mercoledì 17 gennaio 2007

Reuters 17.1.07
Base Usa, Bertinotti: giusto impedire nuove presenze militari


MILANO (Reuters) - Il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha preso oggi le distanze dal piano di allargamento della base militare Usa a Vicenza, sostenendo che la pace va incoraggiata e invitando l'Europa a essere più autonoma dalle altre potenze mondiali.
L'allargamento della base statunitense ha ricevuto ieri il via libera del presidente del Consiglio Romano Prodi, ma non piace alla sinistra radicale, che ha promesso battaglia.
In un'intervista al Gr Parlamento, l'ex segretario di Rifondazione Comunista ha definito "caricaturale e fuorviante" l'accusa di anti-americanismo e una "buona cosa" ogni atto che vada verso la pace.
"Il problema in questa fase del mondo è la conquista da parte dell'Europa, e dell'Italia in Europa, di un'autonomia della Ue da altre potenze mondiali. Mi pare che l'Europa si stia incamminando su questa strada e ogni atto che va in direzione della pace, compreso quello con cui si impediscono nuove forme di presenza e organizzazione militare siano una buona cosa", ha detto Bertinotti al Gr Parlamento.
Il presidente di Montecitorio ha aggiunto che le parole "filoamericano e anti-americanismo sono termini che si possono usare solo in modo caricaturale e fuorviante ... e chi ne resta imprigionato manifesta una subalternità".
Nel corso di una conferenza stampa ieri a Bucarest, Prodi ha detto che il governo italiano non si oppone all'allargamento della base militare americana dell'aeroporto di Vicenza.
Prodi ha anche ribadito che le relazioni tra Italia e Usa sono senza increspature e costruttive da oltre 60 anni, rispondendo indirettamente al capo dell'opposizione Silvio Berlusconi, che aveva accusato il centrosinistra di essere inaffidabile per gli Usa, non rispettando gli impegni internazionali assunti sotto il suo precedente governo.
COSSIGA: DECADUTO ACCORDO ITALIA-USA
Il progetto di allargamento della base statunitense, approvato dall'esecutivo di centrodestra, è contestato dalla sinistra radicale e dai "comitati del no" che hanno istituito un sit-in a Vicenza davanti alla base militare.
Rifondazione Comunista e Verdi-Pdci hanno chiesto al governo di riferire immediatamente in aula sull'argomento.
"La vicenda non può concludersi senza un confronto, senza tener conto delle 12 mila firme raccolte dai cittadini di Vicenza e degli impegni presi con i senatori pacifisti in occasione del rifinanziamento della missione in Afghanistan", scrivono i senatori Manuela Palermi e Natale Ripamonti, presidente e vicepresidente del gruppo Verdi-Pdci al Senato.
Esortando il governo a fare chiarezza nella sua strategia politica, il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga ha reso noto di aver presentato oggi un disegno di legge per dichiarare decaduto l'accordo bilaterale italo-americano del 20 ottobre 1954.
Sulla base di questo accordo, in applicazione del Trattato del 1949 istitutivo della Nato, l'Italia concesse diverse basi militari agli Stati Uniti.
Secondo Cossiga, ormai cessate le condizioni di minaccia alla sicurezza dell'Italia per le quali il trattato fu stipulato con la clausola "rebus sic stantibus", "detto accordo può considerarsi decaduto o denunziabile e quindi revocabile la concessione di dette basi militari".

Repubblica 17.1.07
Veronesi: l'invadenza della Chiesa blocca il lavoro della scienza


ROMA - «La scienza in Italia non è amata, non è coltivata, non interessa. Con tutto il rispetto, noto un´invadenza del mondo religioso su quello scientifico: tutto quello che va contro la dottrina della Chiesa non va avanti». La denuncia è dell´oncologo ed ex ministro della Sanità Umberto Veronesi che lancia una sorta di manifesto laico e riapre la polemica su testamento biologico e procreazione assistita. «Sarebbe logico - sostiene Veronesi - che il testamento biologico abbia una legge. Ma non passa in Parlamento perché la quota di parlamentari sotto controllo delle forze religiose lo impedisce». Quanto alla procreazione assistita, dopo il divieto introdotto in Italia «circa cinquemila famiglie all´anno vanno all´estero per avere un figlio».

l’Unità 17.1.07
Gavino Angius. Il leader della terza mozione: «Il progetto del Pd fa acqua da tutte le parti. E non si discute più»
«Nel partito il malessere è profondo»
di Wanda Marra


«La decisione di Caldarola di non partecipare al congresso non riguarda solo la terza mozione, ma tutti i Ds, nei quali c’è un malessere profondo». Gavino Angius, vicepresidente del Senato, tra i promotori della terza mozione, non esita a denunciare le ombre che nel partito si fanno sempre più fitte e a criticare nuovamente il modo in cui si sta portando avanti il progetto del Pd. E non risparmia neanche i risultati del vertice di Caserta e l’atteggiamento della Margherita.
Senatore, Caldarola ha annunciato che non parteciperà al congresso dei Ds e ha accusato voi della terza mozione, di cui era stato tra i promotori, di stare con Fassino. Lei cosa risponde?
«Non intendo rispondere a Caldarola. Ma penso che abbia sbagliato. E mi dispiace. Quello che non può dire però è che la terza mozione stia con Fassino. È una cosa caricaturale che si poteva risparmiare. Ma penso che questa sia una questione che non riguardi solo la terza mozione, ma tutti i Ds. Caldarola è una di quelle personalità che in questi ultimi giorni hanno detto che non parteciperanno al congresso. Insieme a Mancuso, Rossi, la Bresso».
Mussi ha parlato di «evaporazione» del partito. È d’accordo?
«Se ci sono persone che si allontanano dal dibattito congressuale è segno che nei Ds c’è un malessere profondo, che il progetto del Pd fa acqua da tutte le parti. Dobbiamo essere molto preoccupati. Ma vedo che non c’è questo senso di preoccupazione in alcuni dirigenti del nostro partito, e questo credo sia profondamente sbagliato. Si sottovaluta fortemente il disagio profondo che c’è persino tra chi voterà per la maggioranza e lo stesso segretario. Se parlo, è a ragion veduta. Bisogna fare una discussione vera, sincera che non occulti i temi politici. Penso che il primo problema da affrontare sia quello del governo del paese e che purtroppo anche dopo il vertice di Caserta siano rimaste aperte molte questioni. Vedo una sottovalutazione molto forte dei problemi manifestati, come la coesione del centrosinistra e dell’Unione, e la tenuta della maggioranza soprattutto in Senato».
Rispetto a Caserta Fassino ha espresso un giudizio positivo. E ora definisce caricaturale la descrizione del vostro partito sui giornali...Non c’è una certa discrepanza con l’analisi che sta facendo lei?
«Non voglio attaccare nessuno. Faccio delle considerazioni politiche. Il profilo riformatore e innovativo del governo dopo Caserta deve essere più incisivo. Per esempio, sulle liberalizzazioni, sulle quali però c’è una discussione interna nel governo e nella maggioranza, come sulle pensioni e sui diritti civili, per i quali vale lo stesso problema. E poi, sono rimasto sconcertato dal fatto che chiusa Caserta da 2 giorni, la Margherita ha annunciato una serie di iniziative in tutta Italia, che si chiamano Primavera italiana. Praticamente, l’annuncio di un nuovo programma di governo. È paradossale. E il promotore di quest’iniziativa è Rutelli, vicepresidente del Consiglio e Presidente della Margherita. Questa vicenda è rivelatrice delle contraddizioni e della fragilità di questo grande progetto che viene chiamato Pd. Noi della terza mozione vogliamo discutere di questo».
Tra i motivi di frizione con Caldarola c’è stata la sua proposta, da lei come da altri rigettata, di unire le due mozioni di minoranza. Perché non si poteva fare?
«Noi non abbiamo mai detto un no pregiudiziale alla nascita di un nuovo partito, come hanno fatto loro. Capisco che faccia comodo a qualcuno che il congresso si riduca a un referendum. Noi invece vogliamo discutere che cosa dovrebbe essere questa forza, come si debba costruirla, con quali forze, sulla base di quali idee e valori. E anche attraverso quale percorso. Tra l’altro la nostra posizione politica si sta rafforzando. Zani non presenterà alcuna quarta mozione, ma con lui e i compagni bolognesi stiamo scrivendo la nostra mozione che presenteremo domenica a Roma».
In sintesi, allora secondo voi cosa dovrebbero fare i Ds?
«Tutto è stato deciso a Orvieto. Dunque, bisogna azzerare tutto e ridiscutere il percorso. Non si può accettare il fatto compiuto. È un congresso che rischia di essere finto, perché è tutto già deciso. Non è un’eresia, e se invece lo è, sono un eretico, ma dico che bisogna fermarsi, riflettere e ripartire».

Repubblica 17.1.07
Pd, alta tensione nella Quercia
Finocchiaro: le difficoltà ci sono. La sinistra: si rinvii il congresso


Braccio di ferro sulle regole per le assise. Domani la direzione
Dopo i casi Bresso e Caldarola il leader si sfoga: vogliono colpire me
La segreteria: il correntone come la Cdl La replica: accusa inaccettabile

ROMA - Piero Fassino registra con stizza l´ennesimo strappo, quello della presidente del Piemonte Mercedes Bresso. «Il Partito democratico c´entra poco. Vogliono indebolire me», si sfoga con i suoi collaboratori più stretti. Ma dice anche che tra gli iscritti la sua conferma alla segreteria non è in discussione, la soglia del 70 per cento nei voti degli iscritti resta a portata di mano e ieri da Via Nazionale è partita la controffensiva delle dichiarazioni dei dirigenti regionali, favorevoli al progetto del nuovo partito e al segretario che lo incarna. Resta il braccio di ferro con le minoranze sulle regole del congresso. Il correntone chiede di far slittare le assise a un momento successivo al voto amministrativo di primavera. L´obiettivo è chiaro: si pronostica un cattivo risultato per l´Ulivo e per le forze politiche che lo rappresentano (Quercia e Margherita) per avere più argomenti contro la prospettiva del Pd. È battaglia all´interno della commissione del congresso che dovrebbe portare una soluzione condivisa alla direzione di domani. Ma sulla data Fassino non cede: «Sono stati Mussi, Angius e gli altri a chiedere un congresso subito e ora vorrebbero un rinvio. Beh, non si può fare».
C´è invece una maggiore disponibilità sull´altra richiesta delle minoranze: il voto segreto. Stasera, in extremis, la commissione torna a riunirsi e la maggioranza ha offerto una soluzione di compromesso: voto palese sui documenti politici (che però sono legati ai firmatari) e scrutinio segreto sul nome del leader. Se si raggiunge l´accordo, allora alla direzione spetterà quasi esclusivamente il compito di convocare il congresso stabilendo la data. Altrimenti lo scontro avverrà sul campo della direzione. Naturalmente all´ordine del giorno ci saranno anche le defezioni delle ultime settimane: Nicola Rossi, Peppino Caldarola e Bresso. «Il problema nei Ds c´è e non si può evitare di discuterne. Sono contraria all´archiviazione di una questione così seria», dice la capogruppo dell´Ulivo Anna Finocchiaro. Ma ai transfughi risponde il coordinatore della Quercia Maurizio Migliavacca: «Se qualcuno pensa che destrutturando i Ds si possa costruire il Partito democratico si sbaglia di grosso. Siamo convinti che il dibattito congressuale smentirà i profeti di sventura». Ma la preoccupazione al Botteghino è diffusa. Enrico Morando è un grande tifoso del Partito democratico, ma vede il pericolo di uno stop che può andare oltre le reali intenzioni di Fassino. «C´è una difficoltà che nasce dal fatto che questo progetto del Partito democratico è in ritardo di dieci anni. Dunque bisogna farlo subito, altrimenti ci arriviamo con un maggiore logoramento».
Ma la scelta del nuovo soggetto è difficile in particolare per la Quercia. Che ha una forte minoranza interna, che trova resistenze in molti settori. E lo scontro, in vista del congresso, non può che accentuarsi. «Il rinvio del congresso? Che dire, il correntone carica di valenza politica le amministrative, come il centrodestra, non mi sembra il massimo», attacca il capo della segreteria di Fassino, Francesco Tempestini. Gli risponde Carlo Leoni, della sinistra ds: «È incredibile il paragone con la Cdl. Inaccettabile tra alleati, figuriamoci tra compagni dello stesso partito».
(g.d.m.)

