si dovrà applicare il programma.
Le pensioni sono il terreno di caccia preferito dei riformisti. La sinistra Ds come si appresta al confronto sull'ennesima riforma?
Il problema c'è per le pensioni minime e per le pensioni dei giovani. L'innalzamento dell'età pensionabile non è un tabù e la previdenza complementare per me è una buona cosa, ma tutto deve essere fatto con calma e nel quadro di interventi sul mercato del lavoro. Quando si parla del finanziamento del sistema previdenziale si trascura che l'ingresso al lavoro sempre più tardi dei giovani e il fatto che siano precari sono le prime ragioni dell'impoverimento del sistema.
Come sta andando la fusione tra le varie anime della sinistra? In alcune città si segnalano delle difficoltà...
C'è qualche ruggine antica ma sono cose marginali, l'esperimento sta andando bene. Trovo molto interesse, molta gente dappertutto, presumo che ci sia ascolto e un buon risultato al congresso. Il problema è con la maggioranza, non c'è ancora nessun accordo sulle regole del congresso e non possono imporcele.
Ha molto sofferto per l'addio di Nicola Rossi al partito?
Francamente mi è dispiaciuto, Rossi è un interlocutore interessante. Faccio notare che dopo tutte le campagne sugli 'scissionisti di sinistra' la prima rottura è venuta da destra. E con grande clamore. Invece quando uscì da sinistra Pietro Folena, che pure era stato coordinatore della segreteria, non ebbe tanta attenzione. L'enfasi della stampa serve a tirare nella direzione di Rossi. Però se i Ds vanno in quella direzione si sfasciano.
Fassino non è poi così distante dalle analisi di Rossi.
Rossi è molto lucido nella diagnosi sulla crisi della politica. Quando dice che cosa sono diventati i partiti, compreso quello dal quale si è dimesso, dice tante verità. Poi sbaglia nell'indicare una risposta così a destra. Ma per esempio prima del vertice di Caserta i Ds non hanno fatto nessuna assemblea di partito, hanno solo riunito i ministri. Perché il club di quelli che discutono è sempre più ristretto.

il manifesto 10.1.07
Quegli ospedali da manicomio
Sanità Elettrochoc, malati legati, violenze. La denuncia delle associazioni per la salute mentale
Pubblico e privato Le associazioni che si occupano di salute mentale all'attacco: in Italia la legge Basaglia non è applicata. E Livia Turco promette: chiuderemo gli ospedali psichiatrici giudiziari
di Eleonora Martini


Roma. Ammassati a centinaia in megastrutture dalle porte sbarrate, sorvegliati con videocamere, sedati costantemente a forza di psicofarmaci. Maltrattati, a volte picchiati, legati ai letti e in alcuni casi sottoposti addirittura ad elettrochoc. I manicomi in Italia esistono ancora. E, quasi non fossero passati quasi 30 anni dal varo della legge 180, sono luoghi pensati per contenere, punire quasi, non certo per curare. A denunciarlo è Gisella Trincas, presidente dell'Unasam, che ieri ha riunito in Campidoglio a Roma i rappresentanti delle oltre 150 associazioni che la compongono per discutere, al cospetto delle ministre della sanità e della famiglia Livia Turco e Rosi Bindi, di salute mentale.
Sotto accusa i reparti psichiatrici di ospedali pubblici e privati, dal Veneto alla Puglia, strutture totalmente fuorilegge. Ma Trincas richiama l'attenzione del governo Prodi anche sugli ospedali psichiatrici giudiziari, chiedendone la chiusura. Primo tra tutti il reparto femminile di Castiglione delle Stiviere. «In queste realtà, che sono carcere e manicomio insieme, le persone subiscono una doppia punizione a causa della loro condizione di malati. Noi chiediamo che venga soppressa la non imputabilità dei malati psichici, che devono essere trattati come tutti gli altri cittadini: devono poter accedere alla riabilitazione e a un percorso alternativo alla detenzione».
Così, davanti alle circostanziate denunce delle organizzazioni dell'Unasam, tra cui anche molte associazioni di familiari dei malati psichici che hanno mostrato foto e querele, Livia Turco ha promesso «subito un'indagine conoscitiva su tutto il territorio nazionale e una legge per superare i 6 opg», dove sono detenute circa 1200 persone. «Sulla salute mentale siamo tornati indietro - ha commentato la ministra - ora basta con le politiche di ghettizzazione, di contenimento e dei manicomi sotto mentite spoglie». Bisogna recuperare, ha aggiunto Livia Turco, il tempo perso durante il governo Berlusconi, che ha inchiodato «per cinque anni il dibattito parlamentare su una pessima legge in materia, la Burani-Procaccini». Cosa che «ha significato non solo non fare altri provvedimenti, ma anche mandare un preciso messaggio culturale soprattutto alle famiglie che dice "nasconditi, ti mettiamo da parte"». Per questo nel programma di Livia Turco c'è l'insediamento a febbraio della Consulta delle associazioni e presto una seconda Conferenza nazionale sulla salute mentale.
Una realtà, quella raccontata da Gisella Trincas, che è «sotto gli occhi di tutti» anche se «si fa finta di non vederla», e che riguarda «più del 50% delle strutture di cura, pubbliche e private». E ci riporta a una «cultura dello stigma e del rifiuto del malato mentale» non molto dissimile da quella dilagante prima della riforma Basaglia. «Possiamo dimostrare casi di pazienti legati alle mani e ai piedi e bloccati all'altezza del collo e del tronco», assicura Trincas che sull'elettrochoc aggiunge: «Nel nostro paese non è una pratica illegale e noi chiediamo che lo diventi. Per molti medici è prassi anche nei servizi pubblici di diagnosi e cura, e lo ammettono tranquillamente». C'è un caso, racconta, di un infermiere condannato per aver preso a calci e pugni un ragazzo schizofrenico ma che non è mai stato rimosso dal suo posto di lavoro. Ma è sulle megastrutture che si concentra in modo particolare l'attenzione dell'Unasam, perché «violano la legge 180». «A Mogliano Veneto c'è una struttura privata con oltre 770 persone che funziona come un manicomio; a Serra D'Aiello una fondazione della Curia di Cosenza detiene circa 350 malati e un'altra struttura privata a Bisceglie, in Puglia, ne contiene un migliaio», racconta Trincas. «Sono luoghi in cui persone in condizioni di particolare fragilità vengono costrette a viverci, rinchiusi a chiave nelle stanze e sottoposte a dosi massicce di psicofarmaci. E in uno stato di promiscuità indegno». Negli ospedali pubblici poi spesso ci sono posti letto riservati a pazienti provenienti da altre regioni: il Piemonte ne ha più di mille. Una pratica «disumana» perché il malato non può essere deportato lontano dai propri affetti. «Così si sottraggono risorse finanziarie importanti che potrebbero servire per rivalutare le pensioni: oggi un disabile psichico al 100% prende 250 euro al mese. E per i centri di salute mentale territoriali che sono fondamentali per curare i malati e supportare le famiglie. Ma, come prima cosa, devono rimanere aperti 24 ore su 24. Avviene già in alcune città-modello italiane, deve avvenire ovunque».

il manifesto 10.1.07
Lista non a lutto
Enrico Ghezzi
(...)
propongo qualche cinquina mia del 2006, ripensata al volo senza ricerca né verifica dei titoli, così, secondo il codice implacabile dell'affiorare in/dalla memoria. I cinque più belli: HuilletStraub Quei Loro Incontri, Eastwood Flags of Our Fathers, De Oliveira Belle Toujours, Mann Miami Vice, Lynch Inland Empire. I più amati: HuilletStraub, Lynch, De Oliveira, Resnais Cuori, Eastwood. I più intensamente politici: HuilletStraub, Ja Zhang Ke, Verhoeven Libro Nero, Eastwood, Bellocchio Sorelle. I cinque italiani, HuilletStraub, Ciprì e Maresco I Migliori Nani della Nostra Vita, Bellocchio Il regista di Matrimoni, Bellocchio Sorelle, Resnais Coeurs.
Repubblica 9.1.07
Bersani: "Deluso dall'attacco di Grillo"


ROMA - Beppe Grillo e il ministro Bersani l'un contro l'altro schierati. Fra i due è polemica da quando, in un'intervista a Left, il comico genovese ha definito il titolare allo Sviluppo «un violentatore semantico» una delle persone «più subdole che abbia mai incontrato». Accuse riferite alla questione Cip6: Bersani, secondo Grillo, «nella legge sulle energie rinnovabili che tutti quanti finanziamo pagando la bolletta Enel, all'ultimo minuto ha aggiunto (all'espressione 'fonti rinnovabili', ndr) "e assimilate"» in tal modo «depistando con una parola tre miliardi di euro l´anno». Lettura dei fatti cui ieri il ministro ha replicato: «Non sono nuovo alla battaglia politica, che confesso di preferire verso la destra. Devo dire tuttavia che raramente ho registrato una distorsione così offensiva e paradossale delle mie convinzioni e delle mie azioni. Non mi metterò certo nella lista di chi querela Beppe Grillo, trattandosi di lui, brucia più la delusione dell´offesa. Dov´era Grillo nel gennaio del ‘97? Leggeva i giornali? Risale ad allora, infatti, il decreto con cui, appena divenuto ministro, bloccai tutto il meccanismo degli incentivi alle fonti assimilate alle rinnovabili, il cosiddetto Cip6 che certo non ho contribuito a far nascere».

