il Riformista 16.1.07
La crisi dei Ds, un partito rassegnato a scomparire
di Emanuele MacalusoNon mi associo al coro di critiche nei confronti di Prodi per l’esito del seminario governativo di Caserta dato che proprio da queste colonne (martedì scorso) avevo auspicato una operazione verità: il risultato delle elezione politiche, che non è stato quello previsto, e le contraddizioni nelle coalizioni, che sono più acute di quel che si pensava, non consentono riforme incisive, anche se necessarie. È quindi inutile e dannoso annunciare impegni che non si possono realizzare. La «manutenzione» per migliorare la macchina dello Stato e della spesa e un programma minimo per sollecitare lo sviluppo sono i due obiettivi che questa coalizione può porsi. Governare meglio del passato sarebbe, infatti, già un buon risultato. Semmai l’errore di Caserta è consistito nello scegliere lo scenario della Reggia per uno spettacolo modesto. Tuttavia, Caserta ha confermato un dato che in questi ultimi mesi è emerso con nettezza sempre maggiore: la crisi politica dei Ds.
Il segretario di questo partito continua a riempire giornali e tv di lunghe interviste ma non coglie l’essenziale: la perdita di un ruolo incisivo dei Ds nella coalizione governativa e nel Paese. Non basta ripetere come un disco rotto che il segretario è impegnato a spiegare al popolo la Finanziaria (con l’aria di chi l’ha subita) e a costruire il futuro Partito democratico (con l’aria di chi incontra solo scetticismo). La politica è spietata. E oggi, i Ds appaiono come una forza senza riferimenti sociali e ideali, alla ricerca disperata di nuove identità. Il partito di Fassino è stretto in una morsa da cui non riesce a uscire: da un lato la sinistra massimalista che si presenta come riferimento del mondo del lavoro, più specificatamente degli operai, dei pensionati, dei precari, degli immigrati, degli esclusi; dall’altro la Margherita che tende a identificarsi con le forze che sollecitano le liberalizzazioni confindustriali e, al tempo stesso, con il conservatorismo cattolico che nega le liberalizzazioni nella sfera delle libertà civili. Prodi media, rinvia e a Caserta ha rivendicato questo ruolo sapendo che i Ds sono nella morsa e non possono che appoggiarlo nel tentativo di reggere l’equilibrio instabile della coalizione.
Questo quadro è stato reso più rigido, quasi immutabile, dal fatto che i Ds hanno imboccato la strada senza uscita del cosiddetto Partito democratico. I big della Margherita ne sono consapevoli e alzano il prezzo. La settimana scorsa abbiamo letto l’intervista di Marini a Repubblica e il suo «mai nel Pse» con l’aggiunta che se c’è qualcuno che su questa «bazzecola» fa saltare il banco se ne assume la responsabilità: insomma, o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. Dopo Marini altre dichiarazioni margheritine sulla stessa lunghezza d’onda. E i Ds sul tema dicono e non dicono e fanno capire che un rappezzo si troverà. Al Pd non ci sono alternative, ripetono, dando nuove carte nelle mani di Rutelli e soci.
Insomma, il segretario Ds e compagni pensano di guidare un processo e invece ne sono guidati. Si parla di un grande progetto che dovrebbe rivoluzionare la politica italiana (il Pd, ha detto Fassino, sarà quel che furono Roosevelt negli Usa, De Gaulle in Francia, Adenauer in Germania, Gonzales in Spagna e così via) ma quel che si vede è ben altro: la somma di un personale politico stanco e logorato, un’operazione moderata senza anima e senza respiro per cancellare ogni traccia di ciò che è stato e potrà essere la sinistra italiana e europea. E nei Ds prevale la rassegnazione.
Repubblica 16.1.07
Addii al partito e dissensi si susseguono ma la soluzione è far finta di nulla. E il progetto dell'Ulivo non sconfigge la stanchezza
Quel male oscuro che sta sgretolando i Ds
di Filippo CeccarelliMolto semplicemente, e con qualche preoccupazione: cosa sta succedendo nei ds? Non passa giorno senza qualche guaio, tessere non rinnovate, disimpegni congressuali, frammenti, riflessi, indizi di smobilitazione. Ma quel che più colpisce, a pensarci bene, e allarma, sono i modi in cui questo accade. Perché non c´è rabbia né animosità nella forma degli addii, non c´è passione politica, culturale e forse nemmeno esistenziale, ma solo un lento e monotono chiamarsi fuori. Tutto si consuma all´insegna dell´ineluttabile: «Mi arrendo» ha detto ieri l´onorevole Caldarola. E il capo della minoranza, il ministro Mussi, che pure poteva giocarsi in termini politici quest´ultimo abbandono, non ha trovato di meglio che ricorrere alle leggi della fisica: è l´«evaporazione» dei ds. Che strano modo di manifestare una crisi. E di illustrarla facendola convivere, nella campagna per il tesseramento, con un depliant che sotto il simbolo della quercia reca lo slogan: «Io ci credo». Ecco, quanti ancora «ci credono», là dentro? E quanti altri, in giro per l´Italia, semplici iscritti o militanti che siano, non hanno già silenziosamente anticipato la rinuncia dei vari Rossi, Bresso, Caldarola, Turci, De Giovanni, De Luca, Soriero, Polito?
Sull´inesorabile rassegnazione del partito esiste anche un film-verità, «Il fare politica», che molto dall´esterno (il regista è belga, Hugues Le Paige) ha ripreso con la telecamera e raccontato la storia ventennale (1982-2002) di quattro compagni del Pci di un paesino rossissimo della Toscana, Mercatale. E insomma: alla fine, l´amara novità è che uno solo tra loro è rimasto nei ds. Gli altri, per vari motivi, se n´erano andati. Né francamente, viene da dire, la suggestione di un ipotetico partito democratico sembra in grado di rovesciare l´esito non solo narrativo dell´eloquente cortometraggio.
Al centro la stanchezza è visibile a occhio nudo, e forse pure contagiosa. Ogni tanto (è accaduto tre volte negli ultimi mesi) il segretario viene fischiato, ma il giorno dopo la questione è come ridimensionare l´episodio, la protesta. Al momento di decidere i sottosegretari, escluso un potente notabile, alcuni della periferia sono piombati a Roma a dar calci sul portone del Botteghino. Ma al dunque è bastato sbarrarlo per chiudere la questione di chi avesse deciso le poltrone, e perché. Così come del resto non s´è capito tanto bene in che modo siano state stabilite le norme e ancora di più le deroghe nella formazione delle liste dei deputati e senatori da far eleggere, a tutti i costi.
