martedì 16 gennaio 2007

l'Unità 5.1.07 pag.6
Ferrigolo e Purgatori nuovi direttori di Left

Il settimanale l’anno scorso vide il licenziamento di Minucci e Chiesa, ostili all’ingerenza di Fagioli
Rivoluzione grafica, molte inchieste, spazio al sociale al volontariato e ai temi della globalizzazione
di Wanda Marra
Si cambia a Left-Avvenimenti. Oggi esce in edicola il primo numero del settimanale firmato da Alberto Ferrigolo e Andrea Purgatori, rispettivamente Direttore e Condirettore. Due scelte forti, con Ferrigolo che viene da 20 anni di Manifesto e Purgatori, che è tra i più noti giornalisti investigativi italiani, diventato famoso con le inchieste sulla strage di Ustica. Non è la prima rivoluzione nella già tormentata storia di Left, nato dalle ceneri di Avvenimenti, circa un anno fa. L’esordio aveva visto il rapido licenziamento in tronco di Adalberto Minucci e Giulietto Chiesa (Direttore e Condirettore), da parte degli allora nuovi soci, tra cui Ivan Gardini e Luca Bonaccorsi. Motivo, la presenza molto ingombrante di Massimo Fagioli, psicanalista eretico, “guru” dell’analisi collettiva, che al suo attivo ha anche un rapporto diretto con Bertinotti, e dunque con il Prc e Liberazione. Fagioli si poneva come una sorta di Direttore ombra. Dopo il licenziamento dei due, Direttore venne nominato Pino Di Maula. Ma il danno d’immagine non fu da poco, e così prima dell’estate gli editori contattarono Ferrigolo e Purgatori. I quali dopo una trattativa lunghissima, che ha avuto come punto centrale proprio l’indipendenza e l’autonomia del giornale, hanno accettato la direzione di Left. In realtà, la loro presenza nel settimanale va avanti già da qualche tempo, ma oggi diventa ufficiale. A proposito di Fagioli, i Direttori hanno ricevuto ripetute assicurazioni della libertà del loro lavoro. E Purgatori è netto: «Le pressioni sono escluse, perché noi siamo persone che non le accettano». Nell’editoriale a due mani al numero di oggi si legge un’analoga presa di posizione: «Left crescerà come una voce della cui indipendenza ci facciamo garanti. È il motivo per cui ci siamo messi al lavoro. Grazie a un editore che ha assunto l’impegno di sostenerci nelle decisioni autonome che prenderemo, e nel rilancio d’immagine di questa storica testata». Nel prossimo futuro del settimanale, a febbraio, tra le altre cose, c’è anche una riforma grafica, a cura dello stesso studio, il Cases di Barcellona, che ha curato il progetto del gruppo E-Polis e della nuova Stampa. Riforma che tra le altre cose prevede una pagina per ogni rubrica. Fagioli al momento ne ha 2, ma a quel punto sarà un percorso obbligato quello di allinearlo agli altri.
Dunque, si riparte. In copertina oggi un’intervista a Beppe Grillo (fatta dallo stesso Purgatori) su consumo, spreco e liberalizzazione delle risorse idriche, con un titolo “da battaglia”: «Pochissima, scarsissima, carissima». Il comico genovese si lancia in affermazioni come «Bersani è un violentatore semantico. Parla come l'amministratore delegato della Nestlè». Purgatori racconta che il nuovo Left darà largo spazio alle notizie e manterrà la sua tradizione, che fu già di Avvenimenti, di inchieste: «In Italia se ne fanno molto poche, ma i lettori le cercano». Come dice il nome dichiaratamente, prenderà come punto di riferimento la sinistra tutta. Ma sarà smarcato dai singoli partiti. Con una particolare attenzione al volontariato, al sociale, alle tematiche della globalizzazione. «Abbiamo molti meno soldi di Panorama e l’Espresso - spega ancora Purgatori - e così piuttosto che puntare su corrispondenti affermati, ci apriremo alle collaborazioni dei giovani». Tra gli opinionisti che approderanno al settimanale ex novo, Diego Cugia, che terrà una rubrica.

l'Unità martedì 9 gennaio 2007
A proposito di ingerenza
di giornali
e di psicoterapia...
una lettera di Massimo Fagioli

Cara Unità e gentile Wanda Marra,
vi ringrazio perché sono onorato dall'interesse che avete nei miei riguardi. Osservo soltanto che l'uso di certe frasi possono far comparire una immagine che non è vera. Dal sottotitolo «ostili all'ingerenza di Fagioli». Non c'è stata mai nessuna ingerenza sulla redazione di Left, né di altri giornali; non mi sono mai occupato del settimanale, non ho mai chiesto nulla, neppure per curiosità. Mi dispiace che la gentile Marra si faccia dare una lezione da l'Espresso (28-XII-06) che mi definisce teorico dell'Analisi collettiva; mi sembra molto più corretto che non il vecchio «guru» anche se tra virgolette. Non esiste nessuna carboneria tra Bertinotti, Prc, Left e me: con Liberazione, negli ultimi tempi, ci sono state divergenze di opinione notevoli anche se mi sembra che ho una ricerca che guarda con stima e simpatia alle idee di Bertinotti. Mi viene da ricordare che, quasi un anno fa, il direttore, democraticamente, mi offrì due pagine del suo settimanale perché potessi esprimere le mie idee e scrivere liberamente a mio modo. Ma poi, mi domando se tanta angoscia di plagio sia dovuta alla teoria nuova sul pensiero senza coscienza e sulla prassi più che trentennale, che ha associato un rigore assoluto del setting di psicoterapia con la massima libertà di ciascuno che non dà neppure il proprio nome, che può essere scienziato o ignorante, mendicante o ricco, malato o sano. Lusingato da voi faccio una domanda superba: che questa teoria e questa storia, molto a sinistra, interessi la sinistra per il suo avvenire, tanto da sconvolgere alcuni e portarli a fabbricare immagini false?
Massimo Fagioli

Prendiamo atto delle precisazioni iniziali di Fagioli. Per quanto riguarda la seconda parte della lettera e la “superba” domanda confessiamo di non saper rispondere.
wa.ma.

l'Unità 11.1.07
Le ingerenze di Fagioli e il destino del settimanale «Left»
Caro direttore,
in una lettera all'Unità e a Wanda Marra, pubblicata martedì scorso, il signor Massimo Fagioli sostiene di voler fare delle «precisazioni» che in realtà rovesciano semplicemente la verità dei fatti nella nota vicenda del settimanale «Avvenimenti» e della sua trasformazione in «Left-Avvenimenti». Wanda Marra si era occupata con grande correttezza giornalistica di quella vicenda . È quindi a conoscenza del fatto che quando il signor Fagioli sostiene di non aver esercitato «nessuna ingerenza» sulla sorte di quel settimanale, non «precisa» ma «falsifica». Non è affatto vero che il direttore di Left-Avvenimenti gli abbia offerto «democraticamente» una rubrica di due pagine settimanali per scrivere tutto ciò che gli passava per la testa. A dirigere il settimanale erano i sottoscritti: il direttore Adalberto Minucci e il condirettore Giulietto Chiesa. Entrambi ci dichiarammo formalmente contrari alla rubrica del signor Fagioli ma, prima a nostra insaputa, poi contro la nostra espressa volontà, i nuovi padroni della società editrice annunciarono e imposero la rubrica dello psicanalista. Il quale sin dai primi due articoli, oltre ad annunciare al mondo che «Freud è un imbecille», ha fatto intendere di essere l'ispiratore e il punto di riferimento politico-culturale della nuova fase del settimanale. Il resto è noto. I nuovi padroni licenziarono in tronco direttore e condirettore, violando ogni regola sindacale e professionale, quanto alla parola «plagio», l'ha tirata fuori nella sua lettera lo stesso Fagioli. Forse era già comparsa in qualche processo giudiziario.

Adalberto Minucci
Giulietto Chiesa

l'Unità Commenti 13.1.07
Il «caso Left»:
la parola ai «nuovi padroni»
di Luca Bonaccorsi, Ivan Gardini, Ilaria Gardini
Caro direttore,
in una lettera all'Unità, pubblicata l'11 gennaio 2007, i signori Giulietto Chiesa ed Adalberto Minucci riprongono quella che già una anno fa fu la loro versione dei fatti in relazione alla vicenda Left-Avvenimenti. Ciò che più addolora «i nuovi padroni» - così veniamo elegantemente definiti - è che all'annuncio ufficiale di una nuova stagione di questa testata che si avvarrà di due prestigiosi professionisti come Andrea Purgatori ed Alberto Ferrigolo si risponde rivangando tutto il vecchio. La lite e la rottura che risale oramai a quasi un anno fa ha avuto spazio sui giornali per lungo tempo. Ed in quella occasione tutti hanno democraticamente avuto voce per esprimere/denunciare i motivi di rottura di quel famoso «patto di fiducia» che dovrebbe sempre esistere tra il CdA della società editrice e la direzione. Non vogliamo oggi parlare del passato e ancor meno rispondere ad accuse deliranti di presunti plagi ed inesistenti ingerenze, ma solo proporvi il nuovo presente di Left. Fare informazione da sinistra, in maniera libera è una missione faticosa che i compagni dell'Unità conoscono bene. Per questo siamo orgogliosi di ospitare rubriche originali e, oggi, di annunciare la nuova direzione a cui auguriamo di cuore buon lavoro.
il Riformista 16.1.07
La crisi dei Ds, un partito rassegnato a scomparire
di Emanuele Macaluso


Non mi associo al coro di critiche nei confronti di Prodi per l’esito del seminario governativo di Caserta dato che proprio da queste colonne (martedì scorso) avevo auspicato una operazione verità: il risultato delle elezione politiche, che non è stato quello previsto, e le contraddizioni nelle coalizioni, che sono più acute di quel che si pensava, non consentono riforme incisive, anche se necessarie. È quindi inutile e dannoso annunciare impegni che non si possono realizzare. La «manutenzione» per migliorare la macchina dello Stato e della spesa e un programma minimo per sollecitare lo sviluppo sono i due obiettivi che questa coalizione può porsi. Governare meglio del passato sarebbe, infatti, già un buon risultato. Semmai l’errore di Caserta è consistito nello scegliere lo scenario della Reggia per uno spettacolo modesto. Tuttavia, Caserta ha confermato un dato che in questi ultimi mesi è emerso con nettezza sempre maggiore: la crisi politica dei Ds.
Il segretario di questo partito continua a riempire giornali e tv di lunghe interviste ma non coglie l’essenziale: la perdita di un ruolo incisivo dei Ds nella coalizione governativa e nel Paese. Non basta ripetere come un disco rotto che il segretario è impegnato a spiegare al popolo la Finanziaria (con l’aria di chi l’ha subita) e a costruire il futuro Partito democratico (con l’aria di chi incontra solo scetticismo). La politica è spietata. E oggi, i Ds appaiono come una forza senza riferimenti sociali e ideali, alla ricerca disperata di nuove identità. Il partito di Fassino è stretto in una morsa da cui non riesce a uscire: da un lato la sinistra massimalista che si presenta come riferimento del mondo del lavoro, più specificatamente degli operai, dei pensionati, dei precari, degli immigrati, degli esclusi; dall’altro la Margherita che tende a identificarsi con le forze che sollecitano le liberalizzazioni confindustriali e, al tempo stesso, con il conservatorismo cattolico che nega le liberalizzazioni nella sfera delle libertà civili. Prodi media, rinvia e a Caserta ha rivendicato questo ruolo sapendo che i Ds sono nella morsa e non possono che appoggiarlo nel tentativo di reggere l’equilibrio instabile della coalizione.
Questo quadro è stato reso più rigido, quasi immutabile, dal fatto che i Ds hanno imboccato la strada senza uscita del cosiddetto Partito democratico. I big della Margherita ne sono consapevoli e alzano il prezzo. La settimana scorsa abbiamo letto l’intervista di Marini a Repubblica e il suo «mai nel Pse» con l’aggiunta che se c’è qualcuno che su questa «bazzecola» fa saltare il banco se ne assume la responsabilità: insomma, o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. Dopo Marini altre dichiarazioni margheritine sulla stessa lunghezza d’onda. E i Ds sul tema dicono e non dicono e fanno capire che un rappezzo si troverà. Al Pd non ci sono alternative, ripetono, dando nuove carte nelle mani di Rutelli e soci.
Insomma, il segretario Ds e compagni pensano di guidare un processo e invece ne sono guidati. Si parla di un grande progetto che dovrebbe rivoluzionare la politica italiana (il Pd, ha detto Fassino, sarà quel che furono Roosevelt negli Usa, De Gaulle in Francia, Adenauer in Germania, Gonzales in Spagna e così via) ma quel che si vede è ben altro: la somma di un personale politico stanco e logorato, un’operazione moderata senza anima e senza respiro per cancellare ogni traccia di ciò che è stato e potrà essere la sinistra italiana e europea. E nei Ds prevale la rassegnazione.

Repubblica 16.1.07
Addii al partito e dissensi si susseguono ma la soluzione è far finta di nulla. E il progetto dell'Ulivo non sconfigge la stanchezza
Quel male oscuro che sta sgretolando i Ds
di Filippo Ceccarelli


Molto semplicemente, e con qualche preoccupazione: cosa sta succedendo nei ds? Non passa giorno senza qualche guaio, tessere non rinnovate, disimpegni congressuali, frammenti, riflessi, indizi di smobilitazione. Ma quel che più colpisce, a pensarci bene, e allarma, sono i modi in cui questo accade. Perché non c´è rabbia né animosità nella forma degli addii, non c´è passione politica, culturale e forse nemmeno esistenziale, ma solo un lento e monotono chiamarsi fuori. Tutto si consuma all´insegna dell´ineluttabile: «Mi arrendo» ha detto ieri l´onorevole Caldarola. E il capo della minoranza, il ministro Mussi, che pure poteva giocarsi in termini politici quest´ultimo abbandono, non ha trovato di meglio che ricorrere alle leggi della fisica: è l´«evaporazione» dei ds. Che strano modo di manifestare una crisi. E di illustrarla facendola convivere, nella campagna per il tesseramento, con un depliant che sotto il simbolo della quercia reca lo slogan: «Io ci credo». Ecco, quanti ancora «ci credono», là dentro? E quanti altri, in giro per l´Italia, semplici iscritti o militanti che siano, non hanno già silenziosamente anticipato la rinuncia dei vari Rossi, Bresso, Caldarola, Turci, De Giovanni, De Luca, Soriero, Polito?
Sull´inesorabile rassegnazione del partito esiste anche un film-verità, «Il fare politica», che molto dall´esterno (il regista è belga, Hugues Le Paige) ha ripreso con la telecamera e raccontato la storia ventennale (1982-2002) di quattro compagni del Pci di un paesino rossissimo della Toscana, Mercatale. E insomma: alla fine, l´amara novità è che uno solo tra loro è rimasto nei ds. Gli altri, per vari motivi, se n´erano andati. Né francamente, viene da dire, la suggestione di un ipotetico partito democratico sembra in grado di rovesciare l´esito non solo narrativo dell´eloquente cortometraggio.
Al centro la stanchezza è visibile a occhio nudo, e forse pure contagiosa. Ogni tanto (è accaduto tre volte negli ultimi mesi) il segretario viene fischiato, ma il giorno dopo la questione è come ridimensionare l´episodio, la protesta. Al momento di decidere i sottosegretari, escluso un potente notabile, alcuni della periferia sono piombati a Roma a dar calci sul portone del Botteghino. Ma al dunque è bastato sbarrarlo per chiudere la questione di chi avesse deciso le poltrone, e perché. Così come del resto non s´è capito tanto bene in che modo siano state stabilite le norme e ancora di più le deroghe nella formazione delle liste dei deputati e senatori da far eleggere, a tutti i costi.
Alla lunga, far finta di nulla diventa una soluzione. Quando non se ne può fare a meno, si trasforma immediatamente in una faccenda da relegare agli spin-doctor e agli esperti di marketing. Tutto passa, anche il «tifo» per Consorte. L´importante è che i conti siano in ordine - e che l´amministratore Sposetti ne possa andare fiero. Di tanto in tanto l´Unità attacca, ma pazienza. Gli iscritti sono 600 mila, il secondo partito in Europa dopo la Spd. Ma in vista del congresso ci sono pacchi di contestazioni, alla moda proto-democristiana; e l´unica figura di spicco che abbia preso, anzi ripreso la tessera ds negli ultimi tempi, è Primo Greganti, il «compagno G», intestatario del conto «Gabbietta». L´annuncio in occasione del lancio del suo libro intervista, «Scusate il ritardo» (Memori, 2006), scritto in collaborazione con quell´altro compagno, Luciano Consoli, entrato nel business del Bingo anche con l´obiettivo, s´infervorava, di ripristinare i vincoli sociali.
Lo stato dei rapporti personali, fra dirigenti che si conoscono da una vita e da una vita e mezza non fanno che stare tra loro, è apparentemente normale. Però l´impressione, il dubbio, il sospetto, è che tra via Nazionale, la Camera, il Senato, i ministeri, le fondazioni, i comuni più importanti e i governatorati della periferia i dignitari diessini non si possano più vedere l´un l´altro. Alcuni nemmeno si salutano più. E tuttavia anche questa discordia permanente è acquisita come un dato inevitabile, e non come lo sgretolamento di quella che almeno all´inizio si poteva considerare una comunità.
Da questo punto di vista, la gestione e i simboli del potere - 26 auto blu censite al recente workshop di Sesto San Giovanni - funzionano come l´esatto contrario del collante. Se horror vacui e cupio dissolvi risultano equamente distribuiti su un versante ritenuto trascurabile della vita interna (qualità del clima interno, privilegi elitari, tessere impicciate), su un piano più strettamente politico il partito denuncia una obiettiva «perdita di ruolo», come l´ha definita Emanuele Macaluso. Ma anche qui, pur con tutta la diffidenza per le ricadute apocalittiche, l´interrogativo riguarda forse la tenuta complessiva dei ds. Il vuoto di progettualità. L´inadeguatezza del gruppo dirigente. L´asfittico dibattito culturale. In ultima analisi: la perdita di senso della propria missione.
Fin troppo facile dare la colpa a questo o a quello. Ma anche impossibile, al momento, riconoscere qualcuno che abbia cercato di invertire il processo. Molto semplicemente, forse: il partito di massa sta crollando sui ds, come su tutti gli altri. In questi casi si dice sempre che non tutto è perduto. Ma almeno è necessario riconoscere lo schianto, il fumo e l´odore dei calcinacci.

