domenica 14 gennaio 2007

il manifesto 14.1.07
Un viaggio nel dolore inconfessabile
«Madri assassine» di Adriana Pannitteri, Gaffi Editore
con Annelore Homberg
di Giovanni Senatore


Adriana Pannitteri, giornalista Rai, volto del Tg1, è andata di persona a immergersi nello sguardo, pieno di dolore, di disperazione, a volte assente, di quelle donne così particolari: le mamme che hanno ucciso i propri figli e che dopo avere occupato con il loro gesto prime pagine di giornali e telegiornali, finiscono nelle celle linde e senza agenti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, sul lago di Garda, struttura unica nel suo genere in Italia e in Europa.
E da questo viaggio attraverso i meandri della mente, le parole, le lacrime, i corpi di donne travolte, spesso nella solitudine, dalla incapacità di affrontare il rapporto con un essere umano appena nato o nei primi mesi di vita, ha preso forma un libro.
Si intitola Madri assassine - diario da Castiglione delle Stiviere (editore Gaffi, 10 Euro), straordinario percorso umano, tragico e rivelatore, in un mondo fatto di segni invisibili e di atrocità. “Per me non è un libro, ma il libro”, afferma Adriana Pannitteri che alterna la cronaca letteraria delle visite e dei colloqui con le protagoniste ad una narrazione semi-immaginaria, affidata ad una bambina, Maria Grazia, che ripercorre vicende dell’infanzia dalle quali emerge la figura di una mamma con problemi psichici. In apertura del libro, scrive: “E’ a Castiglione che sono andata a cercare la follia e il suo volto più inaccettabile”. Un tempo manicomio criminale, con oltre 1000 reclusi in condizioni disumane, Castiglione oggi è l’unico ospedale psichiatrico giudiziario in Italia (150 ricoverati, 50 donne, 10-12 le madri assassine, ad aprile 2006) ad ospitare donne che hanno ucciso i propri figli. Niente agenti penitenziari, soltanto medici e infermieri, tutto personale del ministero della Sanità e degli enti locali, celle con il nome di fiori, una piscina, libero accesso alla tv. Si punta molto sul lavoro: pittura, formazione professionale, biblioteca. C’è la psicoterapia, ma prevale l’uso dei farmaci, nei casi più gravi è prevista la contenzione.
Storie di “omicidi agghiaccianti”: neonati messi in lavatrice, affogati nel bagnetto, chiusi vivi dentro uno zaino, la bocca sigillata con la cucitrice per impedirgli di urlare. Atroce quotidianità, purtroppo. “Adriana è voluta andare oltre la cronaca - spiega la psichiatra Annelore Homberg nella prefazione - ha cercato di capire cosa accade a queste donne sia prima che dopo il fatto, anche per sfatare l’idea terrificante dell’espiazione, della punizione: devono avere la vita distrutta, perché hanno distrutto quella del figlio. Il suo merito è quello di non avere creduto al concetto di male, di non aver creduto che la pazzia sia espressione di malvagità: le malattie vanno comprese nel loro originarsi. Si tratta di curarle, guarirle, prevenirle”.
Tante persone negli incontri pubblici rivolgono ad Adriana Pannitteri domande sempre uguali: “Ma come è possibile”, “è inconcepibile”, “era una mamma felice”, “aveva tutto: una famiglia normale…”. E centinaia di donne, intanto, le confidano: “Anche io ho avuto un momento di difficoltà dopo il parto”.
“Due cose fanno più paura alla gente: il raptus e l’idea che la malattia mentale sia ereditaria - racconta la giornalista -. In realtà nei casi citati nel libro queste donne, in qualche modo, avevano avuto già problemi di depressione, di disagio psichico ed avevano lanciato un segnale di aiuto: forse se fossero state curate prima non avrebbero ucciso. C’è poi una tendenza americana - aggiunge - a ritenere che tutto è governato dal Dna, compreso il disagio mentale. Non è così. E’ tempo di liberarsi da queste cose. C’è una difficoltà a capire che spesso il disagio mentale si annida nella normalità, in relazioni malate; non si uccide un figlio per un momento di stress... E’ necessario allora dare alle persone la conoscenza e gli strumenti per riconoscere la malattia”.
“Lo stesso concetto di raptus è assolutamente fasullo - afferma Annelore Homberg -. Questi casi non c’entrano niente con un’esplosione incontrollata di affetti. Il problema casomai è l’anaffettività, la mancanza di affetti. Molte volte prima c’è un’alterazione del pensiero, all’inizio invisibile, fino ad arrivare al livello cosciente, come delirio manifesto. Nella sua indagine giornalistica, Adriana scopre qualcosa che gli psichiatri dovrebbero sapere - prosegue la Homberg -: dietro questi delitti ci sono lunghe storie cliniche, sviluppate negli anni, ci sono state richieste di aiuto che l’ambiente intorno non ha avuto la sensibilità di capire, segnali rivolti anche a specialisti, non solo ai medici di famiglia. C’è da chiedersi se l’attuale formazione di psichiatri e psicologi è sufficiente per cogliere la distruttività della malattia mentale”.
Nel libro parlano anche il direttore di Castiglione delle Stiviere, Antonino Calogero, il medico, dottor Esti, gli infermieri. Gite nel bosco. La spesa tutte insieme. “E’ un luogo veramente particolarissimo - insiste Adriana -, c’è un clima infinitamente migliore rispetto all’ospedale giudiziario o al carcere. Il grande interrogativo che mi resta, però, è quante di queste donne riescono ad uscire dal tunnel e a vivere decentemente? Questo loro non te lo dicono”.
Solo una mamma “assassina” su tre finisce nella struttura speciale sul lago di Garda. “Il nodo fondamentale, nel bene e ne male, è chi fa la perizia, gli psichiatri di cui si avvalgono i magistrati”, spiega la Pannitteri. E c’è anche il caso di Maria Patrizio, la madre che annegò il figlio nella vaschetta da bagno, in attesa di giudizio, dichiarata “sana di mente”, che ora dovrebbe lasciare Castiglione, per andare in carcere.
Secondo l’Istat, venti figli all’anno vengono uccisi dai genitori. “Non mi sentirei di dire che sono casi in aumento - dice Adriana Pannitteri -, credo che in passato se ne parlasse pochissimo. Cogne ha acceso una luce su casi confinati in brevi di cronaca”. I crimini in famiglia, invece, sono aumentati di sei volte in soli cinque anni. Il libro è organizzato attorno al racconto, fantastico, di una bambina, Maria Grazia e si chiude con una luce di speranza.

Giovanni Senatore


l’Unità 14.1.07
L’editoriale
Il governo del Papa
di Furio Colombo


La frase chiave per capire la storia che stiamo narrando è quella del deputato della Margherita Renzo Lusetti che «ha invocato più rispetto per il santo Padre e per quello che lui rappresenta». (Il Corriere della sera, 12 gennaio).
È una frase ovvia e giusta, che provoca però una inevitabile domanda: e il rispetto per la Repubblica italiana? Infatti la presa di posizione di Lusetti era una risposta alle proteste di alcuni esponenti della Rosa nel Pugno (Villetti, Angelo Piazza) che avevano detto: «I vertici istituzionali italiani devono ignorare il discorso del Papa e proseguire esclusivamente per il bene della comunità e dei cittadini».
Ma quegli esponenti della Rosa nel Pugno sono stati i soli in tutto il Parlamento a sollevare il problema di ciò che il giorno prima il Papa aveva detto, ricevendo per una visita di auguri il sindaco di Roma, il presidente della Provincia di Roma e il presidente della Regione Lazio.
«I progetti per attribuire impropri riconoscimenti giuridici a forme di unioni diverse dal matrimonio sono pericolosi e controproducenti e finiscono inevitabilmente per indebolire e destabilizzare la famiglia legittima fondata sul matrimonio».
Ci sono tre problemi in questa frase, detta a rappresentanti delle istituzioni italiane, con i verbi all’indicativo e la formulazione di una sentenza definitiva. Il primo è che il Papa non governa la Repubblica italiana e non è stato eletto dagli italiani. Non sta parlando di religione ma di codice civile. Infatti non ha detto: «Noi vi diciamo... Noi vi raccomandiamo...». Presenta come dati di fatto incontrovertibili le sue convinzioni. Quella che avrebbe dovuto essere una conversazione in cui ciascuno ha il suo punto di vista, è diventato un editto. Ma nelle repubbliche democratiche non esistono editti, esistono opinioni che gradatamente si trasformano in posizioni, e poi in proposte di legge e poi in un dibattito (o in tanti dibattiti, con tutti i liberi pareri che la democrazia ammette e richiede). E poi segue, unico sigillo, il voto.
Il secondo problema è che il Papa è certamente un personaggio molto autorevole, ma è il Capo di un altro Stato, e questo fatto diventa evidente quando si rivolge a persone che rappresentano le istituzioni italiane.
Ha tutto il diritto di dire ciò che pensa. E, se lo desidera, anche di aggiungere le ragioni che possono fare luce sulle sue affermazioni. Per esempio: perché, se si attribuisce un diritto a chi ne è privo, si destabilizza una istituzione come il matrimonio che è due volte sostenuta, dal vincolo religioso e da quello civile? Ma può il Capo di un altro Stato indicare alle istituzioni italiane, con i verbi all’indicativo presente, ciò che deve essere fatto, adesso e subito, pena un «pericolo» di cui non ci dice niente? «Pericolo» per chi, in quale ambito o sfera? Detto da un personaggio influente a istituzioni di governo, le parole «controproducente» e «pericoloso» sono gravi. Definiscono irresponsabile chi si avventurasse per una simile strada, ovviamente «controproducente» e «pericolosa». E allora le domande si moltiplicano. Può un argomento come il dibattito in corso nella società, nella vita civile, nella politica e nel Parlamento italiano essere trattato alla stregua di un pericolo oggettivo, come una malattia, una guerra, un atto di terrorismo («pericoloso, destabilizzante»)?
Il terzo problema è la completa mancanza dei tipici espedienti di cautela che caratterizzano il linguaggio diplomatico. La Chiesa di Ratzinger è contro la pena di morte. Eppure dopo l’esecuzione di Saddam Hussein le fonti ufficiali vaticane si sono limitate a dire che «ogni vita umana è preziosa». Niente di più, per non lasciarsi coinvolgere nel sospetto di un sentimento antiamericano.
I lettori sanno che non sto parlando di un intervento occasionale e sfortunatamente male espresso dal Papa, parole che danno l’impressione di mettere liberamente le mani nella macchina politica italiana. Sto riflettendo su una fitta sequenza di editti, di enunciazioni, di intimazioni, tutte con il verbo all’indicativo, tutte privi della forma esortativa e di invocazione che è tipica della predicazione religiosa, tutte fermamente basate sull’intento di dettare legge, senza mostrare alcun margine di tolleranza per posizioni diverse.
Ciò non accade nei confronti di altri Paesi, pur altrettanto cattolici e con opinioni pubbliche altrettanto inclini a considerare alta e autorevole la voce del Papa. Ciò non accadeva con Giovanni Paolo II, le cui affermazioni, anche nette, anche aspre, erano sempre dirette al mondo, alla coscienza di tutti i credenti, non a una particolare Repubblica, non per esercitare pressione diretta sempre sullo stesso governo, quello italiano.
A me sembra giusto e anzi urgente ripetere la frase del deputato Lusetti con una correzione: non sarebbe giusto avere rispetto per l’autonomia democratica della Repubblica italiana, lo stesso rispetto riservato alle istituzioni di altri Stati, tra cui alcuni afflitti da mali e problemi ben più drammatici?
* * *
Noi (intendo dire coloro che mentre leggono si associano a quanto sto scrivendo) sappiamo benissimo quanto siano profonde le venature di autentica religiosità, di sentimento cattolico in questo Paese. Ma questa è una ragione in più per evitare di dettare legge direttamente alle istituzioni. Ovvio che non si tratta di chiedere silenzio.
Ovvio, anche, che la forma, la scelta delle parole da parte di un grande personaggio che è Capo di una Chiesa, ma è anche Capo di uno Stato, hanno un’importanza molto grande quando si interviene sulle questioni civili di un altro Stato.
Rivolgersi continuamente, come sta avvenendo in Italia, ai vertici delle istituzioni, e in certi casi anche degli schieramenti e dei partiti, dà la sgradevole sensazione di non tenere in alcun conto la struttura democratica di un Paese in cui ciascuno decide in coscienza con il voto. Ricorda la brutta prova del referendum sulla procreazione assistita, in cui il rischio che la volontà popolare risultasse diversa dalle istruzioni emanate dalla Chiesa ha portato all’espediente di ordinare ai credenti di non votare. In tal modo ogni verifica della effettiva volontà popolare è diventata impossibile anche perché l’ordine di non votare rendeva pubblico il comportamento delle persone. In altre parole, tutti potevano sapere se eri andato alle urne, disobbedendo al Santo Padre o se ci eri andato, comportandoti da cittadino italiano. Senza dubbio un bel dilemma per i credenti.
Adesso si ha l’impressione che l’Italia sia stretta in una morsa tra astensione di base e interventismo sui vertici, così che, invece che attraverso un consenso democratico liberamente raggiunto, si procede per decisioni preventive e assolute su ciò che è bene e ciò che è male per i cittadini, dando disposizioni direttamente ai governanti.
La conseguenza purtroppo è chiara: con interventi ormai consueti, come quello dell’11 gennaio, Papa Ratzinger, che se ne renda conto o no, che lo voglia o no - indipendentemente dalle sue intenzioni - sta rendendo ingovernabile l’Italia. Infatti le sue parole incoraggiano spaccature profonde e inconciliabili fra cittadini all’interno di ognuno degli schieramenti politici. Sta separando in modo drammatico credenti da non credenti e dilaniando la coscienza di molti credenti.
So che queste osservazioni saranno deliberatamente fraintese e definite una «richiesta di silenzio del Papa». Oppure, come dice Lusetti, saranno scambiate per una «mancanza di rispetto».
Sul silenzio del Papa dirò che si tratta di una interpretazione assurda. La sua capacità-possibilità, ma anche il suo privilegio (data la totale disponibilità mediatica italiana) è un dato di fatto, prima ancora che un diritto-dovere che nessuno potrebbe contestare, persino se ne avesse l’intenzione.Come sapete, il Papa ha acquisito un diritto di presenza in ogni telegiornale italiano, ogni giorno, più volte al giorno, su tutte le reti.
Quanto al rispetto, ognuno ha le sue preoccupazioni. Io chiedo rispetto per la Repubblica italiana, per le sue istituzioni elette, per i cittadini credenti e non credenti che votano, per i politici credenti e non credenti che sono eletti, ciascuno esattamente con gli stessi diritti e doveri e lo stesso grado di rispettabilità. E sembra giusto tentare di ristabilire nella vita pubblica italiana un sistema del tutto reciproco di riguardo e rispetto. Non la persuasione o la predicazione del Papa appare discutibile, dunque, ma l’intimazione, basata su un punto di vista che però viene dettato come unico percorso possibile. Non è fuori posto ricordare che il diritto civile italiano è un patrimonio di tutti, credenti e non credenti.
«I progetti per attribuire impropri riconoscimenti giuridici a forme di unione diverse dal matrimonio» saranno forse discutibili. Ma io mi azzardo a pensare che sia più discutibile il gesto di autorità e di egemonia del Papa sul diritto italiano, l’impossessamento e la manomissione di norme che sono di pertinenza dello Stato italiano e dei suoi cittadini, non della Chiesa. Ho già detto che il Papa non può governare l’Italia, ma può fare in modo che diventi ingovernabile. È permesso dirgli che ciò che sta facendo, mentre getta tutto il suo peso su questo solo Paese, è «pericoloso» e «destabilizzante»?