Corriere della Sera 17.1.07
I giudici hanno accolto la richiesta del difensore Ugo Gianangeli
Scalzone: torno in Italia per nuove battaglie
Scattata la prescrizione per l'ex leader di Potere operaio condannato a 16 anni negli anni ’80 per terrorismo. E' latitante a Parigi dal 1981


MILANO - Oreste Scalzone, l'ex leader dell'ultrasinistra latitante a Parigi, può tornare in Italia. La Corte di assise di Milano ha dichiarato l'estinzione per intervenuta prescrizione dei reati contestati all'ex leader di Potere operaio condannato a 16 anni di reclusione negli anni ’80 per partecipazione ad associazione sovversiva, banda armata e rapine. I giudici hanno accolto la richiesta del difensore Ugo Gianangeli. Tempestiva la reazione di Scalzone: «Come non posso non essere contento - ha commentato l'ex leader dell'ultrasinistra. Chi mi conosce solo un po' sa che in Italia vengo innanzitutto per condurre nelle condizioni nuove una vecchia battaglia. La condurrò a voce nuda, se serve sul selciato, on the road, o in luoghi adattabili all'antica congiunzione fra politica, ragionamento filosofico e teatro. In Francia - ha aggiunto - avevo bisogno dell'elettricità e delle onde hertziane, ma in Italia è meglio che si sappia che posso fare a meno dei magafoni da '68 e che un giornale accartocciato può fare da portavoce ed infastidire quanto basta».
I TRASCORSI - Scalzone, oggi sessantenne, durante gli anni di piombo fu uno dei leader prima di Potere Operaio, poi di Autonomia operaia. Nel 1979 fu arrestato con altri leader di Autonomia per l'inchiesta «7 aprile». A Milano fu processato e condannato a 16 anni in primo e secondo grado nel processo denominato «Prima Linea-Cocori». Scalzone era imputato di aver organizzato l’associazione sovversiva e banda armata «Comitati Comunisti Rivoluzionari» per fatti che risalgono al 1977. Scappò dall’Italia dopo aver ottenuto la scarcerazione per motivi di salute mentre era detenuto per ordine dei giudici di Roma nell'ambito dell'inchiesta. Dopo un anno in Danimarca, Scalzone nell'81 arrivava a Parigi e dalla Francia iniziava una lunga battaglia a favore dell'aministia e per una «soluzione politica» dei cosiddetti anni di piombo.
GUAI GIUDIZIARI - Nel 1983 fu condannato a 20 anni di carcere per associazione sovversiva e banda armata. Nel 1987, in appello la condanna definitiva a nove anni. La sentenza era stata poi annullata dalla Cassazione dal momento che la Francia non aveva mai concesso l’estradizione. Il difensore Ugo Gianangeli infatti in subordine aveva chiesto che venisse dichiarata l’improcedibilità per omessa estradizione. In tal caso le autorità italiane avrebbero potuto riavviare l’iter processuale chiedendo nuovamente l’estradizione alle autorità di Parigi e Scalzone sarebbe potuto rientrare in Italia solo per 45 giorni. Con la decisione della prescrizione invece l’ex teorico dell’Autonomia è completamente libero e potrà ritornare in Italia senza temere guai ulteriori per le vicende del passato.

Repubblica on line 17.1.07
Da Potere Operaio alla fuga in Francia
Gli Anni di piombo di Oreste Scalzone


ORESTE Scazone, leader indiscusso di Potere Operaio prima e di Autonomia Operaia dopo, è uno degli intellettuali dell'estrema sinistra rifugiatisi in Francia durante gli "anni di piombo" per sfuggire alla galera. Oggi sessantenne (è nato a Terni nel '47 da mamma Eugenia e papà Giuseppe), Scalzone è stato tra i protagonisti del '68 romano e leader del movimento studentesco che si distinse per gli scontri di Valle Giulia.
Trasferitosi a Milano, partecipa all'organizzazione dei "Comitati comunisti", emanazione dell'allora Potere Operaio del quale era stato co-fondatore con Franco Piperno e Toni Negri: ma nel '72, dopo il congresso di Rosolina, Potere Operaio si scioglie e i Comitati comunisti - attivi soprattutto alla Pirelli e all'Alfa-Arese - diventano autonomi, mentre Scalzone contribuisce all'affermazione della nascente "Autonomia operaia".
Sono gli anni bui del terrorismo, degli attentati, della contiguità tra intellettuali e brigatisti, tra coloro che teorizzano la lotta armata e coloro che sparano. Per Scalzone il 7 aprile del '79, scattano le manette, nella sede della rivista Metropolis: il provvedimento (che colpisce anche Tony Negri e Emilio Vesce) viene emesso nell'ambito dell'inchiesta del giudice Calogero, nota come inchiesta "Sette aprile", in base alla quale l'ex vertice di "Potop" viene accusato di associazione sovversiva e banda armata.
In seguito Scalzone è anche imputato di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, sempre nell'ambito dell'inchiesta del giudice Calogero secondo la quale Potere operaio era la culla di tutte le organizzazioni armate, "Brigate Rosse" comprese.
Scalzone finisce detenuto a Cuneo, poi a Palmi, quindi viene trasferito per le sue cattive condizioni di salute a Roma, dove - dopo un ricovero al "Gemelli" - ottiene la libertà provvisoria. Nell'81 lascia senza autorizzazione la casa dell'amico ingegnere che lo ospita in via Ripetta: è l'inizio di una latitanza che, dopo un anno in Danimarca, lo porta a Parigi.
Mentre nell'83 viene condannato in contumacia a 16 anni di carcere, poi ridotti a nove nell'87, Scalzone diventa a Parigi un vero e proprio punto di riferimento di quel centinaio di italiani, rifugiati degli "anni di piombo", per i quali la Francia non concede estradizione, fedele ad una tradizione inaugurata da François Mitterrand.
Nel '98, come rivelato da alcuni quotidiani, torna clandestinamente in Italia via Corsica e dopo una tappa nel Mugello torna sui luoghi simbolo della sua giovinezza a Roma: il servizio de L'Espresso è corredato delle foto scattate a ponte Sant'Angelo e davanti al'Altare della Patria.
"Il mio viaggio - spiega - (organizzato con il direttore del periodico Frigidaire, ndr) ha avuto un senso simbolico-provocatorio: da più di dieci anni si parla di amnistia per i detenuti e gli esuli politici ma non è mai successo niente".
L'amnistia resta al centro della sua battaglia: nel febbraio 2005 lancia un appello a Ingrao, Cossiga e Pannella: "Mi offro come capro espiatorio simbolico - dice - torno in Italia rinunciando alla prescrizione di nove anni di carcere per aprire un dibattito sull'amnistia", e un paio di mesi più tardi, a sostegno della stessa causa, inizia uno sciopero della fame destinato a durare tre settimane, interrotto dai medici.
Nell'agosto del 2006, fisarmonica in braccio, partecipa ad una manifestazione davanti all'ambasciata italiana in segno di solidarietà con Paolo Persichetti, ex militante dell'Unione dei comunisti combattenti, estradato quattro anni prima e detenuto a Viterbo. Oggi la notizia della prescrizione. E le prime, emozionate parole: "Certo che torno. Sarò un pendolare per condurre in Italia nuove battaglie di libertà".

l'Unità Commenti 17.1.07
Erba e la mostruosità del male per mantenere lo status quo

Caro direttore,
c'è da restar allibiti, e indignati, per l'approssimazione e superficialità con cui i mass media si pongono davanti all'ennesima strage, quella di Erba, inizialmente attribuita, falsamente, all'extracomunitario e all'indulto. Ora che si scoprono gli autori della strage, due italiani e vicini di casa delle vittime, quel che emerge leggendo o ascoltando i pareri degli esperti (i soliti, perché non dirlo?), quelli ammessi ad intervenire, è che delitti così efferati sono normali, rientrano nella normalità, ci sono sempre stati, fanno parte della natura umana e chi li compie non è un malato mentale. Perché, ci spiegano gli esperti, siamo cattivi, nasciamo con il «peccato originale» e siamo figli di Caino, portati ad uccidere l'altro. È la vecchia spiegazione, religiosa, che i mass media diffondono e ripetono nel tempo perché, forse, si vuole, con la complicità della cultura, di una certa cultura di matrice illuminista, mantenere lo status quo: è, infatti, vietato disturbare la quiete pubblica, mettere in discussione il quieto vivere. Possibile che nella categoria non ci sia su questi drammatici avvenimenti quel senso critico, quella curiosità, quella voglia di indagare, a volte morbosa, che c'è per altre questioni? È mai possibile questo star appiattiti totalmente su una Unica Voce, la Solita? Cos'è questo se non alleanza e complicità? E l'onestà e l'autonomia professionale di cui andiamo tanto fieri e orgogliosi, dove finiscono, se non nella pattumiera? Onestà vuole che ci siano in giro altri esperti: come disse, proprio sull'Unità, Citto Maselli, c'è una ricerca, l'Analisi Collettiva, in corso da 30 anni che per una teoria valida ha salvato migliaia di giovani dalla droga e dal suicidio. Con l'appiattimento 'acritico' ci si assume una grossa responsabilità: si tenta di nascondere una realtà che c'è ed esiste comunque, a prescindere, e che, a differenza dei soliti esperti, può fornire quegli strumenti di conoscenza per comprendere questi fatti e quindi eventualmente prevenirli. Ma forse non basta criticare mass media e certa cultura: dov'è la politica e soprattutto la sinistra di fronte ad un fenomeno drammatico che può essere assimilato a malasanità dal momento che gli strumenti per conoscere e comprendere ci sono, ma non si utilizzano? Porsi come fa la sinistra l'obiettivo di una società 'diversa' dall'attuale, che offra a tutti pari opportunità di realizzazione personale, professionale e sociale, comporta scelte coraggiose perché non ci si può rassegnare all'esistente.
Carlo Patrignani


Liberazione.it 17.1.07
L’orrore iracheno - Non è lecito il silenzio di fronte alla forca
di Pietro Ingrao


Il 30 dicembre del 2006, mentre stava per chiudersi l’anno feroce che aveva visto dilagare la guerra in Iraq, attorno all’alba, è stato impiccato Saddam Hussein, dittatore in Iraq, caduto nelle mani degli invasori americani nel corso del conflitto scatenato da Bush.
Vi fu un fantasma di processo e al termine il dittatore era stato condannato a morte. Mentre sembrava che l’esecuzione del reo fosse rimandata ad altro tempo, improvvisamente alla fine del dicembre 2006 il dittatore ora in manette era finito sulla forca con una esecuzione che era parsa una tregenda. Le scene grottesche dell’esecuzione avevano suscitato dubbi e nausea anche nell’Occidente lontano da Saddam. Ci furono riserve sul disgustoso balletto che fu intrecciato intorno a quel tiranno smarrito e col cappio alla gola. Poi venne il secondo atto meno rumoroso ma altrettanto nauseante. Stavolta gli schiamazzi degli sbirri filo-americani furono meno rumorosi. La forca non ebbe quell’evidenza crudele che aveva assunto attorno al collo di Saddam. Gli sbirri furono meno rumorosi, il rotolare delle teste fu meno macabro. Ma pur sempre la forca dominava la scena, e l’annullarsi dei corpi. Qualche lagrima di pietà fu versata nel cauto Occidente, mentre persino nell’America di Bush montava un interrogativo, sempre più amaro. Eppure si può dire ci sia stata emozione: persino nell’Italia a suo modo a maggioranza - come dire? - progressista, e con forti nuclei pacifisti?
No. Non si può dire. Andando lontano con la memoria, quando uscivo dall’adolescenza e cercavo di distaccarmi dal marciume fascista la forca era simbolo di oppressione infame. E il capo che penzola, la schiena che si spezza, gli occhi, la mente che precipitano nell’assenza, il corpo che si affloscia, come uno straccio.
Questo disfarsi del corpo pensante era l’agire spietato della forca. Perciò la forca come momento della politica è di più che l’evocazione dell’uccidere: è la lotta all’avversario come umiliazione dell’umano. Mandare sulla forca è di più, assai di più che uccidere, è indicare al ludibrio l’Altro: è identificarlo come Bestia: e la guerra non solo come uccidere ma come annullamento dell’umano che è anche nell’avversario.
Forse anche per questo la guerra in Iraq si sta sempre più caricando di simboli. E porta sulla scena quella parola bruciante: la forca. Non la guardiamo riapparire sulla scena troppo tranquilli? E’ lecito il silenzio?