Repubblica 16.1.07
Caldarola, tra i promotori della terza mozione, rinuncia a partecipare al congresso. Angius: il progetto fa acqua da tutte le parti
Pd, altri strappi nella Quercia
Bresso: non verrò nel nuovo partito. Mussi: così evaporiamo
La presidente del Piemonte: "Troppa confusione, sarò un'indipendente dell'Ulivo"


ROMA - Dopo le anticipazioni di Repubblica sul Manifesto del Partito democratico, i dodici saggi che stanno lavorando al testo precisano: «Apprezziamo l´interesse per un documento così atteso, ma siamo ancora arrivati alla stesura definitiva». Secondo il comitato «gli stralci di alcuni passaggi del testo fanno parte di una bozza che è già stata modificata, in riferimento sia a parti specifiche sia al ventaglio di questioni considerate di particolare rilievo». Insomma la discussione è riaperta. La Margherita fa sapere di essere soddisfatta «per la sintesi avanzata», ma insiste sul fatto che il documento «non è ancora compiuto». Ci sono dei passaggi da rivedere, dunque. E non a caso il lavoro dei saggi potrebbe allungarsi. Dovevano presentare il testo definitivo alla fine del mese, potrebbero rimandare a febbraio.
Il lavoro sulla bozza è naturalmente influenzato da ciò che succede nei partiti. Soprattutto nei Ds. C´era già stato nei giorni scorsi l´addio del riformista Nicola Rossi. Ieri ha annunciato la sua assenza al prossimo congresso della Quercia Peppino Caldarola, tra gli animatori della terza mozione, firmata con Gavino Angius, favorevole alla nascita di una forza socialista ancorata al Pse. «Mi arrendo», ha scritto il deputato liberal in un articolo sul Corriere della Sera. Resta nei Ds finchè esisteranno, poi non prenderà la tessera dei Democratici. E da Torino arriva una nuova voce contraria. «Rinnoverò al più presto l´iscrizione ai Ds. Ma non parteciperò al dibattito congressuale sul futuro partito Democratico di cui, se progetti e prospettive rimarranno quelli che ho sentito finora, non ho intenzione di prendere la tessera. Sarò un´indipendente dell´Ulivo», annuncia la governatrice del Piemonte Mercedes Bresso. A Via Nazionale temo l´effetto domino.
Chiamparino ha invitato la Bresso a ripensarci, ma la presidente non molla. Un nuovo strappo, forse il più fragoroso. «Io sto con Fassino, D´Alema, Veltroni, i veri riformisti del partito - dice la Bresso -. E per questo, perché le mie posizioni non vengano strumentalizzate da altri, non parteciperò al dibattito congressuale. Ma il mio partito di riferimento è il Partito socialista europeo e credo non si possa costruire una nuova forza pensando di sommare senza distinzioni le culture politiche liberale, socialista e cattolica. Così si fa solo gran confusione e si dà un´inquietante sensazione di partito unico. In più ci vuole chiarezza sui temi etici e sulla grande questione della laicità». Le fibrillazioni diessine (giovedì si riunisce la direzione) offrono a un grande avversario del Pd lo spunto per una profezia funesta. «Si va verso l´evaporazione dei Ds - spiega Fabio Mussi, leader del correntone e candidato alla segreteria in alternativa a Piero Fassino -. Per compattare il partito occorre interrompere le procedure di lancio dei Democratici». Stiamo perdendo i pezzi, avverte il ministro dell´Università. «A sinistra e anche a destra, ora». Emanuele Macaluso vede un partito in «crisi politica», in cui «prevale la rassegnazione». Tante dissensi preoccupano il vertice del Botteghino e oggettivamente mettono a rischio le prossime tappe della nascita del nuovo soggetto. Fassino, per garantire i laici del partito, preme per una legge rapida sui Pacs, «anche se due settimane in più o in meno non cambiano molto». Basterà a calmare le acque? «Noi abbiamo raggiunto un punto di equilibrio - dice il coordinatore della Margherita Antonello Soro - ma la sofferenza dei Ds è veramente grande. Però c´è solo la strada del Partito democratico, stare insieme per creare un nuovo soggetto. E se non lo fanno Fassino e D´Alema, lo farà Walter Veltroni, fuori dai partiti».
Per Gavino Angius la resa di Caldarola dimostra che «il Pd fa acqua». Ma i progressi sul Manifesto dei Democratici fanno dire al ministro del Programma Giulio Santagata che «il cantiere sta procedendo. I saggi sono in dirittura d´arrivo con il documento, Dl e Ds stanno decidendo le date dei congressi, c´è un lavoro in fase di sviluppo».

Repubblica 16.1.07
Antichi rimedi per la melanconia
Dolore, solitudine esistenza errabonda. Un disastro privo di ragioni per il quale esisteva già un farmaco, il nepenthes
di Jean Starobinski


Il brano di Jean Starobinski che qui pubblichiamo è tratto da un saggio dello studioso che compare sul nuovo numero di Lettera Internazionale, in uscita in questi giorni, all'interno di un dossier intitolato «Male di vivere». Nella rivista figurano anche interventi di Anna Politkovskaja, Ryszard Kapuscinski, Octavio Paz, Etienne Balibar, Giulio Ferroni, Carl Schmitt, Leszek Kolakowski, Michel Onfray e Vercors.
Omero che è all'origine di tutte le immagini e di tutte le idee racconta la depressione di Bellerofonte

La melanconia, come tanti altri stati dolorosi legati alla condizione umana, è stata avvertita e descritta assai prima di ricevere un nome e una spiegazione medica. Omero, che è all´origine di tutte le immagini e di tutte le idee, riesce a racchiudere in tre versi tutta la miseria del melanconico.
Rileggiamo, nel canto VI dell´Iliade (versi 200-203), la storia di Bellerofonte, che subisce l´inesplicabile collera degli dèi: Ma quando fu in odio anche lui a tutti gli dèi, solitario vagava allora per la pianura Alea mangiandosi l´anima, evitando l´orma degli uomini.
Dolore, solitudine, rifiuto di qualsiasi contatto umano, esistenza errabonda: un disastro privo di ragioni, dato che Bellerofonte, eroe coraggioso e giusto, non ha commesso alcun crimine contro gli dèi. Al contrario, è stata la virtù la causa delle sue disgrazie, del suo primo esilio; per aver rifiutato le colpevoli profferte di una regina, che il dispetto ha trasformato in persecutrice, ha dovuto affrontare innumerevoli prove. Bellerofonte ha superato valorosamente la lunga serie delle sue fatiche: ha vinto la Chimera, evitato gli agguati, conquistato un regno, una sposa, il riposo. Ma ecco, nel momento stesso in cui tutto sembrava essergli stato concesso, il tracollo. Ha esaurito le sue energie vitali nel corso della lotta? O ha rivolto forse contro se stesso, in mancanza di nuovi avversari, il proprio furore?
Lasciamo da parte questi psicologismi, che non sono nel testo di Omero, e approfondiamo invece l´immagine così penetrante di un esilio imposto per decreto divino. Gli dèi, nel loro complesso, si compiacciono di perseguitare Bellerofonte; l´eroe, che ha saputo resistere valorosamente alle persecuzioni degli uomini, è impotente di fronte alla loro collera. E chi è perseguitato dall´ostilità universale degli immortali non trae più alcun piacere dai rapporti con gli uomini. E questo il punto su cui occorre soffermarsi: nel mondo omerico, la comunicazione dell´uomo con i suoi simili, la stessa rettitudine del suo cammino, sembrano dipendere da una garanzia divina. Quando nessun dio è disposto a concedere tale favore, l´uomo è condannato alla solitudine, al dolore «divorante» (una forma di autofagia), alle corse senza meta in preda all´ansia. La depressione di Bellerofonte è solo l´aspetto psicologico di questo allontanamento delle potenze superne. Una volta abbandonato dagli dèi, gli vengono a mancare le risorse e il coraggio necessari per continuare a vivere tra i suoi simili. Una collera misteriosa, che pesa su di lui dall´alto, lo porta a evitare le strade percorse dagli uomini, lo spinge a vagare senza scopo e senza senso. Si tratta forse di follia, mania? No: nel deliro, nella mania, l´uomo è istigato o posseduto da una potenza soprannaturale, di cui avverte la presenza. Qui, invece, tutto è allontanamento, assenza. Bellerofonte sembra errare nel vuoto, lontano dagli dèi, lontano dagli uomini, in un deserto senza limiti.
Per liberarsi del suo «nero» dolore, il melanconico non può far altro che attendere o cercare di propiziare il ritorno della benevolenza divina. Prima di poter rivolgere di nuovo la parola agli uomini, è necessario che una divinità torni ad accordargli il favore che gli è stato ritirato. Occorre che questa situazione di abbandono abbia termine. Ma la volontà degli dèi è capricciosa.
Omero è però anche il primo a evocare la potenza della medicina, del pharmakon. Miscela di erbe egiziane, segreto di regine, il nepenthes lenisce le sofferenze e frena i morsi della bile. Ed è giusto che sia Elena, per amore della quale ogni uomo è pronto a dimenticare tutto, ad avere il privilegio di dispensare la pozione dell´oblio, in grado di attenuare il rimpianto, asciugare per un momento le lacrime, ispirare l´accettazione rassegnata dei decreti imprevedibili degli dèi. E dove, se non nell´Odissea (canto IV, v. 219 e segg.), nel poema dell´eroe ingegnoso dalle mille risorse, si sarebbe dovuta situare l´apparizione di questo meraviglioso artificio, che permette all´uomo di acquietare i tormenti che accompagnano il suo destino violento e la sua vita turbolenta?
Dunque, oltre a offrirci un´immagine mitica in cui l´infelicità dell´uomo è una conseguenza della sua caduta in disgrazia dinanzi agli dèi, Omero ci propone anche l´esempio di un´attenuazione farmaceutica del dolore, che non deve nulla all´intervento degli dèi: una tecnica solamente umana (circondata, senza dubbio, da qualche rito) sceglie le piante, ne spreme, mescola, decanta i princìpi, benefici e tossici allo stesso tempo. Naturalmente, la bellezza della mano che porge la pozione non può che aumentare l´efficacia della droga, che ha in sé anche qualcosa dell´incantesimo. Il dolore di Bellerofonte ha avuto origine nel Consiglio degli dèi, ma gli armadi di Elena ne contengono il rimedio.
«Quando il timore e la tristezza persistono a lungo, si ha uno stato melanconico» (Ippocrate, Aforismi). Ecco apparire così la bile nera, la sostanza spessa, corrosiva, tenebrosa, cui il senso letterale del termine «melanconia» fa riferimento. Si tratta di un umore naturale del corpo, come la bile gialla, come la pituita. E, proprio come gli altri umori, essa può sovrabbondare, spostarsi dalla sua sede naturale, infiammarsi, corrompersi, dando luogo a diverse malattie: epilessia, follia furiosa (mania), tristezza, lesioni cutanee. Lo stato che chiamiamo oggi melanconia è solo una delle molteplici espressioni del potere patogeno della bile nera, quando il suo eccesso o la sua alterazione qualitativa compromettono l´isonomia (ossia l´armonioso equilibrio) degli umori.
E´ verosimile che l´osservazione dei vomiti e delle feci di colore nero abbia suggerito ai medici greci l´idea di trovarsi in presenza di un umore altrettanto fondamentale degli altri tre. Il colore scuro della milza, per una facile associazione di idee, deve aver fatto loro supporre che questo organo fosse la sede naturale della bile nera. Inoltre, la possibilità di stabilire una stretta corrispondenza tra i quattro umori, le quattro qualità (secco, umido, caldo, freddo) e i quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco), era appagante per lo spirito. A queste associazioni se ne aggiunsero altre, fino alla costituzione di un mondo simmetrico: le quattro età della vita, le quattro stagioni, le quattro direzioni dello spazio da cui soffiano quattro diversi venti. La melanconia si trovava associata, per analogia, alla terra (che è secca e fredda), all´età presenile, e all´autunno, stagione pericolosa in cui l´atrabile acquista la sua massima potenza. Si giunse così alla costruzione di un cosmo coerente, il cui assetto quadripartitico si riverbera nel corpo umano e in cui il tempo è solo il percorso regolare delle quattro stagioni.
Ridotta alle sue giuste proporzioni, la melanconia è solo uno degli ingredienti indispensabili alla crasi che costituisce lo stato di salute. Non appena essa acquista un peso preponderante, tuttavia, l´equilibrio si spezza e sopravviene la malattia: come dire che le nostre malattie dipendono dal disaccordo tra quegli stessi elementi che compongono la nostra salute.
Il sistema dei quattro elementi viene affermato in modo esplicito solo nel trattato sulla Natura dell´uomo, attribuito tradizionalmente a Polibio, genero di Ippocrate. Altri trattati, come l´Antica medicina, sembrano ammettere l´esistenza di una maggiore varietà di umori, ciascuno dotato di proprietà particolari. (...) Prima che la dottrina medica prendesse forma, alla fine del V secolo, in Attica, si credeva già nel nefasto influsso psichico della bile nera. Sofocle si serve per l´appunto dell´aggettivo melancholos per indicare la tossicità letale del sangue dell´idra di Lerna, di cui Eracle aveva imbevuto le punte delle sue frecce (v. 573). Il centauro Nesso, raggiunto da una di queste frecce, ne morì; e le proprietà velenose dell´idra si trasmisero, in seconda diluizione, alla vittima.
Raccolto da Deianira, il sangue di Nesso servì a tingere la famosa tunica, il cui contatto procurò a Eracle un bruciore insopportabile, che lo costrinse al suicidio eroico.
Ci troviamo qui in presenza di un bell´esempio di immaginazione sostanziale (prendiamo in prestito l´espressione di Gaston Bachelard): il veleno melanconico è un fuoco oscuro che agisce a dosi infinitesimali e che mantiene la sua pericolosità anche a concentrazioni oligodinamiche; è un composto dalla duplice natura, in cui i poteri nefasti del colore nero e le proprietà corrosive della bile si potenziano a vicenda. Il nero è sinistro, è strettamente associato alla notte e alla morte; la bile è acre, irritante, amara. Come fanno intendere abbastanza chiaramente alcuni testi ippocratici, la bile nera era concepita come una sorta di concentrato, una feccia residua prodotta dall´evaporazione degli elementi acquosi degli altri umori, e in particolare della bile gialla. La si circondava del temibile prestigio delle sostanze concentrate, capaci di contenere nel minimo volume la massima quantità di proprietà attive, aggressive, corrosive. Molti secoli dopo, Galeno attribuirà all´atrabile una singolare vitalità: essa «morde e attacca la terra, si gonfia, fermenta, fa nascere bolle simili a quelle che si formano nelle zuppe in ebollizione». Fortunatamente, nell´organismo sano, gli altri umori intervengono per diluire, frenare, moderare tanta violenza. (...)
La tristezza e il timore costituiscono, per gli Antichi, i sintomi principali dell´affezione melanconica. Ma una semplice differenza nella localizzazione dell´umore atrabiliare è sufficiente a determinare considerevoli cambiamenti nella sintomatologia. I melanconici diventano in genere epilettici, e gli epilettici melanconici; quale di questi due stati sia destinato a prevalere dipende dalla direzione presa dalla malattia: se attacca il corpo, si ha l´epilessia; se attacca l´intelligenza, la melanconia (Ippocrate, Epidemie).
Il passo citato contiene un´ambiguità: la parola «melanconia» designa un umore naturale che non è necessariamente patogeno. Ma la stessa parola designa anche la malattia mentale prodotta dall´eccesso o dallo snaturamento di questo umore, quando essi riguardino principalmente «l´intelligenza». (...)
Un medicamento - l´elleboro - rimarrà per secoli lo specifico più diffuso per la cura della bile nera e, di conseguenza, della follia. Diventerà il farmaco per eccellenza, quello di cui è sufficiente citare il nome per indicare l´uso cui è destinato dalla tradizione. Nel XVII secolo, nessun lettore aveva bisogno di un commentario per capire l´allusione contenuta nei versi di La Fontaine, in cui la lepre si fa beffe della tartaruga: «Comare mia, bisognerebbe purgarla / con quattro grani di elleboro».
Traduzione di Stefano Salpietro
copyright Lettera Internazionale


Corriere della Sera 16.1.07
Un saggio di Lucia Annunziata rievoca una stagione di conflitti e chiama in causa Cossiga
Quel 1977
L'anno che sconvolse la sinistra italiana.
Quando il movimento uccise il padre Pci
di Luigi Ballista

Lucia Annunziata racconta di quando, dopo aver assistito alla cacciata di Luciano Lama dall'Università di Roma nel febbraio del '77, tornò con una inebriante «sensazione di leggerezza» alla sua redazione del «Manifesto». Aveva portato con sé come un trofeo (o forse come un feticcio) un sampietrino raccolto sul campo di battaglia: «Lo mostrai con orgoglio. Mani si allungarono a toccarlo. Rossana Rossanda si voltò di colpo e ingiunse: "Mettilo via". Lo rimisi in borsa... ma nel depositarlo sul fondo della borsa, ne accarezzai il lato liscio».
Accarezzato, toccato, orgogliosamente rivendicato, quel sampietrino era l'arma simbolica con cui, sostiene l'Annunziata nel suo libro 1977. L'ultima foto di famiglia (Einaudi) il '77 uccise simbolicamente il padre comunista. Superfluo obiettare che l'arma emblema di quell'anno non fu il sampietrino, ma la P38. Che in quel clima intossicato dalla violenza rimasero feriti, gambizzati, uccisi bersagli di ogni colore e mestiere. Ma Lucia Annunziata, sul filo del racconto autobiografico e dell'analisi del terremoto che sconvolse la sinistra, dichiara apertamente l'animus del testimone parziale. La sua ricostruzione ha come oggetto la sinistra. Ma se la storiografia politica ha sinora riletto il cataclisma del '77 come il compimento cupo e lugubre di una vicenda politica e di costume che affonda le sue radici nel Sessantotto, al contrario l'Annunziata lo circoscrive come l'inizio di un'altra storia che allunga le sue ombre fino ai nostri giorni, il deflagrare di un conflitto le cui conseguenze si sono proiettate anche negli anni a venire, l'esplosione di una guerra fratricida nella sinistra che ancora oggi riverbera i suoi strascichi e le sue divisioni. Quell'anno maturò il parricidio, l'uccisione del Partito comunista nel nome dell'altra sinistra: ecco la tesi di questo libro, in cui l'autrice riserva giudizi di una severità perentoria. Ecco l'indugiare feticistico su quel sampietrino che aveva contribuito a profanare la sacralità della storia comunista, umiliando il capo del sindacato e costringendolo a uscire dall'università assieme al suo servizio d'ordine un tempo imbattibile.
«Noi odiavamo i comunisti», scrive l'Annunziata, che ricorda anche, mettendo temerariamente mano al groviglio esistenziale che sembra dettare segretamente scelte ed emozioni politiche refrattarie a una razionalizzazione troppo spinta, che «mio padre, l'operaio comunista Raffaele, mi investì al telefono» dopo aver letto l'articolo della figlia dedicato alla cacciata di Lama: «Di tutti i pezzi scelti per la giornata, il più stupido l'hai scritto tu. Non vi siete resi conto di quello che avete fatto». Ma loro «odiavano» i padri comunisti. Ne detestavano, scrive ancora, il «grigiore», «quelle sezioni buie che rendevano le loro bandiere rosse attaccate alle pareti umide e flosce», quel «senso di muffa permanente», quella «potenza» di cui il Pci esibiva addirittura «un culto», mosso esclusivamente da un'ossessione per «l'ordine, l'organizzazione, la disciplina». Difficile un ritratto di famiglia dall'interno più impietoso, sprezzante, liquidatorio. Un atto d'accusa che sembra ricalcato sull'invettiva di André Gide contro le famiglie borghesi. Ma mai i comunisti avrebbero potuto immaginare di essere odiati dai loro figli come dei borghesi qualunque, non illuminati dalla scienza del futuro. Perciò reagirono con pesantezza e (comprensibile) malanimo. Si scagliarono sui figli ribelli del '77 bollandoli come «fascisti», «diciannovisti», «teppisti», «provocatori». Una spaccatura così cruenta, ha ragione l'Annunziata, scavò tra padri e figli un solco invalicabile.
Lucia Annunziata non edulcora la ricostruzione di quel duello furioso con il balsamo della nostalgia. Riporta con onestà cronistica il conto delle vittime del fanatismo intollerante. E restituisce il clima febbrile di uno scontro che non conobbe cuscinetti che ne attutissero l'urto. La bomba molotov che inaugurò l'anno contro il cinema romano che proiettava La lunga notte di Entebbe, il film sull'operazione con cui Israele liberò gli ostaggi di un aereo dirottato dai palestinesi. I giornalisti dell'«Unità» buttati fuori dall'università. L'aggressione al professor Franco Ferrarotti «che si rifugia in una profumeria». Le intimidazioni pesanti contro gli accademici, anche del Pci come Alberto Asor Rosa. La fama di «questurino» che si guadagnò l'allora segretario della Fgci Massimo D'Alema, colpevole di essere contro la violenza delle spranghe e delle pistole. Le ambiguità dei dirigenti di Lotta Continua (sebbene fu proprio grazie a due di loro, Luigi Manconi e Marino Sinibaldi, che l'Annunziata fu salvata dalle attenzioni minacciose di una parte del corteo). Il «processo popolare» cui venne sottoposto Paolo Mieli nel corso di un'assemblea. Le velleità d'attacco alla Bologna del Pci, con Giancarlo Pajetta che denunciava che «anche il fascismo cominciò con la marcia su Bologna» e con gli intellettuali francesi, Sartre in testa, che vaneggiavano sul nuovo autoritarismo simboleggiato dalla città amministrata da Renato Zangheri. Il parricidio fu violento, estremistico, cruento. Ed è così convincente e realistico il quadro che ne offre l'Annunziata che non si comprende fino in fondo l'accusa spietata che l'autrice riserva al ministro degli Interni di allora Francesco Cossiga, chiamato nuovamente «Kossiga» e bollato come preda di una «semifollia» nella gestione dell'ordine pubblico in una temperie di lotta armata unilateralmente dichiarata. Forse non c'era altro da fare. E comunque il parricidio di chi, secondo l'autrice, interpretava nella nuova sinistra la «modernità» contro il polveroso conservatorismo del Pci, non avrebbe potuto lasciare indifferente chi istituzionalmente era chiamato alla tutela dell'ordine pubblico nell'anno più difficile. L'anno più controverso.