Repubblica 9.1.07
Ecco come s’inventa un’identità
Un libro fra storia e psicanalisi
Intervista di Craveri a Claude Arnaud


Claude Arnaud ricostruisce le vicende di cinque impostori che hanno cambiato personalità. E ne indaga le ragioni psicologiche e culturali
Benjamin Wilkomirski si attribuisce un passato di ebreo e di sopravvissuto ai campi di sterminio
Il caso del regista Erich Von Stroheim, che a Hollywood si spaccia per un nobile austro-ungarico
Il nostro corpo era accettato come una fatalità. Ora può essere ridisegnato, dal sesso al colore della pelle
Non siamo più il prodotto di ciò che ci ha preceduto, ma tendiamo a definirci partendo da noi stessi

Parigi. Il saggio che ha vinto il Prix Femina 2006, un libro che Pascal Bruckner sul Nouvel Observateur non ha esitato a definire "vertiginoso", ha un titolo - Qui dit je en nous? (Grasset, pagg. 435, euro 20,90)- la cui traduzione letterale - Chi dice io in noi?- non consente però di cogliere il gioco di sottintesi del francese a partire dal doppio pronome je e moi. Il suo autore, Claude Arnaud, vi affronta intrepidamente un problema antico quanto la civiltà occidentale e su cui, a partire dal socratico "conosci te stesso", non abbiamo mai smesso di interrogarci: il problema dell´identità o, più precisamente, quello della sua "reinvenzione" nel mondo contemporaneo. Forte della sua esperienza di biografo, di romanziere e di critico, Arnaud costruisce la sua inchiesta a partire dallo studio di cinque casi patologici, di cinque grandi impostori che, in un arco di tempo che va dal Cinquecento fino ai giorni nostri, gli consentono di mostrare come l´idea stessa di identità cambi con il mutare delle mentalità e delle culture. Tra i meriti del libro vi è quello di saper fondere felicemente il tempo del racconto a quello della riflessione senza che si avverta mai un cambiamento di tono.
Arnaud ha l´arte di svegliare l´attenzione del lettore, di renderlo partecipe dei suoi interrogativi e di seminare il dubbio con la forza persuasiva degli spiriti indipendenti. Siamo andati a chiedergli di ripercorrere alcuni dei momenti centrali della sua indagine.
Cosa l´ha spinta a passare da grandi scrittori dalla personalità complessa, contraddittoria, all´insegna della metamorfosi come Chamfort e Cocteau, allo studio di uomini che hanno reinventato se stessi, assumendo un´identità che non era la loro non già sulla pagina ma nella vita reale?
«Un interesse molto forte per il problema dell´identità, problema che mi ha sempre appassionato e che conosco bene per averne fatto l´esperienza di persona. Ho impiegato io stesso molto tempo per "costruirmi" e per poi "decostruirmi" e ho conosciuto cambiamenti importanti anche nella sfera della vita intima. Questo mi ha indotto a credere che l´identità sia una costruzione e una costruzione non sempre definitiva. Inoltre penso che la nostra epoca incoraggi sempre più questa "costruzione" identitaria e tenga sempre meno in conto i fattori ereditari. Non siamo più il prodotto di ciò che ci ha preceduto - antenati, patria, religione - e tendiamo a definirci in primo luogo a partire da noi stessi. L´identità non è più un blocco compatto ma un assemblaggio che mettiamo insieme noi stessi. Per questo ho preso in esame dei casi di persone che si sono deliberatamente fabbricate delle identità diverse dalla loro».
A cosa è dovuto questo cambiamento?
«Al venir meno dei grandi legami collettivi, al trionfo ideologico dell´individuo che vuole corrispondere alle sue aspirazioni, anche a costo di inventarsi. La storia non è più un fattore decisivo nella definizione di sé, perché la si studia sempre meno ed ha cessato di essere un riferimento essenziale, così come la religione non è più un insegnamento obbligatorio e anche il numero di coloro che la praticano diventa sempre più esiguo. In passato ci si sentiva debitori della propria vita a Dio e alla famiglia, ora si deve rendere conto di ciò che si crede di essere soltanto a se stessi e al proprio psicanalista. E lo psicanalista lavora a decostruire il nostro io per poi ricostruirlo. La scatola di Pandora è molto più che aperta, è spalancata!».
Lei sostiene che la nostra capacità di costruirci delle nuove identità si è andata "democratizzando" su vasta scala perché oggi ci si può avvalere di mezzi pratici che prima non esistevano.
«Certamente, a cominciare dagli aspetti propriamente fisiologici. Il nostro corpo, che fino a una ventina d´anni fa era vissuto come una fatalità - nascevamo e morivamo con gli stessi connotati fisici - , oggi può essere ridisegnato, modificato, corretto. Si può cambiare di lineamenti e di colore di pelle (pensiamo a Michel Jackson), come di sesso (ci si può, a seconda dei casi, dotare di seni, di pene ecc.). E a queste trasformazioni chirurgiche può corrispondere ugualmente il cambiamento dello stato civile».
A parte il primo caso da lei preso in esame, quello famosissimo del falso Martin Guerre che si verifica nel XVI secolo e a cui la storica Natalie Zemon Davis ha dedicato nel 1983 un bellissimo libro, seguito da ben due film, le altre storie che lei ricostruisce - quella del cineasta ebreo Erich von Stroheim che a Hollywood si spaccia per un aristocratico dell´esercito austro ungarico, quella di Kurt Gernstein che diventa nazista per combattere il nazismo dal suo interno, quella di Jean-Claude Romand che massacra moglie, figli, genitori per nascondere loro di essere un fallito - si sono tutte verificate nel corso del Novecento. Tuttavia, nonostante i secoli trascorsi, vi è una vicenda di segno opposto a quella di Martin Guerre - una mistificazione la cui posta in gioco non è la prospettiva di una vita migliore ma l´appropriazione delle sofferenze altrui -, che pur non incorrendo in alcuna condanna giudiziaria ha ugualmente scatenato uno scandalo teologico. È il caso di Benjamin Wilkomirski, un orfano di guerra, adottato da una famiglia tedesca protestante che, diventato adulto, si inventa un passato di ebreo e afferma di essere un sopravissuto dei campi di sterminio.
«Quello di Wilkomirski è effettivamente un caso affascinante perché egli utilizza e abusa di questo diritto dei giorni nostri di diventare ciò che sentiamo di essere e non quello che gli altri - la famiglia, l´anagrafe ecc. - dicono di noi. Oggi, quantomeno nelle società democratiche e superevolute, è la nostra verità individuale a prevalere su tutto. Se un uomo si percepisce da sempre come una donna, può chiedere alla chirurgia e poi all´anagrafe di cambiare di sesso. E non solo la giustizia lo asseconderà ma proibirà a chicchessia di contestare legalmente il fatto che sia nato con quei connotati sessuali. Una legge con effetti addirittura retrospettivi! Dunque, intorno ai vent´anni, Wilkomirski si sforza di ricostruire la sua infanzia e, affascinato da tutto quello che ha a che fare con Israele, si convince di essere ebreo. Recatosi varie volte in Polonia, egli incomincia a riconoscere i luoghi dov´era stato deportato. E a rendere la vicenda ancora più sconvolgente si aggiunge il fatto che ad aiutarlo a venire a capo del suo dramma identitario non sono solo gli psichiatri ma le organizzazioni israeliane che si dedicano a ridare una identità agli orfani ebrei che hanno perso persino il ricordo dei loro genitori. Dunque Wikomirski è circondato da medici, psicanalisti, assistenti sociali ebrei che lavorano tutti a farne un ebreo, rafforzando la convinzione che mette progressivamente radice in lui di essere un figlio d´Israele».
Poi qualcuno lo smaschera.
«Nel 1995 Wilkomirski pubblica i suoi ricordi atroci di bambino deportato. Tradotto in nove lingue (anche in italiano, da Mondadori) Frantumi. Un´infanzia (1939-1948) viene premiato dalle più importati associazioni culturali ebraiche e salutato dalla critica come "un puro capolavoro sgorgato dall´indicibile", mentre Wilkomirski tiene conferenze in tutto il mondo per spiegare le modalità -psicanalisi, auto-ipnosi, tecniche mnemoniche - grazie a cui ha ritrovato la sua identità originaria. Ma ecco che un giorno un giornalista svizzero, figlio lui pure di deportati ebrei, venuto a intervistarlo, avverte nel suo comportamento qualcosa di sospetto. Wilkomirski ha uno stile teatrale, indulge a ricordi terribili e piange, mentre il giornalista sa da suo padre che quando i sopravvissuti dei campi si incontrano evitano di parlare di quanto è loro successo e qualora ciò avvenga non piangono mai. Prende così avvio una inchiesta che dimostra che Wilkomirski è un finto ebreo e che "ha dei ricordi che non sono suoi". Quello che più mi interessa di questa storia è che Wilkomirski non è un impostore volgare, è un mitomane con un profondo problema di identità. Come accade a tanti, egli desidera una nuova identità, ma la sua scelta di assumere quella del deportato, vale a dire della vittima per antonomasia del mondo moderno, non può non apparirci empia. Inoltre la sua impostura ha rischiato di mettere in dubbio la verità delle moltissime testimonianze autentiche della Shoah e di prestare il fianco alle tesi dei revisionisti. Penso che nel caso Wilkomirski bisogna distinguere questo elemento sacrilego - sostenere di essere stato un deportato - dal desiderio di essere ebreo. Un desiderio non meno legittimo di quello di un cristiano che vuole farsi buddista o di un ragazzo che vuole cambiare sesso».
Ma quali sono le responsabilità della psicanalisi in tutto questo?
«È un problema terribilmente complicato, ma volendo semplificare si può dire che con Freud la psicanalisi ha diffuso la nozione di molteplicità dell´io e ha mostrato i meccanismi attraverso cui l´identità si costruisce per stratificazioni successive, pur rimanendo a uno stato di continua mutazione. La psicanalisi, è vero, non pretende di dire la verità di un individuo e si limita generalmente ad aiutarlo a rimescolare le carte che ha in mano, mostrando che le carte sono quelle ma il gioco non è fatto, tuttavia deve confrontarsi con un dilemma enorme. Come bisogna comportarsi quando ci si trova davanti qualcuno come il falso Wilkomirski che si sente ebreo, che è convinto che i suoi genitori adottivi gli abbiano nascosto il fatto di essere stato deportato? Se da un lato la psicanalisi ci ha mostrato fino a che punto l´identità era una costruzione in atto, dall´altro non ha i mezzi per dire fino a che punto questa costruzione o ricostruzione sia legittima».
A quali conclusioni è approdato alla fine della sua inchiesta? Qual è la sua diagnosi sullo stato di salute dell´identità al punto in cui siamo?
«Un dato estremamente positivo è che non siamo più determinati come in passato dal contesto familiare e storico in cui ci troviamo a nascere e penso che non ci sia niente di male se qualcuno che si sente diverso da quello che è possa diventare ciò che desidera essere. È il libero arbitrio esistenziale dei tempi moderni. Tuttavia, in questo sistema senza passato e senza memoria, in cui tutto si fa nell´immediato, in tempi reali, è anche evidente che il rifiuto dell´eredità può indurre facilmente all´impostura. L´identità non è un´essenza, una verità definitiva, ma rimane un bisogno psichico fondamentale e ciò che colpisce oggi sono le sofferenze delle persone che, sprovviste di identità, non hanno gli strumenti per costruirsene una che tenga. Sono liberi ma non hanno i mezzi per esserlo fino in fondo e dunque fanno del bricolage, con tutti i rischi che questo comporta».