Alla lunga, far finta di nulla diventa una soluzione. Quando non se ne può fare a meno, si trasforma immediatamente in una faccenda da relegare agli spin-doctor e agli esperti di marketing. Tutto passa, anche il «tifo» per Consorte. L´importante è che i conti siano in ordine - e che l´amministratore Sposetti ne possa andare fiero. Di tanto in tanto l´Unità attacca, ma pazienza. Gli iscritti sono 600 mila, il secondo partito in Europa dopo la Spd. Ma in vista del congresso ci sono pacchi di contestazioni, alla moda proto-democristiana; e l´unica figura di spicco che abbia preso, anzi ripreso la tessera ds negli ultimi tempi, è Primo Greganti, il «compagno G», intestatario del conto «Gabbietta». L´annuncio in occasione del lancio del suo libro intervista, «Scusate il ritardo» (Memori, 2006), scritto in collaborazione con quell´altro compagno, Luciano Consoli, entrato nel business del Bingo anche con l´obiettivo, s´infervorava, di ripristinare i vincoli sociali.
Lo stato dei rapporti personali, fra dirigenti che si conoscono da una vita e da una vita e mezza non fanno che stare tra loro, è apparentemente normale. Però l´impressione, il dubbio, il sospetto, è che tra via Nazionale, la Camera, il Senato, i ministeri, le fondazioni, i comuni più importanti e i governatorati della periferia i dignitari diessini non si possano più vedere l´un l´altro. Alcuni nemmeno si salutano più. E tuttavia anche questa discordia permanente è acquisita come un dato inevitabile, e non come lo sgretolamento di quella che almeno all´inizio si poteva considerare una comunità.
Da questo punto di vista, la gestione e i simboli del potere - 26 auto blu censite al recente workshop di Sesto San Giovanni - funzionano come l´esatto contrario del collante. Se horror vacui e cupio dissolvi risultano equamente distribuiti su un versante ritenuto trascurabile della vita interna (qualità del clima interno, privilegi elitari, tessere impicciate), su un piano più strettamente politico il partito denuncia una obiettiva «perdita di ruolo», come l´ha definita Emanuele Macaluso. Ma anche qui, pur con tutta la diffidenza per le ricadute apocalittiche, l´interrogativo riguarda forse la tenuta complessiva dei ds. Il vuoto di progettualità. L´inadeguatezza del gruppo dirigente. L´asfittico dibattito culturale. In ultima analisi: la perdita di senso della propria missione.
Fin troppo facile dare la colpa a questo o a quello. Ma anche impossibile, al momento, riconoscere qualcuno che abbia cercato di invertire il processo. Molto semplicemente, forse: il partito di massa sta crollando sui ds, come su tutti gli altri. In questi casi si dice sempre che non tutto è perduto. Ma almeno è necessario riconoscere lo schianto, il fumo e l´odore dei calcinacci.
Repubblica 16.1.07
Caldarola, tra i promotori della terza mozione, rinuncia a partecipare al congresso. Angius: il progetto fa acqua da tutte le parti
Pd, altri strappi nella Quercia
Bresso: non verrò nel nuovo partito. Mussi: così evaporiamo
La presidente del Piemonte: "Troppa confusione, sarò un'indipendente dell'Ulivo" ROMA - Dopo le anticipazioni di Repubblica sul Manifesto del Partito democratico, i dodici saggi che stanno lavorando al testo precisano: «Apprezziamo l´interesse per un documento così atteso, ma siamo ancora arrivati alla stesura definitiva». Secondo il comitato «gli stralci di alcuni passaggi del testo fanno parte di una bozza che è già stata modificata, in riferimento sia a parti specifiche sia al ventaglio di questioni considerate di particolare rilievo». Insomma la discussione è riaperta. La Margherita fa sapere di essere soddisfatta «per la sintesi avanzata», ma insiste sul fatto che il documento «non è ancora compiuto». Ci sono dei passaggi da rivedere, dunque. E non a caso il lavoro dei saggi potrebbe allungarsi. Dovevano presentare il testo definitivo alla fine del mese, potrebbero rimandare a febbraio.
Il lavoro sulla bozza è naturalmente influenzato da ciò che succede nei partiti. Soprattutto nei Ds. C´era già stato nei giorni scorsi l´addio del riformista Nicola Rossi. Ieri ha annunciato la sua assenza al prossimo congresso della Quercia Peppino Caldarola, tra gli animatori della terza mozione, firmata con Gavino Angius, favorevole alla nascita di una forza socialista ancorata al Pse. «Mi arrendo», ha scritto il deputato liberal in un articolo sul Corriere della Sera. Resta nei Ds finchè esisteranno, poi non prenderà la tessera dei Democratici. E da Torino arriva una nuova voce contraria. «Rinnoverò al più presto l´iscrizione ai Ds. Ma non parteciperò al dibattito congressuale sul futuro partito Democratico di cui, se progetti e prospettive rimarranno quelli che ho sentito finora, non ho intenzione di prendere la tessera. Sarò un´indipendente dell´Ulivo», annuncia la governatrice del Piemonte Mercedes Bresso. A Via Nazionale temo l´effetto domino.
Chiamparino ha invitato la Bresso a ripensarci, ma la presidente non molla. Un nuovo strappo, forse il più fragoroso. «Io sto con Fassino, D´Alema, Veltroni, i veri riformisti del partito - dice la Bresso -. E per questo, perché le mie posizioni non vengano strumentalizzate da altri, non parteciperò al dibattito congressuale. Ma il mio partito di riferimento è il Partito socialista europeo e credo non si possa costruire una nuova forza pensando di sommare senza distinzioni le culture politiche liberale, socialista e cattolica. Così si fa solo gran confusione e si dà un´inquietante sensazione di partito unico. In più ci vuole chiarezza sui temi etici e sulla grande questione della laicità». Le fibrillazioni diessine (giovedì si riunisce la direzione) offrono a un grande avversario del Pd lo spunto per una profezia funesta. «Si va verso l´evaporazione dei Ds - spiega Fabio Mussi, leader del correntone e candidato alla segreteria in alternativa a Piero Fassino -. Per compattare il partito occorre interrompere le procedure di lancio dei Democratici». Stiamo perdendo i pezzi, avverte il ministro dell´Università. «A sinistra e anche a destra, ora». Emanuele Macaluso vede un partito in «crisi politica», in cui «prevale la rassegnazione». Tante dissensi preoccupano il vertice del Botteghino e oggettivamente mettono a rischio le prossime tappe della nascita del nuovo soggetto. Fassino, per garantire i laici del partito, preme per una legge rapida sui Pacs, «anche se due settimane in più o in meno non cambiano molto». Basterà a calmare le acque? «Noi abbiamo raggiunto un punto di equilibrio - dice il coordinatore della Margherita Antonello Soro - ma la sofferenza dei Ds è veramente grande. Però c´è solo la strada del Partito democratico, stare insieme per creare un nuovo soggetto. E se non lo fanno Fassino e D´Alema, lo farà Walter Veltroni, fuori dai partiti».
Per Gavino Angius la resa di Caldarola dimostra che «il Pd fa acqua». Ma i progressi sul Manifesto dei Democratici fanno dire al ministro del Programma Giulio Santagata che «il cantiere sta procedendo. I saggi sono in dirittura d´arrivo con il documento, Dl e Ds stanno decidendo le date dei congressi, c´è un lavoro in fase di sviluppo».