l’Unità 16.1.07
IL CASO Il leader: non può fare la rassegna stampa di domenica. Il direttore dell’emittente, Massimo Bordin, replica: «Marco, a me va bene così»
Pannella «licenzia» in diretta Capezzone da Radio radicale
di Maria Zegarelli

La politica ormai si fa così: con stracci che volano in pubblico tra i vari soggetti interessati. Altro che vecchie maniere, «i panni sporchi si lavano in casa». Tutto superato. Molto più «in» dirsi le cose sinceramente in faccia ma davanti almeno a diverse centinaia di spettatori. Altrimenti non c’è gusto. Marco Pannella, che ha sempre il polso della situazione politica, ha quindi scelto la diretta radio, sulla «sua» Radio Radicale, per chiarire che lui l’ex segretario del partito, anzi «di una delle tante associazioni radicali», Daniele Capezzone, non lo vuole più sentire la domenica mattina come conduttore della rassegna stampa «Stampa e Regime». La conduce in «modo egregio, ma anche come autopromozione, sul piano politico, per carità», ma qualche «osservazione si può fare».
Tutto in onda, domenica sera nel corso della abituale intervista settimanale (andata in replica ieri mattina) con il direttore della radio, Massimo Bordin, che a un certo punto ha definito «sgradevole» quel colloquio che sembrava sempre più una resa dei conti tra il leader radicale e il suo ex delfino. Pannella sigaretta accesa, va avanti a testa bassa. Insiste: la domenica mattina «c’è un primato di ascolti», dunque sarebbe meglio assegnare quello spazio a qualcun altro, come Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni, che prende via via quota nel firmamento di via Arenula. Massimo Bordin prima smentisce il picco di ascolti della domenica mattina, poi sottolinea: «A me la programmazione va bene così, altrimenti stabiliamo che a deciderla è il partito». «Questo è offensivo» incalza la vecchia volpe per niente sfiancata - almeno nella favella - dal digiuno ad oltranza che porta avanti contro la pena di morte. Offensivo? «Sei l’editore della radio...», prova a dire il direttore. «Ora verrà fuori che gli faremo del mobbing, che gli togliamo il lavoro, ma non intendo accettare ricatti di questo tipo». Ma insomma..., ribatte l’altro, un po’ di mobbing, lascia intendere, si intravede in tutta questa vicenda.
Lo spettacolo va, gli stracci volteggiano sulle onde radio. Capezzone viene avvertito dell’ultimo attacco. «Ma insomma... - propone Bordin - diciamo che mi riservo una decisione, perché ti confesso...». «Una decisione relativa a che cosa? La decisione è sempre tua, in passato, nel presente e in futuro...». «Ma sai benissimo che non intendo mettermi in urto con i superiori interessi della politica...». E Pannella: «Perché anche tu hai paura del mobbing?». Risposta: «Non ho paura di niente, di nessuno, così non va... Al massimo mi puoi licenziare»... Stanza ormai piena di fumo e di tensione che taglia con il coltello. Pannella non cede e la tira avanti per circa dieci minuti, anzi come dice Bordin «che va avanti così dal 2007, dal dopo Padova». Allora basta, «potremmo fare così Marco...». Così come?, come sarebbe a dire?, «Insieme non facciamo nulla, lo farai tu», perché tu sei il direttore e quindi tu devi dare il benservito: questo è il succo che spremi spremi sta venendo fuori. E allora, se proprio lo devo fare io, rilancia il direttore, «non vedo motivo di cambiare la rassegna stampa della domenica».
Daniele Capezzone, attuale presidente della Commissione Attività produttive della Camera, citato a Caserta da Romano Prodi per il progetto «un’impresa in un giorno», al telefono è piuttosto sbrigativo. «Ho sentito Bordin privatamente e l’ho ringraziato - dice - per il suo comportamento ineccepibile e ammirevole. Quanto a Marco ho troppo rispetto per lui per commentare una sortita che mi sembra davvero deludente». Di andarsene non ci pensa nemmeno l’ex segretario tirato su politicamente come un figlio proprio da colui che oggi lo ripudia. Capezzone (definito da Casini l’unico riformista, oltre a Nicola Rossi) ritira fuori dal cassetto una frase già pronunciata durante il congresso: «Marco, ti dò una brutta notizia: io non me ne vado». E l’altra, quella detta davanti alle telecamere di «Markette» la trasmissione di Chiambretti: «Di qualunque cosa venga accusato, inclusa la violazione del trattato di Kyoto, non scendo in polemica». Silenzio da parte dell’attuale segreteria dei radicali, Rita Bernardini. Non tace, invece, Bordin. Spiega il giorno dopo: «Non ho alcuna intenzione di cambiare la rassegna stampa della domenica. Se poi il partito, visto che di radio di partito si tratta, dovesse decidere diversamente, allora...». Allora? «Sarà una separazione consensuale». Certo però che non sarebbe un bel segnale, «perché in passato non è mai successo che il partito facesse il partito in questo senso, dettando ultimatum su questioni di questo tipo». Prova anche a smorzare i toni della discussione, ma confessa di non aver condiviso affatto le modalità scelte dall’editore. «Quella questione si poteva affrontare anche in altro modo, a microfono chiuso». Alla motivazione addotta dal leader radicale, «ascolti molto più consistenti la domenica», non ha creduto nessuno tra i radicali, come insegna lo «strappo di Padova».

Redattore Sociale 15.1.07
Indulto, in Italia non c'è stata alcuna "ondata di ritorno"
Complessivamente dal primo agosto 2006 a oggi, sono stati scarcerati grazie all’indulto 25.405 detenuti. Superato il sovraffollamento, oggi nelle carceri italiane sono presenti 39.157 detenuti, solo 1.200 in più rispetto al settembre scorso

ROMA - La legge 241 del 2006, meglio nota come indulto, ha determinato per la prima volta da molti anni un allentamento della pressione patologica che si registra nelle carceri italiane. Non era mai successo negli ultimi anni di poter arrivare a sfiorare una situazione di normalità, o almeno – in altri termini – a riportare gli istituti penitenziari ad una situazione “fisiologica”. Bisogna infatti tornare indietro al 1991 per trovare la situazione che si è determinata in questi ultimi mesi grazie all’applicazione dell’indulto. Come nel ’91, anche ora nelle carceri italiane ogni detenuto occupa un posto. Fino alla primavera dello scorso anno la situazione era invece arrivata oltre ogni limite di sopportazione: tre detenuti per posto fisico in carcere. O in altri termini: il numero complessivo dei detenuti presenti in carcere era diventato il triplo della capienza effettiva.
Alla data di ieri, 14 gennaio, nelle carceri italiane erano presenti 39.157 detenuti, solo 1.200 in più rispetto al 30 settembre 2006, cioè a indulto largamente applicato, ed esattamente tanti quanti sono i posti a disposizione. Non si vede ancora, dunque, "l’ondata di ritorno" temuta la scorsa estate, quando le carceri contenevano più di 60 mila persone.
Sul’indulto era infatti divampata una rovente polemica nell’ambito politico e sui media. Quella legge era stata utilizzata per rilanciare l’allarme sicurezza. Si è gridato al pericolo dei criminali rimessi in libertà e molti hanno anche speculato sui “rientri”, ovvero sul fatto che una parte dei detenuti rimessi in libertà sarebbe rientrata quasi subito in carcere per nuovi arresti e nuovi reati. Cerchiamo di vedere più da vicino come stanno le cose. E lo facciamo utilizzando due fonti: i dati più aggiornati del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e le analisi incrociate dell’associazione Antigone, che da anni monitora e segue la tematica carceraria.
Per quanto riguarda gli effetti dell’indulto, il Dap ha calcolato (uno per uno, carcere per carcere) il numero dei detenuti che sono stati scarcerati in base alla legge 241. Complessivamente dal primo agosto 2006 a oggi, 15 gennaio 2007, sono stati scarcerati grazie all’indulto 25.405 detenuti. In questa cifra bisogna però fare delle differenziazioni secondo la posizione giuridica delle persone che hanno potuto beneficiare del provvedimento avendone i requisiti previsti dalla norma stessa. Il Dap differenzia così due categorie: “i definitivi puri” e gli “usciti per revoca di misura cautelare a seguito di indulto”. Nella prima categoria rientrano 17.763 persone. Questi cosiddetti “definitivi puri” sono stati un po’ di più di quelli che erano stati previsti prima dell’approvazione della legge. Si era calcolato infatti che l’indulto avrebbe permesso la scarcerazione diretta di 15.470 detenuti. Il Dap spiega che lo scarto in eccesso (17.763 contro i 15.470) è dovuto al fatto che tra la previsione antelegge e l’applicazione, altri detenuti hanno maturato i requisiti per beneficiare del provvedimento.
Nella seconda categoria utilizzata dal Dap ci sono i detenuti in attesa di primo giudizio, gli appellanti, i ricorrenti e i “misti con più procedimenti a carico, con misura cautelare e provvedimenti di condanna definitiva o non definitiva”. Per quanto riguarda le persone in attesa di primo giudizio quelle che hanno potuto beneficiare dell’indulto e quindi uscire dal carcere sono state 466. Ci sono stati poi 1502 appellanti, 737 ricorrenti, mentre tra i cosiddetti “misti” troviamo circa cinquemila persone, 4937 per l’esattezza, ovvero circa il 20% del totale. I detenuti usciti per indulto in modo diretto (quelle 17.763 persone di cui abbiamo detto sopra) rappresentano il 69,9% del totale. (pan).

Redattore Sociale 15.1.07
Rientrate in carcere dopo l'indulto 2640 persone, di cui 929 stranieri
Al primo posto nelle statistiche dei reati ascritti ai soggetti nuovamente arrestati ci sono quelli contro il patrimonio (46,38%), seguiti dai reati legati alla legge vigente sulle droghe (14,29%) e da quelli contro la persona (10,34%)

ROMA - I dati sui “rientri” in carcere dopo l’indulto, ovvero delle persone che sono state arrestate subito dopo o qualche tempo dopo la scarcerazione relativa al provvedimento di indulto smentiscono parecchie delle previsioni della vigilia e perfino alcuni dei luoghi comuni più ricorrenti. Il primo dato che emerge – ed è anche la prima smentita di alcune previsioni della vigilia dell’applicazione della legge n.241 – è relativo alla percentuale di stranieri sul totale delle persone finite nuovamente in carcere dopo essere state scarcerate.
Dal primo agosto 2006 a oggi (15 gennaio 2007) sono rientrate in carcere dopo aver beneficiato dell’indulto 2640 persone. Tra queste 1711 sono italiani e 929 stranieri. Si ribalta così una delle previsioni, visto che quasi tutti gli ossertori avrebbe scommesso sul contrario. Si era detto e immaginato che la stragrande maggioranza dei “rientri”, ovvero delle persone che liberate, si sono fatte arrestate di nuovo, sarebbe stata composta di immigrati o stranieri in generale.
L’altro dato interessante riguarda, sempre per quanto riguarda gli effetti dell’indulto e il riscontro ufficiale fornito dall’amministrazione penitenziaria, la composizione per sesso. Tra i 1711 italiani che sono stati arrestati di nuovo dopo l’indulto, 43 erano donne e 1668 uomini. Un rapporto tra maschi e femmine che più o meno si ripete anche tra gli stranieri. Tra i 929 arrestati dopo l’indulto, 14 erano donne e 915 uomini. Tra straniere e italiane le donne arrestate dopo essere state scarcerate per l’indulto sono state dunque 57, mentre il numero complessivo degli uomini ri-arrestati dopo l’undulto (tra italiani e stranieri) è stato di 2583 persone.
Molto utile tentare anche di analizzare i dati relativi al tipo di reati per i quali sono stati di nuovo arrestato gli ex detenuti che avevano beneficiato dell’indulto. A una prima rilevazione dei dati spicca evidente la differenza – spesso anche macroscopica – nella tipologia dei reati. Al primo posto nelle statistiche dei reati ascritti ai soggetti rientrati in carcere dopo aver beneficiato dell’indulto ci sono i reati contro il patrimonio, che rappresentano quasi la metà del totale (46,38%). Al secondo posto – ma molto distanziati rispetto alle percentuali – i reati legati alla legge vigente sulle droghe. Questi reati – tra chi è rientrato in carcere – rappresentano il 14,29%. Al terzo posto della graduatoria, con il 10,34% del totale, troviamo i reati contro la persona. Al quarto i reati contro la pubblica amministrazione con uno scarso 7,79%, mentre solo al quinto posto scopriamo i reati contro la legge sugli stranieri con un 7,32% del totale. Un’altra percentuale bassa riguarda poi la legge sulle armi (3,84%), i reati contro l’amministrazione della giustizia (1,34) la fede pubblica (1,24%), le contravvenzioni e i reati contro la famiglia che risultano all’ultimo posto con uno 0,52% del totale dei reati ascritti a chi è rientrato in carcere. (pan)

Redattore Sociale 15.1.07
Poco più di 9mila gli stranieri usciti dal carcere grazie all'indulto
Antigone: ''Nei loro confronti l’indulto è stato applicato quasi solo nei casi in cui era presente un avvocato di fiducia''

ROMA - Gli immigrati e in generale i cittadini stranieri sono stati i meno coinvolti dal provvedimento di indulto varato lo scorso anno dal governo Prodi. Il fenomeno li ha riguardati in modo secondario rispetto agli altri italiani sia dal punto di vista degli effetti pratici del provvedimento sulle uscite dal carcere, sia dal punto di vista dei cosiddetti "rientri”, ovvero dei casi in cui le persone che hanno beenficiato dell'indulto sono state poi di nuovo arrestate. Per quanto riguarda il totale dei beneficiari dell"indulto solo una parte è straniera. Non ci sono ancora le ultimi elaborazioni, ma il rapporto dovrebbe essere di meno di un terzo. Secondo le elaborazioni di Antigone, l’associazione che si occupa di carceri da molti anni, sulle cifre ufficiali fornite dal Dap, delle 25.256 persone uscite dal carcere a causa dell’indulto al 25 ottobre dello scorso anno, 9187 erano straniere. Se prima dell’entrata in vigore del provvedimento di indulto gli stranieri in carcere erano 20.088, pari al 33% della popolazione detenuta totale, al settembre del 2006 erano 12.369, pari cioè al 32%. Sia secondo Antigone, sia secondo altri osservatori e studiosi delle carceri, ci si sarebbe potuti aspettare uno scarto maggiore tra queste percentuali, essendo - come scrive Susanna Marietti di Antigone – “i detenuti stranieri con reati ascritti di bassa gravità proporzionalmente di più dei detenuti italiani”.
Si può presupporre quindi che data l’alta percentuale di detenuti in custodia cautelare tra gli stranieri, in pochi abbiano visto cessare la misura cautelare grazie all’indulto. Si suppone anche che non sono tanto le condizioni di applicazione della legge sull’indulto, che poi sono uguali per tutti, ma qualche altro fattore esterno. Uno dei fattori che sicuramente fa la differenza è quello relativo alla difesa. Si conferma cioè anche per gli immigrati l’ipotesi che l’indulto, al di fuori dei casi più ovvi, sia stato applicato solo in situazioni giuridicamente tutelate dalla presenza di un avvocato di fiducia. L’altro elemento molto interessante che differenzia gli effetti dell’indulto e il dopo indulto tra italiani e stranieri è il dato relativo ai rientri in carcere. (vedi lancio precedente) (pan)