Corriere della Sera 9.1.07
Compromessi con il nemico
di Emanuele Severino


La Chiesa parla al mondo, cioè allo Stato; da quando esiste, ha avuto a che fare con Stati autoritari, la democrazia è un fenomeno recente: ma il dialogo tra Chiesa e Stato non può essere che un compromesso.
Che l'arcivescovo dimissionario di Varsavia Stanislaw Wielgus abbia collaborato con il regime comunista non deve dunque troppo sorprendere.
Se i nemici non dialogano, combattono a occhi bendati. Questi, però, son nemici che hanno in comune alcuni tratti non secondari.
La Chiesa è assolutismo religioso; il comunismo è assolutismo politico. La Chiesa si è sempre voluta servire dello Stato; lo Stato della Chiesa.
Ognuno dei due vuole che la dottrina e l'agire da essi proposti siano lo scopo della società.
Ognuno vuole distruggere l'altro. Non si tratta di una deviazione della «Chiesa di pietra» dalla «Chiesa dei santi».
La Chiesa è dei santi proprio perché vuol distruggere quel che a suo avviso è l'errore. Gesù è il santo per eccellenza. Dicendo di dare a Cesare, ossia allo Stato, quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, Gesù non vuole che a Cesare venga dato qualcosa che sia contro Dio: vuole che Cesare non si opponga a Dio, e che pertanto le leggi dello Stato abbiano come scopo quelle di Dio — del Dio di Gesù e, poi, della Chiesa. Dire che la Chiesa è assolutismo religioso non è «laicismo».
La si offenderebbe negando che essa sia teocrazia. Nemmeno in Polonia la Chiesa può aver voluto il comunismo, ossia un Cesare le cui leggi si opponessero a quelle di Dio.
Se un membro della Chiesa l'avesse fatto, l'avrebbe fatto come nemico del cristianesimo.
Va però anche aggiunto che, se nei Paesi comunisti la Chiesa ha avuto bisogno del compromesso col potere, diventa più difficile sostenere che essa sia stata l'artefice del crollo del comunismo.
È l'ultimo caso grandioso, tale crollo, del tramonto ormai secolare, che è destinato a travolgere anche le forme superstiti di assolutismo, come quella religiosa e quella economica.
L'assolutismo economico del paleocapitalismo, che si ritiene la forma definitiva di produzione della ricchezza, tende a essere oltrepassato da una concezione «sperimentale» del capitalismo, dove si ammette la possibilità del fallimento della sperimentazione.
Anche la Chiesa condanna le forme teologiche che in qualche modo ripropongono in senso «sperimentale» l'esistenza religiosa. La recente conversione della Chiesa alla democrazia è spiegabile in modo analogo al movimento del capitalismo nella stessa direzione.
Già Max Weber rilevava la maggior consonanza tra capitalismo e democrazia, rispetto a quella con lo Stato totalitario.
Ma il vero motivo è che in effetti quest'ultimo è, per il capitalismo, un ostacolo ben più consistente della democrazia procedurale. Lo stesso accade alla Chiesa, che alla democrazia, figlia dell'Illuminismo, ha preferito lo Stato autoritario, dove l'assenza dell'opposizione rende più agevole il dialogo e il compromesso.
Adottando la democrazia, Chiesa e capitalismo hanno sempre tentato, e con maggiori probabilità di successo, di modificarla: la Chiesa, condannando in essa «la libertà senza verità», ed esigendo che la «verità» a cui la democrazia deve adeguarsi sia da ultimo la verità cristiana; il capitalismo, impedendo che la «solidarietà» abbia a subordinare a sé l'«efficienza».
E anche il capitalismo è un Cesare a cui non si può dare quel che è contro Dio. Per la Chiesa il fine non giustifica i mezzi; ma è della Chiesa anche la dottrina della preferibilità del male minore.
Forse in Polonia, e altrove, minor male è stato dare provvisoriamente a Cesare qualcosa di quel che è contro Dio, sperando che da ultimo, davanti a Dio, egli avesse a inginocchiarsi.