l’Unità 14.1.07
ISTITUZIONI A Palazzo Grassi gli anni provenzali del grande artista e una selezione «Post-Pop» della Collezione François Pinault
Da Picasso alla Pop Art è sempre gioia di vivere
di Pierpaolo Pancotto


Appena si entra a Palazzo Grassi, a Venezia, tutto pare identico a qualche mese fa: 37th piece of work, l’elegante pavimento in metallo di Carl Andre, occupa il pavimento d’ingresso, Vintage Violence di Urs Fischer piove imperioso dal soffitto sullo scalone monumentale ed Hanging heart, il cuore in acciaio inossidabile cromato e colorato di Jeff Koons, fa ancora bella mostra di sé dinnanzi al portone che si apre sul Canal Grande; poi, però, si nota qualcosa di diverso.
Soprattutto nell’atmosfera, che non sembra essere più quella brillante, disincantata e per certi versi irriverente che, la scorsa primavera, aveva accompagnato la sua riapertura ma un’altra, più sobria, più composta, più consona, evidentemente, ad accogliere una rassegna come Picasso la joje de vivre 1945-1948 (a cura di Jean-Louis Andral, catalogo Palazzo Grassi-Skira, fino all’11 marzo 2007), secondo appuntamento espositivo promosso dal gruppo imprenditoriale francese che fa capo a François Pinault nella propria sede veneziana.
Una mostra senza dubbio ampia (250 tra dipinti, disegni, ceramiche, fotografie provenienti dal Musée Picasso di Antibes, dal Musée Picasso e dal Centre G. Pompidou di Parigi oltre che da collezioni pubbliche e private) per quanto tesa ad indagare su una fase circoscritta del lavoro di Picasso, quella che tra il 1945 ed il ’48 lo vide attivo lungo la Costa Azzurra, a Cannes, Golfe Jouan ed Antibes. Qui in particolare, grazie all’intervento di Romuald Dor de la Souchère, nel 1946 egli installò il proprio studio nel Castello Grimaldi al quale successivamente, come segno di gratitudine per l’ospitalità ricevuta, donò numerosi lavori, compresa un’ampia selezione di ceramiche realizzate a partire dal ’47 a Vallauris con Georges e Suzanne Ramié, titolari della locale manifattura Madoura.
Una stagione, questa, di grande felicità creativa per Picasso, nel corso della quale egli diede corso ad una serie notevolissima -anche sotto il profilo numerico - di prove pittoriche, grafiche e plastiche tra le quali La joie de vivre o Le Gobeur d’oursins o Satyre, faune et centaure au trident (tutte del 1946 ed ora a Venezia provenienti dal museo di Antibes) e significativa pure dal punto di vista individuale; a questo periodo, infatti, risale il suo legame sentimentale con Françoise Gilot, conosciuta nel 1943 e sua compagna fino al 1953, dall’unione con la quale nacquero due figli, Claude e Paloma.
Dunque, sono molte le ragioni d’interesse che si sommano attorno alla rassegna ed altrettanti risultano essere gli spunti di riflessione, critica e scientifica, che essa sollecita tanto allo studioso quanto al «semplice» visitatore che, per mezzo del ricco apparato iconografico esposto (le eleganti foto di Michel Smajeski detto Michel Sima, anch’egli ad Antibes negli anni Quaranta), può soffermarsi a gustare molti aspetti, anche quelli più intimi e meno conosciuti, della vita dell’artista. Ragioni, queste, che considerate unicamente in rapporto al progetto espositivo - limitatamente, cioè, entro i confini dell’evento artistico in sé ed indipendentemente da ogni altro possibile fattore esterno - mantengono intatto tutto il loro pregio; ma che, poste in rapporto al contesto specifico che l’accoglie, mutano in parte il loro carattere.
Rischiano esse, infatti, di veder ridotta la propria portata nel momento in cui la rassegna - assai specifica e per certi versi preziosa - viene messa in relazione con Palazzo Grassi, da sempre luogo deputato ad iniziative di forte impatto sociale e culturale e, nell’immaginario collettivo, sede di grandi eventi ai quali si lega quasi una sorta di ritualità collettiva della visita; ed inoltre, trovandosi a sostenere un confronto assai impegnativo con il recente passato del palazzo e l’immagine vivace, fantasiosa e decisamente orientata sulla contemporaneità che esso, solo qualche mese fa, ha prodotto di sé con la mostra Where are we going? segnando la propria riapertura.
Immagine che, di contro, trova esauriente riscontro nell’esposizione ordinata contemporaneamente al primo piano dello stesso edificio, La Collezione François Pinault, una selezione Post-Pop (a cura di Alison M. Gingeras, catalogo Palazzo Grassi-Skira) ove, con un gioco di parole, verrebbe da dire: joie de vivre è qui!
L’idea di mostrare un gruppo di opere appartenenti alla raccolta Pinault legate da un unico filo conduttore (con soluzioni e forme differenti evocano ciascuna a proprio modo la Pop Art, la sua storia e le sue ragioni originali), si rivela del tutto riuscita. Non solo per scelta dei lavori (di Cattelan, Chapman, Gursky, Hammons, Hirst, Lucas, McCarthy, Murakami, Pettibon, Ray, Ruscha, Schütte, Uklanski, Wool oltre a quelli citati in avvio) ma, soprattutto, per il senso di continuità che essa mantiene con l’identità che l’istituzione ha appena affermato di sé in occasione della manifestazione inaugurale: uno spazio dedicato al presente nel quale le realtà artistiche contemporanee, o almeno un parte di esse, possono levare alte le proprie voci, senza limitarsi alle regole rigide del museo né lasciarsi andare a quelle spesso un po’ precarie dell’iniziativa occasionale.

l’Unità 14.1.07
Erba insegna: i cattivi sono gli «altri»
di Luigi Manconi Andrea Boraschi


La rappresentazione pubblica del Male, da sempre, assolve a una funzione risarcitoria e soddisfa bisogni ancestrali e profondi della psiche umana. La rappresentazione pubblica del Male funziona meglio se le pulsioni più cupe e mostruose possono essere associate a un volto, a un nome; se possono trovare un’identità. Questo esercizio “esorcistico” coincide spesso con la costruzione di un “altro da noi” che non è un semplice estraneo; è, piuttosto un nemico assoluto, portatore di un tratto irriducibile di “inumanità”, dunque, appunto, di “mostruosità”.
La rappresentazione giornalistica della strage di Erba può essere letta attraverso queste chiavi interpretative: poiché è certamente un fatto di sangue di eccezionale efferatezza, per il quale appare arduo rinvenire alcuna spiegazione razionale, ancorché terribile. L’assurdità della ferocia che anima la crudeltà di quel gesto omicida è elemento essenziale nella vicenda: poiché ciò che appare assurdo è anche ciò che più si avvicina al carattere disumano che si vuole rinvenire nel Male, come a dimostrare che la malvagità è nel mondo ma non è del mondo umano. E gli ingredienti, affinché ci si specchi in un orrore muto e assoluto, in questo caso ci sono tutti. Su di essi si innesta quel meccanismo di personalizzazione della colpa che trova banale traduzione mediatica nella «caccia al colpevole». Così, in un primo tempo, sembra che il mostro sia tanto un nemico quanto un estraneo: Azouz Marzouk è altro da noi perché, in quanto autore designato di quel crimine, irredimibilmente malvagio; e la sua radicale alterità trova sintesi, banale ed efficace, nella sua condizione di straniero. La xenofobia si innerva in un meccanismo complesso (fatto di rimozione della morte e di emanzipazione dal “peccato” attraverso lo specchiarsi in una colpa ultima e inesorabile) e ne diviene ingranaggio, fattore causale e precipitante. Quell’uomo, poi, è uscito da poco dal carcere grazie all’indulto; dunque il principio della colpa era già stato rinvenuto nella sua vita e nella sua condotta, ma non era stato sanzionato efficacemente. Si è lasciato che quel principio trovasse massimo compimento in un crimine abnorme: quasi che le vittime di Erba siano state vittime sacrificali di un rito collettivo iniziato dall’imperfezione della giustizia umana.
Ora sappiamo che Azouz non era il mostro che il pubblico di questa vicenda cercava. E sembra che i colpevoli siano dei vicini di casa qualunque: tanto più terribili e spaventevoli quanto più irriconoscibili (perché troppo simili ad ogni nostro possibile dirimpettaio) nella loro inumanità.
Lo spargimento di sangue fatto, cronaca onnipervasiva dal circuito mediale, dunque, è lo spettacolo cui si assiste; e lo sgomento che esso suscita cerca immediato conforto nell’identificazione dell’autore (o degli autori) di tanto orrore. Guardare in faccia il male aiuta ad averne meno paura: la morte è altrove e i colpevoli appartengono a un mondo privo di qualsivoglia barlume di pietas, un mondo che non può essere assimilato al nostro. Il male è fuori di noi; ed è tanto assoluto e orrendo da essere incomparabile a qualsivoglia nostra colpa. È facile rinvenirlo nello straniero, di già marchiato come “criminale”; più spaventevole scoprirlo nella medietà dimessa e domestica di un uomo e una donna che sembrano uguali a tanti altri. Ma più quel terrore è forte (meno esso si presta a spiegazioni, meno può divenire strumento di comprensione del reale), tanto più esso è catartico.
Olindo Romano e Rosa Bazzi hanno confessato il loro crimine; abbiamo dunque motivo di credere che siano stati loro. Ma sono divenuti colpevoli ben prima di ogni confessione o di ogni giudizio, come già accaduto ad Azouz. Ecco, allora, il vero sacrificio che monda le coscienze del pubblico morboso di questo spettacolo ributtante: non quello del sangue versato, dinanzi al quale si resta attoniti e inermi; piuttosto quello dei colpevoli giudicati dai media, anziché dai tribunali.
Che quei coniugi siano effettivamente gli autori di quella strage - non ci si fraintenda - in questo senso conta ben poco: sono stati schiacciati dalla sanzione della morale pubblica molto prima che fosse vagliata ogni prova a loro carico, molto prima che vi fosse alcun buon motivo per avanzare un sospetto o emettere un verdetto. Il Romano e la Bazzi, in questo, sono simili al Marzouk: sono i “mostri” di cui questo spettacolo osceno ha bisogno per essere messo in scena nella sua compiutezza. Gli uni colpevoli, l’altro innocente: ma tutti vilipesi da un’informazione che non conosce garanzie e regole, che antepone alla ricerca della verità (e al rispetto della giustizia) la soddisfazione immediata degli umori più cupi del suo pubblico. Un’informazione che piega a notizia anche l’istinto di vendetta e il senso del perdono: senza pudore, senza pudore alcuno. E che non impara mai dai propri errori.