ANSA.it 16.1.07
La famiglia uccide più della Mafia

ROMA - Un morto ogni due giorni, 1.200 vittime in cinque anni: la famiglia italiana uccide piu' della mafia, della criminalita' organizzata straniera e di quella comune. E quello che dovrebbe essere il luogo piu' sicuro, la casa, si trasforma invece nel posto a piu' elevato rischio: su dieci omicidi avvenuti nel 2005 nella sfera familiare, sei sono stati commessi tra le mura domestiche. La fotografia emerge dal rapporto Eures-Ansa 2006 ''L'omicidio volontario in Italia''. Dati che pero' mettono in luce anche degli aspetti positivi: nel nostro Paese il numero di omicidi volontari e' calato del 65% negli ultimi 15 anni passando dai 1.695 del 1990 ai 601 del 2005. E se Napoli resta la capitale dei delitti, nel nord Europa e negli Stati Uniti si uccide molto piu' che nel nostro Paese.
174 OMICIDI IN FAMIGLIA NEL 2005, 29,1 DEL TOTALE - La sfera familiare, dove avviene anche il 91,6% degli omicidi-suicidi, precede le vittime della mafia (146, il 24,4%) e della criminalita' comune (91, il 15,2%). Quest'ultimo dato e' in controtendenza rispetto al 2004, con un aumento del 28,2%, quando le vittime furono 71. Questo perche', secondo il rapporto, ''accanto alla diffusione dei delitti collegati ai 'reati comuni''', emerge ''quella degli omicidi compiuti da individui 'qualunque', spesso giovani, estranei alla malavita, divenuti assassini per futili motivi o banali litigi all'uscita della discoteca''. Solo 4 le vittime della criminalita' organizzata straniera. La maggior parte degli omicidi in famiglia avviene al Nord. Ad armare la mano degli assassini e' una volta su quattro il movente passionale e se su dieci donne uccise in Italia ben sette sono state ammazzate dal partner o da un familiare, cresce anche il numero di uomini vittime della famiglia: nel 2005 l'incremento e' stato del 28,8%.
OMICIDI DIMEZZATI IN 15 ANNI, NAPOLI CAPITALE DEI DELITTI - Si e' passati dai 1.695 omicidi del 1990 ai 601 del 2005. A guidare la classifica delle zone piu' pericolose e' il Sud: con 346 vittime si conferma l'area dove si consuma il maggior numero di delitti (57,6%), seguita dal Nord (29%) e, con un ampio scarto, dal Centro (-4,7%). Il divario trova conferma anche in termini relativi: l'indice di rischio (numero di delitti ogni 100 mila abitanti) e' 1,7 al Sud mentre 0,7 a Centro e Nord. Record di omicidi in Campania, con 128 vittime. Una regione che da 10 anni conserva il primato negativo. Seguono Sicilia (70 vittime), Calabria (69), Lombardia (65)e Lazio (46). L'indice di rischio piu' elevato si registra invece in Calabria (3,4 omicidi), seguita da Campania (2,2), Sardegna (1,5) e Sicilia (1,4). Tra le citta' Napoli e' la capitale degli omicidi (88 vittime), seguita da Reggio Calabria (39), Roma (36), Caserta e Milano (28). Dal rapporto emerge pero' che si uccide non solo in citta'. Anzi: piu' della meta' degli omicidi (58%) avviene nei piccoli e medi comuni.
ITALIA SOTTO MEDIA EUROPEA; IN USA 30 VOLTE PIU' OMICIDI - Al vertice della 'vecchia' Unione Europea a 15 i paesi dove si uccide di piu' sono Finlandia e Svezia: rispettivamente con 2,6 e 2,2 omicidi ogni 100 mila abitanti (la media europea e' 1,4). L'Italia, tra il 2000 e il 2004, ha avuto una media di 1,2 omicidi, superiore a Germania, Paesi Bassi e Grecia (0,7), la nazione piu' sicura. Con l'allargamento a 25, i paesi piu' pericolosi sono diventati gli ex satelliti di Mosca: 9,7 in Lituania e 9,3 in Estonia e Lettonia. Anche gli Stati Uniti hanno una media ben superiore: nel solo 2004 si sono registrate oltre 16 mila vittime, 27 volte quelle italiane.
GIOVANE, UOMO E ROMENO, IDENTIKIT DELLA VITTIMA STRANIERA - Su 601 persone uccise nel 2005, 111 erano stranieri, il 18,6% del totale ma in calo rispetto all'anno precedente (145). Due terzi sono uomini e l'eta' media degli stranieri ammazzati si attesta sui 32 anni, ben al di sotto della media degli italiani (41,6 anni). La Romania e' il paese straniero con il piu' alto numero di vittime in Italia (19), seguita da Marocco (11), Albania (10) e Polonia (9).

Corriere della Sera 16.1.07
PERCHÉ VINCE RIFONDAZIONE
di Dario Di Vico

Perché Rifondazione vince sempre? La domanda, dopo il conclave di Caserta, si ripropone con cocente attualità. Come mai, ogni volta che c'è un «franco dibattito» tra le diverse anime della maggioranza, alla fine ne escono sempre vincitori gli uomini che guidano, con perizia per carità, il terzo partito (né il primo né il secondo) della coalizione? La risposta più ovvia è che senza i voti di Rifondazione il governo cadrebbe ed è questo il motivo che consente a Franco Giordano e Paolo Ferrero di esercitare i poteri della golden share. Ma non è sufficiente. La forza del Prc consiste nel far riferimento a un corpo di convincimenti e di obiettivi che sta interamente dentro la storia della sinistra italiana e delle sue appendici. Rifondazione parla un lessico familiare ai gruppi dirigenti — centrali e periferici — dei Ds e dell'ex sinistra Dc, è il linguaggio del riformismo novecentesco con le sue granitiche certezze keynesiane e solidaristiche. Un patrimonio che viene però gestito con buona capacità di aggiornare analisi e parole d'ordine. Basta sfogliare il quotidiano Liberazione per avere la riprova che in qualche maniera Rifondazione è in viaggio.
La pur relativa omogeneità delle culture politiche porta Romano Prodi e il Prc a impostare agende largamente simili. Alcuni dei temi più cari al premier sono parte integrante dell'analisi del caso italiano fatta da Rifondazione. Si pensi alla rivalutazione dell'intervento pubblico in economia, ripetutamente sostenuta da alcuni consiglieri del premier, a cui fa da pendant un perdurante scetticismo sul ruolo degli imprenditori privati; ma anche alla denuncia cara a Prodi dell'aumento del differenziale delle retribuzioni e dei redditi. E la stessa percezione che oggi nelle casse pubbliche ci siano le risorse per riprendere politiche di spesa è comune. Del resto nella prima esperienza dell'Ulivo a Palazzo Chigi, seguita alla vittoria del '96, la convergente visione dei problemi tra il Professore e Fausto Bertinotti aveva fatto sì che il governo vagliasse una legge sulle 35 ore sulla falsariga della strampalata esperienza francese.
Le ragioni della forza dei rifondatori sono speculari ai motivi della debolezza dei leader riformisti, che dopo Caserta sono stati sottoposti a una gogna mediatica. Da diverse parti è stato proposto di fare dei Fassino e dei Rutelli altrettanti Ogm, di intervenire sui loro geni e successivamente di dar loro una nuova denominazione, volenterosi o miglioristi. Si tratta di operazioni che suonano ingenerose. Quello che manca ai due leader è la dimensione del viaggio, non si capisce quale sia il punto di arrivo della trasformazione che dovrebbe portare la sinistra italiana ad assomigliare sempre meno ai suoi modelli del secolo scorso e sempre di più al partito democratico americano. Lo stesso blairismo un giorno viene rivendicato come benchmark,
l'altro immediatamente negato. Gli obiettivi che ci si dà per contare dentro il governo cambiano dalla mattina al pomeriggio oppure se vengono fissati il lunedì al successivo giovedì già figurano declassati. E i rilievi che dal cuore dei Ds e della Margherita sono arrivati per opera di Nicola Rossi, Peppino Caldarola e Stefano Menichini segnalano abbondantemente un crescente disagio.
Ma di una ripresa di dinamismo da parte dei due grandi partiti del centrosinistra la politica italiana ha un evidente bisogno. Mettersi in viaggio in questo caso non vuol dire scrivere a tavolino il programma «massimo» dell'ulivismo mondiale, ma più pragmaticamente trovare la capacità di prendere in mano una bandiera (scegliere una riforma, non due e non tre) e farne elemento di una battaglia politica (non di due o di tre) dentro e fuori la coalizione di governo. Se sarà una bandiera riconosciuta dall'Europa, i leader riformisti scacceranno l'incubo della manipolazione genetica.
ddivico@rcs.it

lunedì 15 gennaio 2007

l’Unità 15.1.07
Se le polemiche sull’indulto
passano dal paesino di Erba
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
nei giorni successivi al massacro di Erba, La Stampa e il Corriere della Sera hanno immediatamente collegato questo fatto atroce all'indulto di luglio. Le indagini, successivamente, sono andate in un'altra direzione ma l'effetto di quel collegamento resta. Siamo davvero meno sicuri oggi, dopo l'indulto? Davvero l'indulto è stato un errore dal punto di vista della politica criminale?
Lettera firmata

Sappiamo oggi con certezza che il delitto di Erba è stato commesso da due persone che non avevano usufruito dell'indulto. Due persone considerate fino a ieri delle persone «perbene», senza rapporti precedenti con la giustizia. Come accade spesso nel caso dei delitti più atroci e più difficili da spiegare. L'episodio cui lei fa riferimento nella sua lettera, tuttavia, resta. Segnalando con chiarezza il pregiudizio, a volte davvero protervo, con cui gran parte della stampa italiana ha accolto la legge sull'indulto: raccogliendo tutto quello che si poteva raccogliere per far sembrare demagogica e pericolosa una decisione del Parlamento, discutibile e discussa nei dettagli (io personalmente mi sono astenuto, in aula, perché l'assemblea aveva ritenuto di non escludere dall'indulto i reati mafiosi collegati al voto), ma profondamente giusta nella sostanza per la sua capacità di dare risposta ad un problema, quello del sovraffollamento delle carceri italiane, di cui era non solo opportuno ma doveroso farsi carico. Con urgenza.
La tecnica usata da molta stampa per informare (ma, in casi come questo, per «disinformare») il lettore sugli effetti di un provvedimento legislativo è stata in realtà fin da subito semplice ed efficace. Diciassettemila persone erano uscite a seguito dell'indulto proprio in quel primo mese, giornali e televisioni hanno iniziato da subito a dare ampio risalto al dato per cui alcune di loro commettevano di nuovo dei reati. Senza porsi il problema del rapporto fra numero dei reati, però, e numero degli «indultati» e senza fare confronti fra la percentuale degli indultati recidivi e quella dei detenuti che recidivano, senza indulto, quando escono dal carcere. Evitando il confronto con i numeri e il ragionamento sul modo in cui le persone (i detenuti sono soprattutto persone) hanno reagito ad un provvedimento di clemenza, la gran parte dei giornali italiani di destra, di centro e di centro sinistra si è data da fare per «dimostrare» che la gente aveva ragione quando pensava che un'orda impazzita di gente uscita dal carcere avrebbe messo a soqquadro la città, a rischio la sicurezza dei cittadini. Accarezzando o suscitando le emozioni dei lettori cui piace sentir parlare di politici incoscienti e di cattivi da sbattere dentro carceri di cui bisognerebbe perdere poi per sempre le chiavi. Paradosso dei discorsi sulla giustizia dell'Italia di oggi, un paese in cui nessuno dovrebbe essere giudicato colpevole fino al momento della sentenza definitiva (che è tale, a volte, dopo un quarto o un quinto livello di giudizio: Previti è ancora oggi «onorevole») ma per cui, al tempo stesso, basta stare in per essere «pericoloso». Senza speranza alcuna di cambiamento.
La confusione che si è determinata a questo punto a livello d'immaginario collettivo, mi dico a volte, è stata tale da coinvolgere troppi giornalisti e troppi opinionisti in una visione confusa e parziale della realtà. Una visione cui la possibilità di legare all'indulto e ad un indultato un massacro come quello di Erba è sembrata un'occasione davvero straordinaria per sottolineare quanto avevano avuto ragione fin dall’inizio a criticare la legge: bacchettando insieme l'insipienza dei politici e la pericolosità dei detenuti. Riaffermando la superiorità di chi da fuori, senza responsabilità diretta, può permettersi di dare giudizi gratuiti (o a pagamento).
L'esito delle indagini sul delitto di Erba permette di uscire da questa ambiguità? Probabilmente no. Quelli che lo permettono in modo molto più chiaro sono però i numeri proposti dal ministro Mastella al Senato. Valutando i dati sui reati commessi nel terzo trimestre del 2006 (nei mesi cioè di luglio, agosto e settembre) in tutta Italia, il Ministero ha documentato infatti una diminuzione percentuale del 2.70% nei confronti di quelli commessi, nello stesso trimestre, un anno prima. Comparando ancora i dati relativi al trimestre agosto - ottobre nei circondari di Milano, Roma, Napoli e Palermo (che avevano già fornito i dati relativi ad ottobre) con quelli relativi allo stesso trimestre degli ultimi sette anni, ugualmente, i reati commessi nel 2006 e quelli, in particolare, legati ai reati gravi, come l'omicidio, sono leggermente al di sotto della media. Il fatto che dai 60.710 detenuti in carcere dal 31 Luglio 2006 si sia passati ai 39176 del 15 novembre 2006 ed il fatto che, nello stesso periodo 17423 soggetti già fuori dal carcere abbiano usufruito dell'indulto per le loro misure alternative (affidamento in prova o detenzione domiciliare) significa in effetti che si sono mossi liberamente 34878 in Italia, in quei mesi, persone che erano sottoposte a misure di sorveglianza e che questo non ha determinato però nessuna ondata di violenza, nessun rischio in più per il cittadino. Se si riflette, d'altra parte, sul fatto per cui, in mancanza o in carenza grave, anche in questo caso, di provvedimenti utili al reinserimento sociale e lavorativo degli ex-detenuti, la gran parte delle recidive di reato si verifica abitualmente proprio nei giorni e nei mesi subito successivi alla scarcerazione, quella cui ci troviamo di fronte, ragionando sui dati forniti dal ministero, è la percentuale clamorosamente bassa di recidive che riguarda proprio gli indultati.
Scriveva Bateson molti anni fa che se si dà un calcio ad un sasso si può calcolare con relativa facilità il movimento successivo del sasso ma che molto più difficile è prevedere il movimento di un uomo che riceve lo stesso calcio. Il modo in cui il soggetto vivente reagisce ad un certo evento è di fatto assai difficile da prevedere semplicemente perché noi non abbiamo mai sotto controllo tutte le variabili che lo determinano. Quello che viene da pensare riflettendo sul caso degli indultati del 2000 è che la gran parte di loro (una grande maggioranza di loro) ha reagito ad un atto di clemenza e di giudizio con dei comportamenti più ragionevoli di quelli che avrebbe messo in opera se questo atto non fosse stato compiuto. Il detenuto non è infatti quello che il pregiudizio di tanti continua a presentare come un sasso: come un diverso lombrosianamente condannato, cioè, a delle condotte devianti. È un essere umano dotato di un repertorio ampio di comportamenti. Tocca a chi se ne occupa aiutarlo a tirar fuori quelli più costruttivi. Come forse si è fatto in questo caso. Dimostrandogli, con l'indulto, che chi gli chiede di rispettare i diritti degli altri sa rispettare i suoi. Anche all'interno di un carcere che è umano nella misura in cui sa essere a misura di uomo.

Repubblica 15.1.07
Festival delle scienze
L'intelligenza a pezzi
L'intervento del neuropsicologo Howard Gardner


La rassegna inizia oggi all'Auditorium di Roma Fra i protagonisti lo studioso americano e la sua teoria della conoscenza
Ogni individuo differisce da un altro per il profilo nella capacità di apprendere
La scuola deve far evolvere le persone a partire da questi elementi
La facoltà di comprendere non è unitaria, bensì multipla. Esistono quella logico-matematica, quella linguistica e altre ancora