martedì 16 gennaio 2007

l'Unità 5.1.07 pag.6
Ferrigolo e Purgatori nuovi direttori di Left

Il settimanale l’anno scorso vide il licenziamento di Minucci e Chiesa, ostili all’ingerenza di Fagioli
Rivoluzione grafica, molte inchieste, spazio al sociale al volontariato e ai temi della globalizzazione
di Wanda Marra
Si cambia a Left-Avvenimenti. Oggi esce in edicola il primo numero del settimanale firmato da Alberto Ferrigolo e Andrea Purgatori, rispettivamente Direttore e Condirettore. Due scelte forti, con Ferrigolo che viene da 20 anni di Manifesto e Purgatori, che è tra i più noti giornalisti investigativi italiani, diventato famoso con le inchieste sulla strage di Ustica. Non è la prima rivoluzione nella già tormentata storia di Left, nato dalle ceneri di Avvenimenti, circa un anno fa. L’esordio aveva visto il rapido licenziamento in tronco di Adalberto Minucci e Giulietto Chiesa (Direttore e Condirettore), da parte degli allora nuovi soci, tra cui Ivan Gardini e Luca Bonaccorsi. Motivo, la presenza molto ingombrante di Massimo Fagioli, psicanalista eretico, “guru” dell’analisi collettiva, che al suo attivo ha anche un rapporto diretto con Bertinotti, e dunque con il Prc e Liberazione. Fagioli si poneva come una sorta di Direttore ombra. Dopo il licenziamento dei due, Direttore venne nominato Pino Di Maula. Ma il danno d’immagine non fu da poco, e così prima dell’estate gli editori contattarono Ferrigolo e Purgatori. I quali dopo una trattativa lunghissima, che ha avuto come punto centrale proprio l’indipendenza e l’autonomia del giornale, hanno accettato la direzione di Left. In realtà, la loro presenza nel settimanale va avanti già da qualche tempo, ma oggi diventa ufficiale. A proposito di Fagioli, i Direttori hanno ricevuto ripetute assicurazioni della libertà del loro lavoro. E Purgatori è netto: «Le pressioni sono escluse, perché noi siamo persone che non le accettano». Nell’editoriale a due mani al numero di oggi si legge un’analoga presa di posizione: «Left crescerà come una voce della cui indipendenza ci facciamo garanti. È il motivo per cui ci siamo messi al lavoro. Grazie a un editore che ha assunto l’impegno di sostenerci nelle decisioni autonome che prenderemo, e nel rilancio d’immagine di questa storica testata». Nel prossimo futuro del settimanale, a febbraio, tra le altre cose, c’è anche una riforma grafica, a cura dello stesso studio, il Cases di Barcellona, che ha curato il progetto del gruppo E-Polis e della nuova Stampa. Riforma che tra le altre cose prevede una pagina per ogni rubrica. Fagioli al momento ne ha 2, ma a quel punto sarà un percorso obbligato quello di allinearlo agli altri.
Dunque, si riparte. In copertina oggi un’intervista a Beppe Grillo (fatta dallo stesso Purgatori) su consumo, spreco e liberalizzazione delle risorse idriche, con un titolo “da battaglia”: «Pochissima, scarsissima, carissima». Il comico genovese si lancia in affermazioni come «Bersani è un violentatore semantico. Parla come l'amministratore delegato della Nestlè». Purgatori racconta che il nuovo Left darà largo spazio alle notizie e manterrà la sua tradizione, che fu già di Avvenimenti, di inchieste: «In Italia se ne fanno molto poche, ma i lettori le cercano». Come dice il nome dichiaratamente, prenderà come punto di riferimento la sinistra tutta. Ma sarà smarcato dai singoli partiti. Con una particolare attenzione al volontariato, al sociale, alle tematiche della globalizzazione. «Abbiamo molti meno soldi di Panorama e l’Espresso - spega ancora Purgatori - e così piuttosto che puntare su corrispondenti affermati, ci apriremo alle collaborazioni dei giovani». Tra gli opinionisti che approderanno al settimanale ex novo, Diego Cugia, che terrà una rubrica.

l'Unità martedì 9 gennaio 2007
A proposito di ingerenza
di giornali
e di psicoterapia...
una lettera di Massimo Fagioli

Cara Unità e gentile Wanda Marra,
vi ringrazio perché sono onorato dall'interesse che avete nei miei riguardi. Osservo soltanto che l'uso di certe frasi possono far comparire una immagine che non è vera. Dal sottotitolo «ostili all'ingerenza di Fagioli». Non c'è stata mai nessuna ingerenza sulla redazione di Left, né di altri giornali; non mi sono mai occupato del settimanale, non ho mai chiesto nulla, neppure per curiosità. Mi dispiace che la gentile Marra si faccia dare una lezione da l'Espresso (28-XII-06) che mi definisce teorico dell'Analisi collettiva; mi sembra molto più corretto che non il vecchio «guru» anche se tra virgolette. Non esiste nessuna carboneria tra Bertinotti, Prc, Left e me: con Liberazione, negli ultimi tempi, ci sono state divergenze di opinione notevoli anche se mi sembra che ho una ricerca che guarda con stima e simpatia alle idee di Bertinotti. Mi viene da ricordare che, quasi un anno fa, il direttore, democraticamente, mi offrì due pagine del suo settimanale perché potessi esprimere le mie idee e scrivere liberamente a mio modo. Ma poi, mi domando se tanta angoscia di plagio sia dovuta alla teoria nuova sul pensiero senza coscienza e sulla prassi più che trentennale, che ha associato un rigore assoluto del setting di psicoterapia con la massima libertà di ciascuno che non dà neppure il proprio nome, che può essere scienziato o ignorante, mendicante o ricco, malato o sano. Lusingato da voi faccio una domanda superba: che questa teoria e questa storia, molto a sinistra, interessi la sinistra per il suo avvenire, tanto da sconvolgere alcuni e portarli a fabbricare immagini false?
Massimo Fagioli

Prendiamo atto delle precisazioni iniziali di Fagioli. Per quanto riguarda la seconda parte della lettera e la “superba” domanda confessiamo di non saper rispondere.
wa.ma.

l'Unità 11.1.07
Le ingerenze di Fagioli e il destino del settimanale «Left»
Caro direttore,
in una lettera all'Unità e a Wanda Marra, pubblicata martedì scorso, il signor Massimo Fagioli sostiene di voler fare delle «precisazioni» che in realtà rovesciano semplicemente la verità dei fatti nella nota vicenda del settimanale «Avvenimenti» e della sua trasformazione in «Left-Avvenimenti». Wanda Marra si era occupata con grande correttezza giornalistica di quella vicenda . È quindi a conoscenza del fatto che quando il signor Fagioli sostiene di non aver esercitato «nessuna ingerenza» sulla sorte di quel settimanale, non «precisa» ma «falsifica». Non è affatto vero che il direttore di Left-Avvenimenti gli abbia offerto «democraticamente» una rubrica di due pagine settimanali per scrivere tutto ciò che gli passava per la testa. A dirigere il settimanale erano i sottoscritti: il direttore Adalberto Minucci e il condirettore Giulietto Chiesa. Entrambi ci dichiarammo formalmente contrari alla rubrica del signor Fagioli ma, prima a nostra insaputa, poi contro la nostra espressa volontà, i nuovi padroni della società editrice annunciarono e imposero la rubrica dello psicanalista. Il quale sin dai primi due articoli, oltre ad annunciare al mondo che «Freud è un imbecille», ha fatto intendere di essere l'ispiratore e il punto di riferimento politico-culturale della nuova fase del settimanale. Il resto è noto. I nuovi padroni licenziarono in tronco direttore e condirettore, violando ogni regola sindacale e professionale, quanto alla parola «plagio», l'ha tirata fuori nella sua lettera lo stesso Fagioli. Forse era già comparsa in qualche processo giudiziario.

Adalberto Minucci
Giulietto Chiesa

l'Unità Commenti 13.1.07
Il «caso Left»:
la parola ai «nuovi padroni»
di Luca Bonaccorsi, Ivan Gardini, Ilaria Gardini
Caro direttore,
in una lettera all'Unità, pubblicata l'11 gennaio 2007, i signori Giulietto Chiesa ed Adalberto Minucci riprongono quella che già una anno fa fu la loro versione dei fatti in relazione alla vicenda Left-Avvenimenti. Ciò che più addolora «i nuovi padroni» - così veniamo elegantemente definiti - è che all'annuncio ufficiale di una nuova stagione di questa testata che si avvarrà di due prestigiosi professionisti come Andrea Purgatori ed Alberto Ferrigolo si risponde rivangando tutto il vecchio. La lite e la rottura che risale oramai a quasi un anno fa ha avuto spazio sui giornali per lungo tempo. Ed in quella occasione tutti hanno democraticamente avuto voce per esprimere/denunciare i motivi di rottura di quel famoso «patto di fiducia» che dovrebbe sempre esistere tra il CdA della società editrice e la direzione. Non vogliamo oggi parlare del passato e ancor meno rispondere ad accuse deliranti di presunti plagi ed inesistenti ingerenze, ma solo proporvi il nuovo presente di Left. Fare informazione da sinistra, in maniera libera è una missione faticosa che i compagni dell'Unità conoscono bene. Per questo siamo orgogliosi di ospitare rubriche originali e, oggi, di annunciare la nuova direzione a cui auguriamo di cuore buon lavoro.
il Riformista 16.1.07
La crisi dei Ds, un partito rassegnato a scomparire
di Emanuele Macaluso


Non mi associo al coro di critiche nei confronti di Prodi per l’esito del seminario governativo di Caserta dato che proprio da queste colonne (martedì scorso) avevo auspicato una operazione verità: il risultato delle elezione politiche, che non è stato quello previsto, e le contraddizioni nelle coalizioni, che sono più acute di quel che si pensava, non consentono riforme incisive, anche se necessarie. È quindi inutile e dannoso annunciare impegni che non si possono realizzare. La «manutenzione» per migliorare la macchina dello Stato e della spesa e un programma minimo per sollecitare lo sviluppo sono i due obiettivi che questa coalizione può porsi. Governare meglio del passato sarebbe, infatti, già un buon risultato. Semmai l’errore di Caserta è consistito nello scegliere lo scenario della Reggia per uno spettacolo modesto. Tuttavia, Caserta ha confermato un dato che in questi ultimi mesi è emerso con nettezza sempre maggiore: la crisi politica dei Ds.
Il segretario di questo partito continua a riempire giornali e tv di lunghe interviste ma non coglie l’essenziale: la perdita di un ruolo incisivo dei Ds nella coalizione governativa e nel Paese. Non basta ripetere come un disco rotto che il segretario è impegnato a spiegare al popolo la Finanziaria (con l’aria di chi l’ha subita) e a costruire il futuro Partito democratico (con l’aria di chi incontra solo scetticismo). La politica è spietata. E oggi, i Ds appaiono come una forza senza riferimenti sociali e ideali, alla ricerca disperata di nuove identità. Il partito di Fassino è stretto in una morsa da cui non riesce a uscire: da un lato la sinistra massimalista che si presenta come riferimento del mondo del lavoro, più specificatamente degli operai, dei pensionati, dei precari, degli immigrati, degli esclusi; dall’altro la Margherita che tende a identificarsi con le forze che sollecitano le liberalizzazioni confindustriali e, al tempo stesso, con il conservatorismo cattolico che nega le liberalizzazioni nella sfera delle libertà civili. Prodi media, rinvia e a Caserta ha rivendicato questo ruolo sapendo che i Ds sono nella morsa e non possono che appoggiarlo nel tentativo di reggere l’equilibrio instabile della coalizione.
Questo quadro è stato reso più rigido, quasi immutabile, dal fatto che i Ds hanno imboccato la strada senza uscita del cosiddetto Partito democratico. I big della Margherita ne sono consapevoli e alzano il prezzo. La settimana scorsa abbiamo letto l’intervista di Marini a Repubblica e il suo «mai nel Pse» con l’aggiunta che se c’è qualcuno che su questa «bazzecola» fa saltare il banco se ne assume la responsabilità: insomma, o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. Dopo Marini altre dichiarazioni margheritine sulla stessa lunghezza d’onda. E i Ds sul tema dicono e non dicono e fanno capire che un rappezzo si troverà. Al Pd non ci sono alternative, ripetono, dando nuove carte nelle mani di Rutelli e soci.
Insomma, il segretario Ds e compagni pensano di guidare un processo e invece ne sono guidati. Si parla di un grande progetto che dovrebbe rivoluzionare la politica italiana (il Pd, ha detto Fassino, sarà quel che furono Roosevelt negli Usa, De Gaulle in Francia, Adenauer in Germania, Gonzales in Spagna e così via) ma quel che si vede è ben altro: la somma di un personale politico stanco e logorato, un’operazione moderata senza anima e senza respiro per cancellare ogni traccia di ciò che è stato e potrà essere la sinistra italiana e europea. E nei Ds prevale la rassegnazione.