Repubblica 13.1.07
L'anno dei traumi e della fine di grandi speranze
Un anniversario fra libri e convegni
di Guido Crainz


I volumi di Concetto Vecchio e Lucia Annunziata su un momento di svolta della società italiana, quando svanì la fiducia nel cambiamento
Gli indiani metropolitani, l'autonomia, la P38 e gli agguati terroristici Ma anche la crisi del Pci e l'avvio del riflusso
Al sogno di una trasformazione sociale subentra il conflitto fra "garantiti" e "non garantiti"
La violenta contestazione contro Luciano Lama all'Università di Roma
Emergono fenomeni di corruzione e si intensificano le manovre di Gelli
Restano uccisi studenti e poliziotti A Torino le Br ammazzano Carlo Casalegno

A trent'anni di distanza il 1977 italiano si presenta ancora come incompreso trauma, irto di questioni: un anno cui avvicinarsi con dubbi e domande, non con certezze. Ali di piombo di Concetto Vecchio (Rizzoli) è solo il primo di diversi libri e convegni che si succederanno quest'anno sull'argomento mentre, per altri versi, è da tempo prepotente la tentazione di proiettare le tragedie e le lacerazioni di quello scorcio d'anni sull'intero decennio.
A questa non condivisibile damnatio memoriae - accompagnata spesso dall'elogio degli anni ottanta - il 1977 offre in realtà molti argomenti. Ha inoltre - a differenza del 1968, come Vecchio ricorda - tratti tutti italiani, e nella nostra storia vanno dunque cercate per intero le sue radici. È poi rapidissimo il passaggio da un inaspettato movimento di massa («uno strano movimento di strani studenti», come scrissero allora Luigi Manconi e Marino Sinibaldi) al dilagare dell'«autonomia operaia» e del «partito della P38»: «Il ‘77 - ha ricordato Renato Curcio - ci è piombato addosso come una slavina di giovani selvaggi».
L'altra anima del movimento, quella creativa, soccombe e scompare prima ancora che l'anno finisca. Altrettanto rapidamente era emersa, aggregando in alcuni atenei - in modo particolare a Roma e Bologna - migliaia di giovani che dividevano la loro vita fra un precario rapporto con lo studio e un altrettanto precario rapporto con il lavoro: elemento di superficie, a ben vedere, di una più generale incertezza di futuro. L'"ala creativa" esprime più di una tensione e pulsione: i momenti ludici che mette in campo, ad esempio, sembrano voler sottrarre la dimensione collettiva al dominio esclusivo e totalizzante della politica. Per altri versi, l'allegria e l´ironia dissacrante di questa area - che ha negli "indiani metropolitani" il suo emblema - appare talora venata da un senso di sconfitta, quasi di disperazione.
È incrinata in alcune sue parti da molteplici e sotterranee derive, cui il rapido e mortale diffondersi dell'eroina solo allude. Lo coglieva allora Walter Tobagi, segnalando l'enorme distanza dal 1968: in taluni, pur ristretti settori giovanili, scriveva, «speranze e illusioni si restringono a un "orizzonte tragico", si trasformano in spinta di "distruzione" e di "autodistruzione", che poi significa sparare al "nemico" o iniettarsi una dose di eroina». Tobagi scriveva queste parole all'inizio del 1978, quando già il movimento aveva chiuso il suo ciclo lasciando campo al dilagare del partito armato, da un lato, e dall'altro a un diffuso ripiegamento nel privato.
Le dinamiche del 1977 parlano da sé e il libro di Vecchio le ripropone con vivace piglio giornalistico. L'anno inizia con una inattesa e diffusa protesta studentesca contro alcuni provvedimenti relativi all'Università, mentre a Roma una incursione fascista nell'Ateneo riduce un giovane in fin di vita. Nella manifestazione di risposta gruppi dell'«autonomia operaia» assaltano una sede del Msi e rispondono poi al fuoco della polizia, vi sono feriti gravi da entrambe le parti. Inizia a comparire così il «partito della P 38», mentre fra le forze dell'ordine agiscono anche agenti armati in borghese. Li ritroveremo a maggio, quando muore la diciannovenne Giorgiana Masi: partecipava al corteo indetto dai radicali per ricordare il referendum sul divorzio del 1974 e per contestare il divieto a manifestare deciso dal ministro dell'Interno Cossiga.
A metà febbraio, sempre a Roma, vi è la violenta contestazione a Luciano Lama, il suo comizio è interrotto e il palco distrutto: una radicale frattura con il movimento sindacale che ha implicazioni di lungo periodo. Al precedente sogno - o mito - di una trasformazione complessiva guidata dalla classe operaia sembra subentrare l'opposizione fra i "non garantiti" e i "garantiti": gli operai, appunto. Sembrano delinearsi "due società", per usare le parole di allora di Alberto Asor Rosa.
L'11 marzo a Bologna il giovane Francesco Lorusso è ucciso da un colpo di fucile sparato da un carabiniere: «a che punto è la città?/ La città in un angolo singhiozza», scrive il poeta Roberto Roversi. Seguono nuove violenze che continuano il giorno dopo a Roma, ove gli autonomi fanno degenerare una manifestazione nazionale, prevista da tempo, con lanci di molotov, sparatorie, saccheggi di armerie, assalti alla sede del Popolo e a stazioni di carabinieri e polizia. A Torino il brigadiere di Ps Giuseppe Ciotta è ucciso in un agguato terroristico, poco dopo a Roma un gruppo di «autonomi» uccide l'agente Settimio Passamonti e un altro a Milano, a maggio, il sottufficiale Antonio Custrà. Torino è l'epicentro di una sanguinosa offensiva delle Br: vuole impedire il processo ai capi del gruppo e culmina con l'assassinio di Fulvio Croce, presidente dell'ordine degli avvocati. Il processo è rinviato perché la maggior parte dei giudici popolari rifiuta l'incarico. «A Torino - scrive su questo giornale Giorgio Bocca - le Brigate rosse hanno vinto e la giustizia dello Stato democratico si è arresa, vergognosamente: avvocati divisi, giudici popolari piangenti, magistrati sbiancati dalla paura». Si succedono altri agguati e ferimenti (fra cui quelli di Indro Montanelli e di altri giornalisti), sino al convegno nazionale del movimento indetto a Bologna, a settembre, per denunciare uno stato di generalizzata «repressione» e per sfidare il Pci in una sua roccaforte storica.
L'illusione di un contenimento del «partito armato diffuso» ha vita breve. L'assassinio del giovane romano Walter Rossi da parte di neofascisti scatena nuove violenze di estrema sinistra che culminano con il rogo di un locale di Torino, l'«Angelo Azzurro»: vi muore orribilmente un altro giovane, Roberto Crescenzio. Di lì a poco, sempre a Torino, le Br colpiscono a morte Carlo Casalegno, le cui riflessioni e i cui articoli nei mesi precedenti sono seguiti con sensibilità e attenzione da Concetto Vecchio. Vecchio ripropone poi le riflessioni che il figlio affida in primo luogo al suo giornale, Lotta Continua, dopo l'agguato al padre. Che cosa ha portato, si chiede in sostanza Andrea Casalegno, dalle speranze del 1968 alla feroce disumanità di oggi? Su questa angosciata domanda, riproposta alla fine di Ali di piombo, si chiude in realtà una storia e altre, differenti e divergenti, prendono avvio.
Il 1977 non si riduce però a questo succedersi sanguinoso di traumi e occorre evocare almeno altri due versanti. Vi è in primo luogo il sempre più corposo emergere di processi di corruzione e di degrado delle istituzioni (e del rapporto fra economia e politica): ad essi riconducono lo scandalo della Lockheed e l'affiorare di molti altri, l'astro in definitivo declino di Sindona e sin lo sfacelo "normale" dell'Iri, mentre si intensifica il sotterraneo operare di Licio Gelli. E vi è, in secondo luogo, il sempre più difficile proseguire dei processi di rinnovamento avviati in precedenza: con il contrastato procedere della legge sull'aborto, che sarà approvata l'anno successivo anche per l'incalzare del movimento femminista; con gli stimoli dei referendum promossi dai radicali, che nel 1978 favoriranno anche l'approvazione della legge Basaglia sugli ospedali psichiatrici; con i limiti posti al sorgere di quel sindacato di polizia che aveva innescato profondi processi di rinnovamento in un settore sin lì "separato". Assumono sapore di simbolo anche le dimissioni di Piero Ottone dal Corriere della Sera, che sanciscono la fine della miglior stagione del giornale e segnalano guasti più profondi.
Anche considerando questi e altri elementi non usciamo però ancora da una visione parziale e limitata di quella fase cruciale, di quel trauma. 1977, l'ultima foto di famiglia è il titolo di un libro di Lucia Annunziata in uscita per Einaudi, ed è impossibile sottrarsi ad alcune domande di fondo. Perché, ad esempio, si logora e si frantuma così rapidamente quella profonda volontà di cambiamento che aveva portato alla vittoria nel referendum sul divorzio e alle avanzate senza precedenti del Pci nelle elezioni del 1975 e del 1976? Già il 1979 sancirà una netta inversione di tendenza: è la prima consultazione politica dopo il 1948 che vede il Pci arretrare, e la sua flessione è significativa soprattutto fra i giovani, elemento decisivo dei successi precedenti. Certo, il sostegno ai governi di "unità nazionale" guidati da Andreotti - nei bizantini passaggi dall´astensione alla non sfiducia - non sembrava il modo migliore per dar corpo a quella esigenza di trasformazione. Era, perlomeno, il meno comprensibile: in pochi mesi, annotava alla fine del 1977 Enzo Forcella, il Pci aveva perso "il suo magico alone di forza", non suscitava più "né speranze né timori". Appariva stridente il contrasto fra la tensione "utopica" e alta, quasi drammatica, dei discorsi di Berlinguer sull´austerità e i segnali concreti che venivano dal quotidiano operare di un governo sostenuto in modo determinante dal Pci (un Pci coinvolto inoltre per la prima volta in modo esplicito in processi di "lottizzazione"). Emergeva allora - nei mesi decisivi del 1976 e del 1977 - quel deficit di cultura riformista che era sempre stato un suo limite ma che appariva meno evidente quando il partito era costretto all'opposizione. Quel limite lo rendeva incapace ora di proposte convincenti, facendolo apparire largamente subalterno alla politica del governo (e ciò contribuiva a farne uno dei bersagli principali del «movimento del ‘77»).
Questa e altre valutazioni, su cui si potrebbe discutere a lungo, non bastano però a spiegare la crisi che inizia ad attraversare il Partito comunista e una più vasta area di sinistra: una crisi che va ben oltre la sconfitta politica con cui quella fase si chiude. Stanno in realtà cedendo architravi essenziali di una cultura e di un modo di essere. Inizia ad esser messo in discussione, ad esempio, il riferimento talora sacrale alla "classe operaia" come "principale motrice della storia", per citare parole del 1977 di Enrico Berlinguer. In realtà quel ruolo è esposto ora alla critica dei "non garantiti" (o dei loro improvvisati maîtres à penser), ed è negato su altri e opposti versanti da quei sotterranei processi che verranno alla luce con la "marcia dei 40.000" del 1980. Esso è in discussione inoltre all'interno stesso della "classe", come mostreranno le ricerche di Giulio Girardi a Torino. Il terreno è ancor più cedevole sul piano internazionale, ove sta diventando simbolo di orrore quel Vietnam che era stato sin lì la bandiera di tutte le anime della sinistra. E si consideri anche la radicale messa in discussione dell'idea di sviluppo - altro elemento portante della cultura di sinistra - che la crisi energetica ha avviato (a questo occorre forse guardare anche per comprendere alcuni tratti del «movimento del '77»). Sono solo alcuni dei molti elementi di lungo periodo su cui interrogarsi.
Gli anni di piombo sono appena cominciati (nei tre anni successivi le vittime del terrorismo di sinistra sono più di ottanta, cui si aggiungono quelle delle stragi e degli attentati neofascisti) ma hanno già avvio modificazioni profondissime di natura differente e opposta. In un libro del 1980 a più mani - e dal titolo significativo, Il trionfo del privato - Ernesto Galli della Loggia sintetizzerà i tratti di una rapidissima trasformazione: «ogni fiducia nella possibilità di cambiamento spenta o agonizzante, scematissimo e languente l'interesse per le ragioni dell'ideologia», massiccio il rifiuto della politica. Era esplosa la grande stagione del riflusso, con la riscoperta di massa del divertimento e dell'effimero, della moda e del corpo. Apparve fenomeno inatteso: eppure il 1977 era stato anche l'anno de La febbre del sabato sera e dell'inizio del "travoltismo", con il mutamento che annunciava. Sfuggono parecchi aspetti della realtà, in altri termini, se lo sguardo è concentrato solo sui fenomeni di radicalizzazione estrema e restano in ombra processi più sotterranei. In quel quadro, infine, la crisi della sinistra si accentuava e assumeva nuovi contorni: il Partito comunista non avrà più "nemici a sinistra" e la sua egemonia sarà insidiata invece, su tutt'altri versanti, dal Psi di Bettino Craxi. Spie e sintomi di un cambio d'epoca che si consuma in un brevissimo volger di anni e che siamo ancora lontani dal comprendere appieno.

l'Unità 13.1.07
Ospedali e sanità. Il problema è la politica


Cara Unità,
speriamo che i recenti orrori scoperti da giornalisti e Nas in alcuni ospedali pubblici arrivino a una soluzione prima che lo Stato debba legiferare in merito. Un fattore sembra infatti accomunare le nostre leggi in materia di sanità: deviare ipocritamente i diritti dei cittadini dalla sfera pubblica a quella privata, per chi ha i soldi e/o clandestina, quando i soldi non ci sono. Qualche esempio in ordine cronologico? Legge 180 sui manicomi: tra i suoi risultati, le inumane condizioni dei malati di mente nelle cosiddette cliniche di Mogliano Veneto, Serra D’Aiello, Bisceglie. Legge 40 sulla fecondazione assistita: le coppie sterili emigrano all’estero, così come i ricercatori stessi. Finanziaria 2007, argomento “prestazioni sanitarie”: le donne dovrebbero pagare il ticket (vedi ospedale S. Camillo di Roma) sulla prescrizione della “pillola del giorno dopo” ergo ricorreranno al mercato clandestino o aspetteranno di dover abortire. Nonostante tutto resiste (ma per quanto ancora?) la legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza; altrimenti sarebbero di nuovo mammane e cliniche private.

Paolo Izzo, Roma


Repubblica Roma 14.1.07
Stazione Termini: sit-in degli atei
Slogan e proteste contro l'intitolazione a papa Wojtyla

«Roma è laica Veltroni no. La stazione Termini è di tutti». Sono alcuni degli slogan riportati sui numerosi cartelli esposti, ieri mattina, durante un sit-in indetto dall'Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) davanti ad un ingresso della stazione Termini, per manifestare dissenso al sindaco di Roma e alla società Grandi Stazioni, «responsabili del mutamento toponomastico, intitolando la stazione a papa Giovanni Paolo II». Durante il presidio, sono state raccolte firme per una interrogazione al sindaco e alla società Grandi Stazioni. Critici nei confronti della manifestazione i giovani di Fi e Fabio Sabbatani Schiuma di An.