Una certa insoddisfazione per il concetto di QI (quoziente di intelligenza, n.d.t.) e per il concetto di intelligenza unitaria è abbastanza diffusa. Si pensi, per esempio, alle opere di L. L. Thurstone, J.P. Guilford, e di altri psicologi critici. Dal mio punto di vista, tuttavia, le critiche non sono sufficienti. A dover essere messo in discussione, anzi a dover essere sostituito, è il concetto stesso di intelligenza unitaria.
Io credo che dovremmo lasciar perdere del tutto i test e le correlazioni tra i test e prendere in considerazione invece parametri più naturali per informarci su come gli esseri umani di tutto il mondo sviluppano facoltà determinanti per le loro vite. Si pensi, per esempio, ai marinai dei Mari del Sud, che sanno trovare la rotta giusta fra centinaia o perfino migliaia di isolette osservando le costellazioni delle stelle in cielo, percependo in che modo la loro imbarcazione scivola sull´acqua e prendendo nota di pochi e isolati punti di riferimento. In un gruppo di marinai di questo tipo il termine giusto per definire l´intelligenza sarebbe probabilmente attinente a questo loro modo peculiare di essere abili nella navigazione. Si pensi ora ai chirurghi e agli ingegneri, ai cacciatori e ai pescatori, ai ballerini e ai coreografi, agli atleti e agli allenatori, ai capi tribù e agli stregoni: dobbiamo prendere in considerazione ciascuna di queste funzioni diverse, se accettiamo il mio modo di definire l´intelligenza come la capacità di risolvere i problemi o di creare qualcosa che abbia valore in uno o più ambiti culturali. Fino a questo punto non ho detto se esiste una dimensione sola o più di una di intelligenza, né ho detto se essa sia innata o si sviluppi nel tempo. Ho piuttosto messo in rilievo la sola abilità di risolvere i problemi e creare qualcosa. Nel mio lavoro indago pertanto quali siano gli elementi basilari ai quali ricorrono i suddetti marinai, chirurghi e stregoni.
In questa impresa la scienza, nella misura in cui esiste, consiste nel cercare di scoprire la descrizione più appropriata per queste intelligenze. Che cosa è l´intelligenza? Cercando di rispondere a questa domanda con i miei colleghi ho esaminato una vasta gamma di parametri che, per quanto ne so, fino ad allora non erano mai stati presi in considerazione tutti insieme. Uno è ciò che già sappiamo in relazione allo sviluppo delle diverse capacità nei bambini normali. Un altro, molto importante, è scoprire in che modo queste facoltà si perdono in talune circostanze di danno cerebrale. Quando un individuo subisce un ictus o un altro tipo di danno cerebrale, talune facoltà, in modo del tutto indipendente dalle altre, possono andare perse, come possono pure essere mantenute.
Questa ricerca su pazienti colpiti da danni cerebrali ha dato tutta una gamma di riscontri molto validi, in particolare perché è parsa riflettere il modo col quale il sistema nervoso si è evoluto nel corso dei millenni per creare tipi di intelligenza diversificati.
Il mio gruppo di ricerca ha esaminato anche altri soggetti particolari - i bambini prodigio, gli idiot savant, i bambini autistici, i bambini con difetti cognitivi -, tutti soggetti che presentano profili cognitivi alquanto irregolari, difficili da spiegare in termini di concetto unitario di intelligenza. Abbiamo esaminato l´apprendimento in diverse specie animali e in culture radicalmente differenti. Alla fine, abbiamo studiato attentamente due tipi di prove psicologiche: le correlazioni tra i test psicologici del genere fornito da un´analisi fattoriale di una serie di test e i risultati dei tentativi di insegnare determinate abilità. Per esempio, allorché si insegna a qualcuno la capacità A, quanto si apprende si trasferisce automaticamente alla capacità B? L´insegnamento della matematica, per esempio, esalta le facoltà musicali dell´individuo o accade viceversa?
Chiaramente, esaminando tutti questi parametri - informazioni sullo sviluppo, sulla perdita delle facoltà, su alcuni soggetti particolari e così via - abbiamo finito col mettere insieme una grande dovizia di informazioni. Teoricamente, avremmo dovuto eseguire un´analisi dei fattori, introdurre tutti i dati in un computer e quindi prendere nota dei tipi di fattori o di intelligenze che ne sarebbero stati estrapolati. Ahimè! Questo genere di materiale non esisteva in una formula passibile di essere elaborata a livello informatico, e di conseguenza abbiamo dovuto eseguire un´analisi più soggettiva dei vari fattori.
In verità, abbiamo studiato i risultati quanto meglio abbiamo potuto, cercando di organizzarli in modo tale che avessero senso per noi e, possibilmente, per i lettori più critici. L´elenco di intelligenze che ne ho ricavato è un tentativo preliminare di organizzare questa grande massa di informazioni.
Vorrei ora ricordare brevemente le intelligenze che abbiamo identificato e riportare uno o due esempi di ciascuna. L´intelligenza linguistica è quel tipo di facoltà che i poeti, forse, esprimono nella sua forma più completa. L´intelligenza logico-matematica, come sottintende il suo stesso nome, è la facoltà logica e matematica, come pure l´attitudine scientifica. Jean Piaget, il grande psicologo dello sviluppo, pensava di studiare tutta l´intelligenza, mentre io ritengo che egli studiasse soltanto lo sviluppo dell´intelligenza logico-matematica.
Anche se in primis parlo delle intelligenze linguistiche e logico-matematiche, ciò non vuole dire che io le reputi le più importanti. In effetti penso che tutte e sette le intelligenze abbiano uguale posizione prioritaria.
Nella nostra società, tuttavia, abbiamo per così dire collocato l´intelligenza linguistica e l´intelligenza logico-matematica su un piedistallo, figurativamente parlando. Buona parte dei nostri test si basa su questa alta considerazione delle facoltà verbali e matematiche dell´individuo. Se si eccelle nell´espressione linguistica e in logica si avranno eccellenti risultati nei test di QI e nel SAT (Test di Valutazione Scolastica, n.d.t.), e si potrà di conseguenza avere accesso a un´università prestigiosa. Se andrà altrettanto bene una volta decollati, dipenderà probabilmente in egual modo dalla misura in cui si è in possesso e si fa uso delle altre intelligenze, ed è a queste che voglio pertanto rivolgere la medesima attenzione.
L´intelligenza spaziale è la facoltà di elaborare un modello mentale di mondo spaziale ed essere in grado di posizionarsi e operare in rapporto a quel modello. I marinai, gli ingegneri, i chirurghi, gli scultori e i pittori - per citare soltanto qualche esempio - sono forniti tutti di un´intelligenza spaziale spiccata e sviluppata.
L´intelligenza musicale è la quarta categoria che ho identificato: Leonard Bernstein ne ha in grande quantità, Mozart, presumibilmente, ne aveva molta di più. L´intelligenza cinestetica corporea è la facoltà di risolvere problemi o creare utilizzando interamente il proprio corpo o alcune sue parti. I ballerini, gli atleti, i chirurghi e gli artigiani presentano tutti un´intelligenza cinestetica corporea molto sviluppata.
Infine, propongo altre due tipologie di intelligenza personale non del tutto chiare, che eludono facilmente l´osservazione, ma sono ciò nondimeno estremamente importanti. L´intelligenza interpersonale è la capacità di comprendere il prossimo e gli altri, di comprendere che cosa li motiva, come lavorano, come collaborare opportunamente con loro. È verosimile che i negozianti di successo, i politici, gli insegnanti, i clinici e i capi religiosi siano tutti individui con un alto livello di intelligenza interpersonale. L´intelligenza intrapersonale, invece, la settima tipologia di intelligenza, è la medesima facoltà correlativa, rivolta però a se stessi: è pertanto la capacità di formarsi un modello preciso e veridico di sé ed essere in grado di usare questo modello per agire efficacemente nella vita.
Queste, dunque, sono le intelligenze che abbiamo descritto nelle nostre ricerche. (In seguito ho aggiunto all´elenco un´ottava intelligenza, quella "naturalistica", e ho preso altresì in considerazione l´idea di una nona, l´intelligenza "esistenziale"). Come ho già detto, si tratta di un elenco preliminare. Chiaramente, ciascuna tipologia di intelligenza può essere a sua volta suddivisa, ed è altresì possibile ridefinire l´elenco.
Inoltre, noi crediamo che gli individui possano differire nei particolari profili di intelligenza che sono loro innati e di sicuro differiscono nei profili che finiscono col ritrovarsi. Penso alle intelligenze come a una serie di potenziali biologici primigeni, che possono essere contemplati nella loro forma più pura soltanto negli individui che sono, in senso tecnico, "tipi strani". In quasi qualunque altro individuo, le intelligenze multiple collaborano tutte insieme alla risoluzione dei problemi e per produrre vari tipi di esiti culturali (professioni, passatempi, e simili).
Questa, in estrema sintesi, è la mia teoria delle intelligenze multiple. Dal mio punto di vista, obiettivo della scuola dovrebbe essere quello di far evolvere le intelligenze e aiutare le persone a conseguire gli obiettivi professionali e velleitari più consoni al loro particolare ventaglio di intelligenze. Coloro che ricevono aiuto in tale iter credo si sentano più impegnati, più competenti e di conseguenza più propensi a servire la società in modo costruttivo.
Tratto da "The Development and Education of the Mind". Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 15.1.07
Nelle sale "La guerra dei fiori rossi" di Zhang Yuan e Wang Shou, invisi alle autorità di Pechino
Il piccolo ribelle all'asilo dei divieti l'altra faccia della Cina di Mao
di Renata Pisu


Un´infanzia cinese, tanti bambini di un asilo nel cuore di Pechino, una città che si indovina al di là dei muri rosso porpora, come quelli della Città Proibita. Una Cina piccina, una Cina vicina, giochi e canzoncine, tutti in fila per uno, mani dietro la schiena. Seduti! In piedi! Piccolissimi cinesi dai tre ai cinque anni che imparano a vestirsi da soli e porgono il culetto nudo alla maestra la quale con un asciugamano umido lo strofina bene, cerimonia serale prima della buonanotte. Piccole cose di piccoli cinesi nella Cina degli anni Cinquanta, quando già regnava Mao, il grande paese aveva mosso i primi passi della sua lunga marcia verso la modernità e nessuno sapeva come sarebbe andata a finire la storia, che cosa avrebbero mai fatto da grandi tutti quei bambini e quelle bambine. Sarebbero diventati robot o ribelli?
Zhang Yuan, regista di fama internazionale, vincitore di un Leone d´argento per il film "Diciassette anni", con questa nuova opera "La guerra dei fiori rossi" che sugli schermi italiani da questo fine settimana, racconta, puntando l´obiettivo su 135 attori-bambini, un presente minimo che è già passato e suscita nostalgia, tant´è vero che in Cina il film ha subito conosciuto grande successo di pubblico, tutti a godersi il ricordo di quando eravamo "poveri ma belli" e i bambini portavano i pantaloncini spaccati sul di dietro, proprio come nel film, così per un bisogno bastava accucciarsi per terra e non si sprecavano tonnellate di cellulosa per i pannolini. Film minimo tutto centrato sui bambini - pochi gli adulti, né antipatici né simpatici, indifferenti anche se influenti - "La guerra dei fiori rossi" è tratto da un racconto autobiografico dello scrittore Wang Shou, personaggio che in Cina gode di una fama unica, è il ribelle più noto e più sboccato che ci sia, fiumi di parolacce e commenti irriverenti sgorgano dalla sua bocca quando parla, dal suo pennello quando scrive. Oggi come oggi, grazie ai suoi sceneggiati televisivi vanta una audience che va dai duecento ai trecento milioni di spettatori a serata, tuttavia Wang Shou, che avrebbe desiderato fare cinema, non può farlo. L´unico film da lui diretto "Baba" ha suscitato tali e tante ire ufficiali che il grande schermo gli è stato precluso, il piccolo no, altrimenti vi sarebbe un sollevamento dei telespettatori.
Comunque Wang Shou, che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura di "La guerra dei fiori rossi", adesso si è preso una rivincita: sì, perché il protagonista della vicenda è proprio lui da piccolo, il bambino che lo impersona gli assomiglia come se fosse suo figlio, l´infanzia raccontata nel film è la sua, è lui l´unica pecora nera dell´asilo che si fa la pipì addosso davanti a tutta la classe, che mai riesce a meritarsi il premio di un fiore rosso perché non riesce proprio a fare la cacca a comando, collettivamente, tutti i maschietti accucciati in fila in una latrina e le femminucce in quella di faccia. E che fomenta addirittura la rivolta di tutti i compagni contro una delle maestre che, secondo lui, è un mostro divoratore di bambini. Per punizione viene rinchiuso in uno stanzino buio e quando gli viene finalmente permesso di unirsi ai compagni si sente ancora più isolato di prima. Soccomberà al conformismo imposto dagli adulti, o insisterà a voler crescere a modo suo, alla faccia di tutti?
Sapendo che il piccolo ribelle è in realtà Wang Shou, la domanda potrebbe sembrare retorica, ma non tutti lo sanno e l´immagine finale del film - il bambino che medita seduto su di un masso - sembra suggerire che la questione è aperta. Ma questo è il finale che la censura ha imposto, come ha imposto tanti altri tagli. Il finale pensato da Zhang Yuan (e concordato con Wang Shou) era un finale forte: un corteo di lavoratori modello sfilava davanti al piccolo suonando tamburi e inneggiando al partito. Lui gli faceva pipì addosso. Zhang Yuan spiega di aver acconsentito a questo e altri tagli perché non ne poteva più di fare film clandestini, film cioè che in Cina non vengono proiettati perché la sceneggiatura non è stata sottoposta alla censura preventiva e che magari vengono poi riprodotti in copie pirata sulle quali la casa di produzione non guadagna niente. Nessuno dei suoi film più famosi e trionfatori a vari festival mondiali come "Bastardi pechinesi", "Palazzo Orientale, Palazzo Occidentale" e "Diciassette anni", era mai stato sottoposto alla censura dei tutori della pubblica morale socialista, quindi non erano film "cinesi". Con "La guerra dei fiori rossi" Zhang Yuan ha cambiato tattica e così questo suo film è il primo davvero "cinese" ("Diciassette anni" fu presentato a Venezia sotto bandiera italiana) e fa parte addirittura della lista dei film raccomandati dal Ministero della Cultura. Ed è anche la prima vera coproduzione cinematografica italo-cinese ufficialmente riconosciuta, prodotto per l´Italia da Marco Muller con la società cinese Good Tidings e in associazione con Rai cinema e l´Istituto Luce. Una coproduzione italo-cinese che presto sarà vista anche in Francia e in Gran Bretagna, un piccolo "kolossal" che resta un capolavoro nonostante i tagli di una censura che forse sta diventando un tantino più intelligente.

domenica 14 gennaio 2007

il manifesto 14.1.07
Un viaggio nel dolore inconfessabile
«Madri assassine» di Adriana Pannitteri, Gaffi Editore
con Annelore Homberg
di Giovanni Senatore


Adriana Pannitteri, giornalista Rai, volto del Tg1, è andata di persona a immergersi nello sguardo, pieno di dolore, di disperazione, a volte assente, di quelle donne così particolari: le mamme che hanno ucciso i propri figli e che dopo avere occupato con il loro gesto prime pagine di giornali e telegiornali, finiscono nelle celle linde e senza agenti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, sul lago di Garda, struttura unica nel suo genere in Italia e in Europa.
E da questo viaggio attraverso i meandri della mente, le parole, le lacrime, i corpi di donne travolte, spesso nella solitudine, dalla incapacità di affrontare il rapporto con un essere umano appena nato o nei primi mesi di vita, ha preso forma un libro.
Si intitola Madri assassine - diario da Castiglione delle Stiviere (editore Gaffi, 10 Euro), straordinario percorso umano, tragico e rivelatore, in un mondo fatto di segni invisibili e di atrocità. “Per me non è un libro, ma il libro”, afferma Adriana Pannitteri che alterna la cronaca letteraria delle visite e dei colloqui con le protagoniste ad una narrazione semi-immaginaria, affidata ad una bambina, Maria Grazia, che ripercorre vicende dell’infanzia dalle quali emerge la figura di una mamma con problemi psichici. In apertura del libro, scrive: “E’ a Castiglione che sono andata a cercare la follia e il suo volto più inaccettabile”. Un tempo manicomio criminale, con oltre 1000 reclusi in condizioni disumane, Castiglione oggi è l’unico ospedale psichiatrico giudiziario in Italia (150 ricoverati, 50 donne, 10-12 le madri assassine, ad aprile 2006) ad ospitare donne che hanno ucciso i propri figli. Niente agenti penitenziari, soltanto medici e infermieri, tutto personale del ministero della Sanità e degli enti locali, celle con il nome di fiori, una piscina, libero accesso alla tv. Si punta molto sul lavoro: pittura, formazione professionale, biblioteca. C’è la psicoterapia, ma prevale l’uso dei farmaci, nei casi più gravi è prevista la contenzione.
Storie di “omicidi agghiaccianti”: neonati messi in lavatrice, affogati nel bagnetto, chiusi vivi dentro uno zaino, la bocca sigillata con la cucitrice per impedirgli di urlare. Atroce quotidianità, purtroppo. “Adriana è voluta andare oltre la cronaca - spiega la psichiatra Annelore Homberg nella prefazione - ha cercato di capire cosa accade a queste donne sia prima che dopo il fatto, anche per sfatare l’idea terrificante dell’espiazione, della punizione: devono avere la vita distrutta, perché hanno distrutto quella del figlio. Il suo merito è quello di non avere creduto al concetto di male, di non aver creduto che la pazzia sia espressione di malvagità: le malattie vanno comprese nel loro originarsi. Si tratta di curarle, guarirle, prevenirle”.
Tante persone negli incontri pubblici rivolgono ad Adriana Pannitteri domande sempre uguali: “Ma come è possibile”, “è inconcepibile”, “era una mamma felice”, “aveva tutto: una famiglia normale…”. E centinaia di donne, intanto, le confidano: “Anche io ho avuto un momento di difficoltà dopo il parto”.
“Due cose fanno più paura alla gente: il raptus e l’idea che la malattia mentale sia ereditaria - racconta la giornalista -. In realtà nei casi citati nel libro queste donne, in qualche modo, avevano avuto già problemi di depressione, di disagio psichico ed avevano lanciato un segnale di aiuto: forse se fossero state curate prima non avrebbero ucciso. C’è poi una tendenza americana - aggiunge - a ritenere che tutto è governato dal Dna, compreso il disagio mentale. Non è così. E’ tempo di liberarsi da queste cose. C’è una difficoltà a capire che spesso il disagio mentale si annida nella normalità, in relazioni malate; non si uccide un figlio per un momento di stress... E’ necessario allora dare alle persone la conoscenza e gli strumenti per riconoscere la malattia”.
“Lo stesso concetto di raptus è assolutamente fasullo - afferma Annelore Homberg -. Questi casi non c’entrano niente con un’esplosione incontrollata di affetti. Il problema casomai è l’anaffettività, la mancanza di affetti. Molte volte prima c’è un’alterazione del pensiero, all’inizio invisibile, fino ad arrivare al livello cosciente, come delirio manifesto. Nella sua indagine giornalistica, Adriana scopre qualcosa che gli psichiatri dovrebbero sapere - prosegue la Homberg -: dietro questi delitti ci sono lunghe storie cliniche, sviluppate negli anni, ci sono state richieste di aiuto che l’ambiente intorno non ha avuto la sensibilità di capire, segnali rivolti anche a specialisti, non solo ai medici di famiglia. C’è da chiedersi se l’attuale formazione di psichiatri e psicologi è sufficiente per cogliere la distruttività della malattia mentale”.
Nel libro parlano anche il direttore di Castiglione delle Stiviere, Antonino Calogero, il medico, dottor Esti, gli infermieri. Gite nel bosco. La spesa tutte insieme. “E’ un luogo veramente particolarissimo - insiste Adriana -, c’è un clima infinitamente migliore rispetto all’ospedale giudiziario o al carcere. Il grande interrogativo che mi resta, però, è quante di queste donne riescono ad uscire dal tunnel e a vivere decentemente? Questo loro non te lo dicono”.
Solo una mamma “assassina” su tre finisce nella struttura speciale sul lago di Garda. “Il nodo fondamentale, nel bene e ne male, è chi fa la perizia, gli psichiatri di cui si avvalgono i magistrati”, spiega la Pannitteri. E c’è anche il caso di Maria Patrizio, la madre che annegò il figlio nella vaschetta da bagno, in attesa di giudizio, dichiarata “sana di mente”, che ora dovrebbe lasciare Castiglione, per andare in carcere.
Secondo l’Istat, venti figli all’anno vengono uccisi dai genitori. “Non mi sentirei di dire che sono casi in aumento - dice Adriana Pannitteri -, credo che in passato se ne parlasse pochissimo. Cogne ha acceso una luce su casi confinati in brevi di cronaca”. I crimini in famiglia, invece, sono aumentati di sei volte in soli cinque anni. Il libro è organizzato attorno al racconto, fantastico, di una bambina, Maria Grazia e si chiude con una luce di speranza.