Repubblica 16.1.07
Antichi rimedi per la melanconia
Dolore, solitudine esistenza errabonda. Un disastro privo di ragioni per il quale esisteva già un farmaco, il nepenthes
di Jean StarobinskiIl brano di Jean Starobinski che qui pubblichiamo è tratto da un saggio dello studioso che compare sul nuovo numero di Lettera Internazionale, in uscita in questi giorni, all'interno di un dossier intitolato «Male di vivere». Nella rivista figurano anche interventi di Anna Politkovskaja, Ryszard Kapuscinski, Octavio Paz, Etienne Balibar, Giulio Ferroni, Carl Schmitt, Leszek Kolakowski, Michel Onfray e Vercors.Omero che è all'origine di tutte le immagini e di tutte le idee racconta la depressione di Bellerofonte La melanconia, come tanti altri stati dolorosi legati alla condizione umana, è stata avvertita e descritta assai prima di ricevere un nome e una spiegazione medica. Omero, che è all´origine di tutte le immagini e di tutte le idee, riesce a racchiudere in tre versi tutta la miseria del melanconico.
Rileggiamo, nel canto VI dell´Iliade (versi 200-203), la storia di Bellerofonte, che subisce l´inesplicabile collera degli dèi: Ma quando fu in odio anche lui a tutti gli dèi, solitario vagava allora per la pianura Alea mangiandosi l´anima, evitando l´orma degli uomini.
Dolore, solitudine, rifiuto di qualsiasi contatto umano, esistenza errabonda: un disastro privo di ragioni, dato che Bellerofonte, eroe coraggioso e giusto, non ha commesso alcun crimine contro gli dèi. Al contrario, è stata la virtù la causa delle sue disgrazie, del suo primo esilio; per aver rifiutato le colpevoli profferte di una regina, che il dispetto ha trasformato in persecutrice, ha dovuto affrontare innumerevoli prove. Bellerofonte ha superato valorosamente la lunga serie delle sue fatiche: ha vinto la Chimera, evitato gli agguati, conquistato un regno, una sposa, il riposo. Ma ecco, nel momento stesso in cui tutto sembrava essergli stato concesso, il tracollo. Ha esaurito le sue energie vitali nel corso della lotta? O ha rivolto forse contro se stesso, in mancanza di nuovi avversari, il proprio furore?
Lasciamo da parte questi psicologismi, che non sono nel testo di Omero, e approfondiamo invece l´immagine così penetrante di un esilio imposto per decreto divino. Gli dèi, nel loro complesso, si compiacciono di perseguitare Bellerofonte; l´eroe, che ha saputo resistere valorosamente alle persecuzioni degli uomini, è impotente di fronte alla loro collera. E chi è perseguitato dall´ostilità universale degli immortali non trae più alcun piacere dai rapporti con gli uomini. E questo il punto su cui occorre soffermarsi: nel mondo omerico, la comunicazione dell´uomo con i suoi simili, la stessa rettitudine del suo cammino, sembrano dipendere da una garanzia divina. Quando nessun dio è disposto a concedere tale favore, l´uomo è condannato alla solitudine, al dolore «divorante» (una forma di autofagia), alle corse senza meta in preda all´ansia. La depressione di Bellerofonte è solo l´aspetto psicologico di questo allontanamento delle potenze superne. Una volta abbandonato dagli dèi, gli vengono a mancare le risorse e il coraggio necessari per continuare a vivere tra i suoi simili. Una collera misteriosa, che pesa su di lui dall´alto, lo porta a evitare le strade percorse dagli uomini, lo spinge a vagare senza scopo e senza senso. Si tratta forse di follia, mania? No: nel deliro, nella mania, l´uomo è istigato o posseduto da una potenza soprannaturale, di cui avverte la presenza. Qui, invece, tutto è allontanamento, assenza. Bellerofonte sembra errare nel vuoto, lontano dagli dèi, lontano dagli uomini, in un deserto senza limiti.
Per liberarsi del suo «nero» dolore, il melanconico non può far altro che attendere o cercare di propiziare il ritorno della benevolenza divina. Prima di poter rivolgere di nuovo la parola agli uomini, è necessario che una divinità torni ad accordargli il favore che gli è stato ritirato. Occorre che questa situazione di abbandono abbia termine. Ma la volontà degli dèi è capricciosa.
Omero è però anche il primo a evocare la potenza della medicina, del pharmakon. Miscela di erbe egiziane, segreto di regine, il nepenthes lenisce le sofferenze e frena i morsi della bile. Ed è giusto che sia Elena, per amore della quale ogni uomo è pronto a dimenticare tutto, ad avere il privilegio di dispensare la pozione dell´oblio, in grado di attenuare il rimpianto, asciugare per un momento le lacrime, ispirare l´accettazione rassegnata dei decreti imprevedibili degli dèi. E dove, se non nell´Odissea (canto IV, v. 219 e segg.), nel poema dell´eroe ingegnoso dalle mille risorse, si sarebbe dovuta situare l´apparizione di questo meraviglioso artificio, che permette all´uomo di acquietare i tormenti che accompagnano il suo destino violento e la sua vita turbolenta?
Dunque, oltre a offrirci un´immagine mitica in cui l´infelicità dell´uomo è una conseguenza della sua caduta in disgrazia dinanzi agli dèi, Omero ci propone anche l´esempio di un´attenuazione farmaceutica del dolore, che non deve nulla all´intervento degli dèi: una tecnica solamente umana (circondata, senza dubbio, da qualche rito) sceglie le piante, ne spreme, mescola, decanta i princìpi, benefici e tossici allo stesso tempo. Naturalmente, la bellezza della mano che porge la pozione non può che aumentare l´efficacia della droga, che ha in sé anche qualcosa dell´incantesimo. Il dolore di Bellerofonte ha avuto origine nel Consiglio degli dèi, ma gli armadi di Elena ne contengono il rimedio.
«Quando il timore e la tristezza persistono a lungo, si ha uno stato melanconico» (Ippocrate, Aforismi). Ecco apparire così la bile nera, la sostanza spessa, corrosiva, tenebrosa, cui il senso letterale del termine «melanconia» fa riferimento. Si tratta di un umore naturale del corpo, come la bile gialla, come la pituita. E, proprio come gli altri umori, essa può sovrabbondare, spostarsi dalla sua sede naturale, infiammarsi, corrompersi, dando luogo a diverse malattie: epilessia, follia furiosa (mania), tristezza, lesioni cutanee. Lo stato che chiamiamo oggi melanconia è solo una delle molteplici espressioni del potere patogeno della bile nera, quando il suo eccesso o la sua alterazione qualitativa compromettono l´isonomia (ossia l´armonioso equilibrio) degli umori.
E´ verosimile che l´osservazione dei vomiti e delle feci di colore nero abbia suggerito ai medici greci l´idea di trovarsi in presenza di un umore altrettanto fondamentale degli altri tre. Il colore scuro della milza, per una facile associazione di idee, deve aver fatto loro supporre che questo organo fosse la sede naturale della bile nera. Inoltre, la possibilità di stabilire una stretta corrispondenza tra i quattro umori, le quattro qualità (secco, umido, caldo, freddo) e i quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco), era appagante per lo spirito. A queste associazioni se ne aggiunsero altre, fino alla costituzione di un mondo simmetrico: le quattro età della vita, le quattro stagioni, le quattro direzioni dello spazio da cui soffiano quattro diversi venti. La melanconia si trovava associata, per analogia, alla terra (che è secca e fredda), all´età presenile, e all´autunno, stagione pericolosa in cui l´atrabile acquista la sua massima potenza. Si giunse così alla costruzione di un cosmo coerente, il cui assetto quadripartitico si riverbera nel corpo umano e in cui il tempo è solo il percorso regolare delle quattro stagioni.