Corriere della Sera 14.1.07

Rnp contro il sindaco, Forza Italia lo difende
Circa cento persone hanno protestato ieri con un sit-in in via Giolitti contro l'intitolazione (ma si è trattato di una «dedica», hanno precisato in Campidoglio) della Stazione Termini a Giovanni Paolo II. La manifestazione era promossa dall'Unione atei e agnostici razionalisti (Uaar) insieme, tra gli altri, al circolo Mario Mieli, a rappresentanti dell'Arcigay, della Rosa nel Pugno e di varie associazioni laiche (sul marciapiede opposto, contromanifestazione con una decina di militanti di «Militia Christi»). Cittadini italiani, non sudditi vaticani, Roma è laica, Veltroni no: questi i testi di alcuni striscioni esposti con bandiere arcobaleno. «Comprendo le ragioni di Veltroni sull'uomo Karol, ma esprimo un giudizio d'inopportunità politica e simbolica. Nel collegare questa stazione con il sovrano di uno stato estero e capo di una delle confessioni religiose presenti in Italia, Veltroni ha toppato, glielo dico in amicizia», ha detto Mario Staderini, consigliere della Rosa nel pugno del I Municipio. Ma in difesa di Veltroni sono scesi i giovani di Forza Italia del Lazio. Il coordinatore Giancarlo Miele: «Anche Papa Wojtyla va bene come pretesto, per comunisti dichiarati e mascherati, per attaccare il loro nuovo nemico politico più o meno dichiarato, il sindaco di Roma, il post-comunista, revisionista e riformista Veltroni».

Repubblica Firenze 14.1.06
Lo strappo di Bilenchi e la vendetta del Pci
Così il partito "uccise" il Nuovo Corriere
di Beatrice Manetti


In un libro documenti rari e inediti: "Trattato bestialmente"
Il direttore difese nel '56 gli operai polacchi e perse i finanziamenti

Il 28 giugno 1956 gli operai di un fabbrica di Poznan, in Polonia, organizzarono una manifestazione di protesta contro il governo comunista, sordo alle loro rivendicazioni sindacali. L´intervento dell´esercito e della polizia si lasciò dietro un centinaio di morti. Pochi mesi dopo, a quella macabra lista si aggiunse un´altra vittima: era il «Nuovo Corriere», il più autorevole e prestigioso quotidiano fiorentino di sinistra, diretto dal 1948 dallo scrittore Romano Bilenchi. Il filo che unisce i fatti di Poznan alla chiusura del giornale è «una ferita. Una ferita che non si è mai rimarginata. Una ferita però che rischia di essere cicatrizzata dal silenzio della memoria», scrive Benedetta Centovalli nella sua introduzione alla plaquette I fatti di Poznan (Alet Edizioni), dove ricostruisce, a cinquant´anni di distanza, il caso politico che indusse il Pci a sospendere i finanziamenti al quotidiano fiorentino e quindi, di fatto, a sopprimerlo, portando a testimonianza documenti rari e inediti: l´editoriale pubblicato da Bilenchi il 1° luglio 1956, subito dopo la rivolta operaia polacca, intitolato I morti di Poznan, uno scambio di lettere tra lo scrittore fiorentino e l´amico Elio Vittorini, e due lettere di Bilenchi a Silvio Guarnieri del 1972.
Quella ferita è una questione privata, uno strappo irrimediabile tra un intellettuale comunista e il suo partito, ma anche una lacerazione pubblica, perché segna la fine di un´esperienza unica, dopo la quale «Firenze perse la possibilità di rimanere un polo pulsante del mondo politico e culturale italiano». Basta scorrere gli indici dei collaboratori del «Nuovo Corriere» per capire l´eccezionalità di quel laboratorio: per la cultura Anna Banti, Piero Bigongiari, Carlo Cassola, Franco Fortini, Roberto Longhi, per la politica e la società Alfonso Gatto, Danilo Dolci, Margherita Hack, Piero Calamandrei, Ferruccio Parri, Gaetano Salvemini, Norberto Bobbio. «Non solo - aggiunge Centovalli - ma il giornale si era schierato a favore del manifesto contro la bomba atomica, aveva sposato la causa di Aldo Capitini e della non violenza, aveva sostenuto fin all´inizio la necessità di un dialogo con il mondo cattolico».
Nel gergo del Pci, il «Nuovo Corriere» era definito un «quotidiano fiancheggiatore»: un quotidiano apertamente schierato a sinistra, ma indipendente nelle proprie prese di posizione, anche se non sul piano economico: «Di fatto si sosteneva quasi esclusivamente con i finanziamenti del partito, col quale i rapporti erano sempre stati positivi». Fino a quel giorno di luglio del 1956, quando Bilenchi prese senza mezzi termini le parti dei «morti di Poznan»: «I morti di Poznan sono morti nostri - scrisse nell´editoriale - Intendete che cosa vogliamo dire? Vogliamo dire che anch´essi sono caduti sulla via che porta ad una società più giusta e più libera (…) All´Est nasce la rivolta, rivolta nazionale e sociale, e da questa rivolta c´è bene da sperare per tutta l´umanità». La rivoluzione ungherese e i carri armati russi a Budapest sarebbero venuti solo quattro mesi dopo. Con la sua intelligenza politica e la sua passione per la verità, Bilenchi anticipa la crisi, «dimostrando come, paradossalmente - prosegue Centovalli - la destalinizzazione avesse reso più arduo il dialogo tra gli intellettuali e il partito».
Che infatti non resta a guardare. E sfrutta le difficoltà finanziarie del giornale, che pure era molto diffuso in tutta la Toscana e aveva raggiunto in quegli anni una tiratura di oltre cinquantamila copie, per sacrificare una voce dissonante, «con un direttore scomodo per autorevolezza e autonomia. Subito dopo i fatti di Poznan, tra l´altro, Bilenchi si era mosso per trovare altri finanziamenti e si era accordato con Enrico Mattei per un investimento pubblicitario di 30 milioni al mese. Quanto bastava per colmare il disavanzo. Ma pochi giorni dopo, "L´Unità" accusò Mattei di non voler sostenere economicamente i giornali di sinistra, costringendo così il presidente dell´Eni a tirarsi indietro per non dare l´impressione di cedere a un ricatto». Così il «Nuovo Corriere» fu costretto a chiudere, ufficialmente per motivi economici. Nell´articolo di congedo uscito sull´ultimo numero, il 7 agosto del ‘56, Bilenchi ringraziò tutti, lettori e collaboratori, tranne il partito. L´anno successivo si congedò anche dal Pci: «non per la soppressione del "Nuovo Corriere" - scriverà molti anni dopo a Silvio Guarnieri, in una lettera del 10 gennaio 1972 - non a causa dei fatti d´Ungheria come molti hanno detto», ma «perché ero stato trattato bestialmente».
L´anno che seguì la chiusura del giornale fu infatti per Bilenchi un periodo di radicale isolamento. Rifiutò diverse proposte di lavoro, un po´ perché non voleva spostarsi da Firenze, un po´ per non nuocere ad altri colleghi, ma soprattutto perché si sarebbe aspettato qualche proposta da parte del Pci, che invece non arrivò. A Elio Vittorini, che gli chiedeva chiarimenti sulla fine del «Nuovo Corriere» e sulla notizia di un suo prossimo approdo a Milano come direttore dell´«Unità», consigliò di «non dare retta alle chiacchiere. Le mettono in giro apposta. Figurati se vado all´"Unità" di Milano. I miei rapporti con loro sono tesi e se passerai da Firenze ti mostrerò i documenti. Il giornale non è morto con la mia complicità». Tesi, i rapporti col Pci, sarebbero rimasti a lungo, se ancora nel 1959, sollecitato sempre da Vittorini a firmare un appello al Partito socialista, Bilenchi risponde con un lettera infuocata, di cui pubblichiamo uno stralcio in questa stessa pagina (vedi box a fianco), dove definisce il Pci «un partito reazionario, i cui dirigenti sono dei carabinieri» e ribadisce la sua scarsa fiducia nei confronti del Psi.
Ma c´era in lui, nonostante tutto, una fedeltà ostinata ai valori della Resistenza e alle energie positive di cui si era sentito investito negli anni dell´immediato dopoguerra. E fu proprio quella fedeltà a spingerlo ad iscriversi di nuovo al partito comunista, all´inizio degli anni Settanta, subito dopo aver lasciato «La Nazione», dove «si era nascosto dopo la fine del "Nuovo Corriere" - dice ancora Centovalli - e dove restò fino al 1971 come responsabile della terza pagina, senza mai correggere un rigo di politica».

il manifesto 14.1.07
Succede troppo spesso che la cura psicoanalitica aggravi la problematica sessuale del paziente ... o lo conduca sull'orlo del suicidio Pascal de Setter
Quando crolla anche il senso del ridicolo
La matrice del libro è squisitamente politica. Mentre sposa la campagna di discredito delle teorie freudiane, pretende di portare acqua alle terapie cognitivo comportamentali La casa editrice Fazi, che non è seconda a nessuno nella acquisizione di scandali, aggiunge al proprio catalogo la traduzione del «Libro nero della psicoanalisi», seicentocinquanta pagine di invettive
di Massimo Recalcati