Giovanni Senatore


l’Unità 14.1.07
L’editoriale
Il governo del Papa
di Furio Colombo


La frase chiave per capire la storia che stiamo narrando è quella del deputato della Margherita Renzo Lusetti che «ha invocato più rispetto per il santo Padre e per quello che lui rappresenta». (Il Corriere della sera, 12 gennaio).
È una frase ovvia e giusta, che provoca però una inevitabile domanda: e il rispetto per la Repubblica italiana? Infatti la presa di posizione di Lusetti era una risposta alle proteste di alcuni esponenti della Rosa nel Pugno (Villetti, Angelo Piazza) che avevano detto: «I vertici istituzionali italiani devono ignorare il discorso del Papa e proseguire esclusivamente per il bene della comunità e dei cittadini».
Ma quegli esponenti della Rosa nel Pugno sono stati i soli in tutto il Parlamento a sollevare il problema di ciò che il giorno prima il Papa aveva detto, ricevendo per una visita di auguri il sindaco di Roma, il presidente della Provincia di Roma e il presidente della Regione Lazio.
«I progetti per attribuire impropri riconoscimenti giuridici a forme di unioni diverse dal matrimonio sono pericolosi e controproducenti e finiscono inevitabilmente per indebolire e destabilizzare la famiglia legittima fondata sul matrimonio».
Ci sono tre problemi in questa frase, detta a rappresentanti delle istituzioni italiane, con i verbi all’indicativo e la formulazione di una sentenza definitiva. Il primo è che il Papa non governa la Repubblica italiana e non è stato eletto dagli italiani. Non sta parlando di religione ma di codice civile. Infatti non ha detto: «Noi vi diciamo... Noi vi raccomandiamo...». Presenta come dati di fatto incontrovertibili le sue convinzioni. Quella che avrebbe dovuto essere una conversazione in cui ciascuno ha il suo punto di vista, è diventato un editto. Ma nelle repubbliche democratiche non esistono editti, esistono opinioni che gradatamente si trasformano in posizioni, e poi in proposte di legge e poi in un dibattito (o in tanti dibattiti, con tutti i liberi pareri che la democrazia ammette e richiede). E poi segue, unico sigillo, il voto.
Il secondo problema è che il Papa è certamente un personaggio molto autorevole, ma è il Capo di un altro Stato, e questo fatto diventa evidente quando si rivolge a persone che rappresentano le istituzioni italiane.
Ha tutto il diritto di dire ciò che pensa. E, se lo desidera, anche di aggiungere le ragioni che possono fare luce sulle sue affermazioni. Per esempio: perché, se si attribuisce un diritto a chi ne è privo, si destabilizza una istituzione come il matrimonio che è due volte sostenuta, dal vincolo religioso e da quello civile? Ma può il Capo di un altro Stato indicare alle istituzioni italiane, con i verbi all’indicativo presente, ciò che deve essere fatto, adesso e subito, pena un «pericolo» di cui non ci dice niente? «Pericolo» per chi, in quale ambito o sfera? Detto da un personaggio influente a istituzioni di governo, le parole «controproducente» e «pericoloso» sono gravi. Definiscono irresponsabile chi si avventurasse per una simile strada, ovviamente «controproducente» e «pericolosa». E allora le domande si moltiplicano. Può un argomento come il dibattito in corso nella società, nella vita civile, nella politica e nel Parlamento italiano essere trattato alla stregua di un pericolo oggettivo, come una malattia, una guerra, un atto di terrorismo («pericoloso, destabilizzante»)?
Il terzo problema è la completa mancanza dei tipici espedienti di cautela che caratterizzano il linguaggio diplomatico. La Chiesa di Ratzinger è contro la pena di morte. Eppure dopo l’esecuzione di Saddam Hussein le fonti ufficiali vaticane si sono limitate a dire che «ogni vita umana è preziosa». Niente di più, per non lasciarsi coinvolgere nel sospetto di un sentimento antiamericano.
I lettori sanno che non sto parlando di un intervento occasionale e sfortunatamente male espresso dal Papa, parole che danno l’impressione di mettere liberamente le mani nella macchina politica italiana. Sto riflettendo su una fitta sequenza di editti, di enunciazioni, di intimazioni, tutte con il verbo all’indicativo, tutte privi della forma esortativa e di invocazione che è tipica della predicazione religiosa, tutte fermamente basate sull’intento di dettare legge, senza mostrare alcun margine di tolleranza per posizioni diverse.
Ciò non accade nei confronti di altri Paesi, pur altrettanto cattolici e con opinioni pubbliche altrettanto inclini a considerare alta e autorevole la voce del Papa. Ciò non accadeva con Giovanni Paolo II, le cui affermazioni, anche nette, anche aspre, erano sempre dirette al mondo, alla coscienza di tutti i credenti, non a una particolare Repubblica, non per esercitare pressione diretta sempre sullo stesso governo, quello italiano.
A me sembra giusto e anzi urgente ripetere la frase del deputato Lusetti con una correzione: non sarebbe giusto avere rispetto per l’autonomia democratica della Repubblica italiana, lo stesso rispetto riservato alle istituzioni di altri Stati, tra cui alcuni afflitti da mali e problemi ben più drammatici?
* * *
Noi (intendo dire coloro che mentre leggono si associano a quanto sto scrivendo) sappiamo benissimo quanto siano profonde le venature di autentica religiosità, di sentimento cattolico in questo Paese. Ma questa è una ragione in più per evitare di dettare legge direttamente alle istituzioni. Ovvio che non si tratta di chiedere silenzio.
Ovvio, anche, che la forma, la scelta delle parole da parte di un grande personaggio che è Capo di una Chiesa, ma è anche Capo di uno Stato, hanno un’importanza molto grande quando si interviene sulle questioni civili di un altro Stato.
Rivolgersi continuamente, come sta avvenendo in Italia, ai vertici delle istituzioni, e in certi casi anche degli schieramenti e dei partiti, dà la sgradevole sensazione di non tenere in alcun conto la struttura democratica di un Paese in cui ciascuno decide in coscienza con il voto. Ricorda la brutta prova del referendum sulla procreazione assistita, in cui il rischio che la volontà popolare risultasse diversa dalle istruzioni emanate dalla Chiesa ha portato all’espediente di ordinare ai credenti di non votare. In tal modo ogni verifica della effettiva volontà popolare è diventata impossibile anche perché l’ordine di non votare rendeva pubblico il comportamento delle persone. In altre parole, tutti potevano sapere se eri andato alle urne, disobbedendo al Santo Padre o se ci eri andato, comportandoti da cittadino italiano. Senza dubbio un bel dilemma per i credenti.
Adesso si ha l’impressione che l’Italia sia stretta in una morsa tra astensione di base e interventismo sui vertici, così che, invece che attraverso un consenso democratico liberamente raggiunto, si procede per decisioni preventive e assolute su ciò che è bene e ciò che è male per i cittadini, dando disposizioni direttamente ai governanti.
La conseguenza purtroppo è chiara: con interventi ormai consueti, come quello dell’11 gennaio, Papa Ratzinger, che se ne renda conto o no, che lo voglia o no - indipendentemente dalle sue intenzioni - sta rendendo ingovernabile l’Italia. Infatti le sue parole incoraggiano spaccature profonde e inconciliabili fra cittadini all’interno di ognuno degli schieramenti politici. Sta separando in modo drammatico credenti da non credenti e dilaniando la coscienza di molti credenti.
So che queste osservazioni saranno deliberatamente fraintese e definite una «richiesta di silenzio del Papa». Oppure, come dice Lusetti, saranno scambiate per una «mancanza di rispetto».
Sul silenzio del Papa dirò che si tratta di una interpretazione assurda. La sua capacità-possibilità, ma anche il suo privilegio (data la totale disponibilità mediatica italiana) è un dato di fatto, prima ancora che un diritto-dovere che nessuno potrebbe contestare, persino se ne avesse l’intenzione.Come sapete, il Papa ha acquisito un diritto di presenza in ogni telegiornale italiano, ogni giorno, più volte al giorno, su tutte le reti.
Quanto al rispetto, ognuno ha le sue preoccupazioni. Io chiedo rispetto per la Repubblica italiana, per le sue istituzioni elette, per i cittadini credenti e non credenti che votano, per i politici credenti e non credenti che sono eletti, ciascuno esattamente con gli stessi diritti e doveri e lo stesso grado di rispettabilità. E sembra giusto tentare di ristabilire nella vita pubblica italiana un sistema del tutto reciproco di riguardo e rispetto. Non la persuasione o la predicazione del Papa appare discutibile, dunque, ma l’intimazione, basata su un punto di vista che però viene dettato come unico percorso possibile. Non è fuori posto ricordare che il diritto civile italiano è un patrimonio di tutti, credenti e non credenti.
«I progetti per attribuire impropri riconoscimenti giuridici a forme di unione diverse dal matrimonio» saranno forse discutibili. Ma io mi azzardo a pensare che sia più discutibile il gesto di autorità e di egemonia del Papa sul diritto italiano, l’impossessamento e la manomissione di norme che sono di pertinenza dello Stato italiano e dei suoi cittadini, non della Chiesa. Ho già detto che il Papa non può governare l’Italia, ma può fare in modo che diventi ingovernabile. È permesso dirgli che ciò che sta facendo, mentre getta tutto il suo peso su questo solo Paese, è «pericoloso» e «destabilizzante»?

l’Unità 14.1.07
ISTITUZIONI A Palazzo Grassi gli anni provenzali del grande artista e una selezione «Post-Pop» della Collezione François Pinault
Da Picasso alla Pop Art è sempre gioia di vivere
di Pierpaolo Pancotto


Appena si entra a Palazzo Grassi, a Venezia, tutto pare identico a qualche mese fa: 37th piece of work, l’elegante pavimento in metallo di Carl Andre, occupa il pavimento d’ingresso, Vintage Violence di Urs Fischer piove imperioso dal soffitto sullo scalone monumentale ed Hanging heart, il cuore in acciaio inossidabile cromato e colorato di Jeff Koons, fa ancora bella mostra di sé dinnanzi al portone che si apre sul Canal Grande; poi, però, si nota qualcosa di diverso.
Soprattutto nell’atmosfera, che non sembra essere più quella brillante, disincantata e per certi versi irriverente che, la scorsa primavera, aveva accompagnato la sua riapertura ma un’altra, più sobria, più composta, più consona, evidentemente, ad accogliere una rassegna come Picasso la joje de vivre 1945-1948 (a cura di Jean-Louis Andral, catalogo Palazzo Grassi-Skira, fino all’11 marzo 2007), secondo appuntamento espositivo promosso dal gruppo imprenditoriale francese che fa capo a François Pinault nella propria sede veneziana.
Una mostra senza dubbio ampia (250 tra dipinti, disegni, ceramiche, fotografie provenienti dal Musée Picasso di Antibes, dal Musée Picasso e dal Centre G. Pompidou di Parigi oltre che da collezioni pubbliche e private) per quanto tesa ad indagare su una fase circoscritta del lavoro di Picasso, quella che tra il 1945 ed il ’48 lo vide attivo lungo la Costa Azzurra, a Cannes, Golfe Jouan ed Antibes. Qui in particolare, grazie all’intervento di Romuald Dor de la Souchère, nel 1946 egli installò il proprio studio nel Castello Grimaldi al quale successivamente, come segno di gratitudine per l’ospitalità ricevuta, donò numerosi lavori, compresa un’ampia selezione di ceramiche realizzate a partire dal ’47 a Vallauris con Georges e Suzanne Ramié, titolari della locale manifattura Madoura.
Una stagione, questa, di grande felicità creativa per Picasso, nel corso della quale egli diede corso ad una serie notevolissima -anche sotto il profilo numerico - di prove pittoriche, grafiche e plastiche tra le quali La joie de vivre o Le Gobeur d’oursins o Satyre, faune et centaure au trident (tutte del 1946 ed ora a Venezia provenienti dal museo di Antibes) e significativa pure dal punto di vista individuale; a questo periodo, infatti, risale il suo legame sentimentale con Françoise Gilot, conosciuta nel 1943 e sua compagna fino al 1953, dall’unione con la quale nacquero due figli, Claude e Paloma.
Dunque, sono molte le ragioni d’interesse che si sommano attorno alla rassegna ed altrettanti risultano essere gli spunti di riflessione, critica e scientifica, che essa sollecita tanto allo studioso quanto al «semplice» visitatore che, per mezzo del ricco apparato iconografico esposto (le eleganti foto di Michel Smajeski detto Michel Sima, anch’egli ad Antibes negli anni Quaranta), può soffermarsi a gustare molti aspetti, anche quelli più intimi e meno conosciuti, della vita dell’artista. Ragioni, queste, che considerate unicamente in rapporto al progetto espositivo - limitatamente, cioè, entro i confini dell’evento artistico in sé ed indipendentemente da ogni altro possibile fattore esterno - mantengono intatto tutto il loro pregio; ma che, poste in rapporto al contesto specifico che l’accoglie, mutano in parte il loro carattere.
Rischiano esse, infatti, di veder ridotta la propria portata nel momento in cui la rassegna - assai specifica e per certi versi preziosa - viene messa in relazione con Palazzo Grassi, da sempre luogo deputato ad iniziative di forte impatto sociale e culturale e, nell’immaginario collettivo, sede di grandi eventi ai quali si lega quasi una sorta di ritualità collettiva della visita; ed inoltre, trovandosi a sostenere un confronto assai impegnativo con il recente passato del palazzo e l’immagine vivace, fantasiosa e decisamente orientata sulla contemporaneità che esso, solo qualche mese fa, ha prodotto di sé con la mostra Where are we going? segnando la propria riapertura.
Immagine che, di contro, trova esauriente riscontro nell’esposizione ordinata contemporaneamente al primo piano dello stesso edificio, La Collezione François Pinault, una selezione Post-Pop (a cura di Alison M. Gingeras, catalogo Palazzo Grassi-Skira) ove, con un gioco di parole, verrebbe da dire: joie de vivre è qui!
L’idea di mostrare un gruppo di opere appartenenti alla raccolta Pinault legate da un unico filo conduttore (con soluzioni e forme differenti evocano ciascuna a proprio modo la Pop Art, la sua storia e le sue ragioni originali), si rivela del tutto riuscita. Non solo per scelta dei lavori (di Cattelan, Chapman, Gursky, Hammons, Hirst, Lucas, McCarthy, Murakami, Pettibon, Ray, Ruscha, Schütte, Uklanski, Wool oltre a quelli citati in avvio) ma, soprattutto, per il senso di continuità che essa mantiene con l’identità che l’istituzione ha appena affermato di sé in occasione della manifestazione inaugurale: uno spazio dedicato al presente nel quale le realtà artistiche contemporanee, o almeno un parte di esse, possono levare alte le proprie voci, senza limitarsi alle regole rigide del museo né lasciarsi andare a quelle spesso un po’ precarie dell’iniziativa occasionale.

l’Unità 14.1.07
Erba insegna: i cattivi sono gli «altri»
di Luigi Manconi Andrea Boraschi


La rappresentazione pubblica del Male, da sempre, assolve a una funzione risarcitoria e soddisfa bisogni ancestrali e profondi della psiche umana. La rappresentazione pubblica del Male funziona meglio se le pulsioni più cupe e mostruose possono essere associate a un volto, a un nome; se possono trovare un’identità. Questo esercizio “esorcistico” coincide spesso con la costruzione di un “altro da noi” che non è un semplice estraneo; è, piuttosto un nemico assoluto, portatore di un tratto irriducibile di “inumanità”, dunque, appunto, di “mostruosità”.
La rappresentazione giornalistica della strage di Erba può essere letta attraverso queste chiavi interpretative: poiché è certamente un fatto di sangue di eccezionale efferatezza, per il quale appare arduo rinvenire alcuna spiegazione razionale, ancorché terribile. L’assurdità della ferocia che anima la crudeltà di quel gesto omicida è elemento essenziale nella vicenda: poiché ciò che appare assurdo è anche ciò che più si avvicina al carattere disumano che si vuole rinvenire nel Male, come a dimostrare che la malvagità è nel mondo ma non è del mondo umano. E gli ingredienti, affinché ci si specchi in un orrore muto e assoluto, in questo caso ci sono tutti. Su di essi si innesta quel meccanismo di personalizzazione della colpa che trova banale traduzione mediatica nella «caccia al colpevole». Così, in un primo tempo, sembra che il mostro sia tanto un nemico quanto un estraneo: Azouz Marzouk è altro da noi perché, in quanto autore designato di quel crimine, irredimibilmente malvagio; e la sua radicale alterità trova sintesi, banale ed efficace, nella sua condizione di straniero. La xenofobia si innerva in un meccanismo complesso (fatto di rimozione della morte e di emanzipazione dal “peccato” attraverso lo specchiarsi in una colpa ultima e inesorabile) e ne diviene ingranaggio, fattore causale e precipitante. Quell’uomo, poi, è uscito da poco dal carcere grazie all’indulto; dunque il principio della colpa era già stato rinvenuto nella sua vita e nella sua condotta, ma non era stato sanzionato efficacemente. Si è lasciato che quel principio trovasse massimo compimento in un crimine abnorme: quasi che le vittime di Erba siano state vittime sacrificali di un rito collettivo iniziato dall’imperfezione della giustizia umana.
Ora sappiamo che Azouz non era il mostro che il pubblico di questa vicenda cercava. E sembra che i colpevoli siano dei vicini di casa qualunque: tanto più terribili e spaventevoli quanto più irriconoscibili (perché troppo simili ad ogni nostro possibile dirimpettaio) nella loro inumanità.
Lo spargimento di sangue fatto, cronaca onnipervasiva dal circuito mediale, dunque, è lo spettacolo cui si assiste; e lo sgomento che esso suscita cerca immediato conforto nell’identificazione dell’autore (o degli autori) di tanto orrore. Guardare in faccia il male aiuta ad averne meno paura: la morte è altrove e i colpevoli appartengono a un mondo privo di qualsivoglia barlume di pietas, un mondo che non può essere assimilato al nostro. Il male è fuori di noi; ed è tanto assoluto e orrendo da essere incomparabile a qualsivoglia nostra colpa. È facile rinvenirlo nello straniero, di già marchiato come “criminale”; più spaventevole scoprirlo nella medietà dimessa e domestica di un uomo e una donna che sembrano uguali a tanti altri. Ma più quel terrore è forte (meno esso si presta a spiegazioni, meno può divenire strumento di comprensione del reale), tanto più esso è catartico.
Olindo Romano e Rosa Bazzi hanno confessato il loro crimine; abbiamo dunque motivo di credere che siano stati loro. Ma sono divenuti colpevoli ben prima di ogni confessione o di ogni giudizio, come già accaduto ad Azouz. Ecco, allora, il vero sacrificio che monda le coscienze del pubblico morboso di questo spettacolo ributtante: non quello del sangue versato, dinanzi al quale si resta attoniti e inermi; piuttosto quello dei colpevoli giudicati dai media, anziché dai tribunali.
Che quei coniugi siano effettivamente gli autori di quella strage - non ci si fraintenda - in questo senso conta ben poco: sono stati schiacciati dalla sanzione della morale pubblica molto prima che fosse vagliata ogni prova a loro carico, molto prima che vi fosse alcun buon motivo per avanzare un sospetto o emettere un verdetto. Il Romano e la Bazzi, in questo, sono simili al Marzouk: sono i “mostri” di cui questo spettacolo osceno ha bisogno per essere messo in scena nella sua compiutezza. Gli uni colpevoli, l’altro innocente: ma tutti vilipesi da un’informazione che non conosce garanzie e regole, che antepone alla ricerca della verità (e al rispetto della giustizia) la soddisfazione immediata degli umori più cupi del suo pubblico. Un’informazione che piega a notizia anche l’istinto di vendetta e il senso del perdono: senza pudore, senza pudore alcuno. E che non impara mai dai propri errori.