Repubblica 9.1.07
Le mille notti di Shahrazad
Tre diverse edizioni del capolavoro della letteratura araba
Un testo democratico per i dotti e gli ignoranti
diversa anche la geografia india, persia, iraq, egitto
È una vicenda ora ricostruita da Mirella Cassarino, Roberta Denaro e Vincenzo Cerami
Una storia editoriale infinita dietro il libro che celebra l´arte del raccontare
di Franco Marcoaldi


«Andavo già a scuola da qualche mese, quando accadde una cosa solenne ed eccitante che determinò tutta la mia successiva esistenza. Mio padre mi portò un libro. Mi accompagnò da solo nella stanza sul retro dove dormivamo noi bambini e me lo spiegò.
Era The Arabian Nights, le Mille e una notte in una edizione adatta alla mia età. Sulla copertina c´era un´illustrazione a colori, se non sbaglio di Aladino con la lampada meravigliosa. Il papà mi parlò in modo molto serio e incoraggiante e mi disse quanto sarebbe stato bello leggere quel libro. Lui stesso mi lesse ad alta voce una storia: altrettanto belle sarebbero state tutte le altre».
Elias Canetti è appena entrato nel suo settimo anno di vita quando incontra sul suo cammino il volano di tutte le storie, il trionfo della narrazione infinita, il libro dei libri. Come rammenta nel primo volume dell´autobiografia, La lingua salvata, dopo l´iniziazione ad opera del padre che gli lesse ad alta voce la prima di quelle novelle, ora, scrive, «dovevo cercare di leggerle da solo e poi la sera raccontargliele. Quando avessi finito quel libro, me ne avrebbe portato un altro. Non me lo feci ripetere due volte e sebbene a scuola avessi appena finito di imparare a leggere, mi gettai subito su quel libro meraviglioso e ogni sera avevo qualcosa da raccontargli. Lui mantenne la promessa, ogni volta c´era un libro nuovo, così che non ho mai dovuto interrompere, neppure per un solo giorno, le mie letture».
Nel più semplice e incisivo dei modi, Canetti ci indica così il valore ultimo delle Mille e una notte: una volta entrati in quel mondo, non si potrà più rinunciare alla malia del racconto e dunque alla passione per la lettura. Il che non implica, sic et simpliciter, un giudizio acriticamente entusiasta su quello che il nostro arabista Francesco Gabrieli definiva un «insigne palinsesto del folclore d´Oriente», nel quale si alternano pagine memorabili con altre più modeste e ripetitive. Resta il fatto, comunque, che dopo essere usciti da quel concatenato profluvio di profumi e colori e perfidie e malizie e incantesimi e violenze e dolcezze si rimane tramortiti. E anche se non si è costretti a indossare i pericolosissimi panni di Shahrazad, che deve utilizzare tutta la sua astuzia per differire con successo il momento della morte, proprio grazie alla sua lezione apprendiamo una volta per sempre quale forza salvifica sia insita nell´arte del racconto. Allo stesso modo, pur non essendo Stendhal, Poe o Proust, che si abbevereranno con foga a quella fonte ispiratrice, ciascuno di noi sarà perfettamente consapevole di essere appena riemerso da un´inesauribile miniera di sensazioni e fantasie. Nella quale potremo tuffarci e rituffarci da ragazzi e da adulti senza rimanere mai delusi né sazi.
In tal senso Le mille e una notte incarnano al meglio l´idea di libro "democratico", capace di soggiogare in eguale misura il dotto e l´ignorante. Sì che non soltanto Canetti, ma anche il lettore comune - riprendendo in mano quelle storie - sarà sospinto a tornare con la mente alla propria personale iniziazione, alla prima edizione capitatagli per le mani. Con ogni probabilità ben diversa dalle Arabian Nights di canettiana memoria.
D´altronde, così come il racconto di Shahrazad è tendenzialmente infinito (e proprio in questo trova la sua massima ragione di forza), altrettanto infinita (e inafferrabile) è stata la tumultuosa vicenda editoriale delle Notti. Con storie che compaiono e scompaiono a seconda dell´edizione, e quando rimangono inalterate possono conoscere diversi sviluppi e nel caso in cui questo non accada oscillano nel registro linguistico prescelto e vedono equilibri diversi e cangianti tra parti poetiche e in prosa, tra realismo e iperbole fantastica, tra imbellettamenti esotici e crudezze pornografiche, slanci lirici e accensioni di misoginia e razzismo. Insomma, il libro che si legge non è mai - fino in fondo - lo stesso.
Pertanto non c´è da meravigliarsi se il florilegio editoriale continua ininterrotto e solo negli ultimi mesi sono uscite tre diverse edizioni (o riedizioni): le storie più belle delle Mille e una notte (a cura di Mirella Cassarino, con un saggio di Abdelfattah Kilito), scelta antologica della prima traduzione dall´arabo coordinata da Francesco Gabrieli nel 1948 (Einaudi, pagg. XXIV, euro 16,80); Le più belle fiabe delle Mille e una notte raccontate da Arnica Esterl e magnificamente illustrate da Ol´ga Dugina (nella collana "i cavoli a merenda" di Adelphi, pagg.87, euro 20) e infine e soprattutto Le Mille e una notte nell´edizione critica condotta sul più antico manoscritto arabo da Muhsin Mahdi, a cura di Roberta Denaro e con un´introduzione di Vincenzo Cerami (Donzelli, pagg. XVII, euro 29,50).
Del resto, se tradurre è tradire, la storia editoriale di questa opera-mondo è da subito una storia di tradimenti. Da quando nel 1704, a Parigi, l´orientalista Antoine Galland, accostando a un manoscritto arabo proveniente dalla Siria i racconti orali di un maronita di Aleppo, riscrive a suo gusto per i francesi l´immagine di un Oriente mitico e fantasmatico.
Il successo è immediato, clamoroso, e da allora non ha conosciuto interruzioni di sorta. Se ora volete ripercorrere la labirintica vicenda che nel corso dei secoli si dipana attorno alle Mille e una notte, potete leggere in parallelo le diverse ricostruzioni e interpretazioni offerte da Mirella Cassarino nell´edizione einaudiana e da Vincenzo Cerami e Roberta Denaro nell´edizione Donzelli. E magari compararle con il vecchio saggio di Gabrieli. Vi avventurerete in una storia testuale e editoriale che non vi sembrerà meno intricata delle novelle raccontate da Shahrazad. Assisterete all´assommarsi di svariate tradizioni culturali e a continue «trasmigrazioni geografiche» (tra India, Persia, Iraq, Egitto). E infine al succedersi di nomi di traduttori - quali Galland, Lane, Burton e tanti altri - l´un contro l´altro armati nel tentativo di annullare il lavoro precedente, per giustificare la bontà del proprio, come perfidamente annotò Borges.
L´ultimo tentativo di sciogliere questo intricatissimo nodo gordiano va ascritto all´ultradecennale lavoro di Mushin Mahdi, grande arabista e professore all´Università di Harvard, che ha pubblicato la prima edizione critica (la stessa proposta ora in italiano da Donzelli), basata su un manoscritto in tre volumi proveniente dalla Siria e depositato presso la Bibliothéque National di Parigi. E´ questa l´unica fonte scritta sicura tra quelle utilizzate da Galland, rammenta nella sua postfazione Roberta Denaro: si tratta del prologo e di 282 notti.
Il resto fa parte di un´operazione culturale ineffabilmente spregiudicata, volta ad appagare l´Europa e a innescare le crescenti manipolazioni dell´orientalismo. Anche se è interessante notare, a riguardo, la posizione di un intellettuale quale Abdelfattah Kilito, così come viene esposta nella sua nota al libro einaudiano. Le mille e una notte, scrive l´autore de L´occhio e l´ago, sfuggono al controllo di ogni accademia e di ogni canone. Per essere comprese «non necessitano che di un minimo di competenza linguistica e letteraria, quanto serve per accostarsi a un fumetto. Al diavolo dunque il commentatore, il letterato, il professore. Il testo, e solamente il testo, potente e sovversivo». Con un´ulteriore complicazione: perché, a differenza degli altri grandi libri dell´umanità, nel caso delle Notti «abbiamo solamente simulacri del testo che si suppone originale. In queste condizioni, chi intraprende una ricerca sulle Notti è tenuto a navigare a vista in mezzo a una nebulosa di edizioni disponibili che sono tutte, ma a livelli diversi, edizioni mancate».
Un caso a parte è rappresentato per l´appunto da Muhsin Mahdi: il risultato del suo lavoro «è ammirevole». Riproducendo però soltanto i racconti del nucleo originario delle Notti, finiscono per rimanere fuori storie come quelle di Sindbad o della città di rame. Così, «pur convenendo con le sue argomentazioni», il lettore rimane un po´ deluso «dal non ritrovare storie che gli sono care e che, in cuor suo, hanno sempre fatto parte delle Notti.
Come dargli torto? E´ difficile rinunciare ad Aladino. Sicché, paradossalmente, proprio l´imprescindibile lavoro di Muhsin Mahdi, finisce per riconfermare la natura consustanzialmente fluida e magmatica delle Mille e una notte. Una storia che sembra non avere inizio e non avere fine.
Non solo nel libro che dovrebbe contenerla, ma anche al di fuori di esso. Come dimostrano le Notti delle mille e una notte (Feltrinelli), in cui il premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz si chiede e ci chiede: cosa è accaduto a Shahrazad dopo che ha avuto salva la vita? E il sultano Shahriyar, rapito dai racconti della giovane donna tanto da graziarla e prenderla in moglie, avrà finalmente capito la lezione? Avrà messo da parte, una volta per tutte, la sua mortifera misoginia?