Freud? Un «bugiardo patologico», uno «pseudo-scienziato», un «falsificatore dei propri resoconti clinici», un «plagiario», un «manipolatore», un uomo senza scrupoli che per arricchire le proprie ambizioni e le proprie finanze personali è in grado di passare senza alcuna remora sulla pelle dei suoi pazienti. Le sue teorie? Inesistenti, frutto di saccheggi intellettuali praticati verso Breuer, Fliess (!) e altri che prima di lui avrebbero già detto l'essenziale intorno all'inconscio, alla sessualità infantile «perversa polimorfa», alla teoria della libido, insomma a tutto quanto Freud avrebbe in seguito vantato come frutto di proprie intuizioni originali. Gli psicoanalisti? Imbroglioni, approfittatori delle disgrazie altrui, millantatori capaci solo di intercalare dei grugniti, o dei più serafici «mmmh» «mmmh» alle parole di pazienti ingenui e con un fondo irrimediabilmente masochistico.
Squisitezze argomentative
Il movimento culturale della psicoanalisi? Uno «tra i più corrotti della storia», una «religione» che «pretende di spiegare tutto». E gli altri grandi protagonisti della storia della psicoanalisi dopo Freud? Ernst Jones: una figura tristemente servile che fabbrica menzogne per proteggere le condotte infamanti del suo capo. Bruno Bettelheim: uno screanzato, millantatore di curricula fantasiosi, anche lui, come Freud, sistematico falsificatore dei risultati clinici. Françoise Dolto: fuori dal mondo, ingabbiata in un'immagine idealizzata del bambino, fustigatrice incallita delle povere madri che colpevolizza spietatamente provando così a risarcirsi di un'infanzia traumatica di bambina rifiutata dalla propria madre. E Lacan? Nessuno come lui ha espresso l'essenza maligna della psicoanalisi: prestigiatore di mercato, imbroglione, seduttore cinico. I suoi «strampalati ragionamenti» sono «per qualsiasi persona dotata di ragione, da rifiutare completamente». Insomma una vera e propria canaglia. E i cosiddetti benefici terapeutici della psicoanalisi? Illusioni, effetto di pura suggestione nella migliore delle ipotesi. Quando invece, come avviene nella maggior parte dei casi, il ricorso alla ricerca delle cause profonde non nasconde un chiaro intento truffaldino.
E questi soni i pronostici
Catherine Meyer, che ha assicurato la direzione scientifica del Libro nero, tanto voluminoso e ricco di contributi (650 pagine, 42 autori) quanto terribilmente monocorde nel suo astio pavloviano, non ha dubbi sul futuro della psicoanalisi: come terapia e come teoria della cultura è già morta ovunque nel mondo. Essa sopravvive solo in Francia e in Argentina. Tuttavia il Libro nero contribuirà a darle la spallata finale. «Sino al febbraio del 2004 gli psicoanalisti erano felici. Ora però le cose sono cambiate - scrive non senza una certa soddisfazione Jacques Van Rillaer, uno dei maggiori autori del Libro Nero. A cosa si riferisce? Questa affermazione, apparentemente enigmatica, rivela in realtà la matrice squisitamente politica e francese di questo libro. Il febbraio 2004 coincide con la conclusione e la trasmissione pubblica dei lavori dell'Inserm, una commissione composta da otto membri, sostenitori della superiorità del modello cognitivo-comporamentale su quello psicoanalitico, il cui obiettivo consisteva nel sottoporre a valutazione scientifica le pratiche della cura psicologica. Ebbene i suoi risultati decretano che le cure psicoanalitiche avrebbero una efficacia di gran lunga inferiore rispetto alle terapie cognitivo-comportamentali e ad altre forme psicoterapeutiche come quelle sistemiche. Contro questo rapporto Jacques-Alain Miller, psicoanalista erede dell'insegnamento di Lacan, ha guidato nei mesi immediatamente successivi una battaglia politico-culturale di grande ampiezza, che ha provocato il ritiro di questo rapporto e dei progetti di legge relativi alla regolamentazione della professione psicoterapeutica sul suolo francese ad esso ispirati. Nondimeno l'onda lunga del rapporto Inserm trova la sua manifestazione mediatico-editoriale proprio in questo Libro nero, il quale non solo contempla tra i suoi autori, un membro autorevole di quella commissione, Jean Cottraux, ma soprattutto ne riprende l'invettiva critica contro la psicoanalisi adunando attorno a questo obiettivo diversi suoi noti detrattori.
Tre accuse esemplari
Proviamo a mettere una lente di ingrandimento, a titolo esemplificativo, su almeno tre accuse che il Libro nero muove alla psicoanalisi. Sono certamente poche rispetto a quelle innumerevoli che vengono avanzate, ma abbastanza per avere un'idea di come questo libro è costruito.
Il primo esempio s'impone come il più eclatante e il più offensivo. Il titolo dell'articolo in questione è già di per sé un programma: Come le teorie psicoanalitiche hanno ostacolato il trattamento efficace della tossicodipendenza e contribuito alla morte di migliaia di persone. La tesi del suo autore, Jean-Jeacques Déglon non si limita ad esporre la sua opinione, comunque discutibile, circa gli «straordinari vantaggi» che l'uso del metadone avrebbe comportato nel trattamento delle tossicodipendenze, ma accusa gli psicoanalisti di aver ritardato l'uso di sostanze sostitutive con una opposizione ideologica che sarebbe stata causa di una vera e propria «catastrofe umana».
Il carattere inverosimile di questa tesi si commenta da sé. Essa propone una immagine caricaturale della psicoanalisi applicata alla clinica delle tossicodipendenze: l'analista silenzioso, ingessato nella sua neutralità, applicatore automatico della regola delle associazioni libere e dell'ascolto liberamente fluttuante e che di fronte all'angoscia del tossicomane in crisi di astinenza si limiterebbe a chiedere di parlare del padre o della madre... Esiste oramai una letteratura psicoanalitica ampia (in Italia come in Francia), che Déglon dovrebbe conoscere, la quale ritiene totalmente sconsiderato adottare il setting classico nel trattamento delle tossicodipendenze e che non si schiera affatto ideologicamente contro l'uso del metadone o di altre terapie farmacologiche sostitutive. La stessa cosa vale ovviamente per la clinica delle psicosi o per la clinica dei disturbi gravi dell'alimentazione (anoressie, bulimie, obesità).
Questioni di virilità
Un secondo esempio è quello dell'articolo di Mikkel Borch-Jacobsen. Nel Libro nero egli sostiene la tesi che non esiste una teoria psicoanalitica, o, più precisamente, che la teoria psicoanalitica è una teoria «zero». Ma cosa significa «teoria zero»? Per Borch-Jacobsen è evidente: «una nebulosa senza consistenza». La cosa buffa è che una teoria di questo genere ha come sua caratteristica, sempre secondo l'autore, di essere «in perenne movimento e capace di compiere svolte inattese». Ma questa definizione non si adatta bene a descrivere la ricerca scientifica come tale? E non è forse Freud un esempio significativo di una ricerca scientifica che di fronte agli scacchi dell'esperienza ha dovuto riassettare di continuo i suoi fondamenti teorici?
Un terzo ed ultimo esempio è quello dell'articolo, davvero esilarante, titolato La sessualità senza psicoanalisi di Pascal de Setter, sessuologo clinico a Waterloo. Cosa si sostiene con grande vigore polemico? Che la sessualità può fare a meno dell'inconscio e che quando c'è un problema sessuale (per esempio: erettile nell'uomo o anorgasmatico nella donna), è inutile chiedersi che cosa significhi per il soggetto che ne soffre e per il suo partner, ma occorre concentrarsi sul problema in sé. Dunque all'eiaculatore precoce il terapeuta sessuologo insegnerà i giusti comportamenti per rendere più adeguata la sua prestazione: esercizi di respirazione profonda e tecniche di controllo dei pensieri e dei muscoli. In verità il contributo del sessuologo di Waterloo ha perso l'occasione per essere esilarante quando nel corso delle sue argomentazioni vira improvvisamente verso una offensiva brusca nei confronti dell'utilità terapeutica della psicoanalisi. Si cita il caso clinico di un uomo maturo, con famiglia e professionalmente realizzato a cui piace, oltre a sbevazzare un po', indossare delle mutandine da donna. Egli decide di rivolgersi a uno psicoanalista. Ma dopo cinque anni di cura le cose peggiorano: il travestitismo si accentua e lo destabilizza rovinandogli la vita sociale e professionale, inoltre l'alcolismo sfugge al suo controllo, sino a rendere indispensabile il ricovero. Il bilancio di questa cura è disastroso, sentenzia il nostro. E prosegue affermando che non sarebbe stata necessaria la psicoanalisi, ma rafforzare con decisione la sua virilità e sospingerlo a non mettere più le mutandine da donna per risolvere il caso senza ulteriori problemi. Dulcis in fundo: «succede troppo spesso che la cura psicoanalitica aggravi la problematica sessuale del paziente, lo disturbi gravemente a livello psicologico, lo trascini verso la depressione o lo conduca sull'orlo del suicidio...»
L'apparente gossip psicoanalitico di cui si nutre in abbondanza il Libro nero cela in realtà un disegno più ardito: mostrare l'inefficacia terapeutica della psicoanalisi per far guadagnare alle terapie cognitivo comportamentali una grande fetta del mercato della cosiddetta salute mentale. Il discredito sistematico che quest'opera getta sulla pratica della psicoanalisi non mira ad altro. Aveva ragione Max Horkheimer quando sottolineava, nella sua Teoria critica, come la ricerca scientifica, sotto il regime del capitalismo, soprattutto quando si ammanta di un'immagine di assoluta purezza e di autonomia, in realtà si rivela al servizio delle esigenze della produzione industriale, del mercato e delle sue lobby.
Cosa diventa allora un sintomo nelle terapie cognitivo comportamentali? Un disfunzionamento che si tratta di normalizzare attraverso precise tecniche di riabilitazione. Queste tecniche puntano a ripristinare una nozione positiva di salute che esclude la deviazione del sintomo. L'uomo curato è l'uomo adattato.
Il Libro nero ci offre diversi esempi. Il più chiaro è forse quello proposto dall'articolo di Aaron Beck titolato La terapia cognitiva della depressione: riflessioni personali. L'autore sostiene che la depressione non è altro che un insieme di «errori di pensiero» in cui si manifesta la tendenza dei depressi a predire risultati negativi rispetto ai compiti specifici che avrebbero voluto intraprendere. Cosa fare allora? Niente altro se non mostrare al paziente che questi suoi pensieri sono erronei e la realtà non è così negativa come lui la crede, e perciò va sgombrata dagli sbagli interpretativi che costituiscono il cuore della depressione.
Prendiamo un altro esempio clinico. Quello davvero luminoso delle zoofobie, tra cui la paura dei ragni. Jacques Van Rillaer, ex psicoanalista freudiano e lacaniano pentito, oggi cantore in Belgio delle virtù delle terapie cognitivo comportamentali che dichiara di praticare «con grande soddisfazione», ci racconta con entusiasmo il suo metodo di trattamento della paura dei ragni. Il presupposto di partenza è che anche la fobia, come la depressione, sia un errore di giudizio. Si tratta dunque di avvicinare gradualmente il paziente alla fonte del suo terrore fobico. Lentamente, senza forzature.
Nel frattempo al paziente vengono spiegate le differenze tra vari generi di ragni, alcuni pericolosi altri meno. In seguito lo si invita a prendere contatto con alcuni di essi sotto la guida attenta del terapeuta, per verificare la «desensibilizzazione» riuscita della minaccia temuta. Nel trattamento delle paure dei ragni questo sistema è efficace solitamente in una o in poche sedute. Ma esso può essere esteso con gran giovamento a tutte le malattie psichiche dell'uomo.
Logiche manageriali
L'igienismo e lo scientismo contemporanei contornano le terapie cognitivo comportamentali. Una strana mescolanza di positivismo, di pedagogia manageriale, di culto new-age della salute e dell'equilibrio, insieme al razionalismo ipertecnologico sembra affiorare in quella che sarebbe la pars costruens di questo libro. Se in taluni casi le terapie cognitivo comportamentali portano a innegabili successi, e se è vero che i sintomi scompaiono, cosa accade - però - alla persona in questione se proprio quel sintomo era ciò che le consentiva di avere un'identità?
Uno psicoanalista con esperienza della clinica dei casi gravi sa bene che preservare il sintomo - magari rendendolo un po' più tollerabile - è a volte la condizione necessaria per evitare lo scatenamento di una psicosi latente: una consapevolezza totalmente assente dalla logica manageriale alla quale le terapie cognitivo comportamentali riducono la clinica.
L'ottimismo che le orienta è pari solo alla sua ingenuità: se si spiega a una paziente bulimica il senso della sazietà e la si aiuta a riconoscerlo, le crisi bulimiche non avranno più ragion d'essere, allo stesso modo se si spiega a un paziente depresso che il suo umore è solo il frutto di un suo errore di giudizio che assume i toni erronei di una eccessiva negatività, la depressione è risolta. La logica mercantile del problem solving s'impone.
La singolarità mortificata
In realtà queste diverse logiche terapeutiche hanno sullo sfondo una decisa contrapposizione etica, o, se si preferisce, due distinte visioni dell'uomo. Da una parte - dalla parte della psicoanalisi - l'uomo come essere leso da una mancanza inguaribile, gettato nel desiderio, inquieto ma anche singolare, creativo, impossibile da determinare una volta per tutte, disidentico a se stesso, impossibile da governare, educare e guarire. Dall'altra - dalla parte delle terapie cognitivo comportamentali - un uomo come essere che aspira a un controllo di sé positivo, a una efficacia operativa, a un ristabilimento delle sue facoltà razionali: un uomo ben adeguato al principio di realtà, ben assimilato all'ordine politico in cui vive, ben adattato, ben identificato con i suoi ruoli sociali.
Se l'uomo di cui la psicoanalisi parla è una singolarità che sfugge per principio ai protocolli, alle comparazioni statistiche, all'assimilazione conformista alla norma, l'uomo delle terapie cognitivo comportamentali è l'uomo guarito, l'uomo che si è identificato con il buon ordine, l'uomo senza inconscio, l'uomo che ha saputo ritrovare la sua efficienza, salvo però considerare che questa efficienza ritrovata è nella maggior parte dei casi una efficienza senza desiderio, una efficienza anonima, uniformata al sistema. Mentre, infatti, la psicoanalisi difende il criterio etico dell'«uno per uno» contro la generalizzazione autoritaria dello scientismo e della ragione strumentale, l'uomo delle terapie comportamentali è l'uomo dei sintomi e delle funzioni uguali per tutti, è l'uomo depersonalizzato, liberato finalmente dall'angoscia e dal sintomo, dunque liberato dal peso gravoso della sua singolarità.

venerdì 12 gennaio 2007

l’Unità 12.1.07
Orrore e pregiudizio
Se gli stranieri siamo noi
di Ferdinando Camon


Immagino l’onda di furore che squasserebbe la nazione se a fare una strage del genere, lasciando sul pavimento tre adulti più un bambino più un altro dato per morto, tutti quanti destinati a sparire nelle fiamme dell’incendio, fosse stato un extracomunitario qualunque, un marocchino, un nigeriano. Una strage di italiani eseguita da un africano, una carneficina di cristiani compiuta da un islamico. Sento l’urlo dei lettori, degli ascoltatori, la collera uscire dalle case: solo un islamico può fare cose come questa, un cristiano è impossibile; qui non c’è solo voglia di rubare, di tappare la bocca ai testimoni, fretta di darsi alla fuga, nascondersi, godersi il mal tolto.
Qui non c'è soltanto rapina e dunque rapinatore; qui non c'è un uomo, e sia pure malato, disturbato, uno che vive fuori della legge: qui c'è un demonio, un non-umano, uno che vive fuori dell'umanità. L'umanità è assediata da lupi che le girano intorno, un lupo ha fatto un balzo ed è saltato dentro, ha scannato quelli che ha trovato, tre, quattro, cinque. Se le cose fossero andate così, come all'inizio molti di quelli che scrivono sulla stampa pensavano, adesso i lettori sarebbero sotto choc ad eseguire su se stessi un'operazione psicologicamente complessa: l'esportazione della colpa da noi agli altri, dagli italiani agli extra, dai cristiani ai non cristiani. Una strage del genere non sta nel nostro Dna, noi siamo europei, noi siamo battezzati.
E poi, c'è un bambino in mezzo, e il bambino è l'alibi della madre, e dunque della donna, di ogni donna. Se nel branco degli assalitori c'era una donna, questa si sarebbe buttata a corpo morto per difendere il bambino, non importa figlio di chi: la donna-cristiana, la donna-cattolica, è fatta così, due decine di secoli l'hanno plasmata, giorno per giorno. Non sappiamo come siano costruiti dall'Islam gli uomini islamici. Però sanno sgozzare molto bene. Son fatti apposta. Così sarebbero andate le cose, se un islamico avesse fatto una strage del genere. In questo modo, con queste categorie mentali, eravamo pronti a intenderla.
Le spiegazioni arrivano in un modo che neanche un mese fa immaginavamo. I cronisti inviati sul posto mettono in onda, su Internet, le cronache che leggeremo il giorno dopo sui loro giornali. È come se riferissero a noi, in casa nostra. Come se noi fossimo i direttori del loro giornale. Ed ecco un cronista raccontarci, come se facesse da voce fuori campo in un filmato, che i due assassini sono arrivati insieme, preparavano l'agguato da giorni, quella sera avevano due coltelli e una spranga, spalancata la porta si sono tuffati sulle prede. Il nostro DNA resiste: ma non la donna. Il cronista prosegue: la donna s'è tuffata per prima, dritta sul bambino, il bambino era seduto sul divano e guardava la televisione, lei gli è piombata addosso da dietro, con una mano lo teneva e con l'altra gli tagliava il collo. Dovrebbe avere il goethiano eterno femminino che ci salva tutti, dovrebb'essere battezzata, dovrebbe avere l'istinto materno che le donne sentono risvegliarsi fin dall'età di due anni, quando, se scoppia un incendio, salvano le bambole, come Enea i penati di Troia. Invece è come la «mater tenebrarum» di Dario Argento: se come lei entra scoppia l'Inferno, è perché lei lo contiene dentro di sé e lo scatena sul mondo. C'è uno che guarda tutto, il sopravvissuto che adesso ci racconta: lui vede l'assassino che gli salta addosso e lo rovescia a faccia in giù, gli si siede a cavalcioni sulla schiena, con una mano lo afferra per i capelli e con l'altra gli taglia la gola, un movimento circolare come si fa con le angurie. Immobilizzato, lui vede a pochi centimetri dagli occhi il coltello che gira, e sente un arresto del pensiero: anche adesso non sa spiegarlo, non trova le parole.
Perché le parole non esistono. Esisterebbero se a compiere lo sgozzamento fosse un islamico: ne fan tanti, uno più o uno meno. Li abbiamo visti, li sappiamo vedere. Li abbiamo raccontati, li sappiamo raccontare. Ma questi salti nell'appartamento, come se a saltare fosse una bestia e l'appartamento una giungla, questa caccia ai viventi, via uno sotto l'altro, lui non era, noi non eravamo, noi non siamo preparati a vederli compiuti da uno di noi, da noi. Pensavamo che il cuore delle tenebre fosse lontano. Siamo tutti àntropoi, ma noi pensavamo di essere antropologicamente diversi. Nel vichiano passaggio dai bestioni agli uomini noi siamo ormai uomini, e ci tocca il compito di aiutare i bestioni a diventare come noi. Questa strage dice molto sulla coppia di assassini, ma dice qualcosa di noi tutti.
fercamon@alice.it