Repubblica 16.1.07
Addii al partito e dissensi si susseguono ma la soluzione è far finta di nulla. E il progetto dell'Ulivo non sconfigge la stanchezza
Quel male oscuro che sta sgretolando i Ds
di Filippo Ceccarelli


Molto semplicemente, e con qualche preoccupazione: cosa sta succedendo nei ds? Non passa giorno senza qualche guaio, tessere non rinnovate, disimpegni congressuali, frammenti, riflessi, indizi di smobilitazione. Ma quel che più colpisce, a pensarci bene, e allarma, sono i modi in cui questo accade. Perché non c´è rabbia né animosità nella forma degli addii, non c´è passione politica, culturale e forse nemmeno esistenziale, ma solo un lento e monotono chiamarsi fuori. Tutto si consuma all´insegna dell´ineluttabile: «Mi arrendo» ha detto ieri l´onorevole Caldarola. E il capo della minoranza, il ministro Mussi, che pure poteva giocarsi in termini politici quest´ultimo abbandono, non ha trovato di meglio che ricorrere alle leggi della fisica: è l´«evaporazione» dei ds. Che strano modo di manifestare una crisi. E di illustrarla facendola convivere, nella campagna per il tesseramento, con un depliant che sotto il simbolo della quercia reca lo slogan: «Io ci credo». Ecco, quanti ancora «ci credono», là dentro? E quanti altri, in giro per l´Italia, semplici iscritti o militanti che siano, non hanno già silenziosamente anticipato la rinuncia dei vari Rossi, Bresso, Caldarola, Turci, De Giovanni, De Luca, Soriero, Polito?
Sull´inesorabile rassegnazione del partito esiste anche un film-verità, «Il fare politica», che molto dall´esterno (il regista è belga, Hugues Le Paige) ha ripreso con la telecamera e raccontato la storia ventennale (1982-2002) di quattro compagni del Pci di un paesino rossissimo della Toscana, Mercatale. E insomma: alla fine, l´amara novità è che uno solo tra loro è rimasto nei ds. Gli altri, per vari motivi, se n´erano andati. Né francamente, viene da dire, la suggestione di un ipotetico partito democratico sembra in grado di rovesciare l´esito non solo narrativo dell´eloquente cortometraggio.
Al centro la stanchezza è visibile a occhio nudo, e forse pure contagiosa. Ogni tanto (è accaduto tre volte negli ultimi mesi) il segretario viene fischiato, ma il giorno dopo la questione è come ridimensionare l´episodio, la protesta. Al momento di decidere i sottosegretari, escluso un potente notabile, alcuni della periferia sono piombati a Roma a dar calci sul portone del Botteghino. Ma al dunque è bastato sbarrarlo per chiudere la questione di chi avesse deciso le poltrone, e perché. Così come del resto non s´è capito tanto bene in che modo siano state stabilite le norme e ancora di più le deroghe nella formazione delle liste dei deputati e senatori da far eleggere, a tutti i costi.
Alla lunga, far finta di nulla diventa una soluzione. Quando non se ne può fare a meno, si trasforma immediatamente in una faccenda da relegare agli spin-doctor e agli esperti di marketing. Tutto passa, anche il «tifo» per Consorte. L´importante è che i conti siano in ordine - e che l´amministratore Sposetti ne possa andare fiero. Di tanto in tanto l´Unità attacca, ma pazienza. Gli iscritti sono 600 mila, il secondo partito in Europa dopo la Spd. Ma in vista del congresso ci sono pacchi di contestazioni, alla moda proto-democristiana; e l´unica figura di spicco che abbia preso, anzi ripreso la tessera ds negli ultimi tempi, è Primo Greganti, il «compagno G», intestatario del conto «Gabbietta». L´annuncio in occasione del lancio del suo libro intervista, «Scusate il ritardo» (Memori, 2006), scritto in collaborazione con quell´altro compagno, Luciano Consoli, entrato nel business del Bingo anche con l´obiettivo, s´infervorava, di ripristinare i vincoli sociali.
Lo stato dei rapporti personali, fra dirigenti che si conoscono da una vita e da una vita e mezza non fanno che stare tra loro, è apparentemente normale. Però l´impressione, il dubbio, il sospetto, è che tra via Nazionale, la Camera, il Senato, i ministeri, le fondazioni, i comuni più importanti e i governatorati della periferia i dignitari diessini non si possano più vedere l´un l´altro. Alcuni nemmeno si salutano più. E tuttavia anche questa discordia permanente è acquisita come un dato inevitabile, e non come lo sgretolamento di quella che almeno all´inizio si poteva considerare una comunità.
Da questo punto di vista, la gestione e i simboli del potere - 26 auto blu censite al recente workshop di Sesto San Giovanni - funzionano come l´esatto contrario del collante. Se horror vacui e cupio dissolvi risultano equamente distribuiti su un versante ritenuto trascurabile della vita interna (qualità del clima interno, privilegi elitari, tessere impicciate), su un piano più strettamente politico il partito denuncia una obiettiva «perdita di ruolo», come l´ha definita Emanuele Macaluso. Ma anche qui, pur con tutta la diffidenza per le ricadute apocalittiche, l´interrogativo riguarda forse la tenuta complessiva dei ds. Il vuoto di progettualità. L´inadeguatezza del gruppo dirigente. L´asfittico dibattito culturale. In ultima analisi: la perdita di senso della propria missione.
Fin troppo facile dare la colpa a questo o a quello. Ma anche impossibile, al momento, riconoscere qualcuno che abbia cercato di invertire il processo. Molto semplicemente, forse: il partito di massa sta crollando sui ds, come su tutti gli altri. In questi casi si dice sempre che non tutto è perduto. Ma almeno è necessario riconoscere lo schianto, il fumo e l´odore dei calcinacci.

Repubblica 16.1.07
Caldarola, tra i promotori della terza mozione, rinuncia a partecipare al congresso. Angius: il progetto fa acqua da tutte le parti
Pd, altri strappi nella Quercia
Bresso: non verrò nel nuovo partito. Mussi: così evaporiamo
La presidente del Piemonte: "Troppa confusione, sarò un'indipendente dell'Ulivo"


ROMA - Dopo le anticipazioni di Repubblica sul Manifesto del Partito democratico, i dodici saggi che stanno lavorando al testo precisano: «Apprezziamo l´interesse per un documento così atteso, ma siamo ancora arrivati alla stesura definitiva». Secondo il comitato «gli stralci di alcuni passaggi del testo fanno parte di una bozza che è già stata modificata, in riferimento sia a parti specifiche sia al ventaglio di questioni considerate di particolare rilievo». Insomma la discussione è riaperta. La Margherita fa sapere di essere soddisfatta «per la sintesi avanzata», ma insiste sul fatto che il documento «non è ancora compiuto». Ci sono dei passaggi da rivedere, dunque. E non a caso il lavoro dei saggi potrebbe allungarsi. Dovevano presentare il testo definitivo alla fine del mese, potrebbero rimandare a febbraio.
Il lavoro sulla bozza è naturalmente influenzato da ciò che succede nei partiti. Soprattutto nei Ds. C´era già stato nei giorni scorsi l´addio del riformista Nicola Rossi. Ieri ha annunciato la sua assenza al prossimo congresso della Quercia Peppino Caldarola, tra gli animatori della terza mozione, firmata con Gavino Angius, favorevole alla nascita di una forza socialista ancorata al Pse. «Mi arrendo», ha scritto il deputato liberal in un articolo sul Corriere della Sera. Resta nei Ds finchè esisteranno, poi non prenderà la tessera dei Democratici. E da Torino arriva una nuova voce contraria. «Rinnoverò al più presto l´iscrizione ai Ds. Ma non parteciperò al dibattito congressuale sul futuro partito Democratico di cui, se progetti e prospettive rimarranno quelli che ho sentito finora, non ho intenzione di prendere la tessera. Sarò un´indipendente dell´Ulivo», annuncia la governatrice del Piemonte Mercedes Bresso. A Via Nazionale temo l´effetto domino.
Chiamparino ha invitato la Bresso a ripensarci, ma la presidente non molla. Un nuovo strappo, forse il più fragoroso. «Io sto con Fassino, D´Alema, Veltroni, i veri riformisti del partito - dice la Bresso -. E per questo, perché le mie posizioni non vengano strumentalizzate da altri, non parteciperò al dibattito congressuale. Ma il mio partito di riferimento è il Partito socialista europeo e credo non si possa costruire una nuova forza pensando di sommare senza distinzioni le culture politiche liberale, socialista e cattolica. Così si fa solo gran confusione e si dà un´inquietante sensazione di partito unico. In più ci vuole chiarezza sui temi etici e sulla grande questione della laicità». Le fibrillazioni diessine (giovedì si riunisce la direzione) offrono a un grande avversario del Pd lo spunto per una profezia funesta. «Si va verso l´evaporazione dei Ds - spiega Fabio Mussi, leader del correntone e candidato alla segreteria in alternativa a Piero Fassino -. Per compattare il partito occorre interrompere le procedure di lancio dei Democratici». Stiamo perdendo i pezzi, avverte il ministro dell´Università. «A sinistra e anche a destra, ora». Emanuele Macaluso vede un partito in «crisi politica», in cui «prevale la rassegnazione». Tante dissensi preoccupano il vertice del Botteghino e oggettivamente mettono a rischio le prossime tappe della nascita del nuovo soggetto. Fassino, per garantire i laici del partito, preme per una legge rapida sui Pacs, «anche se due settimane in più o in meno non cambiano molto». Basterà a calmare le acque? «Noi abbiamo raggiunto un punto di equilibrio - dice il coordinatore della Margherita Antonello Soro - ma la sofferenza dei Ds è veramente grande. Però c´è solo la strada del Partito democratico, stare insieme per creare un nuovo soggetto. E se non lo fanno Fassino e D´Alema, lo farà Walter Veltroni, fuori dai partiti».
Per Gavino Angius la resa di Caldarola dimostra che «il Pd fa acqua». Ma i progressi sul Manifesto dei Democratici fanno dire al ministro del Programma Giulio Santagata che «il cantiere sta procedendo. I saggi sono in dirittura d´arrivo con il documento, Dl e Ds stanno decidendo le date dei congressi, c´è un lavoro in fase di sviluppo».

Repubblica 16.1.07
Antichi rimedi per la melanconia
Dolore, solitudine esistenza errabonda. Un disastro privo di ragioni per il quale esisteva già un farmaco, il nepenthes
di Jean Starobinski


Il brano di Jean Starobinski che qui pubblichiamo è tratto da un saggio dello studioso che compare sul nuovo numero di Lettera Internazionale, in uscita in questi giorni, all'interno di un dossier intitolato «Male di vivere». Nella rivista figurano anche interventi di Anna Politkovskaja, Ryszard Kapuscinski, Octavio Paz, Etienne Balibar, Giulio Ferroni, Carl Schmitt, Leszek Kolakowski, Michel Onfray e Vercors.
Omero che è all'origine di tutte le immagini e di tutte le idee racconta la depressione di Bellerofonte