Repubblica 9.1.07
Il "dizionario" a cura di Silvio Pons dell'Istituto Gramsci
Tutti i nomi del comunismo
Alla lettera "K", i khmer l'eccidio di katin, il kgb
una risposta fallimentare alla modernità
di Miriam Mafai


Il comunismo è morto. Da quasi vent´anni, ormai, travolto dalle macerie del muro di Berlino. Quello che Marx aveva chiamato «il fantasma che si aggira per l´Europa» si è rifugiato ormai nell´isola di Cuba, in qualche sperduta landa dell´America Latina, e a Pyongyang nella Corea del Nord. E non fa più paura ha nessuno. Ma il morto non aveva avuto finora adeguata sepoltura.
Una sepoltura degna di un´idea che nel corso del secolo passato, dopo aver conquistato il pensiero e il cuore di centinaia di migliaia di uomini, si era trasformata e realizzata in una potente organizzazione politica e sociale che aveva piantato le sue bandiere vincenti su tanta parte del mondo. A quella ormai urgente e troppo a lungo rinviata sepoltura provvede, da noi, un´opera di cui esce oggi una robusta prima parte.
L´opera è curata da Silvio Pons, direttore dell´Istituto Gramsci e da Robert Service, dell´Università di Oxford, che si sono avvalsi della collaborazione di numerosi studiosi italiani e stranieri, altrettanto autorevoli. (Dizionario del comunismo nel XX secolo a cura di Silvio Pons e Robert Service, Einaudi, vol. I, pagg. 535, euro 68). Dizionario che raccoglie dunque sotto una unica definizione e vicenda, come un fenomeno storico globale e sostanzialmente unitario, i comunismi che si sono realizzati in paesi ed epoche diverse dal 1917 in poi. Comunismi che furono, in qualche misura, diversi l´uno dall´altro (e persino in alcuni periodi ostili l´uno all´altro) ma tutti riconducibili ad una unica ispirazione culturale e politica, che va per lo meno da Marx a Lenin.
Il primo volume di questo dizionario, raccoglie 193 lemmi, sui 400 previsti, da «Alfabetizzazione» e «Autocritica» a «Lunga Marcia» e «Luxembourg Rosa».
Cinquecento pagine di parole e nomi, persone e fatti in ordine alfabetico, su due colonne. Come si addice, appunto, a un dizionario. Con una scrittura controllata, asciutta, che sembra voler ignorare emozione o indignazione. E, proprio per questo risulta forse più efficace.
Eccoci dunque al dizionario. Ecco le brevi ma esaurienti biografie di uomini e donne che hanno segnato la storia del comunismo, da Gramsci a Berija, da Otto Bauer a Boris Eltsin, da Janos Kadar a Berlinguer, da Kim Il Sung a Vladimir Lenin. Ed ecco, nel rigido ordine albafetico, le guerre che nel corso del secolo passato sono state combattute a difesa del comunismo o per promuoverne l´espansione: dalla Grande Guerra patriottica, alla occupazione dell´Afghanistan, dalla guerra di Corea alla Guerra fredda. Ed ecco, anche queste rigorosamente in ordine alfabetico le parole che hanno battezzato i temi, i miti e le tragedie che hanno contrassegnato la vita del comunismo. Alla lettera «C» troveremo dunque i campi di lavoro, le carestie, la collettivizzazione forzata. Con le rispettive tragedie e vittime. E la censura (ma è singolare che si sottovaluti qui la critica feroce cui nell´immediato dopoguerra vennero sottoposti, ad opera di Zdanov, intellettuali come Shostakovic e Achmatova) Alla lettera «D» troveremo la deportazione delle nazionalità, la destalinizzazione, il dispotismo, il dissenso. Alla lettera «G», c´è il Gulag e la guerra civile spagnola. Alla lettera «K», l´eccidio di Katin, il KGB, i Khmer rossi.
Per ogni lettera, una parola, una persona, una vicenda, una tragedia. Ricostruita senza retorica né indignazione da studiosi che intervengono sulla materia come un medico cui sia affidata un´autopsia. Il filo conduttore di queste cinquecento pagine di nomi, di eventi, di tragedie è il comunismo esaminato e descritto come fenomeno unitario, con tutte le sue promesse, le sue ambizioni. E la sua insensatezza.
A differenza del famoso Libro nero del Comunismo che, pubblicato in Francia poco più di dieci anni fa, ebbe grande successo in tutta Europa e anche in Italia, questo Dizionario non intende offrirci soltanto un bilancio della repressione messa in atto dai regimi comunisti. Il bilancio, per chi amasse questo tipo di contabilità, ognuno lo potrà farselo da solo annotando, voce dopo voce, il numero delle vittime. Alla voce Grande Terrore troverà descritte le cause e le caratteristiche del fenomeno che segnò gli anni 1937-38 in Urss. E, naturalmente, il numero delle vittime. Lo stesso potrà fare leggendo il testo dedicato al Grande Balzo in avanti organizzato nel 1957 nella Cina da Mao, per superare, d´un balzo appunto, l´arretratezza economica del paese. E ancora, quanti furono i detenuti e le vittime del sistema dei Gulag, negli anni che vanno dal 1929 al 1954? Quante le vittime della carestia del 1932-33, il cosiddetto Holodomor, di cui gli ucraini chiedono oggi il riconoscimento internazionale?
Le cifre, insomma, anche in queste pagine ci sono. Ma non si capisce il comunismo, fenomeno che resta al centro della tragedia del XX secolo, (e non si riesce nemmeno a dargli degna sepoltura dopo averne registrato il fallimento) se non se ne analizzano le origini, le cause, le ragioni della sua durata, al di là della pura politica di repressione e violenza. E le ragioni del fascino che esercitò così a lungo in gran parte del mondo occidentale, e soprattutto in Europa.
Gli autori tentano di dare una riposta a questi interrogativi.
Secondo Silvio Pons il comunismo può essere studiato e definito come «una risposta fallimentare alla modernità». Il fallimento era iscritto nelle stesse basi politiche e culturali del fenomeno «basi fragili o forzose, prive di risposte ai problemi della modernità a cominciare dal tema dello sviluppo economico». Ai problemi della modernità, dello sviluppo della produzione e dell´allargamento dei consumi e, insieme, della correzione delle disuguaglianze, il capitalismo è riuscito e riesce tuttora a dare una risposta che pur parziale e contraddittoria raccoglie, in regime di democrazia, un sufficiente consenso. (Anche grazie alla pressione esercitata in ogni paese dei rispettivi partiti socialisti e socialdemocratici) Non è il migliore dei mondi possibili, quello contrassegnato dalle economia capitalistica, ma lascia aperta la possibilità di una riforma, una correzione, un miglioramento. Il comunismo, con le sue rigidità politiche e ideologiche, ha reso impossibile ogni velleità di autoriforma nei paesi nei quali pure aveva vinto. (Vedi alla voce Gorbacev. Ma in questo primo volume del Dizionario manca la voce Cina, unico paese nel quale un partito che si definisce comunista sta portando avanti, a tempi accelerati un processo di modernizzazione del paese escludendo contemporaneamente ogni apertura alla democrazia).

lunedì 8 gennaio 2007

l’Unità Lettere 8.1.07
Vittime dello tsunami e Papa pari (non) sono
Cara Unità, è interessante paragonare tre spese effettuate dalla Protezione Civile nel 2005, epoca di ristrettezze economiche. Per lo Tsunami (280.000 morti) sei milioni di euro, per gli «oneri connessi alle esequie del Papa e alla nomina dl nuovo Pontefice» quindici milioni di euro. E un altro milione di euro per «la Conferenza episcopale di Bari» (Fonte: Corriere della sera del primo novembre 2006, riportato da Critica Liberale).
Luciano Comida

l’Unità 8.1.07
IL LIBRO «Mi sono molto divertito» raccoglie 70 anni di scritti sul cinema e un testo «per» un film dell’uomo politico: una passione che ha segnato il suo percorso intellettuale
Quando Ingrao scriveva come Verga e stroncò «Don Camillo»
di Alberto Crespi