Repubblica 12.1.07
Quando l’odio è senza controllo
di Umberto Galimberti


Perché ci spaventa la strage di Erba, dove una coppia di vicini uccide una madre, il suo bambino, la nonna e la signora della porta accanto? Lo spettacolo è truce, ma forse quel che più ci angoscia non è tanto la sua truculenza, quanto sapere se noi siamo del tutto immuni dai moti d´animo che hanno provocato questa tragedia.
Del tutto immuni no. E il nostro linguaggio lo rivela quando si abbandona a espressioni che, senza freni, tradiscono i nostri vissuti carichi di odio. Ma dal linguaggio solitamente non passiamo all´azione. A fermarci non è tanto l´uso della ragione, già messa fuori gioco dall´odio, ma quella "dimensione sentimentale" che registra la differenza tra il bene e il male, tra la gravità di un´azione e la sua irrilevanza.
Questa dimensione antecede persino i sentimenti d´amore e odio con cui conduciamo la nostra vita emotiva. Ed è grazie a essa che impediamo al nostro amore di soffocare e al nostro odio di uccidere. Ma quando questa dimensione non c´è? Quando nessuna risonanza emotiva avverte il nostro cuore della differenza tra un gesto innocuo e un gesto truce?
Allora siamo alla "psicopatia". Un termine coniato dalla psichiatria dell´800 per designare una psiche apatica, incapace di registrare, a livello emotivo, la differenza tra ciò che è consentito e ciò che è aberrante, tra un´azione senza conseguenze e un´azione irreparabile. Una psiche priva di quella risonanza emotiva che ciascuno di noi registra quando compie un´azione, dice o ascolta una parola.
E sì, perché la psiche non è una dote naturale che uno possiede per il solo fatto d´esser nato e cresciuto. La psiche è qualcosa che si forma attraverso quel veicolo, così spesso trascurato, che è il sentimento. Ora capita spesso che ai bambini insegniamo a mangiare, a dormire, a parlare. Ammiriamo i loro sprazzi di intelligenza, le loro intuizioni, ma poco ci curiamo della qualità del sentimento che in loro si forma e talvolta, a nostra insaputa, non si forma.
Il sentimento è l´organo che ci consente di distinguere cos´è bene e cos´è male, per cui Kant arriva a dire che è inutile definire cos´è buono e cos´è cattivo, perché ognuno lo "sente" naturalmente da sé. Questo criterio, che valeva al tempo di Kant, oggi vale molto meno. E la ragione va cercata nel fatto che i bambini di oggi sono sottoposti a troppi stimoli che la loro psiche infantile non è in grado di elaborare. Stimoli scolastici, stimoli televisivi, processi accelerati di adultismo, mille attività in cui sono impegnati, eserciti di baby-sitter a cui sono affidati, in un deserto di comunicazione dove passano solo ordini, insofferenza, poco ascolto, scarsissima attenzione a quel che nella loro interiorità vanno elaborando.
Quando gli stimoli sono eccessivi rispetto alla capacità di elaborarli al bambino restano solo due possibilità: o "andare in angoscia", o "appiattire la propria psiche" in modo che gli stimoli non abbiano più alcuna risonanza. In questo secondo caso siamo alla psicopatia, all´apatia della psiche che più non elabora e più non evolve, perché più non "sente".
L´appiattimento del sentimento di solito non è avvertito, perché l´intelligenza non subisce per questo alcun ritardo. Anzi, si sviluppa con una lucidità impressionante, perché non è turbata da interferenze emotive, come tutti noi possiamo constatare, quando di fronte a una prova, come un esame, le nostre prestazioni sono sempre inferiori alla nostra preparazione, per interferenza dell´emozione.
Nessuna meraviglia quindi di fronte alla freddezza e alla lucidità con cui la coppia di Erba conduce, per un mese, la sua vita normale come se nulla fosse accaduto, senza lasciar trapelare emozioni. Nessun stupore di fronte all´indifferenza al momento dell´arresto e di fronte all´ostinazione con cui, per un paio di giorni, i due sostengono il loro alibi, crollando solo dopo 10 ore d´interrogatorio, quando ormai anche le forze fisiche cedono.
La complicità nell´esecuzione della strage accomuna marito e moglie in una "follia a due", come la psichiatria francese definisce casi di questo genere. Accomunati dall´odio per i vicini di casa, dopo la strage i due si accomunano nell´amore reciproco, con un legame che il sangue versato rende saldissimo, nella vicendevole difesa di un vincolo di solidarietà che nulla riesce a scalfire, perché la loro psiche è piatta, non registra né pentimenti né ripensamenti. Solo alla fine, per sfinimento, una fredda confessione, senza manifestare il minimo senso di colpa, come se il loro cuore non fosse mai stato sfiorato da quel "sentimento di base" che sa distinguere immediatamente, e prima dell´intervento della ragione, cos´è bene e cos´è male.
Quando i giudici, appurate le prove, condannano tali imputati, sono soliti appurare la loro facoltà di "intendere" e "volere" che ovviamente funziona benissimo. Bisognerebbe però anche valutare la loro capacità di "sentire". E qui si scoprirebbe la radice di certe condotte che risultano aberranti a noi tutti che viviamo sostenuti dal nostro sentimento, ma che non acquistano alcuna rilevanza per chi il sentimento non l´ha mai conosciuto, perché a suo tempo non è stato raccolto, ascoltato, coltivato.
Gli psicopatici sono un caso limite dell´umano, ma la psicopatia come tonalità dell´anima a bassa emotività e a scarso sentimento è qualcosa che si va diffondendo tra i giovani d´oggi che, nella loro crescita, acquisiscono valori d´intelligenza, prestazione, efficienza, arrivismo, quando non addirittura cinismo, nel silenzio del cuore. E quando il cuore tace e più non registra le cadenze del sentimento, il terribile è già accaduto anche se non approda a una strage.
Illustrare questi casi è opportuno, non per sollecitare la nostra curiosità morbosa, ma per capire dove può arrivare la nostra condotta quando non è accompagnata dal sentimento, e quindi richiamare l´attenzione sui processi di crescita dei nostri figli, onde evitare che l´intelligenza si sviluppi disancorata dal sentimento e diventi intelligenza lucida, fredda, cinica, e potenzialmente distruttiva.

La Stampa 12.1.07
Gli assalti alle armerie
Intervista a Luigi Manconidi Iacopo Iacoboni


“Ma dietro la violenza c’erano bisogni veri”

«Volevamo cogliere il briciolo di ragione profonda presente in quei gesti»

“È vero che nel ‘77 l’ex organizzazione di Lotta Continua - pure sciolta da diversi mesi - «non fece l’unica cosa che andava fatta: una campagna totale e senza compromessi contro la violenza dell’Autonomia»? Oltre ovviamente ad Adriano Sofri, l’osservazione formulata da Lucia Annunziata interroga la parte «romana» di Lc (quel che restava di Lc), che aveva esponenti di spicco in Luigi Manconi, Marino Sinibaldi, Marco Lombardo Radice, e ospite il milanese Gad Lerner. È di Manconi-Lerner-Sinibaldi una frase contenuta in un libretto pubblicato da Feltrinelli, e citata da Annunziata: «Il gesto del quindicenne, che ruba il machete dall’armeria saccheggiata per poi abbandonarlo dopo pochi metri (...) è “irrazionale”, e per battere le posizioni che vogliono fare di questi gesti un’occasione di reclutamento, è necessario assumere le ragioni dei “teppisti”, ed esaltare il pezzo (esile e contraddittorio) di verità comunista che contiene; non certo le ragioni dei piccoli commercianti o dei piccoli proprietari di piccole automobili».
Manconi, c’era snobismo, ferocia, e anche una certa tendenza al suicidio politico in quelle parole. Fu lei a scriverle?
«Io feci anche l’editing: quella frase sta in un libro scritto da Lerner, me e Sinibaldi; ma non era uno slogan da corteo, era una riflessione pubblicata in una rivista di cinema, “Ombre rosse”, e in un libro di una collana curata dal filosofo Pier Aldo Rovatti. Se ne dicevano di molto peggiori, mi creda; ed era peraltro una frase che evocava l’Andrè Gide de I nutrimenti terrestri, quello che dice “Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità”. Non eravamo così scemi, leggevamo dei libri, riflettevamo...».
Questo è evidente, ma con le P38 vicine qualcuno equivocava alati riferimenti letterari.
«Non c’è dubbio che noi vivevamo nella contraddizione, la attraversavamo, cercando di condurla a un esito non tragico, per quello che si poteva fare a quel punto. È del tutto palese che l’atteggiamento di condiscendenza, se non di vera e propria indifferenza, verso interessi e diritti dei normali cittadini fosse decisamente idiota».
I proprietari di una piccola macchina non erano certo affamatori di popolo, né per forza reazionari...
«Ma certo. Tanto più che, per esempio, la Annunziata era proprietaria di una piccola auto; io no, perché privo di patente, e guidavo perigliosamente un Garelli. Comunque, evocando Gide e contrapponendo paradossalmente ai normali cittadini il “quindicenne”, io, Lerner e Sinibaldi volevamo cogliere quel briciolo di bisogno vero e di ragione profonda che c’era - oltre tutte le degenerazioni, e gli orrori - in quel gesto».
Quello che assalta l’armeria di via Giulia e butta via per strada il bottino.
«Sì».
Il che riconduce alla critica più severa che vi rivolge il libro: potevate fare una campagna senza compromessi contro la violenza degli autonomi e non la faceste. Ma potevate davvero? I ventenni del ‘77 filavano ancora Sofri, Manconi, Lerner, o ormai la miccia era accesa, e andava per conto suo?
«È sempre errato valutare i percorsi storici come se fossero l’esclusivo esito delle volontà dei gruppi dirigenti. Io ero andato via da Lc nel gennaio 1976; Lc si scioglie nel settembre successivo; dunque, fu colta di sorpresa dal ‘77. A quel punto, come singoli militanti noi ci impegnammo come potemmo per bandire ogni pratica e ideologia della violenza; cercammo di salvare il salvabile. Spesso anche al limite, e talvolta oltre lo scontro fisico e la minaccia esplicita».
La Annunziata le è grata di averla fisicamente difesa, con Sinibaldi, quando fu attaccata dagli autonomi.
«Occasioni dure ce ne furono tante. Al convegno di Bologna, al quale ero andato con la mia amica Nadia Fusini, noi ex di Lc dovemmo compiere un’impresa ginnica per consentire al nostro compagno di parlare. E sa chi scegliemmo di far parlare?
Marco Boato.
«L’unico di tutti noi che non avesse mai avuto nessun cedimento alla violenza. Però il ‘77 non fu solo violenza, fu un processo di grande innovazione culturale e sociale».
Manconi, lei dice che nel ‘77 il “congedo” di Lc dalla violenza era già stra-avvenuto. Resta qualcosa da svelare sugli anni in cui quel congedo ancora non c’era, gli anni dell’assassinio di Luigi Calabresi?
«Per quanto mi riguarda, e se posso permettermi di parlare anche per Adriano Sofri, dico che sono state spese le parole della più incondizionata, e spietata autocritica. Sofri ha detto che quella contro Calabresi “fu una specie di lapidazione”; e posso assicurarvi che prende su di sé responsabilità di tanti che in quegli anni hanno scritto e pensato cose analoghe».