La melanconia, come tanti altri stati dolorosi legati alla condizione umana, è stata avvertita e descritta assai prima di ricevere un nome e una spiegazione medica. Omero, che è all´origine di tutte le immagini e di tutte le idee, riesce a racchiudere in tre versi tutta la miseria del melanconico.
Rileggiamo, nel canto VI dell´Iliade (versi 200-203), la storia di Bellerofonte, che subisce l´inesplicabile collera degli dèi: Ma quando fu in odio anche lui a tutti gli dèi, solitario vagava allora per la pianura Alea mangiandosi l´anima, evitando l´orma degli uomini.
Dolore, solitudine, rifiuto di qualsiasi contatto umano, esistenza errabonda: un disastro privo di ragioni, dato che Bellerofonte, eroe coraggioso e giusto, non ha commesso alcun crimine contro gli dèi. Al contrario, è stata la virtù la causa delle sue disgrazie, del suo primo esilio; per aver rifiutato le colpevoli profferte di una regina, che il dispetto ha trasformato in persecutrice, ha dovuto affrontare innumerevoli prove. Bellerofonte ha superato valorosamente la lunga serie delle sue fatiche: ha vinto la Chimera, evitato gli agguati, conquistato un regno, una sposa, il riposo. Ma ecco, nel momento stesso in cui tutto sembrava essergli stato concesso, il tracollo. Ha esaurito le sue energie vitali nel corso della lotta? O ha rivolto forse contro se stesso, in mancanza di nuovi avversari, il proprio furore?
Lasciamo da parte questi psicologismi, che non sono nel testo di Omero, e approfondiamo invece l´immagine così penetrante di un esilio imposto per decreto divino. Gli dèi, nel loro complesso, si compiacciono di perseguitare Bellerofonte; l´eroe, che ha saputo resistere valorosamente alle persecuzioni degli uomini, è impotente di fronte alla loro collera. E chi è perseguitato dall´ostilità universale degli immortali non trae più alcun piacere dai rapporti con gli uomini. E questo il punto su cui occorre soffermarsi: nel mondo omerico, la comunicazione dell´uomo con i suoi simili, la stessa rettitudine del suo cammino, sembrano dipendere da una garanzia divina. Quando nessun dio è disposto a concedere tale favore, l´uomo è condannato alla solitudine, al dolore «divorante» (una forma di autofagia), alle corse senza meta in preda all´ansia. La depressione di Bellerofonte è solo l´aspetto psicologico di questo allontanamento delle potenze superne. Una volta abbandonato dagli dèi, gli vengono a mancare le risorse e il coraggio necessari per continuare a vivere tra i suoi simili. Una collera misteriosa, che pesa su di lui dall´alto, lo porta a evitare le strade percorse dagli uomini, lo spinge a vagare senza scopo e senza senso. Si tratta forse di follia, mania? No: nel deliro, nella mania, l´uomo è istigato o posseduto da una potenza soprannaturale, di cui avverte la presenza. Qui, invece, tutto è allontanamento, assenza. Bellerofonte sembra errare nel vuoto, lontano dagli dèi, lontano dagli uomini, in un deserto senza limiti.
Per liberarsi del suo «nero» dolore, il melanconico non può far altro che attendere o cercare di propiziare il ritorno della benevolenza divina. Prima di poter rivolgere di nuovo la parola agli uomini, è necessario che una divinità torni ad accordargli il favore che gli è stato ritirato. Occorre che questa situazione di abbandono abbia termine. Ma la volontà degli dèi è capricciosa.
Omero è però anche il primo a evocare la potenza della medicina, del pharmakon. Miscela di erbe egiziane, segreto di regine, il nepenthes lenisce le sofferenze e frena i morsi della bile. Ed è giusto che sia Elena, per amore della quale ogni uomo è pronto a dimenticare tutto, ad avere il privilegio di dispensare la pozione dell´oblio, in grado di attenuare il rimpianto, asciugare per un momento le lacrime, ispirare l´accettazione rassegnata dei decreti imprevedibili degli dèi. E dove, se non nell´Odissea (canto IV, v. 219 e segg.), nel poema dell´eroe ingegnoso dalle mille risorse, si sarebbe dovuta situare l´apparizione di questo meraviglioso artificio, che permette all´uomo di acquietare i tormenti che accompagnano il suo destino violento e la sua vita turbolenta?
Dunque, oltre a offrirci un´immagine mitica in cui l´infelicità dell´uomo è una conseguenza della sua caduta in disgrazia dinanzi agli dèi, Omero ci propone anche l´esempio di un´attenuazione farmaceutica del dolore, che non deve nulla all´intervento degli dèi: una tecnica solamente umana (circondata, senza dubbio, da qualche rito) sceglie le piante, ne spreme, mescola, decanta i princìpi, benefici e tossici allo stesso tempo. Naturalmente, la bellezza della mano che porge la pozione non può che aumentare l´efficacia della droga, che ha in sé anche qualcosa dell´incantesimo. Il dolore di Bellerofonte ha avuto origine nel Consiglio degli dèi, ma gli armadi di Elena ne contengono il rimedio.
«Quando il timore e la tristezza persistono a lungo, si ha uno stato melanconico» (Ippocrate, Aforismi). Ecco apparire così la bile nera, la sostanza spessa, corrosiva, tenebrosa, cui il senso letterale del termine «melanconia» fa riferimento. Si tratta di un umore naturale del corpo, come la bile gialla, come la pituita. E, proprio come gli altri umori, essa può sovrabbondare, spostarsi dalla sua sede naturale, infiammarsi, corrompersi, dando luogo a diverse malattie: epilessia, follia furiosa (mania), tristezza, lesioni cutanee. Lo stato che chiamiamo oggi melanconia è solo una delle molteplici espressioni del potere patogeno della bile nera, quando il suo eccesso o la sua alterazione qualitativa compromettono l´isonomia (ossia l´armonioso equilibrio) degli umori.
E´ verosimile che l´osservazione dei vomiti e delle feci di colore nero abbia suggerito ai medici greci l´idea di trovarsi in presenza di un umore altrettanto fondamentale degli altri tre. Il colore scuro della milza, per una facile associazione di idee, deve aver fatto loro supporre che questo organo fosse la sede naturale della bile nera. Inoltre, la possibilità di stabilire una stretta corrispondenza tra i quattro umori, le quattro qualità (secco, umido, caldo, freddo) e i quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco), era appagante per lo spirito. A queste associazioni se ne aggiunsero altre, fino alla costituzione di un mondo simmetrico: le quattro età della vita, le quattro stagioni, le quattro direzioni dello spazio da cui soffiano quattro diversi venti. La melanconia si trovava associata, per analogia, alla terra (che è secca e fredda), all´età presenile, e all´autunno, stagione pericolosa in cui l´atrabile acquista la sua massima potenza. Si giunse così alla costruzione di un cosmo coerente, il cui assetto quadripartitico si riverbera nel corpo umano e in cui il tempo è solo il percorso regolare delle quattro stagioni.
Ridotta alle sue giuste proporzioni, la melanconia è solo uno degli ingredienti indispensabili alla crasi che costituisce lo stato di salute. Non appena essa acquista un peso preponderante, tuttavia, l´equilibrio si spezza e sopravviene la malattia: come dire che le nostre malattie dipendono dal disaccordo tra quegli stessi elementi che compongono la nostra salute.
Il sistema dei quattro elementi viene affermato in modo esplicito solo nel trattato sulla Natura dell´uomo, attribuito tradizionalmente a Polibio, genero di Ippocrate. Altri trattati, come l´Antica medicina, sembrano ammettere l´esistenza di una maggiore varietà di umori, ciascuno dotato di proprietà particolari. (...) Prima che la dottrina medica prendesse forma, alla fine del V secolo, in Attica, si credeva già nel nefasto influsso psichico della bile nera. Sofocle si serve per l´appunto dell´aggettivo melancholos per indicare la tossicità letale del sangue dell´idra di Lerna, di cui Eracle aveva imbevuto le punte delle sue frecce (v. 573). Il centauro Nesso, raggiunto da una di queste frecce, ne morì; e le proprietà velenose dell´idra si trasmisero, in seconda diluizione, alla vittima.
Raccolto da Deianira, il sangue di Nesso servì a tingere la famosa tunica, il cui contatto procurò a Eracle un bruciore insopportabile, che lo costrinse al suicidio eroico.
Ci troviamo qui in presenza di un bell´esempio di immaginazione sostanziale (prendiamo in prestito l´espressione di Gaston Bachelard): il veleno melanconico è un fuoco oscuro che agisce a dosi infinitesimali e che mantiene la sua pericolosità anche a concentrazioni oligodinamiche; è un composto dalla duplice natura, in cui i poteri nefasti del colore nero e le proprietà corrosive della bile si potenziano a vicenda. Il nero è sinistro, è strettamente associato alla notte e alla morte; la bile è acre, irritante, amara. Come fanno intendere abbastanza chiaramente alcuni testi ippocratici, la bile nera era concepita come una sorta di concentrato, una feccia residua prodotta dall´evaporazione degli elementi acquosi degli altri umori, e in particolare della bile gialla. La si circondava del temibile prestigio delle sostanze concentrate, capaci di contenere nel minimo volume la massima quantità di proprietà attive, aggressive, corrosive. Molti secoli dopo, Galeno attribuirà all´atrabile una singolare vitalità: essa «morde e attacca la terra, si gonfia, fermenta, fa nascere bolle simili a quelle che si formano nelle zuppe in ebollizione». Fortunatamente, nell´organismo sano, gli altri umori intervengono per diluire, frenare, moderare tanta violenza. (...)
La tristezza e il timore costituiscono, per gli Antichi, i sintomi principali dell´affezione melanconica. Ma una semplice differenza nella localizzazione dell´umore atrabiliare è sufficiente a determinare considerevoli cambiamenti nella sintomatologia. I melanconici diventano in genere epilettici, e gli epilettici melanconici; quale di questi due stati sia destinato a prevalere dipende dalla direzione presa dalla malattia: se attacca il corpo, si ha l´epilessia; se attacca l´intelligenza, la melanconia (Ippocrate, Epidemie).
Il passo citato contiene un´ambiguità: la parola «melanconia» designa un umore naturale che non è necessariamente patogeno. Ma la stessa parola designa anche la malattia mentale prodotta dall´eccesso o dallo snaturamento di questo umore, quando essi riguardino principalmente «l´intelligenza». (...)
Un medicamento - l´elleboro - rimarrà per secoli lo specifico più diffuso per la cura della bile nera e, di conseguenza, della follia. Diventerà il farmaco per eccellenza, quello di cui è sufficiente citare il nome per indicare l´uso cui è destinato dalla tradizione. Nel XVII secolo, nessun lettore aveva bisogno di un commentario per capire l´allusione contenuta nei versi di La Fontaine, in cui la lepre si fa beffe della tartaruga: «Comare mia, bisognerebbe purgarla / con quattro grani di elleboro».
Traduzione di Stefano Salpietro
copyright Lettera Internazionale


Corriere della Sera 16.1.07
Un saggio di Lucia Annunziata rievoca una stagione di conflitti e chiama in causa Cossiga
Quel 1977
L'anno che sconvolse la sinistra italiana.
Quando il movimento uccise il padre Pci
di Luigi Ballista

Lucia Annunziata racconta di quando, dopo aver assistito alla cacciata di Luciano Lama dall'Università di Roma nel febbraio del '77, tornò con una inebriante «sensazione di leggerezza» alla sua redazione del «Manifesto». Aveva portato con sé come un trofeo (o forse come un feticcio) un sampietrino raccolto sul campo di battaglia: «Lo mostrai con orgoglio. Mani si allungarono a toccarlo. Rossana Rossanda si voltò di colpo e ingiunse: "Mettilo via". Lo rimisi in borsa... ma nel depositarlo sul fondo della borsa, ne accarezzai il lato liscio».
Accarezzato, toccato, orgogliosamente rivendicato, quel sampietrino era l'arma simbolica con cui, sostiene l'Annunziata nel suo libro 1977. L'ultima foto di famiglia (Einaudi) il '77 uccise simbolicamente il padre comunista. Superfluo obiettare che l'arma emblema di quell'anno non fu il sampietrino, ma la P38. Che in quel clima intossicato dalla violenza rimasero feriti, gambizzati, uccisi bersagli di ogni colore e mestiere. Ma Lucia Annunziata, sul filo del racconto autobiografico e dell'analisi del terremoto che sconvolse la sinistra, dichiara apertamente l'animus del testimone parziale. La sua ricostruzione ha come oggetto la sinistra. Ma se la storiografia politica ha sinora riletto il cataclisma del '77 come il compimento cupo e lugubre di una vicenda politica e di costume che affonda le sue radici nel Sessantotto, al contrario l'Annunziata lo circoscrive come l'inizio di un'altra storia che allunga le sue ombre fino ai nostri giorni, il deflagrare di un conflitto le cui conseguenze si sono proiettate anche negli anni a venire, l'esplosione di una guerra fratricida nella sinistra che ancora oggi riverbera i suoi strascichi e le sue divisioni. Quell'anno maturò il parricidio, l'uccisione del Partito comunista nel nome dell'altra sinistra: ecco la tesi di questo libro, in cui l'autrice riserva giudizi di una severità perentoria. Ecco l'indugiare feticistico su quel sampietrino che aveva contribuito a profanare la sacralità della storia comunista, umiliando il capo del sindacato e costringendolo a uscire dall'università assieme al suo servizio d'ordine un tempo imbattibile.
«Noi odiavamo i comunisti», scrive l'Annunziata, che ricorda anche, mettendo temerariamente mano al groviglio esistenziale che sembra dettare segretamente scelte ed emozioni politiche refrattarie a una razionalizzazione troppo spinta, che «mio padre, l'operaio comunista Raffaele, mi investì al telefono» dopo aver letto l'articolo della figlia dedicato alla cacciata di Lama: «Di tutti i pezzi scelti per la giornata, il più stupido l'hai scritto tu. Non vi siete resi conto di quello che avete fatto». Ma loro «odiavano» i padri comunisti. Ne detestavano, scrive ancora, il «grigiore», «quelle sezioni buie che rendevano le loro bandiere rosse attaccate alle pareti umide e flosce», quel «senso di muffa permanente», quella «potenza» di cui il Pci esibiva addirittura «un culto», mosso esclusivamente da un'ossessione per «l'ordine, l'organizzazione, la disciplina». Difficile un ritratto di famiglia dall'interno più impietoso, sprezzante, liquidatorio. Un atto d'accusa che sembra ricalcato sull'invettiva di André Gide contro le famiglie borghesi. Ma mai i comunisti avrebbero potuto immaginare di essere odiati dai loro figli come dei borghesi qualunque, non illuminati dalla scienza del futuro. Perciò reagirono con pesantezza e (comprensibile) malanimo. Si scagliarono sui figli ribelli del '77 bollandoli come «fascisti», «diciannovisti», «teppisti», «provocatori». Una spaccatura così cruenta, ha ragione l'Annunziata, scavò tra padri e figli un solco invalicabile.
Lucia Annunziata non edulcora la ricostruzione di quel duello furioso con il balsamo della nostalgia. Riporta con onestà cronistica il conto delle vittime del fanatismo intollerante. E restituisce il clima febbrile di uno scontro che non conobbe cuscinetti che ne attutissero l'urto. La bomba molotov che inaugurò l'anno contro il cinema romano che proiettava La lunga notte di Entebbe, il film sull'operazione con cui Israele liberò gli ostaggi di un aereo dirottato dai palestinesi. I giornalisti dell'«Unità» buttati fuori dall'università. L'aggressione al professor Franco Ferrarotti «che si rifugia in una profumeria». Le intimidazioni pesanti contro gli accademici, anche del Pci come Alberto Asor Rosa. La fama di «questurino» che si guadagnò l'allora segretario della Fgci Massimo D'Alema, colpevole di essere contro la violenza delle spranghe e delle pistole. Le ambiguità dei dirigenti di Lotta Continua (sebbene fu proprio grazie a due di loro, Luigi Manconi e Marino Sinibaldi, che l'Annunziata fu salvata dalle attenzioni minacciose di una parte del corteo). Il «processo popolare» cui venne sottoposto Paolo Mieli nel corso di un'assemblea. Le velleità d'attacco alla Bologna del Pci, con Giancarlo Pajetta che denunciava che «anche il fascismo cominciò con la marcia su Bologna» e con gli intellettuali francesi, Sartre in testa, che vaneggiavano sul nuovo autoritarismo simboleggiato dalla città amministrata da Renato Zangheri. Il parricidio fu violento, estremistico, cruento. Ed è così convincente e realistico il quadro che ne offre l'Annunziata che non si comprende fino in fondo l'accusa spietata che l'autrice riserva al ministro degli Interni di allora Francesco Cossiga, chiamato nuovamente «Kossiga» e bollato come preda di una «semifollia» nella gestione dell'ordine pubblico in una temperie di lotta armata unilateralmente dichiarata. Forse non c'era altro da fare. E comunque il parricidio di chi, secondo l'autrice, interpretava nella nuova sinistra la «modernità» contro il polveroso conservatorismo del Pci, non avrebbe potuto lasciare indifferente chi istituzionalmente era chiamato alla tutela dell'ordine pubblico nell'anno più difficile. L'anno più controverso.