Ridotta alle sue giuste proporzioni, la melanconia è solo uno degli ingredienti indispensabili alla crasi che costituisce lo stato di salute. Non appena essa acquista un peso preponderante, tuttavia, l´equilibrio si spezza e sopravviene la malattia: come dire che le nostre malattie dipendono dal disaccordo tra quegli stessi elementi che compongono la nostra salute.
Il sistema dei quattro elementi viene affermato in modo esplicito solo nel trattato sulla Natura dell´uomo, attribuito tradizionalmente a Polibio, genero di Ippocrate. Altri trattati, come l´Antica medicina, sembrano ammettere l´esistenza di una maggiore varietà di umori, ciascuno dotato di proprietà particolari. (...) Prima che la dottrina medica prendesse forma, alla fine del V secolo, in Attica, si credeva già nel nefasto influsso psichico della bile nera. Sofocle si serve per l´appunto dell´aggettivo melancholos per indicare la tossicità letale del sangue dell´idra di Lerna, di cui Eracle aveva imbevuto le punte delle sue frecce (v. 573). Il centauro Nesso, raggiunto da una di queste frecce, ne morì; e le proprietà velenose dell´idra si trasmisero, in seconda diluizione, alla vittima.
Raccolto da Deianira, il sangue di Nesso servì a tingere la famosa tunica, il cui contatto procurò a Eracle un bruciore insopportabile, che lo costrinse al suicidio eroico.
Ci troviamo qui in presenza di un bell´esempio di immaginazione sostanziale (prendiamo in prestito l´espressione di Gaston Bachelard): il veleno melanconico è un fuoco oscuro che agisce a dosi infinitesimali e che mantiene la sua pericolosità anche a concentrazioni oligodinamiche; è un composto dalla duplice natura, in cui i poteri nefasti del colore nero e le proprietà corrosive della bile si potenziano a vicenda. Il nero è sinistro, è strettamente associato alla notte e alla morte; la bile è acre, irritante, amara. Come fanno intendere abbastanza chiaramente alcuni testi ippocratici, la bile nera era concepita come una sorta di concentrato, una feccia residua prodotta dall´evaporazione degli elementi acquosi degli altri umori, e in particolare della bile gialla. La si circondava del temibile prestigio delle sostanze concentrate, capaci di contenere nel minimo volume la massima quantità di proprietà attive, aggressive, corrosive. Molti secoli dopo, Galeno attribuirà all´atrabile una singolare vitalità: essa «morde e attacca la terra, si gonfia, fermenta, fa nascere bolle simili a quelle che si formano nelle zuppe in ebollizione». Fortunatamente, nell´organismo sano, gli altri umori intervengono per diluire, frenare, moderare tanta violenza. (...)
La tristezza e il timore costituiscono, per gli Antichi, i sintomi principali dell´affezione melanconica. Ma una semplice differenza nella localizzazione dell´umore atrabiliare è sufficiente a determinare considerevoli cambiamenti nella sintomatologia. I melanconici diventano in genere epilettici, e gli epilettici melanconici; quale di questi due stati sia destinato a prevalere dipende dalla direzione presa dalla malattia: se attacca il corpo, si ha l´epilessia; se attacca l´intelligenza, la melanconia (Ippocrate, Epidemie).
Il passo citato contiene un´ambiguità: la parola «melanconia» designa un umore naturale che non è necessariamente patogeno. Ma la stessa parola designa anche la malattia mentale prodotta dall´eccesso o dallo snaturamento di questo umore, quando essi riguardino principalmente «l´intelligenza». (...)
Un medicamento - l´elleboro - rimarrà per secoli lo specifico più diffuso per la cura della bile nera e, di conseguenza, della follia. Diventerà il farmaco per eccellenza, quello di cui è sufficiente citare il nome per indicare l´uso cui è destinato dalla tradizione. Nel XVII secolo, nessun lettore aveva bisogno di un commentario per capire l´allusione contenuta nei versi di La Fontaine, in cui la lepre si fa beffe della tartaruga: «Comare mia, bisognerebbe purgarla / con quattro grani di elleboro».
Traduzione di Stefano Salpietro
copyright Lettera InternazionaleCorriere della Sera 16.1.07Un saggio di Lucia Annunziata rievoca una stagione di conflitti e chiama in causa Cossiga Quel 1977 L'anno che sconvolse la sinistra italiana.Quando il movimento uccise il padre Pcidi Luigi BallistaLucia Annunziata racconta di quando, dopo aver assistito alla cacciata di Luciano Lama dall'Università di Roma nel febbraio del '77, tornò con una inebriante «sensazione di leggerezza» alla sua redazione del «Manifesto». Aveva portato con sé come un trofeo (o forse come un feticcio) un sampietrino raccolto sul campo di battaglia: «Lo mostrai con orgoglio. Mani si allungarono a toccarlo. Rossana Rossanda si voltò di colpo e ingiunse: "Mettilo via". Lo rimisi in borsa... ma nel depositarlo sul fondo della borsa, ne accarezzai il lato liscio».
Accarezzato, toccato, orgogliosamente rivendicato, quel sampietrino era l'arma simbolica con cui, sostiene l'Annunziata nel suo libro 1977. L'ultima foto di famiglia (Einaudi) il '77 uccise simbolicamente il padre comunista. Superfluo obiettare che l'arma emblema di quell'anno non fu il sampietrino, ma la P38. Che in quel clima intossicato dalla violenza rimasero feriti, gambizzati, uccisi bersagli di ogni colore e mestiere. Ma Lucia Annunziata, sul filo del racconto autobiografico e dell'analisi del terremoto che sconvolse la sinistra, dichiara apertamente l'animus del testimone parziale. La sua ricostruzione ha come oggetto la sinistra. Ma se la storiografia politica ha sinora riletto il cataclisma del '77 come il compimento cupo e lugubre di una vicenda politica e di costume che affonda le sue radici nel Sessantotto, al contrario l'Annunziata lo circoscrive come l'inizio di un'altra storia che allunga le sue ombre fino ai nostri giorni, il deflagrare di un conflitto le cui conseguenze si sono proiettate anche negli anni a venire, l'esplosione di una guerra fratricida nella sinistra che ancora oggi riverbera i suoi strascichi e le sue divisioni. Quell'anno maturò il parricidio, l'uccisione del Partito comunista nel nome dell'altra sinistra: ecco la tesi di questo libro, in cui l'autrice riserva giudizi di una severità perentoria. Ecco l'indugiare feticistico su quel sampietrino che aveva contribuito a profanare la sacralità della storia comunista, umiliando il capo del sindacato e costringendolo a uscire dall'università assieme al suo servizio d'ordine un tempo imbattibile.