Corriere della Sera 12.1.07
ROMANZO L'ipotetico rapporto tra il pensatore e la psichiatria nel libro di Irvin D.Yalom
Quando Nietzsche finì sul lettino di Freud
Una mente geniale e tormentata, che non si vergogna di piangere


Vienna, dicembre 1882. Nello studio del dottor Josef Breuer, il più richiesto medico della capitale, si presenta uno strano paziente. È Friedrich Nietzsche, ex professore di filologia a Basilea e ora filosofo senza allievi che in un continuo peregrinare (Italia, Svizzera, Francia) cerca di trovare sollievo ai mali che funestano la sua esistenza. Emicranie devastanti, vomito, insonnia, disturbi alla vista: nell'arco di un anno, dice, i giorni senza sofferenza non superano le quattro settimane. La visita l'ha organizzata una donna, Lou Salomé: teme che l'amico possa suicidarsi, ma non vuole che sappia del suo interessamento. Del resto, confessa, lei ha rifiutato la sua proposta di matrimonio, ma intanto la possessiva sorella di Nietzsche, Elisabeth, sta seminando orrende dicerie contro di lei ispiratele anche dalla foto che ritrae Lou con la frusta su un carretto trainato da Nietzsche e dal comune amico Paul Rée.
Parte da questo incontro possibile eppure mai avvenuto Le lacrime di Nietzsche (When Nietzsche Wept, pubblicato in America nel 1991 e ora tradotto da Mario Biondi per Neri Pozza), il romanzo di Irvin D. Yalom psichiatra e docente a Stanford. Nonché scrittore: il suo La cura Schopenhauer (2005: ai giorni nostri, uno psicoanalista integra la terapia con gli insegnamenti del Mondo come volontà e rappresentazione) è stato un bestseller mondiale. Quello su Nietzsche è un romanzo storico in cui Yalom ricostruisce luoghi e personaggi con grande esattezza, ma ciò che avviene tra i protagonisti (Nietzsche, Breuer, Lou Salomé e il giovane Sigmund Freud, amico di Breuer) è frutto di invenzione.
Le lacrime di Nietzsche si colloca in un anno- cardine per la filosofia e la psicoanalisi: Nietzsche, a cui restano solo sette anni di attività cosciente (nel 1889, a Torino, precipiterà nella follia da cui non si riprenderà più fino alla morte, 1900), ha appena pubblicato La gaia scienza e sta già pensando a Zaratustra. Intanto, Breuer ha dovuto interrompere il trattamento «catartico» (ipnosi e conversazioni) con Bertha Pappenheim: la moglie, gelosa, non sopporta che il marito si dedichi a quella ragazza isterica che, nelle sue allucinazioni, dice di portare dentro di sé un figlio del medico. Questo caso, noto con il nome di copertura «Anna O.», sarà al centro degli Studi sull'isteria, firmati da Breuer e da Freud e pubblicati nel 1893, il testo che dà l'avvio alla rivoluzione psicoanalitica.
Fa effetto, è vero, vedere Nietzsche tramutato in personaggio romanzesco che dialoga con il medico, soffre, piange e addirittura — è la trovata del libro — cura il suo dottore che non si rassegna al distacco dalla giovane paziente. Certo, non è questa la prima né l'ultima volta che il filosofo di Zaratustra si trova a comparire in un testo di narrativa. La prima volta fu nello stesso 1882, in un racconto scritto dalla sorella Elisabeth e rimasto a lungo inedito. In Chiacchiere da caffè su Nora Elisabeth immagina uno strano triangolo: un giovane filosofo assediato da una seduttrice slava (cioè, Lou Salomé) e amato da una brava ragazza tedesca (molto, troppo simile alla stessa Elisabeth). Conclusione: la «cameriera» slava è sconfitta, e in una sorta di incesto letterario il filosofo sposa la tedesca.
Mentre la filosofia nietzschiana pervade e condiziona tutta la letteratura moderna (Strindberg, d'Annunzio, Thomas Mann, Jack London e infiniti altri), lui, il pensatore «per tutti e per nessuno», diventa oggetto di biografie, spesso non poco romanzate. Comincia Lou Salomé, nel 1894, con
Nietzsche nelle sue opere; ma già l'anno dopo la custode dell'archivio e della memoria ufficiale del fratello, Elisabeth, inizia a pubblicare i tre volumi della biografia. Nel 1925, Stefan Zweig dedica a Nietzsche una parte del trittico La lotta con il demone (gli altri due ritratti sono di Hoelderlin e Kleist). Non mancano, è vero, biografie scientificamente rigorose: testo base per ogni ricercatore, in questo senso, è l'opera di Curt Paul Janz, 1979. Certo, da Zweig parte una interminabile serie di vite romanzate, a volte affidate a bravi studiosi come Ruediger Safranski (in Italia, Longanesi), più spesso scritte da disinvolti divulgatori. In Germania, per esempio, si segnalano i libri di Werner Ross, dai titoli già molto significativi:
L'aquila impaurita e Nietzsche il selvaggio, ovvero il ritorno di Dioniso. Ma più scalpore ancora ha fatto il recente volume di Joachim Koehler, Friedrich Nietzsche e Cosima Wagner, pretesa dimostrazione dell'omosessualità del filosofo.
Tornando ai romanzi veri e propri, appena uscito in America è Nietzsche's Kisses (I baci di Nietzsche) di Lance Olsen: il filosofo, sul letto di morte, rivede a lampi la sua vita. Dieci anni prima, David Farrell Krell aveva scritto Nietzsche: A Novel, che, seppure basato su testi e documenti, non rinunciava a inventarsi colloqui di cui non è rimasta traccia. Nel 2001, Laura Pariani con La foto di Orta (Rizzoli) sceneggia con grande sensibilità la gita sul lago del 1882 in cui, pare, il filosofo dichiarò il suo amore a Lou Salomé. Certo, nulla a che vedere con l'audace trasfigurazione operata da Thomas Mann nel suo Doktor Faustus (1947): il protagonista, il musicista Adrian Leverkuehn, grazie alla sifilide contratta in un bordello sviluppa il suo genio demoniaco fino all'abbraccio fatale con il nazismo. E Nietzsche è il modello dichiarato di Leverkuehn. Anche nel film di Liliana Cavani,
Al di là del bene e del male, 1977, c'è la sifilide. E in più ci sono molti accenni ai legami omosessuali fra Nietzsche e l'amico-rivale Paul Rée.
E il Nietzsche di Yalom, invece, com'è? È un personaggio tormentato ma tutto sommato senza macchia. L'ipotesi della sifilide come causa dei suoi disturbi (oggi, peraltro, molto discussa) non è nemmeno presa in considerazione. In cerca di un amore ideale, il filosofo sembra soffrire soprattutto per il rifiuto di Lou. Il filosofo terribile, capace di squassare con i suoi aforismi i dogmi della religione e i principi della morale, si rivelerà un brav'uomo che, durante un franco colloquio in cui scopre il trucco dell'amata-odiata Lou, scoppia pure a piangere. Poi, guarito il dottore, riprenderà il suo cammino solitario verso le vette più alte. Dove, appunto, parla Zaratustra.

l’Unità 12.1.07
Il Presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera
«Certi politici fanno i papisti più di Ratzinger»
di Luciano Violante


«La libertà religiosa è, tra tutte le libertà costituzionali moderne, la più importante. E non abbiamo ancora una legge che la garantisce per tutti». Parte da qui un bilancio del presidente della Commissione Affari Costituzionali, Luciano Violante sulla legge per la libertà religiosa. «In Italia ci sono oltre 600 confessioni religiose, dalla Chiesa cattolica a quelle minoritarie. È un mondo pieno di differenze, non riconducibile ad uno schema unitario. Non ci può essere una sola risposta...Trattare in modo uguale situazioni diseguali crea più gravi disuguaglianze e contraddizioni».
Da queste audizioni in Commissione cosa è emerso?
«Che sappiamo poco di molte religioni e pochissimo dell'Islam che è la seconda religione italiana. Si parla di matrimonio religioso islamico,ignorando che il matrimonio, nell'Islam, è un contratto tra le parti. La religione non c'entra. L'Islam non ha vertice, è una religione "orizzontale": come si interloquisce con una religione che non ha rappresentanti ufficiali? L'immigrazione, inoltre, ha portato sconvolgimenti profondi. Solo in provincia di Firenze i buddisti sono oltre 25 mila. E poi c'è da domandarsi: cosa è una religione? Cosa e chi la distingue da una setta o da un'impresa commerciale che sfrutta il bisogno del sacro?».
La legge in discussione riesce a rispondere a questa complessità?
«Roberto Zaccaria, che è il relatore, sta svolgendo un lavoro eccellente. Occorre distinguere la libertà religiosa di ciascuno, essere uguale per tutti, da quella dell'organizzazione religiosa, che pone problemi diversi. C'è da tutelare anche i diritti di chi non ha alcuna religione, perché ateo. Ci stiamo misurando con la rottura di alcuni concetti originariamente "monistici": la religione, la cittadinanza, la cultura, erano tutti concetti fondati sull'uno e non sul plurimo. Oggi, invece, sono concetti da rileggere alla luce del "plurimo", di una società plurale, con molte culture, molte religioni e molte cittadinanze. Trovare l'equilibrio tra la nostra tradizione e la nostra modernità».
Ma in questa realtà segnata dal cambiamento ha ancora senso un regime concordatario tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano?
«Non è mettendo in discussione il Concordato che si difende la laicità dello Stato. Non è forse laica la Gran Bretagna dove addirittura la regina è il capo della Chiesa anglicana? La laicità sta nei costumi e nelle regole che si dà un paese. Quello dell'abolizione del Concordato è un tema da studiosi. Non è nell'agenda della politica».
In questa fase non riscontra una debolezza della politica, una sua scarsa autonomia rispetto ai richiami della Chiesa cattolica?
«I richiami della Chiesa sono legittimi. Quella dell'interferenza è una sciocchezza. Il problema è la oggettiva debolezza odierna della politica, che diventa per alcuni partiti ricerca di una maggiore legittimazione presentandosi come il braccio parlamentare del Vaticano. La Democrazia cristiana, per la sua forza, riusciva a mediare e a difendere quasi sempre la laicità dello Stato. Oggi una serie di forze politiche, eredi, vere o finte, di quel partito, fanno la gara a chi è più "papista" del Papa. Li rispetto; ma credo che questa rincorsa possa imbarazzare la stessa Chiesa cattolica».
Non si arriva al paradosso che la Cei esprima posizioni più aperte dei suoi interpreti politici, più fondamentalisti e integralisti?
«Ne sono convinto. Se la Chiesa desse input al mondo politico italiano perderebbe il senso stesso della sua missione che è universale e sacra, non secolare. La minore laicità non dipende dall'atteggiamento della Chiesa ma da quello della politica».
Visto la fibrillazione che su questi temi vive la politica andrà mai in porto questa legge?
«Di questa legge c'è bisogno per un'Italia più moderna e più giusta. Ma non sarà una passeggiata. Il difficile problema nuovo è individuare, riconoscere e difendere la nuova identità dell'Italia di questo secolo».

giovedì 11 gennaio 2007

l'Unità 11.1.07
Le ingerenze di Fagioli e il destino del settimanale «Left»

Caro direttore,
in una lettera all'Unità e a Wanda Marra, pubblicata martedì scorso, il signor Massimo Fagioli sostiene di voler fare delle «precisazioni» che in realtà rovesciano semplicemente la verità dei fatti nella nota vicenda del settimanale «Avvenimenti» e della sua trasformazione in «Left-Avvenimenti». Wanda Marra si era occupata con grande correttezza giornalistica di quella vicenda . È quindi a conoscenza del fatto che quando il signor Fagioli sostiene di non aver esercitato «nessuna ingerenza» sulla sorte di quel settimanale, non «precisa» ma «falsifica». Non è affatto vero che il direttore di Left-Avvenimenti gli abbia offerto «democraticamente» una rubrica di due pagine settimanali per scrivere tutto ciò che gli passava per la testa. A dirigere il settimanale erano i sottoscritti: il direttore Adalberto Minucci e il condirettore Giulietto Chiesa. Entrambi ci dichiarammo formalmente contrari alla rubrica del signor Fagioli ma, prima a nostra insaputa, poi contro la nostra espressa volontà, i nuovi padroni della società editrice annunciarono e imposero la rubrica dello psicanalista. Il quale sin dai primi due articoli, oltre ad annunciare al mondo che «Freud è un imbecille», ha fatto intendere di essere l'ispiratore e il punto di riferimento politico-culturale della nuova fase del settimanale. Il resto è noto. I nuovi padroni licenziarono in tronco direttore e condirettore, violando ogni regola sindacale e professionale, quanto alla parola «plagio», l'ha tirata fuori nella sua lettera lo stesso Fagioli. Forse era già comparsa in qualche processo giudiziario.
Adalberto Minucci
Giulietto Chiesa


l’Unità 11.1.07
Jean-Pierre Vernant il Maigret del mito
di Ugo Leonzio


LUTTI Muore, a 93 anni, il filosofo e storico francese che ha studiato la mitologia dell’antica Grecia e che scelse come suo «eroe» personale la figura di Edipo. Come un detective cercava le ragioni, le spiegazioni di quelle storie