Se avete amato l’autobiografia di Pietro Ingrao Volevo la luna, uscita recentemente per Einaudi, procuratevi in gran fretta, dello stesso autore, Mi sono molto divertito. È un volume di 175 pagine curato da Sergio Toffetti e pubblicato dal Centro sperimentale di cinematografia, la gloriosa scuola di via Tuscolana che lo stesso Ingrao frequentò iscrivendosi, nel 1935, al corso di regia. Il sottotitolo, Scritti sul cinema (1936-2003) è esplicativo ma fin troppo modesto.
Il libro non contiene soltanto i numerosi interventi sul cinema scritti da Ingrao in un arco di tempo lungo quanto una vita; ci permette di leggere, finalmente, anche uno scritto «per» il cinema da sempre leggendario e, come spesso capita alle leggende, ignoto anche a chi lo cita a proposito e a sproposito: il trattamento della novella di Verga Jeli il pastore che Ingrao scrisse per Luchino Visconti durante la guerra. È un momento celeberrimo della storia del nostro cinema: la nascita del «Gruppo Cinema» ­ i giovani intellettuali che si raccolgono intorno alla rivista Cinema fondata nel ’36 da Vittorio Mussolini ­, il ritorno dalla Francia di Visconti forte dell’esperienza di lavoro con Jean Renoir, la possibilità di esercitare sulle colonne della rivista una blanda «fronda» nei confronti del regime, l’elaborazione che pian piano porterà alla realizzazione di Ossessione, opera prima di Visconti e del neorealismo tutto… sì, una storia nota, e bella, alla quale per molti di noi mancava un tassello: la lettura diretta del testo di Ingrao. Ora che l’abbiamo letto, possiamo consigliarvelo proprio in rapporto a Volevo la luna. Chi di voi ha letto quella ricca autobiografia sarà rimasto senz’altro colpito dallo stile letterario di Ingrao, che del resto è tale anche nelle sue poesie. Ebbene, leggendo Jeli il pastore si scopre, molto semplicemente, perché Ingrao scrive così.
La parola «trattamento» è importante per capire che tipo di testo è Jeli il pastore. Il trattamento non è il soggetto (che dev’essere un riassunto del film in 2-3 pagine), né la scaletta (che deve essere già strutturata scena per scena) né tantomeno la sceneggiatura (che deve contenere i dialoghi e corrispondere, il più possibile, al film finito). Il trattamento è un racconto di 20-25 cartelle che deve descrivere, in forma ancora «letteraria», la trama del film. Con l’aiuto di Mario Alicata Ingrao scrive, dunque, un racconto: già suddiviso in sequenze ma in tutto e per tutto letterario. E scrive… come Verga! Quel gusto della sintassi nervosa, del lessico al tempo stesso aulico e rustico, del tono alto ma scabro, capace di divenire violentemente realistico: ora lo sappiamo, vengono da Verga. E non si può negare che Ingrao si è scelto un magistero stilistico alto: mentre Visconti commissiona ai suoi giovani amici copioni ispirati a Verga per risalire alle fonti letterarie del nascente neorealismo, Ingrao usa lo scrittore dei Malavoglia come palestra linguistica. I risultati si vedranno nel tempo: dopo aver gironzolato intorno a Jeli il pastore e a L’amante di Gramigna, Visconti finirà (nel ’47) per girare La terra trema ispirato ai Malavoglia; mentre Ingrao, dopo aver studiato il mondo contadino attraverso lo sguardo verista del conservatore Verga, diventerà definitivamente comunista e farà il percorso politico, intellettuale ed esistenziale che ben conosciamo.
In fondo l’interesse di Mi sono tanto divertito è principalmente lì: nel vedere come il cinema sia stato un elemento formativo fondamentale per un leader politico unico nel suo genere. Piace pensare che la straordinaria umanità di Ingrao venga anche dalla sua cinefilia: anche se purtroppo ci sono tanti cinefili umanamente insopportabili. Il resto è gioco, divertimento. È divertente, ad esempio, rileggere certe stroncature dell’Ingrao critico e domandarsi cosa diavolo gli avesse fatto Akira Kurosawa, il cui Rashomon (in un pezzo da Venezia ’52 uscito su Rinascita) viene eletto rappresentante del «cinema senza verità» e fatto a pezzi senza pietà. È divertente scorrere un attacco spietato al primo Don Camillo di Duvivier per rivivere l’Italia divisa del post-’48, ma anche per vaccinarsi a certe agiografie postume su Guareschi (Ingrao lo definisce «disegnatore», e i suoi romanzi sono liquidati come «mediocrissime buffonerie»: magari esagera, ma non esagerano anche coloro che oggi fanno di Guareschi un padre della patria?). È divertente, insomma, leggere questo libro: come si è divertito, Pietro Ingrao, a scriverlo nell’arco di quasi 70 anni.

l’Unità 8.1.07
Da Galileo a Gödel la matematica è divina
di Michele Emmer


SCIENZA E FEDE Il gesuita Matteo Ricci usò la logica per convertire i cinesi, Galilei sostenne che il libro della natura e dell’universo è scritto con triangoli, cerchi e numeri. E Kurt Gödel tentò di dimostrare con le formule l’esistenza di Dio

Nel 1582 Matteo Ricci, un gesuita, partì per la Cina con la missione di evangelizzare quell’immenso paese. Non ci riuscirà, ma diventerà a pieno titolo un intellettuale cinese e sarà sepolto a Pechino con il nome che gli venne dato nel Celeste Impero, Li Madou. Ricci riteneva di dovere guidare gli intellettuali cinesi lungo la via della conoscenza cominciando dalla base, insegnando loro a ragionare utilizzando la logica matematica. Li avrebbe così portati a comprendere la descrizione dell’universo secondo Tolomeo per arrivare quindi a Dio creatore del mondo e delle leggi che lo governano. Scrive Michela Fontana, nel libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (2005), che si trattava di una via «dalla matematica alla teologia», la scienza delle certezze come strumento per arrivare a Dio.
Qualche anno dopo la morte in Cina di Ricci nel 1610, così scriveva Galileo Galilei nel Saggiatore (1623): «Parmi di scorgere ferma credenza che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. La cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola: senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto».
Il 25 febbraio 1616 il Sant’Uffizio, «per provedere al disordine e al danno», emana una sentenza: «Che il Sole sia centro del mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura». È stato riabilitato Galilei solo molto recentemente. In occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, il papa Giovanni Paolo II tenne un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze ed al Collegio dei Cardinali e, riferendosi a Galileo, esortò a fare luce su quella vicenda. Come conseguenza della presa di posizione del pontefice, il 3 luglio 1981, vi fu la nomina di una commissione pontificia per gli studi sul caso. Le conclusioni del lavoro vennero poi esposte dal Cardinale Paul Poupard il 31 ottobre 1992. Sebbene già in passato vi fossero stati passi formali che manifestano implicitamente il riconoscimento di un errore di valutazione da parte dei teologi chiamati a giudicare Galileo, in questa occasione si parla esplicitamente di un errore commesso dalla Chiesa.
Il famoso discorso di Galilei è stato di recente ripreso: «All’inizio dell’essere cristiano - e quindi all’origine della nostra testimonianza di credenti - non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, “che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. La fecondità di questo incontro si manifesta, in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale, anzitutto in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie. Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo - che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico - suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme». Chi scrive è Papa Benedetto XVI in occasione di un discorso a Verona il 10 ottobre 2006. Al di là di alcuni accenti che possono essere condivisi o meno è interessante che il Pontefice abbia tenuto un grande elogio della matematica. Naturalmente se lunga e senza fine è stata la lotta tra scienza e fede, in ogni parte del mondo, una delle sfide più interessanti è stato l’utilizzo della matematica, della sua struttura logica per dimostrare l’esistenza di Dio. Tema anch’esso senza fine. Vorrei solo concentrarmi su un piccolo libro uscito di recente in versione italiana.
Uno dei più famosi logici matematici del secolo scorso è stato Kurt Gödel. Soprattutto per aver risolto nel 1928 in senso negativo uno dei grandi problemi posti nel 1900 dal matematico David Hilbert. Nel 1928 Kurt Gödel poté dimostrare che l’aritmetica risulta necessariamente incompleta, nel senso che esistono proposizioni che non sono né dimostrabili né refutabili. Nel 1941 il logico austriaco abbozzò una dimostrazione dell’esistenza di Dio, chiarendo «che il suo interesse per la prova ontologica dell’esistenza di Dio era puramente di carattere logico». Rimaneggiò poi la «dimostrazione» nel 1954 e infine nel 1970, senza mai pubblicarla, ma comunicandola nel febbraio del 1970 al logico Dana Scott e poi all’economista Oskar Morgenstern.
Queste pochissime pagine sono al centro del libretto La prova matematica dell’esistenza di Dio, (Bollati Boringhieri, 2006) curato, come si legge sulla copertina, da Gabriele Lolli e Piergiogrio Odifreddi, entrambi logici all’università di Torino. Il testo di Gödel è ripreso dal volume terzo delle Opere complete con la nota introduttiva di Robert Merrihew Adams, (Bollati Boringhieri, 2006) riportata anche nel piccolo libro, senza però che il nome sia citato in copertina. Non è nemmeno citato l’autore del saggio che compare alla fine del libretto Roberto Magari, scomparso nel 1994, che Lolli descrive come «l’esponente più creativo della rinascita degli studi logici in Italia nella seconda metà del Novecento». E chi lo ha conosciuto non può che confermarlo.
Credo che il saggio di Magari sia la cosa più interessante, tenendo conto che le pagine di Gödel sono del tutto incomprensibili senza una spiegazione abbastanza dettagliata del significato dei simboli utilizzati. Tentativo che fa Magari, utilizzando una dote rara, una sottile ironia che era una delle sue doti umane più caratteristiche. Basterà citare l’inizio del suo saggio: «Molti uomini, anche fra i più grandi, hanno una notevole volontà di credere nelle cose più svariate, ma soprattutto come risulta almeno nella nostra cultura da circa venti secoli, nell’esistenza di un (e in genere uno solo) ente “supremo” compiutamente dotato di certe proprietà dette “positive”». Uomini che Magari chiama «teofili», amanti di Dio. Aggiungendo subito dopo che «Esistono naturalmente anche teofobi, (io lo sono di tutto cuore, aggiunge), e anche nel loro caso è opportuna una certa vigilanza su quanto costruiscono ed asseriscono». Conclude il suo saggio Magari osservando «Soprattutto gli esperti e gli specialisti che il pubblico può investire di reverente fiducia dovrebbero guardasi dall’avvalorare dischi volanti, omeopatia, astrologia, creazionismo o altro. Occorre in ogni caso stare molto in guardia contro tutto ciò che può essere suggerito dal desiderio di credere. Devo ammettere, con una certa riluttanza, che analogamente va trattato il desiderio di non credere, che però mi sembra assai più rara».