«Noi odiavamo i comunisti», scrive l'Annunziata, che ricorda anche, mettendo temerariamente mano al groviglio esistenziale che sembra dettare segretamente scelte ed emozioni politiche refrattarie a una razionalizzazione troppo spinta, che «mio padre, l'operaio comunista Raffaele, mi investì al telefono» dopo aver letto l'articolo della figlia dedicato alla cacciata di Lama: «Di tutti i pezzi scelti per la giornata, il più stupido l'hai scritto tu. Non vi siete resi conto di quello che avete fatto». Ma loro «odiavano» i padri comunisti. Ne detestavano, scrive ancora, il «grigiore», «quelle sezioni buie che rendevano le loro bandiere rosse attaccate alle pareti umide e flosce», quel «senso di muffa permanente», quella «potenza» di cui il Pci esibiva addirittura «un culto», mosso esclusivamente da un'ossessione per «l'ordine, l'organizzazione, la disciplina». Difficile un ritratto di famiglia dall'interno più impietoso, sprezzante, liquidatorio. Un atto d'accusa che sembra ricalcato sull'invettiva di André Gide contro le famiglie borghesi. Ma mai i comunisti avrebbero potuto immaginare di essere odiati dai loro figli come dei borghesi qualunque, non illuminati dalla scienza del futuro. Perciò reagirono con pesantezza e (comprensibile) malanimo. Si scagliarono sui figli ribelli del '77 bollandoli come «fascisti», «diciannovisti», «teppisti», «provocatori». Una spaccatura così cruenta, ha ragione l'Annunziata, scavò tra padri e figli un solco invalicabile.
Lucia Annunziata non edulcora la ricostruzione di quel duello furioso con il balsamo della nostalgia. Riporta con onestà cronistica il conto delle vittime del fanatismo intollerante. E restituisce il clima febbrile di uno scontro che non conobbe cuscinetti che ne attutissero l'urto. La bomba molotov che inaugurò l'anno contro il cinema romano che proiettava La lunga notte di Entebbe, il film sull'operazione con cui Israele liberò gli ostaggi di un aereo dirottato dai palestinesi. I giornalisti dell'«Unità» buttati fuori dall'università. L'aggressione al professor Franco Ferrarotti «che si rifugia in una profumeria». Le intimidazioni pesanti contro gli accademici, anche del Pci come Alberto Asor Rosa. La fama di «questurino» che si guadagnò l'allora segretario della Fgci Massimo D'Alema, colpevole di essere contro la violenza delle spranghe e delle pistole. Le ambiguità dei dirigenti di Lotta Continua (sebbene fu proprio grazie a due di loro, Luigi Manconi e Marino Sinibaldi, che l'Annunziata fu salvata dalle attenzioni minacciose di una parte del corteo). Il «processo popolare» cui venne sottoposto Paolo Mieli nel corso di un'assemblea. Le velleità d'attacco alla Bologna del Pci, con Giancarlo Pajetta che denunciava che «anche il fascismo cominciò con la marcia su Bologna» e con gli intellettuali francesi, Sartre in testa, che vaneggiavano sul nuovo autoritarismo simboleggiato dalla città amministrata da Renato Zangheri. Il parricidio fu violento, estremistico, cruento. Ed è così convincente e realistico il quadro che ne offre l'Annunziata che non si comprende fino in fondo l'accusa spietata che l'autrice riserva al ministro degli Interni di allora Francesco Cossiga, chiamato nuovamente «Kossiga» e bollato come preda di una «semifollia» nella gestione dell'ordine pubblico in una temperie di lotta armata unilateralmente dichiarata. Forse non c'era altro da fare. E comunque il parricidio di chi, secondo l'autrice, interpretava nella nuova sinistra la «modernità» contro il polveroso conservatorismo del Pci, non avrebbe potuto lasciare indifferente chi istituzionalmente era chiamato alla tutela dell'ordine pubblico nell'anno più difficile. L'anno più controverso.
l’Unità 16.1.07IL CASO Il leader: non può fare la rassegna stampa di domenica. Il direttore dell’emittente, Massimo Bordin, replica: «Marco, a me va bene così»Pannella «licenzia» in diretta Capezzone da Radio radicale di Maria ZegarelliLa politica ormai si fa così: con stracci che volano in pubblico tra i vari soggetti interessati. Altro che vecchie maniere, «i panni sporchi si lavano in casa». Tutto superato. Molto più «in» dirsi le cose sinceramente in faccia ma davanti almeno a diverse centinaia di spettatori. Altrimenti non c’è gusto. Marco Pannella, che ha sempre il polso della situazione politica, ha quindi scelto la diretta radio, sulla «sua» Radio Radicale, per chiarire che lui l’ex segretario del partito, anzi «di una delle tante associazioni radicali», Daniele Capezzone, non lo vuole più sentire la domenica mattina come conduttore della rassegna stampa «Stampa e Regime». La conduce in «modo egregio, ma anche come autopromozione, sul piano politico, per carità», ma qualche «osservazione si può fare».
Tutto in onda, domenica sera nel corso della abituale intervista settimanale (andata in replica ieri mattina) con il direttore della radio, Massimo Bordin, che a un certo punto ha definito «sgradevole» quel colloquio che sembrava sempre più una resa dei conti tra il leader radicale e il suo ex delfino. Pannella sigaretta accesa, va avanti a testa bassa. Insiste: la domenica mattina «c’è un primato di ascolti», dunque sarebbe meglio assegnare quello spazio a qualcun altro, come Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni, che prende via via quota nel firmamento di via Arenula. Massimo Bordin prima smentisce il picco di ascolti della domenica mattina, poi sottolinea: «A me la programmazione va bene così, altrimenti stabiliamo che a deciderla è il partito». «Questo è offensivo» incalza la vecchia volpe per niente sfiancata - almeno nella favella - dal digiuno ad oltranza che porta avanti contro la pena di morte. Offensivo? «Sei l’editore della radio...», prova a dire il direttore. «Ora verrà fuori che gli faremo del mobbing, che gli togliamo il lavoro, ma non intendo accettare ricatti di questo tipo». Ma insomma..., ribatte l’altro, un po’ di mobbing, lascia intendere, si intravede in tutta questa vicenda.
Lo spettacolo va, gli stracci volteggiano sulle onde radio. Capezzone viene avvertito dell’ultimo attacco. «Ma insomma... - propone Bordin - diciamo che mi riservo una decisione, perché ti confesso...». «Una decisione relativa a che cosa? La decisione è sempre tua, in passato, nel presente e in futuro...». «Ma sai benissimo che non intendo mettermi in urto con i superiori interessi della politica...». E Pannella: «Perché anche tu hai paura del mobbing?». Risposta: «Non ho paura di niente, di nessuno, così non va... Al massimo mi puoi licenziare»... Stanza ormai piena di fumo e di tensione che taglia con il coltello. Pannella non cede e la tira avanti per circa dieci minuti, anzi come dice Bordin «che va avanti così dal 2007, dal dopo Padova». Allora basta, «potremmo fare così Marco...». Così come?, come sarebbe a dire?, «Insieme non facciamo nulla, lo farai tu», perché tu sei il direttore e quindi tu devi dare il benservito: questo è il succo che spremi spremi sta venendo fuori. E allora, se proprio lo devo fare io, rilancia il direttore, «non vedo motivo di cambiare la rassegna stampa della domenica».