l’Unità 16.1.07
IL CASO Il leader: non può fare la rassegna stampa di domenica. Il direttore dell’emittente, Massimo Bordin, replica: «Marco, a me va bene così»
Pannella «licenzia» in diretta Capezzone da Radio radicale
di Maria Zegarelli

La politica ormai si fa così: con stracci che volano in pubblico tra i vari soggetti interessati. Altro che vecchie maniere, «i panni sporchi si lavano in casa». Tutto superato. Molto più «in» dirsi le cose sinceramente in faccia ma davanti almeno a diverse centinaia di spettatori. Altrimenti non c’è gusto. Marco Pannella, che ha sempre il polso della situazione politica, ha quindi scelto la diretta radio, sulla «sua» Radio Radicale, per chiarire che lui l’ex segretario del partito, anzi «di una delle tante associazioni radicali», Daniele Capezzone, non lo vuole più sentire la domenica mattina come conduttore della rassegna stampa «Stampa e Regime». La conduce in «modo egregio, ma anche come autopromozione, sul piano politico, per carità», ma qualche «osservazione si può fare».
Tutto in onda, domenica sera nel corso della abituale intervista settimanale (andata in replica ieri mattina) con il direttore della radio, Massimo Bordin, che a un certo punto ha definito «sgradevole» quel colloquio che sembrava sempre più una resa dei conti tra il leader radicale e il suo ex delfino. Pannella sigaretta accesa, va avanti a testa bassa. Insiste: la domenica mattina «c’è un primato di ascolti», dunque sarebbe meglio assegnare quello spazio a qualcun altro, come Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni, che prende via via quota nel firmamento di via Arenula. Massimo Bordin prima smentisce il picco di ascolti della domenica mattina, poi sottolinea: «A me la programmazione va bene così, altrimenti stabiliamo che a deciderla è il partito». «Questo è offensivo» incalza la vecchia volpe per niente sfiancata - almeno nella favella - dal digiuno ad oltranza che porta avanti contro la pena di morte. Offensivo? «Sei l’editore della radio...», prova a dire il direttore. «Ora verrà fuori che gli faremo del mobbing, che gli togliamo il lavoro, ma non intendo accettare ricatti di questo tipo». Ma insomma..., ribatte l’altro, un po’ di mobbing, lascia intendere, si intravede in tutta questa vicenda.
Lo spettacolo va, gli stracci volteggiano sulle onde radio. Capezzone viene avvertito dell’ultimo attacco. «Ma insomma... - propone Bordin - diciamo che mi riservo una decisione, perché ti confesso...». «Una decisione relativa a che cosa? La decisione è sempre tua, in passato, nel presente e in futuro...». «Ma sai benissimo che non intendo mettermi in urto con i superiori interessi della politica...». E Pannella: «Perché anche tu hai paura del mobbing?». Risposta: «Non ho paura di niente, di nessuno, così non va... Al massimo mi puoi licenziare»... Stanza ormai piena di fumo e di tensione che taglia con il coltello. Pannella non cede e la tira avanti per circa dieci minuti, anzi come dice Bordin «che va avanti così dal 2007, dal dopo Padova». Allora basta, «potremmo fare così Marco...». Così come?, come sarebbe a dire?, «Insieme non facciamo nulla, lo farai tu», perché tu sei il direttore e quindi tu devi dare il benservito: questo è il succo che spremi spremi sta venendo fuori. E allora, se proprio lo devo fare io, rilancia il direttore, «non vedo motivo di cambiare la rassegna stampa della domenica».
Daniele Capezzone, attuale presidente della Commissione Attività produttive della Camera, citato a Caserta da Romano Prodi per il progetto «un’impresa in un giorno», al telefono è piuttosto sbrigativo. «Ho sentito Bordin privatamente e l’ho ringraziato - dice - per il suo comportamento ineccepibile e ammirevole. Quanto a Marco ho troppo rispetto per lui per commentare una sortita che mi sembra davvero deludente». Di andarsene non ci pensa nemmeno l’ex segretario tirato su politicamente come un figlio proprio da colui che oggi lo ripudia. Capezzone (definito da Casini l’unico riformista, oltre a Nicola Rossi) ritira fuori dal cassetto una frase già pronunciata durante il congresso: «Marco, ti dò una brutta notizia: io non me ne vado». E l’altra, quella detta davanti alle telecamere di «Markette» la trasmissione di Chiambretti: «Di qualunque cosa venga accusato, inclusa la violazione del trattato di Kyoto, non scendo in polemica». Silenzio da parte dell’attuale segreteria dei radicali, Rita Bernardini. Non tace, invece, Bordin. Spiega il giorno dopo: «Non ho alcuna intenzione di cambiare la rassegna stampa della domenica. Se poi il partito, visto che di radio di partito si tratta, dovesse decidere diversamente, allora...». Allora? «Sarà una separazione consensuale». Certo però che non sarebbe un bel segnale, «perché in passato non è mai successo che il partito facesse il partito in questo senso, dettando ultimatum su questioni di questo tipo». Prova anche a smorzare i toni della discussione, ma confessa di non aver condiviso affatto le modalità scelte dall’editore. «Quella questione si poteva affrontare anche in altro modo, a microfono chiuso». Alla motivazione addotta dal leader radicale, «ascolti molto più consistenti la domenica», non ha creduto nessuno tra i radicali, come insegna lo «strappo di Padova».

Redattore Sociale 15.1.07
Indulto, in Italia non c'è stata alcuna "ondata di ritorno"
Complessivamente dal primo agosto 2006 a oggi, sono stati scarcerati grazie all’indulto 25.405 detenuti. Superato il sovraffollamento, oggi nelle carceri italiane sono presenti 39.157 detenuti, solo 1.200 in più rispetto al settembre scorso

ROMA - La legge 241 del 2006, meglio nota come indulto, ha determinato per la prima volta da molti anni un allentamento della pressione patologica che si registra nelle carceri italiane. Non era mai successo negli ultimi anni di poter arrivare a sfiorare una situazione di normalità, o almeno – in altri termini – a riportare gli istituti penitenziari ad una situazione “fisiologica”. Bisogna infatti tornare indietro al 1991 per trovare la situazione che si è determinata in questi ultimi mesi grazie all’applicazione dell’indulto. Come nel ’91, anche ora nelle carceri italiane ogni detenuto occupa un posto. Fino alla primavera dello scorso anno la situazione era invece arrivata oltre ogni limite di sopportazione: tre detenuti per posto fisico in carcere. O in altri termini: il numero complessivo dei detenuti presenti in carcere era diventato il triplo della capienza effettiva.
Alla data di ieri, 14 gennaio, nelle carceri italiane erano presenti 39.157 detenuti, solo 1.200 in più rispetto al 30 settembre 2006, cioè a indulto largamente applicato, ed esattamente tanti quanti sono i posti a disposizione. Non si vede ancora, dunque, "l’ondata di ritorno" temuta la scorsa estate, quando le carceri contenevano più di 60 mila persone.
Sul’indulto era infatti divampata una rovente polemica nell’ambito politico e sui media. Quella legge era stata utilizzata per rilanciare l’allarme sicurezza. Si è gridato al pericolo dei criminali rimessi in libertà e molti hanno anche speculato sui “rientri”, ovvero sul fatto che una parte dei detenuti rimessi in libertà sarebbe rientrata quasi subito in carcere per nuovi arresti e nuovi reati. Cerchiamo di vedere più da vicino come stanno le cose. E lo facciamo utilizzando due fonti: i dati più aggiornati del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e le analisi incrociate dell’associazione Antigone, che da anni monitora e segue la tematica carceraria.
Per quanto riguarda gli effetti dell’indulto, il Dap ha calcolato (uno per uno, carcere per carcere) il numero dei detenuti che sono stati scarcerati in base alla legge 241. Complessivamente dal primo agosto 2006 a oggi, 15 gennaio 2007, sono stati scarcerati grazie all’indulto 25.405 detenuti. In questa cifra bisogna però fare delle differenziazioni secondo la posizione giuridica delle persone che hanno potuto beneficiare del provvedimento avendone i requisiti previsti dalla norma stessa. Il Dap differenzia così due categorie: “i definitivi puri” e gli “usciti per revoca di misura cautelare a seguito di indulto”. Nella prima categoria rientrano 17.763 persone. Questi cosiddetti “definitivi puri” sono stati un po’ di più di quelli che erano stati previsti prima dell’approvazione della legge. Si era calcolato infatti che l’indulto avrebbe permesso la scarcerazione diretta di 15.470 detenuti. Il Dap spiega che lo scarto in eccesso (17.763 contro i 15.470) è dovuto al fatto che tra la previsione antelegge e l’applicazione, altri detenuti hanno maturato i requisiti per beneficiare del provvedimento.
Nella seconda categoria utilizzata dal Dap ci sono i detenuti in attesa di primo giudizio, gli appellanti, i ricorrenti e i “misti con più procedimenti a carico, con misura cautelare e provvedimenti di condanna definitiva o non definitiva”. Per quanto riguarda le persone in attesa di primo giudizio quelle che hanno potuto beneficiare dell’indulto e quindi uscire dal carcere sono state 466. Ci sono stati poi 1502 appellanti, 737 ricorrenti, mentre tra i cosiddetti “misti” troviamo circa cinquemila persone, 4937 per l’esattezza, ovvero circa il 20% del totale. I detenuti usciti per indulto in modo diretto (quelle 17.763 persone di cui abbiamo detto sopra) rappresentano il 69,9% del totale. (pan).