Corriere della Sera 8.1.07
«Il partito democratico? Nasce sulla sabbia
«Cari leader non siete più credibili»
Dibattito sul riformismo, nuovo contributo dell'economista che ha lasciato polemicamente i Ds
di Nicola Rossi


Conviene partire dalla sera dell'ultimo dell'anno. Conviene partire dalle parole del Capo dello Stato sulla distanza fra la politica e la società e dal suo invito agli italiani a colmare quella distanza, a tornare a guardare alla politica non più come altro da sé. E dal corrispondente invito alla politica a dare di sé un'immagine tale da giustificare una ritrovata fiducia da parte dei cittadini. Parole sante, come si dice. Ma, sia detto con il massimo rispetto per chi le ha pronunciate, forse anche parziali. Perché il punto non è tanto - a mio modestissimo parere - quello del rumore della politica (che, sia chiaro, c'è ed è spesso molto sgradevole) ma quello, assai più serio, della qualità della politica che quel rumore sottende. Una qualità che porta oggi gli italiani non già all'irritazione e all'invettiva ma all'indifferenza. A considerare la politica come un peso di cui non è possibile liberarsi ma che, appunto, è solo un peso. Fastidioso e spesso ingiustificato. Maprima di affrontare quel punto, una premessa è essenziale, a scanso di equivoci. Chi scrive pensa non solo, come si dice con una punta di retorica, che i partiti sono uno strumento essenziale della democrazia, ma che la politica si fa, in primis, dentro e con i partiti. Comprendendone il ruolo, interpretandone i rituali, rispettandone le forme, ricordandone la storia, percorrendone tutte le articolazioni. Tutte attività non sempre gratificanti e a volte anche un pochino noiose ma senza le quali non si comprende, al tempo stesso, la durezza e la ricchezza della politica.
E chi scrive ne è tanto convinto che nel 2001 - memore della indicazione di Mitterrand ad un noto intellettuale francese del suo tempo - non ha chiesto di essere candidato a Siena o a Modena (nessuno si offenda, per favore, ho fatto solo due esempi) ma in un collegio meridionale saldamente tenuto da parecchi anni dagli avversari. Ciò detto, torniamo alla qualità della politica. Allentatosi il vincolo della ideologia, la politica è oggi più di tante altre cose, credibilità. Credibilità della classe politica nel suo insieme e credibilità dei singoli che fanno politica. E una politica credibile è quella che crede in quello che dice ed in quello che fa, o che cerca di fare. E' tutto qui il dibattito sul riformismo che andiamo facendo da qualche tempo o, meglio, da qualche anno. Non riguarda solo i risultati - che pure sono piuttosto magri - ma la convinzione che dovrebbe animare i protagonisti di quel dibattito. Cosa pensereste di un grande manager che oggi indica nel mercato cinese una opportunità da non mancare e promette, di lì a qualche tempo, di sbarcarci in forze e poi, qualche tempo dopo, vi dice che sì, poi, in fondo, il mercato cinese non è così importante? E cosa pensereste di un leader politico che a novembre annuncia urbi et orbi che per marzo il paese avrà messo un punto fermo sui temi della riforma previdenziale e poi a gennaio conclude che, in La citazione fondo, la cosa non è poi così urgente? Non pensereste quello che pensano molti italiani? E, gentilmente, non si tiri fuori l'argomento francamente un po' deboluccio relativo alle difficoltà entro le quali quotidianamente si muove la politica. Alla fatica - che c'è, lo sappiamo - della costruzione politica. Alla incertezza degli esiti: sappiamo anche questo, si può vincere e si può perdere. Il punto è un altro: da una classe politica si chiede - avrei voluto scrivere, si pretende - che spenda il proprio tempo a pensare come evitare o superare quelle difficoltà. La politica - mi si perdoni la franchezza - non è pagata per raccontare ai cittadini gli ostacoli che incontra giorno dopo giorno ma per superarli. Se ne è capace. E se non ne è, per lasciare ad altri la possibilità di provarci. Le difficoltà in cui si dibatte, giorno dopo giorno, l'odierna azione di governo sono il frutto malato di cinque anni di opposizione in cui - anche grazie a qualche editoriale domenicale non sempre illuminato - non un solo giorno è stato speso per costruire la cultura e le condizioni che sarebbero servite a governare e non è lecito, oggi, usare quelle difficoltà come un'attenuante. (E l'argomento vale, mutatis mutandis, per il governo della passata legislatura.) Si è seminato male e quindi si raccoglie poco. E si è seminato male perché non si credeva fino in fondo in quel che si diceva di voler fare. Una politica credibile è una politica che rischia e che si assume responsabilità. Che si espone al pericolo di perdere perché solo così si vince.
Che non trasforma un grande progetto politico come quello del Partito democratico - evidentemente difficile e rischioso - in un piccolo espediente tattico. Per quel pochissimo che capisco di politica mi sembra di poter sommessamente dire che non si costruisce un partito con un solo punto nell'agenda: consolidare gli equilibri esistenti. Politici e di potere (benedetti intellettuali! continuo a non riuscire a non tenere separate le due cose). Vedere per credere come, a livello locale, si vanno preparando i prossimi congressi. In molte regioni d'Italia (almeno una la conosco piuttosto bene) l'attività politica oggi prevalente è quella relativa alla attenta allocazione delle tessere ed al relativo "traffico". Perché il congresso non comporti il minimo rischio. Perché tutto sia noto e definito in anticipo. Perché le minoranze non manchino e le maggioranze siano definite per residuo. Nulla di nuovo e tanto meno di sorprendente. Lo si faceva anche negli anni d'oro della Prima Repubblica. Per quel che ricordo, spesso con più stile e certamente con più fantasia. Il punto grave è che tutto questo accade non già in vista di congressi di routine ma addirittura nella prospettiva di scelte che dovrebbero cambiare il modo stesso di essere della politica italiana. Che dovrebbero chiudere una transizione (che, ovviamente, non a caso è infinita). Come si può - lo chiedo a Michele Salvati - contemplare senza battere ciglio una abdicazione della politica di questa portata? Come si può, con il sorriso sulle labbra, esporre il sistema politico italiano - prima ancora che alcune sue parti - a pericoli fin troppo evidenti, perché partiti così sono costruiti sulla sabbia e possono scomparire al primo risultato elettorale non troppo esaltante, lasciando dietro di sé - e nel migliore dei casi - solo macerie? Come si può non vedere che l'Italia cresciuta, economicamente e socialmente, nell' ultimo quindicennio di un partito costruito su basi culturali e politiche così fragili non saprebbe che farsene e cercherebbe altrove le risposte alle proprie domande?
Se il Partito democratico fallirà - mi rivolgo ancora a Michele Salvati - non sarà a ragione di subdole ed infide iniziative trasversali (e, sia detto per inciso, è più subdolo ed infido discutere con Bruno Tabacci di pensioni o trattare sulla legge elettorale con Roberto Calderoli?), ma sarà a causa della mancanza di coraggio di chi pensa che il rischio sia pane quotidiano per le famiglie e per le imprese ma non per la politica. Una politica credibile è una politica che rispetta le regole. Che non si limita, giustamente, a chiedere giornalmente ai cittadini di rispettare le regole ma che rispetta essa per prima le regole che alla politica si applicano. E ce n'è una, in molti paesi e soprattutto in quelli che il maggioritario ce lo hanno da tempo, che non è nemmeno scritta: chi perde abbandona il campo. Definitivamente (salvo straordinarie eccezioni). Sia che perda elettoralmente, sia che perda politicamente (chiedere, per ulteriori dettagli, a Margaret Thatcher). E non è una astruseria. Ma una semplice - rozza, lo ammetto - norma di garanzia. Intesa ad evitare che chi c'è usi del proprio indubbio potere per rimanere. E, gentilmente, si eviti a questo punto di alzare il dito per osservare che nuove classi politiche all'orizzonte non si vedono. Perché non sappiamo se l'impresa entrante ci offrirà prodotti di qualità migliore e a un prezzo inferiore, ma consideriamo un bene pubblico il fatto che possa provarci e lo tuteliamo come tale. La politica italiana - credo di averlo detto e scritto in tempi non sospetti - è oggi guidata (al di là dei meriti o dei demeriti dei singoli) da due leadership entrambe sconfitte. E quindi automaticamente, inevitabilmente, al di là della loro volontà e delle loro capacità, non più credibili. Della politica non possiamo fare a meno. Quindi, quel che fa la differenza è la qualità della politica. Si può fare politica per una vita intera senza mai farla veramente e farla per un giorno solo mettendoci la passione di una intera vita.
Nicola Rossi