Daniele Capezzone, attuale presidente della Commissione Attività produttive della Camera, citato a Caserta da Romano Prodi per il progetto «un’impresa in un giorno», al telefono è piuttosto sbrigativo. «Ho sentito Bordin privatamente e l’ho ringraziato - dice - per il suo comportamento ineccepibile e ammirevole. Quanto a Marco ho troppo rispetto per lui per commentare una sortita che mi sembra davvero deludente». Di andarsene non ci pensa nemmeno l’ex segretario tirato su politicamente come un figlio proprio da colui che oggi lo ripudia. Capezzone (definito da Casini l’unico riformista, oltre a Nicola Rossi) ritira fuori dal cassetto una frase già pronunciata durante il congresso: «Marco, ti dò una brutta notizia: io non me ne vado». E l’altra, quella detta davanti alle telecamere di «Markette» la trasmissione di Chiambretti: «Di qualunque cosa venga accusato, inclusa la violazione del trattato di Kyoto, non scendo in polemica». Silenzio da parte dell’attuale segreteria dei radicali, Rita Bernardini. Non tace, invece, Bordin. Spiega il giorno dopo: «Non ho alcuna intenzione di cambiare la rassegna stampa della domenica. Se poi il partito, visto che di radio di partito si tratta, dovesse decidere diversamente, allora...». Allora? «Sarà una separazione consensuale». Certo però che non sarebbe un bel segnale, «perché in passato non è mai successo che il partito facesse il partito in questo senso, dettando ultimatum su questioni di questo tipo». Prova anche a smorzare i toni della discussione, ma confessa di non aver condiviso affatto le modalità scelte dall’editore. «Quella questione si poteva affrontare anche in altro modo, a microfono chiuso». Alla motivazione addotta dal leader radicale, «ascolti molto più consistenti la domenica», non ha creduto nessuno tra i radicali, come insegna lo «strappo di Padova».
Redattore Sociale 15.1.07Indulto, in Italia non c'è stata alcuna "ondata di ritorno"Complessivamente dal primo agosto 2006 a oggi, sono stati scarcerati grazie all’indulto 25.405 detenuti. Superato il sovraffollamento, oggi nelle carceri italiane sono presenti 39.157 detenuti, solo 1.200 in più rispetto al settembre scorsoROMA - La legge 241 del 2006, meglio nota come indulto, ha determinato per la prima volta da molti anni un allentamento della pressione patologica che si registra nelle carceri italiane. Non era mai successo negli ultimi anni di poter arrivare a sfiorare una situazione di normalità, o almeno – in altri termini – a riportare gli istituti penitenziari ad una situazione “fisiologica”. Bisogna infatti tornare indietro al 1991 per trovare la situazione che si è determinata in questi ultimi mesi grazie all’applicazione dell’indulto. Come nel ’91, anche ora nelle carceri italiane ogni detenuto occupa un posto. Fino alla primavera dello scorso anno la situazione era invece arrivata oltre ogni limite di sopportazione: tre detenuti per posto fisico in carcere. O in altri termini: il numero complessivo dei detenuti presenti in carcere era diventato il triplo della capienza effettiva.
Alla data di ieri, 14 gennaio, nelle carceri italiane erano presenti 39.157 detenuti, solo 1.200 in più rispetto al 30 settembre 2006, cioè a indulto largamente applicato, ed esattamente tanti quanti sono i posti a disposizione. Non si vede ancora, dunque, "l’ondata di ritorno" temuta la scorsa estate, quando le carceri contenevano più di 60 mila persone.
Sul’indulto era infatti divampata una rovente polemica nell’ambito politico e sui media. Quella legge era stata utilizzata per rilanciare l’allarme sicurezza. Si è gridato al pericolo dei criminali rimessi in libertà e molti hanno anche speculato sui “rientri”, ovvero sul fatto che una parte dei detenuti rimessi in libertà sarebbe rientrata quasi subito in carcere per nuovi arresti e nuovi reati. Cerchiamo di vedere più da vicino come stanno le cose. E lo facciamo utilizzando due fonti: i dati più aggiornati del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e le analisi incrociate dell’associazione Antigone, che da anni monitora e segue la tematica carceraria.
Per quanto riguarda gli effetti dell’indulto, il Dap ha calcolato (uno per uno, carcere per carcere) il numero dei detenuti che sono stati scarcerati in base alla legge 241. Complessivamente dal primo agosto 2006 a oggi, 15 gennaio 2007, sono stati scarcerati grazie all’indulto 25.405 detenuti. In questa cifra bisogna però fare delle differenziazioni secondo la posizione giuridica delle persone che hanno potuto beneficiare del provvedimento avendone i requisiti previsti dalla norma stessa. Il Dap differenzia così due categorie: “i definitivi puri” e gli “usciti per revoca di misura cautelare a seguito di indulto”. Nella prima categoria rientrano 17.763 persone. Questi cosiddetti “definitivi puri” sono stati un po’ di più di quelli che erano stati previsti prima dell’approvazione della legge. Si era calcolato infatti che l’indulto avrebbe permesso la scarcerazione diretta di 15.470 detenuti. Il Dap spiega che lo scarto in eccesso (17.763 contro i 15.470) è dovuto al fatto che tra la previsione antelegge e l’applicazione, altri detenuti hanno maturato i requisiti per beneficiare del provvedimento.
Nella seconda categoria utilizzata dal Dap ci sono i detenuti in attesa di primo giudizio, gli appellanti, i ricorrenti e i “misti con più procedimenti a carico, con misura cautelare e provvedimenti di condanna definitiva o non definitiva”. Per quanto riguarda le persone in attesa di primo giudizio quelle che hanno potuto beneficiare dell’indulto e quindi uscire dal carcere sono state 466. Ci sono stati poi 1502 appellanti, 737 ricorrenti, mentre tra i cosiddetti “misti” troviamo circa cinquemila persone, 4937 per l’esattezza, ovvero circa il 20% del totale. I detenuti usciti per indulto in modo diretto (quelle 17.763 persone di cui abbiamo detto sopra) rappresentano il 69,9% del totale. (pan).
Redattore Sociale 15.1.07Rientrate in carcere dopo l'indulto 2640 persone, di cui 929 stranieriAl primo posto nelle statistiche dei reati ascritti ai soggetti nuovamente arrestati ci sono quelli contro il patrimonio (46,38%), seguiti dai reati legati alla legge vigente sulle droghe (14,29%) e da quelli contro la persona (10,34%)ROMA - I dati sui “rientri” in carcere dopo l’indulto, ovvero delle persone che sono state arrestate subito dopo o qualche tempo dopo la scarcerazione relativa al provvedimento di indulto smentiscono parecchie delle previsioni della vigilia e perfino alcuni dei luoghi comuni più ricorrenti. Il primo dato che emerge – ed è anche la prima smentita di alcune previsioni della vigilia dell’applicazione della legge n.241 – è relativo alla percentuale di stranieri sul totale delle persone finite nuovamente in carcere dopo essere state scarcerate.