Redattore Sociale 15.1.07
Rientrate in carcere dopo l'indulto 2640 persone, di cui 929 stranieri
Al primo posto nelle statistiche dei reati ascritti ai soggetti nuovamente arrestati ci sono quelli contro il patrimonio (46,38%), seguiti dai reati legati alla legge vigente sulle droghe (14,29%) e da quelli contro la persona (10,34%)

ROMA - I dati sui “rientri” in carcere dopo l’indulto, ovvero delle persone che sono state arrestate subito dopo o qualche tempo dopo la scarcerazione relativa al provvedimento di indulto smentiscono parecchie delle previsioni della vigilia e perfino alcuni dei luoghi comuni più ricorrenti. Il primo dato che emerge – ed è anche la prima smentita di alcune previsioni della vigilia dell’applicazione della legge n.241 – è relativo alla percentuale di stranieri sul totale delle persone finite nuovamente in carcere dopo essere state scarcerate.
Dal primo agosto 2006 a oggi (15 gennaio 2007) sono rientrate in carcere dopo aver beneficiato dell’indulto 2640 persone. Tra queste 1711 sono italiani e 929 stranieri. Si ribalta così una delle previsioni, visto che quasi tutti gli ossertori avrebbe scommesso sul contrario. Si era detto e immaginato che la stragrande maggioranza dei “rientri”, ovvero delle persone che liberate, si sono fatte arrestate di nuovo, sarebbe stata composta di immigrati o stranieri in generale.
L’altro dato interessante riguarda, sempre per quanto riguarda gli effetti dell’indulto e il riscontro ufficiale fornito dall’amministrazione penitenziaria, la composizione per sesso. Tra i 1711 italiani che sono stati arrestati di nuovo dopo l’indulto, 43 erano donne e 1668 uomini. Un rapporto tra maschi e femmine che più o meno si ripete anche tra gli stranieri. Tra i 929 arrestati dopo l’indulto, 14 erano donne e 915 uomini. Tra straniere e italiane le donne arrestate dopo essere state scarcerate per l’indulto sono state dunque 57, mentre il numero complessivo degli uomini ri-arrestati dopo l’undulto (tra italiani e stranieri) è stato di 2583 persone.
Molto utile tentare anche di analizzare i dati relativi al tipo di reati per i quali sono stati di nuovo arrestato gli ex detenuti che avevano beneficiato dell’indulto. A una prima rilevazione dei dati spicca evidente la differenza – spesso anche macroscopica – nella tipologia dei reati. Al primo posto nelle statistiche dei reati ascritti ai soggetti rientrati in carcere dopo aver beneficiato dell’indulto ci sono i reati contro il patrimonio, che rappresentano quasi la metà del totale (46,38%). Al secondo posto – ma molto distanziati rispetto alle percentuali – i reati legati alla legge vigente sulle droghe. Questi reati – tra chi è rientrato in carcere – rappresentano il 14,29%. Al terzo posto della graduatoria, con il 10,34% del totale, troviamo i reati contro la persona. Al quarto i reati contro la pubblica amministrazione con uno scarso 7,79%, mentre solo al quinto posto scopriamo i reati contro la legge sugli stranieri con un 7,32% del totale. Un’altra percentuale bassa riguarda poi la legge sulle armi (3,84%), i reati contro l’amministrazione della giustizia (1,34) la fede pubblica (1,24%), le contravvenzioni e i reati contro la famiglia che risultano all’ultimo posto con uno 0,52% del totale dei reati ascritti a chi è rientrato in carcere. (pan)

Redattore Sociale 15.1.07
Poco più di 9mila gli stranieri usciti dal carcere grazie all'indulto
Antigone: ''Nei loro confronti l’indulto è stato applicato quasi solo nei casi in cui era presente un avvocato di fiducia''

ROMA - Gli immigrati e in generale i cittadini stranieri sono stati i meno coinvolti dal provvedimento di indulto varato lo scorso anno dal governo Prodi. Il fenomeno li ha riguardati in modo secondario rispetto agli altri italiani sia dal punto di vista degli effetti pratici del provvedimento sulle uscite dal carcere, sia dal punto di vista dei cosiddetti "rientri”, ovvero dei casi in cui le persone che hanno beenficiato dell'indulto sono state poi di nuovo arrestate. Per quanto riguarda il totale dei beneficiari dell"indulto solo una parte è straniera. Non ci sono ancora le ultimi elaborazioni, ma il rapporto dovrebbe essere di meno di un terzo. Secondo le elaborazioni di Antigone, l’associazione che si occupa di carceri da molti anni, sulle cifre ufficiali fornite dal Dap, delle 25.256 persone uscite dal carcere a causa dell’indulto al 25 ottobre dello scorso anno, 9187 erano straniere. Se prima dell’entrata in vigore del provvedimento di indulto gli stranieri in carcere erano 20.088, pari al 33% della popolazione detenuta totale, al settembre del 2006 erano 12.369, pari cioè al 32%. Sia secondo Antigone, sia secondo altri osservatori e studiosi delle carceri, ci si sarebbe potuti aspettare uno scarto maggiore tra queste percentuali, essendo - come scrive Susanna Marietti di Antigone – “i detenuti stranieri con reati ascritti di bassa gravità proporzionalmente di più dei detenuti italiani”.
Si può presupporre quindi che data l’alta percentuale di detenuti in custodia cautelare tra gli stranieri, in pochi abbiano visto cessare la misura cautelare grazie all’indulto. Si suppone anche che non sono tanto le condizioni di applicazione della legge sull’indulto, che poi sono uguali per tutti, ma qualche altro fattore esterno. Uno dei fattori che sicuramente fa la differenza è quello relativo alla difesa. Si conferma cioè anche per gli immigrati l’ipotesi che l’indulto, al di fuori dei casi più ovvi, sia stato applicato solo in situazioni giuridicamente tutelate dalla presenza di un avvocato di fiducia. L’altro elemento molto interessante che differenzia gli effetti dell’indulto e il dopo indulto tra italiani e stranieri è il dato relativo ai rientri in carcere. (vedi lancio precedente) (pan)

ANSA.it 16.1.07
La famiglia uccide più della Mafia

ROMA - Un morto ogni due giorni, 1.200 vittime in cinque anni: la famiglia italiana uccide piu' della mafia, della criminalita' organizzata straniera e di quella comune. E quello che dovrebbe essere il luogo piu' sicuro, la casa, si trasforma invece nel posto a piu' elevato rischio: su dieci omicidi avvenuti nel 2005 nella sfera familiare, sei sono stati commessi tra le mura domestiche. La fotografia emerge dal rapporto Eures-Ansa 2006 ''L'omicidio volontario in Italia''. Dati che pero' mettono in luce anche degli aspetti positivi: nel nostro Paese il numero di omicidi volontari e' calato del 65% negli ultimi 15 anni passando dai 1.695 del 1990 ai 601 del 2005. E se Napoli resta la capitale dei delitti, nel nord Europa e negli Stati Uniti si uccide molto piu' che nel nostro Paese.
174 OMICIDI IN FAMIGLIA NEL 2005, 29,1 DEL TOTALE - La sfera familiare, dove avviene anche il 91,6% degli omicidi-suicidi, precede le vittime della mafia (146, il 24,4%) e della criminalita' comune (91, il 15,2%). Quest'ultimo dato e' in controtendenza rispetto al 2004, con un aumento del 28,2%, quando le vittime furono 71. Questo perche', secondo il rapporto, ''accanto alla diffusione dei delitti collegati ai 'reati comuni''', emerge ''quella degli omicidi compiuti da individui 'qualunque', spesso giovani, estranei alla malavita, divenuti assassini per futili motivi o banali litigi all'uscita della discoteca''. Solo 4 le vittime della criminalita' organizzata straniera. La maggior parte degli omicidi in famiglia avviene al Nord. Ad armare la mano degli assassini e' una volta su quattro il movente passionale e se su dieci donne uccise in Italia ben sette sono state ammazzate dal partner o da un familiare, cresce anche il numero di uomini vittime della famiglia: nel 2005 l'incremento e' stato del 28,8%.
OMICIDI DIMEZZATI IN 15 ANNI, NAPOLI CAPITALE DEI DELITTI - Si e' passati dai 1.695 omicidi del 1990 ai 601 del 2005. A guidare la classifica delle zone piu' pericolose e' il Sud: con 346 vittime si conferma l'area dove si consuma il maggior numero di delitti (57,6%), seguita dal Nord (29%) e, con un ampio scarto, dal Centro (-4,7%). Il divario trova conferma anche in termini relativi: l'indice di rischio (numero di delitti ogni 100 mila abitanti) e' 1,7 al Sud mentre 0,7 a Centro e Nord. Record di omicidi in Campania, con 128 vittime. Una regione che da 10 anni conserva il primato negativo. Seguono Sicilia (70 vittime), Calabria (69), Lombardia (65)e Lazio (46). L'indice di rischio piu' elevato si registra invece in Calabria (3,4 omicidi), seguita da Campania (2,2), Sardegna (1,5) e Sicilia (1,4). Tra le citta' Napoli e' la capitale degli omicidi (88 vittime), seguita da Reggio Calabria (39), Roma (36), Caserta e Milano (28). Dal rapporto emerge pero' che si uccide non solo in citta'. Anzi: piu' della meta' degli omicidi (58%) avviene nei piccoli e medi comuni.
ITALIA SOTTO MEDIA EUROPEA; IN USA 30 VOLTE PIU' OMICIDI - Al vertice della 'vecchia' Unione Europea a 15 i paesi dove si uccide di piu' sono Finlandia e Svezia: rispettivamente con 2,6 e 2,2 omicidi ogni 100 mila abitanti (la media europea e' 1,4). L'Italia, tra il 2000 e il 2004, ha avuto una media di 1,2 omicidi, superiore a Germania, Paesi Bassi e Grecia (0,7), la nazione piu' sicura. Con l'allargamento a 25, i paesi piu' pericolosi sono diventati gli ex satelliti di Mosca: 9,7 in Lituania e 9,3 in Estonia e Lettonia. Anche gli Stati Uniti hanno una media ben superiore: nel solo 2004 si sono registrate oltre 16 mila vittime, 27 volte quelle italiane.
GIOVANE, UOMO E ROMENO, IDENTIKIT DELLA VITTIMA STRANIERA - Su 601 persone uccise nel 2005, 111 erano stranieri, il 18,6% del totale ma in calo rispetto all'anno precedente (145). Due terzi sono uomini e l'eta' media degli stranieri ammazzati si attesta sui 32 anni, ben al di sotto della media degli italiani (41,6 anni). La Romania e' il paese straniero con il piu' alto numero di vittime in Italia (19), seguita da Marocco (11), Albania (10) e Polonia (9).

Corriere della Sera 16.1.07
PERCHÉ VINCE RIFONDAZIONE
di Dario Di Vico

Perché Rifondazione vince sempre? La domanda, dopo il conclave di Caserta, si ripropone con cocente attualità. Come mai, ogni volta che c'è un «franco dibattito» tra le diverse anime della maggioranza, alla fine ne escono sempre vincitori gli uomini che guidano, con perizia per carità, il terzo partito (né il primo né il secondo) della coalizione? La risposta più ovvia è che senza i voti di Rifondazione il governo cadrebbe ed è questo il motivo che consente a Franco Giordano e Paolo Ferrero di esercitare i poteri della golden share. Ma non è sufficiente. La forza del Prc consiste nel far riferimento a un corpo di convincimenti e di obiettivi che sta interamente dentro la storia della sinistra italiana e delle sue appendici. Rifondazione parla un lessico familiare ai gruppi dirigenti — centrali e periferici — dei Ds e dell'ex sinistra Dc, è il linguaggio del riformismo novecentesco con le sue granitiche certezze keynesiane e solidaristiche. Un patrimonio che viene però gestito con buona capacità di aggiornare analisi e parole d'ordine. Basta sfogliare il quotidiano Liberazione per avere la riprova che in qualche maniera Rifondazione è in viaggio.
La pur relativa omogeneità delle culture politiche porta Romano Prodi e il Prc a impostare agende largamente simili. Alcuni dei temi più cari al premier sono parte integrante dell'analisi del caso italiano fatta da Rifondazione. Si pensi alla rivalutazione dell'intervento pubblico in economia, ripetutamente sostenuta da alcuni consiglieri del premier, a cui fa da pendant un perdurante scetticismo sul ruolo degli imprenditori privati; ma anche alla denuncia cara a Prodi dell'aumento del differenziale delle retribuzioni e dei redditi. E la stessa percezione che oggi nelle casse pubbliche ci siano le risorse per riprendere politiche di spesa è comune. Del resto nella prima esperienza dell'Ulivo a Palazzo Chigi, seguita alla vittoria del '96, la convergente visione dei problemi tra il Professore e Fausto Bertinotti aveva fatto sì che il governo vagliasse una legge sulle 35 ore sulla falsariga della strampalata esperienza francese.
Le ragioni della forza dei rifondatori sono speculari ai motivi della debolezza dei leader riformisti, che dopo Caserta sono stati sottoposti a una gogna mediatica. Da diverse parti è stato proposto di fare dei Fassino e dei Rutelli altrettanti Ogm, di intervenire sui loro geni e successivamente di dar loro una nuova denominazione, volenterosi o miglioristi. Si tratta di operazioni che suonano ingenerose. Quello che manca ai due leader è la dimensione del viaggio, non si capisce quale sia il punto di arrivo della trasformazione che dovrebbe portare la sinistra italiana ad assomigliare sempre meno ai suoi modelli del secolo scorso e sempre di più al partito democratico americano. Lo stesso blairismo un giorno viene rivendicato come benchmark,
l'altro immediatamente negato. Gli obiettivi che ci si dà per contare dentro il governo cambiano dalla mattina al pomeriggio oppure se vengono fissati il lunedì al successivo giovedì già figurano declassati. E i rilievi che dal cuore dei Ds e della Margherita sono arrivati per opera di Nicola Rossi, Peppino Caldarola e Stefano Menichini segnalano abbondantemente un crescente disagio.
Ma di una ripresa di dinamismo da parte dei due grandi partiti del centrosinistra la politica italiana ha un evidente bisogno. Mettersi in viaggio in questo caso non vuol dire scrivere a tavolino il programma «massimo» dell'ulivismo mondiale, ma più pragmaticamente trovare la capacità di prendere in mano una bandiera (scegliere una riforma, non due e non tre) e farne elemento di una battaglia politica (non di due o di tre) dentro e fuori la coalizione di governo. Se sarà una bandiera riconosciuta dall'Europa, i leader riformisti scacceranno l'incubo della manipolazione genetica.
ddivico@rcs.it

lunedì 15 gennaio 2007

l’Unità 15.1.07
Se le polemiche sull’indulto
passano dal paesino di Erba
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
nei giorni successivi al massacro di Erba, La Stampa e il Corriere della Sera hanno immediatamente collegato questo fatto atroce all'indulto di luglio. Le indagini, successivamente, sono andate in un'altra direzione ma l'effetto di quel collegamento resta. Siamo davvero meno sicuri oggi, dopo l'indulto? Davvero l'indulto è stato un errore dal punto di vista della politica criminale?
Lettera firmata