Repubblica 13.1.07
L'anno dei traumi e della fine di grandi speranze
Un anniversario fra libri e convegni
di Guido Crainz


I volumi di Concetto Vecchio e Lucia Annunziata su un momento di svolta della società italiana, quando svanì la fiducia nel cambiamento
Gli indiani metropolitani, l'autonomia, la P38 e gli agguati terroristici Ma anche la crisi del Pci e l'avvio del riflusso
Al sogno di una trasformazione sociale subentra il conflitto fra "garantiti" e "non garantiti"
La violenta contestazione contro Luciano Lama all'Università di Roma
Emergono fenomeni di corruzione e si intensificano le manovre di Gelli
Restano uccisi studenti e poliziotti A Torino le Br ammazzano Carlo Casalegno

A trent'anni di distanza il 1977 italiano si presenta ancora come incompreso trauma, irto di questioni: un anno cui avvicinarsi con dubbi e domande, non con certezze. Ali di piombo di Concetto Vecchio (Rizzoli) è solo il primo di diversi libri e convegni che si succederanno quest'anno sull'argomento mentre, per altri versi, è da tempo prepotente la tentazione di proiettare le tragedie e le lacerazioni di quello scorcio d'anni sull'intero decennio.
A questa non condivisibile damnatio memoriae - accompagnata spesso dall'elogio degli anni ottanta - il 1977 offre in realtà molti argomenti. Ha inoltre - a differenza del 1968, come Vecchio ricorda - tratti tutti italiani, e nella nostra storia vanno dunque cercate per intero le sue radici. È poi rapidissimo il passaggio da un inaspettato movimento di massa («uno strano movimento di strani studenti», come scrissero allora Luigi Manconi e Marino Sinibaldi) al dilagare dell'«autonomia operaia» e del «partito della P38»: «Il ‘77 - ha ricordato Renato Curcio - ci è piombato addosso come una slavina di giovani selvaggi».
L'altra anima del movimento, quella creativa, soccombe e scompare prima ancora che l'anno finisca. Altrettanto rapidamente era emersa, aggregando in alcuni atenei - in modo particolare a Roma e Bologna - migliaia di giovani che dividevano la loro vita fra un precario rapporto con lo studio e un altrettanto precario rapporto con il lavoro: elemento di superficie, a ben vedere, di una più generale incertezza di futuro. L'"ala creativa" esprime più di una tensione e pulsione: i momenti ludici che mette in campo, ad esempio, sembrano voler sottrarre la dimensione collettiva al dominio esclusivo e totalizzante della politica. Per altri versi, l'allegria e l´ironia dissacrante di questa area - che ha negli "indiani metropolitani" il suo emblema - appare talora venata da un senso di sconfitta, quasi di disperazione.
È incrinata in alcune sue parti da molteplici e sotterranee derive, cui il rapido e mortale diffondersi dell'eroina solo allude. Lo coglieva allora Walter Tobagi, segnalando l'enorme distanza dal 1968: in taluni, pur ristretti settori giovanili, scriveva, «speranze e illusioni si restringono a un "orizzonte tragico", si trasformano in spinta di "distruzione" e di "autodistruzione", che poi significa sparare al "nemico" o iniettarsi una dose di eroina». Tobagi scriveva queste parole all'inizio del 1978, quando già il movimento aveva chiuso il suo ciclo lasciando campo al dilagare del partito armato, da un lato, e dall'altro a un diffuso ripiegamento nel privato.
Le dinamiche del 1977 parlano da sé e il libro di Vecchio le ripropone con vivace piglio giornalistico. L'anno inizia con una inattesa e diffusa protesta studentesca contro alcuni provvedimenti relativi all'Università, mentre a Roma una incursione fascista nell'Ateneo riduce un giovane in fin di vita. Nella manifestazione di risposta gruppi dell'«autonomia operaia» assaltano una sede del Msi e rispondono poi al fuoco della polizia, vi sono feriti gravi da entrambe le parti. Inizia a comparire così il «partito della P 38», mentre fra le forze dell'ordine agiscono anche agenti armati in borghese. Li ritroveremo a maggio, quando muore la diciannovenne Giorgiana Masi: partecipava al corteo indetto dai radicali per ricordare il referendum sul divorzio del 1974 e per contestare il divieto a manifestare deciso dal ministro dell'Interno Cossiga.
A metà febbraio, sempre a Roma, vi è la violenta contestazione a Luciano Lama, il suo comizio è interrotto e il palco distrutto: una radicale frattura con il movimento sindacale che ha implicazioni di lungo periodo. Al precedente sogno - o mito - di una trasformazione complessiva guidata dalla classe operaia sembra subentrare l'opposizione fra i "non garantiti" e i "garantiti": gli operai, appunto. Sembrano delinearsi "due società", per usare le parole di allora di Alberto Asor Rosa.
L'11 marzo a Bologna il giovane Francesco Lorusso è ucciso da un colpo di fucile sparato da un carabiniere: «a che punto è la città?/ La città in un angolo singhiozza», scrive il poeta Roberto Roversi. Seguono nuove violenze che continuano il giorno dopo a Roma, ove gli autonomi fanno degenerare una manifestazione nazionale, prevista da tempo, con lanci di molotov, sparatorie, saccheggi di armerie, assalti alla sede del Popolo e a stazioni di carabinieri e polizia. A Torino il brigadiere di Ps Giuseppe Ciotta è ucciso in un agguato terroristico, poco dopo a Roma un gruppo di «autonomi» uccide l'agente Settimio Passamonti e un altro a Milano, a maggio, il sottufficiale Antonio Custrà. Torino è l'epicentro di una sanguinosa offensiva delle Br: vuole impedire il processo ai capi del gruppo e culmina con l'assassinio di Fulvio Croce, presidente dell'ordine degli avvocati. Il processo è rinviato perché la maggior parte dei giudici popolari rifiuta l'incarico. «A Torino - scrive su questo giornale Giorgio Bocca - le Brigate rosse hanno vinto e la giustizia dello Stato democratico si è arresa, vergognosamente: avvocati divisi, giudici popolari piangenti, magistrati sbiancati dalla paura». Si succedono altri agguati e ferimenti (fra cui quelli di Indro Montanelli e di altri giornalisti), sino al convegno nazionale del movimento indetto a Bologna, a settembre, per denunciare uno stato di generalizzata «repressione» e per sfidare il Pci in una sua roccaforte storica.
L'illusione di un contenimento del «partito armato diffuso» ha vita breve. L'assassinio del giovane romano Walter Rossi da parte di neofascisti scatena nuove violenze di estrema sinistra che culminano con il rogo di un locale di Torino, l'«Angelo Azzurro»: vi muore orribilmente un altro giovane, Roberto Crescenzio. Di lì a poco, sempre a Torino, le Br colpiscono a morte Carlo Casalegno, le cui riflessioni e i cui articoli nei mesi precedenti sono seguiti con sensibilità e attenzione da Concetto Vecchio. Vecchio ripropone poi le riflessioni che il figlio affida in primo luogo al suo giornale, Lotta Continua, dopo l'agguato al padre. Che cosa ha portato, si chiede in sostanza Andrea Casalegno, dalle speranze del 1968 alla feroce disumanità di oggi? Su questa angosciata domanda, riproposta alla fine di Ali di piombo, si chiude in realtà una storia e altre, differenti e divergenti, prendono avvio.
Il 1977 non si riduce però a questo succedersi sanguinoso di traumi e occorre evocare almeno altri due versanti. Vi è in primo luogo il sempre più corposo emergere di processi di corruzione e di degrado delle istituzioni (e del rapporto fra economia e politica): ad essi riconducono lo scandalo della Lockheed e l'affiorare di molti altri, l'astro in definitivo declino di Sindona e sin lo sfacelo "normale" dell'Iri, mentre si intensifica il sotterraneo operare di Licio Gelli. E vi è, in secondo luogo, il sempre più difficile proseguire dei processi di rinnovamento avviati in precedenza: con il contrastato procedere della legge sull'aborto, che sarà approvata l'anno successivo anche per l'incalzare del movimento femminista; con gli stimoli dei referendum promossi dai radicali, che nel 1978 favoriranno anche l'approvazione della legge Basaglia sugli ospedali psichiatrici; con i limiti posti al sorgere di quel sindacato di polizia che aveva innescato profondi processi di rinnovamento in un settore sin lì "separato". Assumono sapore di simbolo anche le dimissioni di Piero Ottone dal Corriere della Sera, che sanciscono la fine della miglior stagione del giornale e segnalano guasti più profondi.
Anche considerando questi e altri elementi non usciamo però ancora da una visione parziale e limitata di quella fase cruciale, di quel trauma. 1977, l'ultima foto di famiglia è il titolo di un libro di Lucia Annunziata in uscita per Einaudi, ed è impossibile sottrarsi ad alcune domande di fondo. Perché, ad esempio, si logora e si frantuma così rapidamente quella profonda volontà di cambiamento che aveva portato alla vittoria nel referendum sul divorzio e alle avanzate senza precedenti del Pci nelle elezioni del 1975 e del 1976? Già il 1979 sancirà una netta inversione di tendenza: è la prima consultazione politica dopo il 1948 che vede il Pci arretrare, e la sua flessione è significativa soprattutto fra i giovani, elemento decisivo dei successi precedenti. Certo, il sostegno ai governi di "unità nazionale" guidati da Andreotti - nei bizantini passaggi dall´astensione alla non sfiducia - non sembrava il modo migliore per dar corpo a quella esigenza di trasformazione. Era, perlomeno, il meno comprensibile: in pochi mesi, annotava alla fine del 1977 Enzo Forcella, il Pci aveva perso "il suo magico alone di forza", non suscitava più "né speranze né timori". Appariva stridente il contrasto fra la tensione "utopica" e alta, quasi drammatica, dei discorsi di Berlinguer sull´austerità e i segnali concreti che venivano dal quotidiano operare di un governo sostenuto in modo determinante dal Pci (un Pci coinvolto inoltre per la prima volta in modo esplicito in processi di "lottizzazione"). Emergeva allora - nei mesi decisivi del 1976 e del 1977 - quel deficit di cultura riformista che era sempre stato un suo limite ma che appariva meno evidente quando il partito era costretto all'opposizione. Quel limite lo rendeva incapace ora di proposte convincenti, facendolo apparire largamente subalterno alla politica del governo (e ciò contribuiva a farne uno dei bersagli principali del «movimento del ‘77»).
Questa e altre valutazioni, su cui si potrebbe discutere a lungo, non bastano però a spiegare la crisi che inizia ad attraversare il Partito comunista e una più vasta area di sinistra: una crisi che va ben oltre la sconfitta politica con cui quella fase si chiude. Stanno in realtà cedendo architravi essenziali di una cultura e di un modo di essere. Inizia ad esser messo in discussione, ad esempio, il riferimento talora sacrale alla "classe operaia" come "principale motrice della storia", per citare parole del 1977 di Enrico Berlinguer. In realtà quel ruolo è esposto ora alla critica dei "non garantiti" (o dei loro improvvisati maîtres à penser), ed è negato su altri e opposti versanti da quei sotterranei processi che verranno alla luce con la "marcia dei 40.000" del 1980. Esso è in discussione inoltre all'interno stesso della "classe", come mostreranno le ricerche di Giulio Girardi a Torino. Il terreno è ancor più cedevole sul piano internazionale, ove sta diventando simbolo di orrore quel Vietnam che era stato sin lì la bandiera di tutte le anime della sinistra. E si consideri anche la radicale messa in discussione dell'idea di sviluppo - altro elemento portante della cultura di sinistra - che la crisi energetica ha avviato (a questo occorre forse guardare anche per comprendere alcuni tratti del «movimento del '77»). Sono solo alcuni dei molti elementi di lungo periodo su cui interrogarsi.
Gli anni di piombo sono appena cominciati (nei tre anni successivi le vittime del terrorismo di sinistra sono più di ottanta, cui si aggiungono quelle delle stragi e degli attentati neofascisti) ma hanno già avvio modificazioni profondissime di natura differente e opposta. In un libro del 1980 a più mani - e dal titolo significativo, Il trionfo del privato - Ernesto Galli della Loggia sintetizzerà i tratti di una rapidissima trasformazione: «ogni fiducia nella possibilità di cambiamento spenta o agonizzante, scematissimo e languente l'interesse per le ragioni dell'ideologia», massiccio il rifiuto della politica. Era esplosa la grande stagione del riflusso, con la riscoperta di massa del divertimento e dell'effimero, della moda e del corpo. Apparve fenomeno inatteso: eppure il 1977 era stato anche l'anno de La febbre del sabato sera e dell'inizio del "travoltismo", con il mutamento che annunciava. Sfuggono parecchi aspetti della realtà, in altri termini, se lo sguardo è concentrato solo sui fenomeni di radicalizzazione estrema e restano in ombra processi più sotterranei. In quel quadro, infine, la crisi della sinistra si accentuava e assumeva nuovi contorni: il Partito comunista non avrà più "nemici a sinistra" e la sua egemonia sarà insidiata invece, su tutt'altri versanti, dal Psi di Bettino Craxi. Spie e sintomi di un cambio d'epoca che si consuma in un brevissimo volger di anni e che siamo ancora lontani dal comprendere appieno.

l'Unità 13.1.07
Ospedali e sanità. Il problema è la politica


Cara Unità,
speriamo che i recenti orrori scoperti da giornalisti e Nas in alcuni ospedali pubblici arrivino a una soluzione prima che lo Stato debba legiferare in merito. Un fattore sembra infatti accomunare le nostre leggi in materia di sanità: deviare ipocritamente i diritti dei cittadini dalla sfera pubblica a quella privata, per chi ha i soldi e/o clandestina, quando i soldi non ci sono. Qualche esempio in ordine cronologico? Legge 180 sui manicomi: tra i suoi risultati, le inumane condizioni dei malati di mente nelle cosiddette cliniche di Mogliano Veneto, Serra D’Aiello, Bisceglie. Legge 40 sulla fecondazione assistita: le coppie sterili emigrano all’estero, così come i ricercatori stessi. Finanziaria 2007, argomento “prestazioni sanitarie”: le donne dovrebbero pagare il ticket (vedi ospedale S. Camillo di Roma) sulla prescrizione della “pillola del giorno dopo” ergo ricorreranno al mercato clandestino o aspetteranno di dover abortire. Nonostante tutto resiste (ma per quanto ancora?) la legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza; altrimenti sarebbero di nuovo mammane e cliniche private.

Paolo Izzo, Roma


Repubblica Roma 14.1.07
Stazione Termini: sit-in degli atei
Slogan e proteste contro l'intitolazione a papa Wojtyla

«Roma è laica Veltroni no. La stazione Termini è di tutti». Sono alcuni degli slogan riportati sui numerosi cartelli esposti, ieri mattina, durante un sit-in indetto dall'Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) davanti ad un ingresso della stazione Termini, per manifestare dissenso al sindaco di Roma e alla società Grandi Stazioni, «responsabili del mutamento toponomastico, intitolando la stazione a papa Giovanni Paolo II». Durante il presidio, sono state raccolte firme per una interrogazione al sindaco e alla società Grandi Stazioni. Critici nei confronti della manifestazione i giovani di Fi e Fabio Sabbatani Schiuma di An.

Corriere della Sera 14.1.07

Rnp contro il sindaco, Forza Italia lo difende
Circa cento persone hanno protestato ieri con un sit-in in via Giolitti contro l'intitolazione (ma si è trattato di una «dedica», hanno precisato in Campidoglio) della Stazione Termini a Giovanni Paolo II. La manifestazione era promossa dall'Unione atei e agnostici razionalisti (Uaar) insieme, tra gli altri, al circolo Mario Mieli, a rappresentanti dell'Arcigay, della Rosa nel Pugno e di varie associazioni laiche (sul marciapiede opposto, contromanifestazione con una decina di militanti di «Militia Christi»). Cittadini italiani, non sudditi vaticani, Roma è laica, Veltroni no: questi i testi di alcuni striscioni esposti con bandiere arcobaleno. «Comprendo le ragioni di Veltroni sull'uomo Karol, ma esprimo un giudizio d'inopportunità politica e simbolica. Nel collegare questa stazione con il sovrano di uno stato estero e capo di una delle confessioni religiose presenti in Italia, Veltroni ha toppato, glielo dico in amicizia», ha detto Mario Staderini, consigliere della Rosa nel pugno del I Municipio. Ma in difesa di Veltroni sono scesi i giovani di Forza Italia del Lazio. Il coordinatore Giancarlo Miele: «Anche Papa Wojtyla va bene come pretesto, per comunisti dichiarati e mascherati, per attaccare il loro nuovo nemico politico più o meno dichiarato, il sindaco di Roma, il post-comunista, revisionista e riformista Veltroni».

Repubblica Firenze 14.1.06
Lo strappo di Bilenchi e la vendetta del Pci
Così il partito "uccise" il Nuovo Corriere
di Beatrice Manetti


In un libro documenti rari e inediti: "Trattato bestialmente"
Il direttore difese nel '56 gli operai polacchi e perse i finanziamenti