Dal primo agosto 2006 a oggi (15 gennaio 2007) sono rientrate in carcere dopo aver beneficiato dell’indulto 2640 persone. Tra queste 1711 sono italiani e 929 stranieri. Si ribalta così una delle previsioni, visto che quasi tutti gli ossertori avrebbe scommesso sul contrario. Si era detto e immaginato che la stragrande maggioranza dei “rientri”, ovvero delle persone che liberate, si sono fatte arrestate di nuovo, sarebbe stata composta di immigrati o stranieri in generale.
L’altro dato interessante riguarda, sempre per quanto riguarda gli effetti dell’indulto e il riscontro ufficiale fornito dall’amministrazione penitenziaria, la composizione per sesso. Tra i 1711 italiani che sono stati arrestati di nuovo dopo l’indulto, 43 erano donne e 1668 uomini. Un rapporto tra maschi e femmine che più o meno si ripete anche tra gli stranieri. Tra i 929 arrestati dopo l’indulto, 14 erano donne e 915 uomini. Tra straniere e italiane le donne arrestate dopo essere state scarcerate per l’indulto sono state dunque 57, mentre il numero complessivo degli uomini ri-arrestati dopo l’undulto (tra italiani e stranieri) è stato di 2583 persone.
Molto utile tentare anche di analizzare i dati relativi al tipo di reati per i quali sono stati di nuovo arrestato gli ex detenuti che avevano beneficiato dell’indulto. A una prima rilevazione dei dati spicca evidente la differenza – spesso anche macroscopica – nella tipologia dei reati. Al primo posto nelle statistiche dei reati ascritti ai soggetti rientrati in carcere dopo aver beneficiato dell’indulto ci sono i reati contro il patrimonio, che rappresentano quasi la metà del totale (46,38%). Al secondo posto – ma molto distanziati rispetto alle percentuali – i reati legati alla legge vigente sulle droghe. Questi reati – tra chi è rientrato in carcere – rappresentano il 14,29%. Al terzo posto della graduatoria, con il 10,34% del totale, troviamo i reati contro la persona. Al quarto i reati contro la pubblica amministrazione con uno scarso 7,79%, mentre solo al quinto posto scopriamo i reati contro la legge sugli stranieri con un 7,32% del totale. Un’altra percentuale bassa riguarda poi la legge sulle armi (3,84%), i reati contro l’amministrazione della giustizia (1,34) la fede pubblica (1,24%), le contravvenzioni e i reati contro la famiglia che risultano all’ultimo posto con uno 0,52% del totale dei reati ascritti a chi è rientrato in carcere. (pan)
Redattore Sociale 15.1.07Poco più di 9mila gli stranieri usciti dal carcere grazie all'indultoAntigone: ''Nei loro confronti l’indulto è stato applicato quasi solo nei casi in cui era presente un avvocato di fiducia''ROMA - Gli immigrati e in generale i cittadini stranieri sono stati i meno coinvolti dal provvedimento di indulto varato lo scorso anno dal governo Prodi. Il fenomeno li ha riguardati in modo secondario rispetto agli altri italiani sia dal punto di vista degli effetti pratici del provvedimento sulle uscite dal carcere, sia dal punto di vista dei cosiddetti "rientri”, ovvero dei casi in cui le persone che hanno beenficiato dell'indulto sono state poi di nuovo arrestate. Per quanto riguarda il totale dei beneficiari dell"indulto solo una parte è straniera. Non ci sono ancora le ultimi elaborazioni, ma il rapporto dovrebbe essere di meno di un terzo. Secondo le elaborazioni di Antigone, l’associazione che si occupa di carceri da molti anni, sulle cifre ufficiali fornite dal Dap, delle 25.256 persone uscite dal carcere a causa dell’indulto al 25 ottobre dello scorso anno, 9187 erano straniere. Se prima dell’entrata in vigore del provvedimento di indulto gli stranieri in carcere erano 20.088, pari al 33% della popolazione detenuta totale, al settembre del 2006 erano 12.369, pari cioè al 32%. Sia secondo Antigone, sia secondo altri osservatori e studiosi delle carceri, ci si sarebbe potuti aspettare uno scarto maggiore tra queste percentuali, essendo - come scrive Susanna Marietti di Antigone – “i detenuti stranieri con reati ascritti di bassa gravità proporzionalmente di più dei detenuti italiani”.
Si può presupporre quindi che data l’alta percentuale di detenuti in custodia cautelare tra gli stranieri, in pochi abbiano visto cessare la misura cautelare grazie all’indulto. Si suppone anche che non sono tanto le condizioni di applicazione della legge sull’indulto, che poi sono uguali per tutti, ma qualche altro fattore esterno. Uno dei fattori che sicuramente fa la differenza è quello relativo alla difesa. Si conferma cioè anche per gli immigrati l’ipotesi che l’indulto, al di fuori dei casi più ovvi, sia stato applicato solo in situazioni giuridicamente tutelate dalla presenza di un avvocato di fiducia. L’altro elemento molto interessante che differenzia gli effetti dell’indulto e il dopo indulto tra italiani e stranieri è il dato relativo ai rientri in carcere. (vedi lancio precedente) (pan)
ANSA.it 16.1.07La famiglia uccide più della MafiaROMA - Un morto ogni due giorni, 1.200 vittime in cinque anni: la famiglia italiana uccide piu' della mafia, della criminalita' organizzata straniera e di quella comune. E quello che dovrebbe essere il luogo piu' sicuro, la casa, si trasforma invece nel posto a piu' elevato rischio: su dieci omicidi avvenuti nel 2005 nella sfera familiare, sei sono stati commessi tra le mura domestiche. La fotografia emerge dal rapporto Eures-Ansa 2006 ''L'omicidio volontario in Italia''. Dati che pero' mettono in luce anche degli aspetti positivi: nel nostro Paese il numero di omicidi volontari e' calato del 65% negli ultimi 15 anni passando dai 1.695 del 1990 ai 601 del 2005. E se Napoli resta la capitale dei delitti, nel nord Europa e negli Stati Uniti si uccide molto piu' che nel nostro Paese.
174 OMICIDI IN FAMIGLIA NEL 2005, 29,1 DEL TOTALE - La sfera familiare, dove avviene anche il 91,6% degli omicidi-suicidi, precede le vittime della mafia (146, il 24,4%) e della criminalita' comune (91, il 15,2%). Quest'ultimo dato e' in controtendenza rispetto al 2004, con un aumento del 28,2%, quando le vittime furono 71. Questo perche', secondo il rapporto, ''accanto alla diffusione dei delitti collegati ai 'reati comuni''', emerge ''quella degli omicidi compiuti da individui 'qualunque', spesso giovani, estranei alla malavita, divenuti assassini per futili motivi o banali litigi all'uscita della discoteca''. Solo 4 le vittime della criminalita' organizzata straniera. La maggior parte degli omicidi in famiglia avviene al Nord. Ad armare la mano degli assassini e' una volta su quattro il movente passionale e se su dieci donne uccise in Italia ben sette sono state ammazzate dal partner o da un familiare, cresce anche il numero di uomini vittime della famiglia: nel 2005 l'incremento e' stato del 28,8%.