Il mito, come la memoria, è una malattia che esige devozione: Jean-Pierre Vernant è stato tra tutti i devoti forse il piu tenace, fortunato e disperato. La sua fortuna è dovuta, almeno in parte, alla disperazione della sua impresa, entrare nel pensiero greco, nella tragedia e nella mitologia cercando di trovarne una ragionevole prima ancora che razionale spiegazione. Vernant non era però un illuminista e neppure un marxista, diffidava sostanzialmente delle cose che amava, e questo è sostanzialmente l’origine del fascino che emana ancora dai suoi libri: la calma, la bonomia, la sicurezza delle indagini di un Maigret insieme all’odore della minestra di cavolo e di Gauloises che portano dritti al suo autore, l’enigma, il mito Simenon. Forse, se oggi il mondo greco di Vernant ci sembra costruito a una sola dimensione, una specie di claustrofobica Flatlandia, è proprio questo voler a tutti i costi trovare una ragione; come Maigret deve braccare, stanare e alla fine scovare l’assassino. Questo è il punto davvero difficile, il passaggio a Nord Ovest della mitologia vista dagli storici che non conoscono affatto la malattia che li abita, che diventa (o è sempre stata) il loro inconscio.
Jean-Pierre Vernant non era un malato immaginario, era andato a trovare con arte di segugio il suo «colpevole», il tragico Edipo, ma invece di seguirlo nei labirinti tragici del suo destino che lo avrebbero condotto davanti a un’immagine di se stesso, cioè dentro i meandri della sua psiche e delle indiscrete motivazioni che lo avevano spinto a scegliere proprio Edipo come suo «eroe» e mito privato, l’inesplicabilità della colpa e non del destino, perché il genio della tragedia greca ha intuito subito e profondamente, uno dei segreti degli uomini: che la colpa viene molto, molto prima del destino e che l’embrione fa già parte di un copione dove le parti non si scelgono ma vengono assegnate. Ogni studioso di mitologia greca dovrebbe partire da questo punto e il suo pensiero dovrebbe forzare questo stretto passaggio per osservare l’abisso o il mare aperto che gli si apre davanti: Vernant, essendo uno studioso di grande talento e un ammalato eccellente (di mitologia), aveva capito che Edipo è la chiave di tutti i miti ma non ha avuto la forza di guardarlo negli occhi. Questo limite, che dopo Nietzsche diventa un vero e proprio limite, se non un punto di vista fuorviante, è stato il confine che consapevolmente Vernant non ha voluto valicare perché troppo rischioso. Nessun professore della Sorbonne potrebbe farlo, perché Edipo, per quanto avido di verità, non l’avrebbe mai cercata in un’aula universitaria - per quanto prestigiosa -, in una biblioteca, o scavando rovine.
Vernant è stato il piu illustre studioso da «crociera» del pensiero greco, il professore che tutti avremmo voluto avere. Ma la differenza tra lui e un navigatore solitario nell’oceano del mito, è quella che corre tra Maigret, marito e sposo fedele, quasi buongustaio, e l’ascetico Sherlock Holmes, tossicodipendente, omosessuale, vegetariano e cultore delle Sonate per violino solo di Johann Sebastian Bach.
Il mondo del mito è disponibile a qualsiasi interpretazione, dipende solo da chi ne osserva la messa in scena: non ci sono regole ma fenomeni a cui dare, di volta in volta, un significato. Osservarli significa fare un viaggio a ritroso nel tempo, entrando nella mente di un uomo primitivo, un Sapiens o un Neanderthal, chiusi nella loro caverna ad osservare i fenomeni distruttivi della natura, della caccia, della morte, del coito. Fenomeni, pulsioni, bisogni, perversioni per cui non esiste alcuna spiegazione, alcuna teologia, alcuna ragione, armi deboli per grandi consolazioni. Del mito ci affascina proprio questo permanere del «caso» e della «necessità». Per questo, forse, il piu grande mitografo del nostro tempo è stato il grande biologo Jacques Monod.
Alla mitologia crediamo proprio perché toglie dagli occhi la luce artificiale delle aule scolastiche per darci il solo meridiano, il grido di Pan evocato da James Hillman; toglie dalle dita il rassicurante fruscio della carta stampata e lo sostituisce con quello del sangue; spegne la voce tranquilla e tranquillizzante di Jean-Pierre Vernant e dispiega il tagliente, ambiguo dialogare dello stupro di Zeus, dello stupro di Apollo, dello stupro di Pan, dello stupro di Dioniso vestito da fanciulla e ebbro di vino e di resina di papaveri bianchi. Se il mito greco è pieno di violenza, di eros nudo, di morte, di vendetta, è perché questi elementi sono alla base del pensiero greco che attraverso la razionalità e la prospettiva del pensiero, ritorna all’enigma, al delitto irrisolto, all’assassino inconsapevole. Come potrebbe uno storico svelare che la sua dedizione al mito si alimenta in questo fondo torbido?
Vernant si è sempre tenuto a debita distanza da Freud e dai suoi complessi, come tutti i mitologi, ma questo è senz’altro un errore, dal momento che l’Olimpo è indistinguibile dal nostro mondo, ugualmente percorso da due pulsioni, Eros e Thanatos, che finalmente si riducono a una sola, essendo Thanatos, la morte semplicemente la cessazione di Eros. Sull’Olimpo degli Dei, ma anche di Edipo, che dagli Dei è dannato, Eros è l’unica vera potenza assoluta che domina e intreccia destini, che fa prigioniero Zeus e se ne prende gioco, come qualsiasi povero mortale che nella coppa, invece dell’ambrosia, scioglie un’overdose di viagra.
Ricordo di aver visto Vernant, molti anni fa, a Piazza del Pantheon mentre gustava una deliziosa coppa di gelato al limone. In quella coppa, in quella coppa, in quella delizia infantile nascondeva il suo nascosto Edipo che ora lo guida, volando con Hermes, ai Campi Elisi.

l’Unità 11.1.07
ROMANZI Il racconto di Irvin D. Yalom, psichiatra alla Standford University: storia immaginaria ma reale ambientata nella Grande Vienna con la partecipazione di Sigmund Freud, Joseph Breuer, Anna O. e Lou Salomè
Nietzsche, vero inventore della psicoanalisi e suo primo paziente
di Bruno Gravagnuolo


Un pizzico di Mann, uno spruzzo di Musil e una buona dose di Schnitzler. Il tutto agitato con cura. E ne vien fuori Le Lacrime di Nietzsche (Neri Pozza, tr. di Mario Biondi, pp. 425, euro 18), massiccio e godibile romanzo di Irvin D. Yalom, psichiatra alla Stanford University e studioso di Schopenauer, oltre che del filosofo dell’eterno ritorno (sua La cura Schopenhauer, sempre per Neri Pozza).
La formula del cocktail non vuol essere riduttiva, ma allude esattamente alle atmosfere alte del racconto, basato su un rigoroso impianto documentario. Quello relativo ai rapporti Breuer-Freud e Nietzsche-Lou Salomé, due capitoli a loro volta intrecciati con fili visibili e invisibili, tra grande Vienna, Germania guglielmina e Basilea: la Mitteleuropa insomma. Una temperie che l’autore reinventa fantasticamente, basandosi su ciò che effettivamente avrebbe potuto ben essere, e che non fu.
Il «plot»? Nient’altro che l’incontro immaginario tra la fascinosa russa Lou Salomé a Venezia nel 1882 e Joseph Breuer, medico e fisiologo, protettore di Freud, e celebre terapeuta di Anna O., la cui vicenda «isterica» schiuse le vie della psicoanalisi. Lou insegue Breuer, in viaggio con la moglie, in un caffé. Per chiedergli senza conoscerlo un favore: curare Friederich Nietzsche, affetto da lancinanti emicranie e dalla tentazione del suicidio. Richiesta bizzarra, poiché Breuer non sa chi è Nietzsche, presentato come un grandissimo filosofo, e nemmeno il filosofo sa dell’idea di Lou Salomé. Oltretutto come si potrebbe curare un paziente che non sa di doverlo diventare, e che per giunta è orgogliosissimo, e per nulla proclive a lasciarsi trattare con i metodi di Breuer (la cura con la parola che scioglie l’isteria dai sintomi organici)? Insomma, con una serie di stratagemmi la russa fatale che già aveva fatto disperare Nietzsche preferendogli Paul Ree - nella famosa «trinità» che diede scandalo - si allea con il medico viennese presto sedotto. E ottiene che Nietzsche si presenti da lui e si lasci visitare. Al punto infine che Breuer potrà ricoverarlo in una clinica a sue spese. Ma in base a uno strano contratto, in virtù del quale il medico spera di aprire la mente emotiva di Nietzsche, per continuare a sperimentare, dopo Anna O., la sua cura pre-psicoanalitica. Breuer perciò curerà le emicranie di Nietzsche e in cambio quest’ultimo gli somministrerà pozioni di filosofia, per sedare le sue ansie di luminare ebreo-viennese, sconvolto dal male d’amore (Anna O, pour cause!) e frustrato da una vita coniugale appiattita (mal comune con Freud adultero con la cognata). Ne nascerà un corpo a corpo dialettico tra i due. Sulla libertà, sul destino, sulla potenza e sull’eros. E sull’angoscia della morte che ribolle rimossa nel sottoscala dell’inconscio («un burattinaio» che si diverte a far scherzi dalla cantina). Sullo sfondo c’è il giovane Freud, consulente di Breuer sul caso, in seguito lettore prudente di Nietzsche. E poi Vienna, l’antisemitismo crescente e gli scricchiolii dell’Impero. Ovvero tutte le tensioni sociali ed etniche della «Cacania», che anticipano orrori a venire, regalando anche i frutti più alti della Kultur europea. Dall’urbanistica, alla fisica einsteniana, alla psicoanalisi, alla grande musica, alla grande narrativa (Musil-Kafka).
Dunque viene voglia di leggerlo questo romanzo, no? E difatti lo si legge tutto di un fiato e con enorme piacere, almeno per tre quarti. Tra l’altro, nonché tradotto benissimo, è composto di dialoghi serrati e con colpi di scena frequenti. Già pronti per una possibile sceneggiatura e un film d’ambiente.
Senonché il dramma, impreziosito di décor viennese, a un certo punto diventa commedia a lieto fine. O almeno, mezzo lieto fine. Perché? Perché il corpo a corpo filosofico/esistenziale tra paziente e malato, dove i ruoli si invertono e confondono, finisce con una ribellione puramente simulata di Breuer alle convenzioni che l’opprimono, e col suo ritorno nella nicchia borghese. Purificato e in certo senso sedato dalla diagnosi catartica di Nietzsche. Breuer in altri termini, sferzato dalla «cura» libertaria del filosofo, prende contatto con le emozioni inconsce della sua vita infantile. Riconosce la dipendenza affettiva, riduce i suoi traumi da orfano, le sue rabbie. E rinunzia all’onnipotenza risentita che lo spingeva a cercare compensazioni maniacali erotiche. Torna in famiglia rasserenato, dopo aver sognato, con la parvenza del vero, di fuggire a Venezia e farsi un’altra vita alla Mattia Pascal, suggestionato dall’«eterno ritorno». E Nietzsche? Anche lui nella cura si mette in gioco, piange, come racconta in un suo libro l’amico teologo Overbeck. Svela la terribile solitudine di un uomo geniale che raduna in sé le spasmodiche tensioni della storia presente e futura. Ma poi scompare per sempre. Inghiottito dalla follia, che si appalesa quasi come rifiuto della normalità. E qui l’apologo di Yalom è riduttivo. Perché andava spiegata e pedinata la follia del demone Nietzsche. Nel cui specchio ci sono tutte le maschere del 900 e oltre. Profezie, illusioni, ribellioni. Inganni e smascheramenti. Che il filosofo annunciò e da cui fu travolto, dopo aver fatto di sé un «esperimento», come lui stesso scrisse.

il Riformista 11.1.07
EDITORIALE
LA CEI E LE CRITICHE A FERRERO
Uno stupore che stupisce


L'altro ieri monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della Conferenza episcopale italiana è stato convocato assieme ad altri rappresentanti delle confessioni religiose per un'audizione davanti alla commissione Affari Costituzionali presieduta da Luciano Violante e ha fissato i paletti della Cei alle proposte di legge Spini e Boato sulla libertà religiosa. Il punto di Betori è che le norme non devono portare a una «proliferazione indiscriminata» delle intese dello Stato e, nel contempo, vanno «ulteriormente approfondite» quelle parti del testo che potrebbero aprire la strada a pratiche «inaccettabili per l'Italia» come il matrimonio poligamico.
Parole, quelle di Betori, del tutto discutibili. Tant'è che il ministro Ferrero le ha, per l'appunto, discusse. Aveva, ovviamente, tutto il diritto di farlo, di esprimere le proprie perplessità specificando che «pensare che il paese non sia maturo per una legge sulla libertà religiosa, che non metta in discussione il Concordato è un fatto preoccupante di integralismo un po' oscurantista».
Ma alla Cei pensano, evidentemente, che soltanto i vescovi siano liberi di dire ciò che vogliono. I ministri no. Chiusa nelle proprie convinzioni e per nulla desiderosa di confronto, la Conferenza dei vescovi italiani ha ritenuto quindi di poter criticare duramente Ferrero, dicendosi stupita e sorpresa delle sue parole.
C'è da stupirsi dello stupore. Soprattutto quando la Cei, come ha fatto, attacca il ministro perché (sentite sentite) avrebbe «offeso» il parlamento criticando le affermazioni che sono state fatte in una audizione dallo stesso parlamento convocata. Davvero una bella logica. Come se tutte le persone convocate dalle Camere dovessero per forza esprimere opinioni “giuste”. E chi l'ha detto? Forse alla Cei sfugge, ma la democrazia prevede proprio che le persone vengano ascoltate per sapere quello che vogliono e per confrontarsi con esse. E prevede anche che se qualcuno esprime un'opinione che non piace chiunque sia libero di manifestare il proprio dissenso. Dietro al ragionamento (diciamo così) della Conferenza episcopale si nasconde, assai male, una concezione settaria e autoritaria del confronto tra istituzioni dello stato e società. Una concezione che non favorisce certamente il dialogo.

Repubblica del 11.1.07
LA CURIOSITÀ
La protesta degli atei "Non discriminateci"


ROMA - Funerali civili con adeguate «sale del commiato», non imposizione dei funerali religiosi nel caso di funerali di Stato, ora di religione alternativa a quella cattolica, che abbia le stesse «opportunità» di questa e esprima anche le posizioni di atei e agnostici. Queste le proposte dell´Unione atei razionalisti italiani, alla commissione Affari costituzionali della Camera dove si discute della legge sulla libertà religiosa. In pratica hanno chiesto che in classe ci sia anche un´ora di ateismo e di inserire anche le associazioni non confessionali nella proposta di legge sulla libertà religiosa e quindi nelle intese tra Stato e religioni.

Corriere della Sera Roma 11.1.07
SAN CAMILLO
La pillola del giorno dopo è un «codice bianco»: si paga
di Ilaria Sacchettoni


Al San Camillo, dove le adolescenti rumene, lituane e ucraine, si rivolgono per assistenza e prevenzione da gravidanze premature e indesiderate, i medici dicono che il problema è insidioso. E che forse andava studiato (e ora ripensato) con pazienza, prima della fulminea entrata in vigore della nuova legge sui pronto soccorsi a pagamento. Dal primo gennaio infatti, anche la prescrizione della cosiddetta «pillola del giorno dopo» rientra tra le prestazioni a pagamento dei cosiddetti codici bianchi. Venticinque euro che con gli undici della confezione sono diventati proibitivi per una ragazzina (di fascia disagiata tra l''altro) che difficilmente ha accesso a una somma del genere liberamente.
Non solo una questione di soldi ovviamente.
Anche un fatto di prevenzione. A Roma, capitale dell'immigrazione, in cui il ricorso alle interruzioni di gravidanza è sempre minore per le italiane ma ancora alto per le straniere, la prevenzione sarà gratuita e capillarmente diffusa oppure tassata e sporadica?
La prescrizione a pagamento scoraggia le donne e imbarazza gli operatori del San Camillo che finora hanno sempre lavorato sodo per garantire informazione e prevenzione gratuite e che due anni fa, d'accordo con l'assessorato alle politiche sociali del Comune di Roma, aprirono il primo sportello di mediazione culturale per immigrate. Cinesi comprese. Ora cosa faranno?