Il 28 giugno 1956 gli operai di un fabbrica di Poznan, in Polonia, organizzarono una manifestazione di protesta contro il governo comunista, sordo alle loro rivendicazioni sindacali. L´intervento dell´esercito e della polizia si lasciò dietro un centinaio di morti. Pochi mesi dopo, a quella macabra lista si aggiunse un´altra vittima: era il «Nuovo Corriere», il più autorevole e prestigioso quotidiano fiorentino di sinistra, diretto dal 1948 dallo scrittore Romano Bilenchi. Il filo che unisce i fatti di Poznan alla chiusura del giornale è «una ferita. Una ferita che non si è mai rimarginata. Una ferita però che rischia di essere cicatrizzata dal silenzio della memoria», scrive Benedetta Centovalli nella sua introduzione alla plaquette I fatti di Poznan (Alet Edizioni), dove ricostruisce, a cinquant´anni di distanza, il caso politico che indusse il Pci a sospendere i finanziamenti al quotidiano fiorentino e quindi, di fatto, a sopprimerlo, portando a testimonianza documenti rari e inediti: l´editoriale pubblicato da Bilenchi il 1° luglio 1956, subito dopo la rivolta operaia polacca, intitolato I morti di Poznan, uno scambio di lettere tra lo scrittore fiorentino e l´amico Elio Vittorini, e due lettere di Bilenchi a Silvio Guarnieri del 1972.
Quella ferita è una questione privata, uno strappo irrimediabile tra un intellettuale comunista e il suo partito, ma anche una lacerazione pubblica, perché segna la fine di un´esperienza unica, dopo la quale «Firenze perse la possibilità di rimanere un polo pulsante del mondo politico e culturale italiano». Basta scorrere gli indici dei collaboratori del «Nuovo Corriere» per capire l´eccezionalità di quel laboratorio: per la cultura Anna Banti, Piero Bigongiari, Carlo Cassola, Franco Fortini, Roberto Longhi, per la politica e la società Alfonso Gatto, Danilo Dolci, Margherita Hack, Piero Calamandrei, Ferruccio Parri, Gaetano Salvemini, Norberto Bobbio. «Non solo - aggiunge Centovalli - ma il giornale si era schierato a favore del manifesto contro la bomba atomica, aveva sposato la causa di Aldo Capitini e della non violenza, aveva sostenuto fin all´inizio la necessità di un dialogo con il mondo cattolico».
Nel gergo del Pci, il «Nuovo Corriere» era definito un «quotidiano fiancheggiatore»: un quotidiano apertamente schierato a sinistra, ma indipendente nelle proprie prese di posizione, anche se non sul piano economico: «Di fatto si sosteneva quasi esclusivamente con i finanziamenti del partito, col quale i rapporti erano sempre stati positivi». Fino a quel giorno di luglio del 1956, quando Bilenchi prese senza mezzi termini le parti dei «morti di Poznan»: «I morti di Poznan sono morti nostri - scrisse nell´editoriale - Intendete che cosa vogliamo dire? Vogliamo dire che anch´essi sono caduti sulla via che porta ad una società più giusta e più libera (…) All´Est nasce la rivolta, rivolta nazionale e sociale, e da questa rivolta c´è bene da sperare per tutta l´umanità». La rivoluzione ungherese e i carri armati russi a Budapest sarebbero venuti solo quattro mesi dopo. Con la sua intelligenza politica e la sua passione per la verità, Bilenchi anticipa la crisi, «dimostrando come, paradossalmente - prosegue Centovalli - la destalinizzazione avesse reso più arduo il dialogo tra gli intellettuali e il partito».
Che infatti non resta a guardare. E sfrutta le difficoltà finanziarie del giornale, che pure era molto diffuso in tutta la Toscana e aveva raggiunto in quegli anni una tiratura di oltre cinquantamila copie, per sacrificare una voce dissonante, «con un direttore scomodo per autorevolezza e autonomia. Subito dopo i fatti di Poznan, tra l´altro, Bilenchi si era mosso per trovare altri finanziamenti e si era accordato con Enrico Mattei per un investimento pubblicitario di 30 milioni al mese. Quanto bastava per colmare il disavanzo. Ma pochi giorni dopo, "L´Unità" accusò Mattei di non voler sostenere economicamente i giornali di sinistra, costringendo così il presidente dell´Eni a tirarsi indietro per non dare l´impressione di cedere a un ricatto». Così il «Nuovo Corriere» fu costretto a chiudere, ufficialmente per motivi economici. Nell´articolo di congedo uscito sull´ultimo numero, il 7 agosto del ‘56, Bilenchi ringraziò tutti, lettori e collaboratori, tranne il partito. L´anno successivo si congedò anche dal Pci: «non per la soppressione del "Nuovo Corriere" - scriverà molti anni dopo a Silvio Guarnieri, in una lettera del 10 gennaio 1972 - non a causa dei fatti d´Ungheria come molti hanno detto», ma «perché ero stato trattato bestialmente».
L´anno che seguì la chiusura del giornale fu infatti per Bilenchi un periodo di radicale isolamento. Rifiutò diverse proposte di lavoro, un po´ perché non voleva spostarsi da Firenze, un po´ per non nuocere ad altri colleghi, ma soprattutto perché si sarebbe aspettato qualche proposta da parte del Pci, che invece non arrivò. A Elio Vittorini, che gli chiedeva chiarimenti sulla fine del «Nuovo Corriere» e sulla notizia di un suo prossimo approdo a Milano come direttore dell´«Unità», consigliò di «non dare retta alle chiacchiere. Le mettono in giro apposta. Figurati se vado all´"Unità" di Milano. I miei rapporti con loro sono tesi e se passerai da Firenze ti mostrerò i documenti. Il giornale non è morto con la mia complicità». Tesi, i rapporti col Pci, sarebbero rimasti a lungo, se ancora nel 1959, sollecitato sempre da Vittorini a firmare un appello al Partito socialista, Bilenchi risponde con un lettera infuocata, di cui pubblichiamo uno stralcio in questa stessa pagina (vedi box a fianco), dove definisce il Pci «un partito reazionario, i cui dirigenti sono dei carabinieri» e ribadisce la sua scarsa fiducia nei confronti del Psi.
Ma c´era in lui, nonostante tutto, una fedeltà ostinata ai valori della Resistenza e alle energie positive di cui si era sentito investito negli anni dell´immediato dopoguerra. E fu proprio quella fedeltà a spingerlo ad iscriversi di nuovo al partito comunista, all´inizio degli anni Settanta, subito dopo aver lasciato «La Nazione», dove «si era nascosto dopo la fine del "Nuovo Corriere" - dice ancora Centovalli - e dove restò fino al 1971 come responsabile della terza pagina, senza mai correggere un rigo di politica».

il manifesto 14.1.07
Succede troppo spesso che la cura psicoanalitica aggravi la problematica sessuale del paziente ... o lo conduca sull'orlo del suicidio Pascal de Setter
Quando crolla anche il senso del ridicolo
La matrice del libro è squisitamente politica. Mentre sposa la campagna di discredito delle teorie freudiane, pretende di portare acqua alle terapie cognitivo comportamentali La casa editrice Fazi, che non è seconda a nessuno nella acquisizione di scandali, aggiunge al proprio catalogo la traduzione del «Libro nero della psicoanalisi», seicentocinquanta pagine di invettive
di Massimo Recalcati


Freud? Un «bugiardo patologico», uno «pseudo-scienziato», un «falsificatore dei propri resoconti clinici», un «plagiario», un «manipolatore», un uomo senza scrupoli che per arricchire le proprie ambizioni e le proprie finanze personali è in grado di passare senza alcuna remora sulla pelle dei suoi pazienti. Le sue teorie? Inesistenti, frutto di saccheggi intellettuali praticati verso Breuer, Fliess (!) e altri che prima di lui avrebbero già detto l'essenziale intorno all'inconscio, alla sessualità infantile «perversa polimorfa», alla teoria della libido, insomma a tutto quanto Freud avrebbe in seguito vantato come frutto di proprie intuizioni originali. Gli psicoanalisti? Imbroglioni, approfittatori delle disgrazie altrui, millantatori capaci solo di intercalare dei grugniti, o dei più serafici «mmmh» «mmmh» alle parole di pazienti ingenui e con un fondo irrimediabilmente masochistico.
Squisitezze argomentative
Il movimento culturale della psicoanalisi? Uno «tra i più corrotti della storia», una «religione» che «pretende di spiegare tutto». E gli altri grandi protagonisti della storia della psicoanalisi dopo Freud? Ernst Jones: una figura tristemente servile che fabbrica menzogne per proteggere le condotte infamanti del suo capo. Bruno Bettelheim: uno screanzato, millantatore di curricula fantasiosi, anche lui, come Freud, sistematico falsificatore dei risultati clinici. Françoise Dolto: fuori dal mondo, ingabbiata in un'immagine idealizzata del bambino, fustigatrice incallita delle povere madri che colpevolizza spietatamente provando così a risarcirsi di un'infanzia traumatica di bambina rifiutata dalla propria madre. E Lacan? Nessuno come lui ha espresso l'essenza maligna della psicoanalisi: prestigiatore di mercato, imbroglione, seduttore cinico. I suoi «strampalati ragionamenti» sono «per qualsiasi persona dotata di ragione, da rifiutare completamente». Insomma una vera e propria canaglia. E i cosiddetti benefici terapeutici della psicoanalisi? Illusioni, effetto di pura suggestione nella migliore delle ipotesi. Quando invece, come avviene nella maggior parte dei casi, il ricorso alla ricerca delle cause profonde non nasconde un chiaro intento truffaldino.
E questi soni i pronostici
Catherine Meyer, che ha assicurato la direzione scientifica del Libro nero, tanto voluminoso e ricco di contributi (650 pagine, 42 autori) quanto terribilmente monocorde nel suo astio pavloviano, non ha dubbi sul futuro della psicoanalisi: come terapia e come teoria della cultura è già morta ovunque nel mondo. Essa sopravvive solo in Francia e in Argentina. Tuttavia il Libro nero contribuirà a darle la spallata finale. «Sino al febbraio del 2004 gli psicoanalisti erano felici. Ora però le cose sono cambiate - scrive non senza una certa soddisfazione Jacques Van Rillaer, uno dei maggiori autori del Libro Nero. A cosa si riferisce? Questa affermazione, apparentemente enigmatica, rivela in realtà la matrice squisitamente politica e francese di questo libro. Il febbraio 2004 coincide con la conclusione e la trasmissione pubblica dei lavori dell'Inserm, una commissione composta da otto membri, sostenitori della superiorità del modello cognitivo-comporamentale su quello psicoanalitico, il cui obiettivo consisteva nel sottoporre a valutazione scientifica le pratiche della cura psicologica. Ebbene i suoi risultati decretano che le cure psicoanalitiche avrebbero una efficacia di gran lunga inferiore rispetto alle terapie cognitivo-comportamentali e ad altre forme psicoterapeutiche come quelle sistemiche. Contro questo rapporto Jacques-Alain Miller, psicoanalista erede dell'insegnamento di Lacan, ha guidato nei mesi immediatamente successivi una battaglia politico-culturale di grande ampiezza, che ha provocato il ritiro di questo rapporto e dei progetti di legge relativi alla regolamentazione della professione psicoterapeutica sul suolo francese ad esso ispirati. Nondimeno l'onda lunga del rapporto Inserm trova la sua manifestazione mediatico-editoriale proprio in questo Libro nero, il quale non solo contempla tra i suoi autori, un membro autorevole di quella commissione, Jean Cottraux, ma soprattutto ne riprende l'invettiva critica contro la psicoanalisi adunando attorno a questo obiettivo diversi suoi noti detrattori.
Tre accuse esemplari
Proviamo a mettere una lente di ingrandimento, a titolo esemplificativo, su almeno tre accuse che il Libro nero muove alla psicoanalisi. Sono certamente poche rispetto a quelle innumerevoli che vengono avanzate, ma abbastanza per avere un'idea di come questo libro è costruito.
Il primo esempio s'impone come il più eclatante e il più offensivo. Il titolo dell'articolo in questione è già di per sé un programma: Come le teorie psicoanalitiche hanno ostacolato il trattamento efficace della tossicodipendenza e contribuito alla morte di migliaia di persone. La tesi del suo autore, Jean-Jeacques Déglon non si limita ad esporre la sua opinione, comunque discutibile, circa gli «straordinari vantaggi» che l'uso del metadone avrebbe comportato nel trattamento delle tossicodipendenze, ma accusa gli psicoanalisti di aver ritardato l'uso di sostanze sostitutive con una opposizione ideologica che sarebbe stata causa di una vera e propria «catastrofe umana».
Il carattere inverosimile di questa tesi si commenta da sé. Essa propone una immagine caricaturale della psicoanalisi applicata alla clinica delle tossicodipendenze: l'analista silenzioso, ingessato nella sua neutralità, applicatore automatico della regola delle associazioni libere e dell'ascolto liberamente fluttuante e che di fronte all'angoscia del tossicomane in crisi di astinenza si limiterebbe a chiedere di parlare del padre o della madre... Esiste oramai una letteratura psicoanalitica ampia (in Italia come in Francia), che Déglon dovrebbe conoscere, la quale ritiene totalmente sconsiderato adottare il setting classico nel trattamento delle tossicodipendenze e che non si schiera affatto ideologicamente contro l'uso del metadone o di altre terapie farmacologiche sostitutive. La stessa cosa vale ovviamente per la clinica delle psicosi o per la clinica dei disturbi gravi dell'alimentazione (anoressie, bulimie, obesità).
Questioni di virilità
Un secondo esempio è quello dell'articolo di Mikkel Borch-Jacobsen. Nel Libro nero egli sostiene la tesi che non esiste una teoria psicoanalitica, o, più precisamente, che la teoria psicoanalitica è una teoria «zero». Ma cosa significa «teoria zero»? Per Borch-Jacobsen è evidente: «una nebulosa senza consistenza». La cosa buffa è che una teoria di questo genere ha come sua caratteristica, sempre secondo l'autore, di essere «in perenne movimento e capace di compiere svolte inattese». Ma questa definizione non si adatta bene a descrivere la ricerca scientifica come tale? E non è forse Freud un esempio significativo di una ricerca scientifica che di fronte agli scacchi dell'esperienza ha dovuto riassettare di continuo i suoi fondamenti teorici?
Un terzo ed ultimo esempio è quello dell'articolo, davvero esilarante, titolato La sessualità senza psicoanalisi di Pascal de Setter, sessuologo clinico a Waterloo. Cosa si sostiene con grande vigore polemico? Che la sessualità può fare a meno dell'inconscio e che quando c'è un problema sessuale (per esempio: erettile nell'uomo o anorgasmatico nella donna), è inutile chiedersi che cosa significhi per il soggetto che ne soffre e per il suo partner, ma occorre concentrarsi sul problema in sé. Dunque all'eiaculatore precoce il terapeuta sessuologo insegnerà i giusti comportamenti per rendere più adeguata la sua prestazione: esercizi di respirazione profonda e tecniche di controllo dei pensieri e dei muscoli. In verità il contributo del sessuologo di Waterloo ha perso l'occasione per essere esilarante quando nel corso delle sue argomentazioni vira improvvisamente verso una offensiva brusca nei confronti dell'utilità terapeutica della psicoanalisi. Si cita il caso clinico di un uomo maturo, con famiglia e professionalmente realizzato a cui piace, oltre a sbevazzare un po', indossare delle mutandine da donna. Egli decide di rivolgersi a uno psicoanalista. Ma dopo cinque anni di cura le cose peggiorano: il travestitismo si accentua e lo destabilizza rovinandogli la vita sociale e professionale, inoltre l'alcolismo sfugge al suo controllo, sino a rendere indispensabile il ricovero. Il bilancio di questa cura è disastroso, sentenzia il nostro. E prosegue affermando che non sarebbe stata necessaria la psicoanalisi, ma rafforzare con decisione la sua virilità e sospingerlo a non mettere più le mutandine da donna per risolvere il caso senza ulteriori problemi. Dulcis in fundo: «succede troppo spesso che la cura psicoanalitica aggravi la problematica sessuale del paziente, lo disturbi gravemente a livello psicologico, lo trascini verso la depressione o lo conduca sull'orlo del suicidio...»
L'apparente gossip psicoanalitico di cui si nutre in abbondanza il Libro nero cela in realtà un disegno più ardito: mostrare l'inefficacia terapeutica della psicoanalisi per far guadagnare alle terapie cognitivo comportamentali una grande fetta del mercato della cosiddetta salute mentale. Il discredito sistematico che quest'opera getta sulla pratica della psicoanalisi non mira ad altro. Aveva ragione Max Horkheimer quando sottolineava, nella sua Teoria critica, come la ricerca scientifica, sotto il regime del capitalismo, soprattutto quando si ammanta di un'immagine di assoluta purezza e di autonomia, in realtà si rivela al servizio delle esigenze della produzione industriale, del mercato e delle sue lobby.
Cosa diventa allora un sintomo nelle terapie cognitivo comportamentali? Un disfunzionamento che si tratta di normalizzare attraverso precise tecniche di riabilitazione. Queste tecniche puntano a ripristinare una nozione positiva di salute che esclude la deviazione del sintomo. L'uomo curato è l'uomo adattato.
Il Libro nero ci offre diversi esempi. Il più chiaro è forse quello proposto dall'articolo di Aaron Beck titolato La terapia cognitiva della depressione: riflessioni personali. L'autore sostiene che la depressione non è altro che un insieme di «errori di pensiero» in cui si manifesta la tendenza dei depressi a predire risultati negativi rispetto ai compiti specifici che avrebbero voluto intraprendere. Cosa fare allora? Niente altro se non mostrare al paziente che questi suoi pensieri sono erronei e la realtà non è così negativa come lui la crede, e perciò va sgombrata dagli sbagli interpretativi che costituiscono il cuore della depressione.
Prendiamo un altro esempio clinico. Quello davvero luminoso delle zoofobie, tra cui la paura dei ragni. Jacques Van Rillaer, ex psicoanalista freudiano e lacaniano pentito, oggi cantore in Belgio delle virtù delle terapie cognitivo comportamentali che dichiara di praticare «con grande soddisfazione», ci racconta con entusiasmo il suo metodo di trattamento della paura dei ragni. Il presupposto di partenza è che anche la fobia, come la depressione, sia un errore di giudizio. Si tratta dunque di avvicinare gradualmente il paziente alla fonte del suo terrore fobico. Lentamente, senza forzature.
Nel frattempo al paziente vengono spiegate le differenze tra vari generi di ragni, alcuni pericolosi altri meno. In seguito lo si invita a prendere contatto con alcuni di essi sotto la guida attenta del terapeuta, per verificare la «desensibilizzazione» riuscita della minaccia temuta. Nel trattamento delle paure dei ragni questo sistema è efficace solitamente in una o in poche sedute. Ma esso può essere esteso con gran giovamento a tutte le malattie psichiche dell'uomo.
Logiche manageriali
L'igienismo e lo scientismo contemporanei contornano le terapie cognitivo comportamentali. Una strana mescolanza di positivismo, di pedagogia manageriale, di culto new-age della salute e dell'equilibrio, insieme al razionalismo ipertecnologico sembra affiorare in quella che sarebbe la pars costruens di questo libro. Se in taluni casi le terapie cognitivo comportamentali portano a innegabili successi, e se è vero che i sintomi scompaiono, cosa accade - però - alla persona in questione se proprio quel sintomo era ciò che le consentiva di avere un'identità?
Uno psicoanalista con esperienza della clinica dei casi gravi sa bene che preservare il sintomo - magari rendendolo un po' più tollerabile - è a volte la condizione necessaria per evitare lo scatenamento di una psicosi latente: una consapevolezza totalmente assente dalla logica manageriale alla quale le terapie cognitivo comportamentali riducono la clinica.
L'ottimismo che le orienta è pari solo alla sua ingenuità: se si spiega a una paziente bulimica il senso della sazietà e la si aiuta a riconoscerlo, le crisi bulimiche non avranno più ragion d'essere, allo stesso modo se si spiega a un paziente depresso che il suo umore è solo il frutto di un suo errore di giudizio che assume i toni erronei di una eccessiva negatività, la depressione è risolta. La logica mercantile del problem solving s'impone.
La singolarità mortificata
In realtà queste diverse logiche terapeutiche hanno sullo sfondo una decisa contrapposizione etica, o, se si preferisce, due distinte visioni dell'uomo. Da una parte - dalla parte della psicoanalisi - l'uomo come essere leso da una mancanza inguaribile, gettato nel desiderio, inquieto ma anche singolare, creativo, impossibile da determinare una volta per tutte, disidentico a se stesso, impossibile da governare, educare e guarire. Dall'altra - dalla parte delle terapie cognitivo comportamentali - un uomo come essere che aspira a un controllo di sé positivo, a una efficacia operativa, a un ristabilimento delle sue facoltà razionali: un uomo ben adeguato al principio di realtà, ben assimilato all'ordine politico in cui vive, ben adattato, ben identificato con i suoi ruoli sociali.
Se l'uomo di cui la psicoanalisi parla è una singolarità che sfugge per principio ai protocolli, alle comparazioni statistiche, all'assimilazione conformista alla norma, l'uomo delle terapie cognitivo comportamentali è l'uomo guarito, l'uomo che si è identificato con il buon ordine, l'uomo senza inconscio, l'uomo che ha saputo ritrovare la sua efficienza, salvo però considerare che questa efficienza ritrovata è nella maggior parte dei casi una efficienza senza desiderio, una efficienza anonima, uniformata al sistema. Mentre, infatti, la psicoanalisi difende il criterio etico dell'«uno per uno» contro la generalizzazione autoritaria dello scientismo e della ragione strumentale, l'uomo delle terapie comportamentali è l'uomo dei sintomi e delle funzioni uguali per tutti, è l'uomo depersonalizzato, liberato finalmente dall'angoscia e dal sintomo, dunque liberato dal peso gravoso della sua singolarità.