OMICIDI DIMEZZATI IN 15 ANNI, NAPOLI CAPITALE DEI DELITTI - Si e' passati dai 1.695 omicidi del 1990 ai 601 del 2005. A guidare la classifica delle zone piu' pericolose e' il Sud: con 346 vittime si conferma l'area dove si consuma il maggior numero di delitti (57,6%), seguita dal Nord (29%) e, con un ampio scarto, dal Centro (-4,7%). Il divario trova conferma anche in termini relativi: l'indice di rischio (numero di delitti ogni 100 mila abitanti) e' 1,7 al Sud mentre 0,7 a Centro e Nord. Record di omicidi in Campania, con 128 vittime. Una regione che da 10 anni conserva il primato negativo. Seguono Sicilia (70 vittime), Calabria (69), Lombardia (65)e Lazio (46). L'indice di rischio piu' elevato si registra invece in Calabria (3,4 omicidi), seguita da Campania (2,2), Sardegna (1,5) e Sicilia (1,4). Tra le citta' Napoli e' la capitale degli omicidi (88 vittime), seguita da Reggio Calabria (39), Roma (36), Caserta e Milano (28). Dal rapporto emerge pero' che si uccide non solo in citta'. Anzi: piu' della meta' degli omicidi (58%) avviene nei piccoli e medi comuni.
ITALIA SOTTO MEDIA EUROPEA; IN USA 30 VOLTE PIU' OMICIDI - Al vertice della 'vecchia' Unione Europea a 15 i paesi dove si uccide di piu' sono Finlandia e Svezia: rispettivamente con 2,6 e 2,2 omicidi ogni 100 mila abitanti (la media europea e' 1,4). L'Italia, tra il 2000 e il 2004, ha avuto una media di 1,2 omicidi, superiore a Germania, Paesi Bassi e Grecia (0,7), la nazione piu' sicura. Con l'allargamento a 25, i paesi piu' pericolosi sono diventati gli ex satelliti di Mosca: 9,7 in Lituania e 9,3 in Estonia e Lettonia. Anche gli Stati Uniti hanno una media ben superiore: nel solo 2004 si sono registrate oltre 16 mila vittime, 27 volte quelle italiane.
GIOVANE, UOMO E ROMENO, IDENTIKIT DELLA VITTIMA STRANIERA - Su 601 persone uccise nel 2005, 111 erano stranieri, il 18,6% del totale ma in calo rispetto all'anno precedente (145). Due terzi sono uomini e l'eta' media degli stranieri ammazzati si attesta sui 32 anni, ben al di sotto della media degli italiani (41,6 anni). La Romania e' il paese straniero con il piu' alto numero di vittime in Italia (19), seguita da Marocco (11), Albania (10) e Polonia (9).
Corriere della Sera 16.1.07
PERCHÉ VINCE RIFONDAZIONE
di Dario Di Vico
Perché Rifondazione vince sempre? La domanda, dopo il conclave di Caserta, si ripropone con cocente attualità. Come mai, ogni volta che c'è un «franco dibattito» tra le diverse anime della maggioranza, alla fine ne escono sempre vincitori gli uomini che guidano, con perizia per carità, il terzo partito (né il primo né il secondo) della coalizione? La risposta più ovvia è che senza i voti di Rifondazione il governo cadrebbe ed è questo il motivo che consente a Franco Giordano e Paolo Ferrero di esercitare i poteri della golden share. Ma non è sufficiente. La forza del Prc consiste nel far riferimento a un corpo di convincimenti e di obiettivi che sta interamente dentro la storia della sinistra italiana e delle sue appendici. Rifondazione parla un lessico familiare ai gruppi dirigenti — centrali e periferici — dei Ds e dell'ex sinistra Dc, è il linguaggio del riformismo novecentesco con le sue granitiche certezze keynesiane e solidaristiche. Un patrimonio che viene però gestito con buona capacità di aggiornare analisi e parole d'ordine. Basta sfogliare il quotidiano Liberazione per avere la riprova che in qualche maniera Rifondazione è in viaggio.
La pur relativa omogeneità delle culture politiche porta Romano Prodi e il Prc a impostare agende largamente simili. Alcuni dei temi più cari al premier sono parte integrante dell'analisi del caso italiano fatta da Rifondazione. Si pensi alla rivalutazione dell'intervento pubblico in economia, ripetutamente sostenuta da alcuni consiglieri del premier, a cui fa da pendant un perdurante scetticismo sul ruolo degli imprenditori privati; ma anche alla denuncia cara a Prodi dell'aumento del differenziale delle retribuzioni e dei redditi. E la stessa percezione che oggi nelle casse pubbliche ci siano le risorse per riprendere politiche di spesa è comune. Del resto nella prima esperienza dell'Ulivo a Palazzo Chigi, seguita alla vittoria del '96, la convergente visione dei problemi tra il Professore e Fausto Bertinotti aveva fatto sì che il governo vagliasse una legge sulle 35 ore sulla falsariga della strampalata esperienza francese.
Le ragioni della forza dei rifondatori sono speculari ai motivi della debolezza dei leader riformisti, che dopo Caserta sono stati sottoposti a una gogna mediatica. Da diverse parti è stato proposto di fare dei Fassino e dei Rutelli altrettanti Ogm, di intervenire sui loro geni e successivamente di dar loro una nuova denominazione, volenterosi o miglioristi. Si tratta di operazioni che suonano ingenerose. Quello che manca ai due leader è la dimensione del viaggio, non si capisce quale sia il punto di arrivo della trasformazione che dovrebbe portare la sinistra italiana ad assomigliare sempre meno ai suoi modelli del secolo scorso e sempre di più al partito democratico americano. Lo stesso blairismo un giorno viene rivendicato come benchmark,
l'altro immediatamente negato. Gli obiettivi che ci si dà per contare dentro il governo cambiano dalla mattina al pomeriggio oppure se vengono fissati il lunedì al successivo giovedì già figurano declassati. E i rilievi che dal cuore dei Ds e della Margherita sono arrivati per opera di Nicola Rossi, Peppino Caldarola e Stefano Menichini segnalano abbondantemente un crescente disagio.
Ma di una ripresa di dinamismo da parte dei due grandi partiti del centrosinistra la politica italiana ha un evidente bisogno. Mettersi in viaggio in questo caso non vuol dire scrivere a tavolino il programma «massimo» dell'ulivismo mondiale, ma più pragmaticamente trovare la capacità di prendere in mano una bandiera (scegliere una riforma, non due e non tre) e farne elemento di una battaglia politica (non di due o di tre) dentro e fuori la coalizione di governo. Se sarà una bandiera riconosciuta dall'Europa, i leader riformisti scacceranno l'incubo della manipolazione genetica.
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