Repubblica 8.1.07
Importante scoperta degli scienziati Usa: potrebbe risolvere i dubbi etici sull'uso delle cellule
Staminali nel liquido amniotico
di Daniele Diena


ROMA - Poter finalmente disporre di un serbatoio di cellule staminali "pluripotenti", cioè capaci di generare i principali tessuti proprio come le embrionali, ma che, a differenza di queste, non dovrebbero più suscitare contestazioni bioetiche. Quello che fino a ieri era il sogno di tutti i ricercatori del settore è diventato realtà, almeno a livello di sperimentazione animale. E potrebbero essere finalmente superate le questioni etiche finora poste nell´ambito della ricerca sulle cellule staminali.
La buona notizia arriva ancora una volta dagli States. Un gruppo di ricercatori della Wake Forest University, nel North Carolina, è riuscito ad isolare nel liquido amniotico di donne incinte delle cellule staminali che, coltivate in vitro per alcuni anni, si sono poi trasformate in cellule progenitrici di diversi tessuti: quello muscolare, l´osseo, l´epatico, il sanguigno. Le cellule, trapiantate su animali, hanno confermato la loro potenzialità riproduttiva e senza causare tumori (problema talvolta riscontrato nelle embrionali). Cellule del sistema nervoso trapiantate in topolini lobotomizzati sono cresciute e hanno riparato l´area del cervello danneggiata: «Abbiamo assistito a un parziale ripristino della funzionalità», ha detto in una conferenza stampa Anthony Atala, autore della scoperta con Paolo De Coppi (italiano, 35 anni) - è stato anche appurato che le cellule neurali così ottenute riescono a produrre neurotrasmettitori, mentre quelle del fegato possono secernere urea».
La prima caratteristica, molto importante, osservata in queste nuove cellule è che, nel topo, hanno una formidabile velocità di moltiplicazione: solo 36 ore. Questo significa che in poche settimane si dispone di miliardi di cellule, un passo avanti che, il giorno che fosse confermato anche per l´uomo, darebbe una grossa accelerata alla cura di molte malattie. La scoperta è arrivata a confermare un´ipotesi che i ricercatori di mezzo mondo inseguivano da tempo, soprattutto dopo le dure contestazioni alla ricerca sulle staminali embrionali: si sapeva infatti che nel liquido amniotico c´è una grande quantità di cellule immature, ma non c´era ancora alcuna certezza che ci fossero delle vere e proprie staminali, cioè cellule capaci di differenziarsi poi nei diversi tessuti. Ora è dimostrato non solo che le staminali ci sono, ma anche che rappresentano circa l´1 per cento del totale di cellule immature del liquido amniotico. Tanto basta per far dire al professor Atala: «Con quattro milioni di parti l´anno, solo negli Stati Uniti sarà facile raccogliere abbastanza campioni di cellule fetali da accumulare una banca dati che soddisfi le necessità di trapianto dell´intera popolazione. E con una banca di 100mila campioni, il 99 per cento degli americani potrebbe trovarne uno geneticamente compatibile per un eventuale trapianto». Secondo lo studioso americano con questa nuova frontiera che è stata appena aperta sul fronte delle staminali si potrebbe, un giorno, arrivare a poter disporre di «una valida risorsa per la riparazione di tessuti malati e pure per una vera e propria creazione di nuovi organi, in sostituzione di quelli che non funzionano più».
Gli stessi ricercatori che hanno fatto la scoperta frenano però i facili entusiasmi: per quanto riguarda le possibili ricadute sull´uomo e i tempi necessari per raccogliere i primi risultati, si prevede infatti che occorreranno ancora alcuni anni. Forti comunque le aspettative che la scoperta serva a costruire una concreta alternativa all´utilizzo di staminali embrionali, pratica che ha suscitato tante contestazioni nel mondo intero, e quindi a dare nuovo impulso allo studio delle possibili applicazioni terapeutiche delle staminali che negli ultimi tempi ha incontrato fin troppo ostacoli.

Repubblica 8.1.07
La ricerca pubblicata su "Learning and Memory". Per l'esperimento usati i topi mutanti dei laboratori di Monterotondo (Roma)
In una molecola il segreto della memoria
Scoperta da un'équipe italo-spagnola, "incolla" l'informazione al cervello
L'abbraccio. Il dialogo tra le due cellule cerebrali si trasforma in un abbraccio stabile Oggi sappiamo come
di Elena Dusi


ROMA - Televisione, radio, libri, giornali. Un bombardamento di informazioni che tiene in continuo movimento il nostro cervello. È come se ogni nozione appresa - anche la più banale - creasse un´onda che mantiene sempre vivo il dinamismo dell´organo del pensiero. Per gli scienziati, mettere a fuoco i meccanismi dell´apprendimento e della memoria in questo mare sempre agitato era stato fino a ieri impossibile. Ci ha pensato Liliana Minichiello dell´European molecolar biology laboratory (Embl) di Monterotondo, in provincia di Roma, insieme ad alcuni colleghi dell´università di Siviglia, a scovare la molecola chiave che trasforma il flusso delle informazioni in un ricordo stabile e duraturo. Le loro ricerche sono pubblicate da Learning and Memory.
Il ruolo della molecola, battezzata TrkB, è di "incollare" l´informazione di un attimo (che si manifesta con una scarica elettrica istantanea fra due neuroni) al nostro cervello, trasformandola in un ricordo stabile. Il dialogo momentaneo fra le due cellule cerebrali si trasforma così in un abbraccio stabile, frutto di un processo che gli scienziati conoscono già da tempo con il nome di long-term potentiation. Per la prima volta oggi, grazie a dei topolini di laboratorio, è stato possibile capire quali segnali molecolari inducono le cellule del cervello a formare un legame stabile. A trasformare una notizia ascoltata un attimo alla radio in un ricordo duraturo.
Minichiello e i suoi colleghi sospettavano da tempo che la molecola TrkB svolgesse un ruolo chiave nel processo di memorizzazione. I neuroni sono in grado di riconoscerla, recepirla e attivare una cascata di eventi che sono ancora per la maggior parte oscuri, ma che di fatto si traducono nella formazione di un abbraccio stabile tra neuroni. Per dimostrare l´ipotesi, Minichiello si è servita dell´archivio dei topi mutanti di Monterotondo. All´Embl sono infatti conservati centinaia di ceppi di roditori modificati geneticamente. Uno di questi era stato trattato in modo da rendere parzialmente inattivo nel cervello il recettore della molecola TrkB. La cascata di eventi che porta normalmente alla formazione di un ricordo, nei topi modificati si blocca sul nascere, impedendo ogni processo di apprendimento.
L´esperimento utilizza il riflesso condizionato di Pavlov per verificare se il processo di apprendimento avvenga o meno. Un segnale sonoro avverte i topi che un soffio d´aria sta per colpirgli gli occhi, costringendoli a chiudere le palpebre. Ripetendo la sequenza, i roditori normali imparano a ripararsi gli occhi già dal momento in cui sentono il suono. Segno che nel loro cervello la rete dei neuroni si è modificata, organizzandosi in maniera tale da suggerire ai topi il comportamento migliore da adottare in coincidenza con la sirena. Gli animali geneticamente modificati invece reagiscono ogni volta come se udissero il suono per la prima volta. Mancando TrkB, il processo di apprendimento si è bloccato. Il cervello dei roditori non riesce a ricordare che al suono segue il soffio d´aria sugli occhi.
La differenza tra studiare le cellule del cervello con un microscopio e analizzare i processi in vivo, come è avvenuto con questo esperimento, è ben espresso da una frase che il ricercatore spagnolo, José Marìa Delgado Garcia, ha rilasciato al quotidiano El Pais: «Il cervello di Einstein, a riposo, era uguale al cervello di ogni altra persona. La differenza si poteva apprezzare solo quando lo scienziato elaborava un pensiero complesso. È in quel momento che è importante osservare come cambiano i neuroni».