Sappiamo oggi con certezza che il delitto di Erba è stato commesso da due persone che non avevano usufruito dell'indulto. Due persone considerate fino a ieri delle persone «perbene», senza rapporti precedenti con la giustizia. Come accade spesso nel caso dei delitti più atroci e più difficili da spiegare. L'episodio cui lei fa riferimento nella sua lettera, tuttavia, resta. Segnalando con chiarezza il pregiudizio, a volte davvero protervo, con cui gran parte della stampa italiana ha accolto la legge sull'indulto: raccogliendo tutto quello che si poteva raccogliere per far sembrare demagogica e pericolosa una decisione del Parlamento, discutibile e discussa nei dettagli (io personalmente mi sono astenuto, in aula, perché l'assemblea aveva ritenuto di non escludere dall'indulto i reati mafiosi collegati al voto), ma profondamente giusta nella sostanza per la sua capacità di dare risposta ad un problema, quello del sovraffollamento delle carceri italiane, di cui era non solo opportuno ma doveroso farsi carico. Con urgenza.
La tecnica usata da molta stampa per informare (ma, in casi come questo, per «disinformare») il lettore sugli effetti di un provvedimento legislativo è stata in realtà fin da subito semplice ed efficace. Diciassettemila persone erano uscite a seguito dell'indulto proprio in quel primo mese, giornali e televisioni hanno iniziato da subito a dare ampio risalto al dato per cui alcune di loro commettevano di nuovo dei reati. Senza porsi il problema del rapporto fra numero dei reati, però, e numero degli «indultati» e senza fare confronti fra la percentuale degli indultati recidivi e quella dei detenuti che recidivano, senza indulto, quando escono dal carcere. Evitando il confronto con i numeri e il ragionamento sul modo in cui le persone (i detenuti sono soprattutto persone) hanno reagito ad un provvedimento di clemenza, la gran parte dei giornali italiani di destra, di centro e di centro sinistra si è data da fare per «dimostrare» che la gente aveva ragione quando pensava che un'orda impazzita di gente uscita dal carcere avrebbe messo a soqquadro la città, a rischio la sicurezza dei cittadini. Accarezzando o suscitando le emozioni dei lettori cui piace sentir parlare di politici incoscienti e di cattivi da sbattere dentro carceri di cui bisognerebbe perdere poi per sempre le chiavi. Paradosso dei discorsi sulla giustizia dell'Italia di oggi, un paese in cui nessuno dovrebbe essere giudicato colpevole fino al momento della sentenza definitiva (che è tale, a volte, dopo un quarto o un quinto livello di giudizio: Previti è ancora oggi «onorevole») ma per cui, al tempo stesso, basta stare in per essere «pericoloso». Senza speranza alcuna di cambiamento.
La confusione che si è determinata a questo punto a livello d'immaginario collettivo, mi dico a volte, è stata tale da coinvolgere troppi giornalisti e troppi opinionisti in una visione confusa e parziale della realtà. Una visione cui la possibilità di legare all'indulto e ad un indultato un massacro come quello di Erba è sembrata un'occasione davvero straordinaria per sottolineare quanto avevano avuto ragione fin dall’inizio a criticare la legge: bacchettando insieme l'insipienza dei politici e la pericolosità dei detenuti. Riaffermando la superiorità di chi da fuori, senza responsabilità diretta, può permettersi di dare giudizi gratuiti (o a pagamento).
L'esito delle indagini sul delitto di Erba permette di uscire da questa ambiguità? Probabilmente no. Quelli che lo permettono in modo molto più chiaro sono però i numeri proposti dal ministro Mastella al Senato. Valutando i dati sui reati commessi nel terzo trimestre del 2006 (nei mesi cioè di luglio, agosto e settembre) in tutta Italia, il Ministero ha documentato infatti una diminuzione percentuale del 2.70% nei confronti di quelli commessi, nello stesso trimestre, un anno prima. Comparando ancora i dati relativi al trimestre agosto - ottobre nei circondari di Milano, Roma, Napoli e Palermo (che avevano già fornito i dati relativi ad ottobre) con quelli relativi allo stesso trimestre degli ultimi sette anni, ugualmente, i reati commessi nel 2006 e quelli, in particolare, legati ai reati gravi, come l'omicidio, sono leggermente al di sotto della media. Il fatto che dai 60.710 detenuti in carcere dal 31 Luglio 2006 si sia passati ai 39176 del 15 novembre 2006 ed il fatto che, nello stesso periodo 17423 soggetti già fuori dal carcere abbiano usufruito dell'indulto per le loro misure alternative (affidamento in prova o detenzione domiciliare) significa in effetti che si sono mossi liberamente 34878 in Italia, in quei mesi, persone che erano sottoposte a misure di sorveglianza e che questo non ha determinato però nessuna ondata di violenza, nessun rischio in più per il cittadino. Se si riflette, d'altra parte, sul fatto per cui, in mancanza o in carenza grave, anche in questo caso, di provvedimenti utili al reinserimento sociale e lavorativo degli ex-detenuti, la gran parte delle recidive di reato si verifica abitualmente proprio nei giorni e nei mesi subito successivi alla scarcerazione, quella cui ci troviamo di fronte, ragionando sui dati forniti dal ministero, è la percentuale clamorosamente bassa di recidive che riguarda proprio gli indultati.
Scriveva Bateson molti anni fa che se si dà un calcio ad un sasso si può calcolare con relativa facilità il movimento successivo del sasso ma che molto più difficile è prevedere il movimento di un uomo che riceve lo stesso calcio. Il modo in cui il soggetto vivente reagisce ad un certo evento è di fatto assai difficile da prevedere semplicemente perché noi non abbiamo mai sotto controllo tutte le variabili che lo determinano. Quello che viene da pensare riflettendo sul caso degli indultati del 2000 è che la gran parte di loro (una grande maggioranza di loro) ha reagito ad un atto di clemenza e di giudizio con dei comportamenti più ragionevoli di quelli che avrebbe messo in opera se questo atto non fosse stato compiuto. Il detenuto non è infatti quello che il pregiudizio di tanti continua a presentare come un sasso: come un diverso lombrosianamente condannato, cioè, a delle condotte devianti. È un essere umano dotato di un repertorio ampio di comportamenti. Tocca a chi se ne occupa aiutarlo a tirar fuori quelli più costruttivi. Come forse si è fatto in questo caso. Dimostrandogli, con l'indulto, che chi gli chiede di rispettare i diritti degli altri sa rispettare i suoi. Anche all'interno di un carcere che è umano nella misura in cui sa essere a misura di uomo.

Repubblica 15.1.07
Festival delle scienze
L'intelligenza a pezzi
L'intervento del neuropsicologo Howard Gardner


La rassegna inizia oggi all'Auditorium di Roma Fra i protagonisti lo studioso americano e la sua teoria della conoscenza
Ogni individuo differisce da un altro per il profilo nella capacità di apprendere
La scuola deve far evolvere le persone a partire da questi elementi
La facoltà di comprendere non è unitaria, bensì multipla. Esistono quella logico-matematica, quella linguistica e altre ancora

Una certa insoddisfazione per il concetto di QI (quoziente di intelligenza, n.d.t.) e per il concetto di intelligenza unitaria è abbastanza diffusa. Si pensi, per esempio, alle opere di L. L. Thurstone, J.P. Guilford, e di altri psicologi critici. Dal mio punto di vista, tuttavia, le critiche non sono sufficienti. A dover essere messo in discussione, anzi a dover essere sostituito, è il concetto stesso di intelligenza unitaria.
Io credo che dovremmo lasciar perdere del tutto i test e le correlazioni tra i test e prendere in considerazione invece parametri più naturali per informarci su come gli esseri umani di tutto il mondo sviluppano facoltà determinanti per le loro vite. Si pensi, per esempio, ai marinai dei Mari del Sud, che sanno trovare la rotta giusta fra centinaia o perfino migliaia di isolette osservando le costellazioni delle stelle in cielo, percependo in che modo la loro imbarcazione scivola sull´acqua e prendendo nota di pochi e isolati punti di riferimento. In un gruppo di marinai di questo tipo il termine giusto per definire l´intelligenza sarebbe probabilmente attinente a questo loro modo peculiare di essere abili nella navigazione. Si pensi ora ai chirurghi e agli ingegneri, ai cacciatori e ai pescatori, ai ballerini e ai coreografi, agli atleti e agli allenatori, ai capi tribù e agli stregoni: dobbiamo prendere in considerazione ciascuna di queste funzioni diverse, se accettiamo il mio modo di definire l´intelligenza come la capacità di risolvere i problemi o di creare qualcosa che abbia valore in uno o più ambiti culturali. Fino a questo punto non ho detto se esiste una dimensione sola o più di una di intelligenza, né ho detto se essa sia innata o si sviluppi nel tempo. Ho piuttosto messo in rilievo la sola abilità di risolvere i problemi e creare qualcosa. Nel mio lavoro indago pertanto quali siano gli elementi basilari ai quali ricorrono i suddetti marinai, chirurghi e stregoni.
In questa impresa la scienza, nella misura in cui esiste, consiste nel cercare di scoprire la descrizione più appropriata per queste intelligenze. Che cosa è l´intelligenza? Cercando di rispondere a questa domanda con i miei colleghi ho esaminato una vasta gamma di parametri che, per quanto ne so, fino ad allora non erano mai stati presi in considerazione tutti insieme. Uno è ciò che già sappiamo in relazione allo sviluppo delle diverse capacità nei bambini normali. Un altro, molto importante, è scoprire in che modo queste facoltà si perdono in talune circostanze di danno cerebrale. Quando un individuo subisce un ictus o un altro tipo di danno cerebrale, talune facoltà, in modo del tutto indipendente dalle altre, possono andare perse, come possono pure essere mantenute.
Questa ricerca su pazienti colpiti da danni cerebrali ha dato tutta una gamma di riscontri molto validi, in particolare perché è parsa riflettere il modo col quale il sistema nervoso si è evoluto nel corso dei millenni per creare tipi di intelligenza diversificati.
Il mio gruppo di ricerca ha esaminato anche altri soggetti particolari - i bambini prodigio, gli idiot savant, i bambini autistici, i bambini con difetti cognitivi -, tutti soggetti che presentano profili cognitivi alquanto irregolari, difficili da spiegare in termini di concetto unitario di intelligenza. Abbiamo esaminato l´apprendimento in diverse specie animali e in culture radicalmente differenti. Alla fine, abbiamo studiato attentamente due tipi di prove psicologiche: le correlazioni tra i test psicologici del genere fornito da un´analisi fattoriale di una serie di test e i risultati dei tentativi di insegnare determinate abilità. Per esempio, allorché si insegna a qualcuno la capacità A, quanto si apprende si trasferisce automaticamente alla capacità B? L´insegnamento della matematica, per esempio, esalta le facoltà musicali dell´individuo o accade viceversa?
Chiaramente, esaminando tutti questi parametri - informazioni sullo sviluppo, sulla perdita delle facoltà, su alcuni soggetti particolari e così via - abbiamo finito col mettere insieme una grande dovizia di informazioni. Teoricamente, avremmo dovuto eseguire un´analisi dei fattori, introdurre tutti i dati in un computer e quindi prendere nota dei tipi di fattori o di intelligenze che ne sarebbero stati estrapolati. Ahimè! Questo genere di materiale non esisteva in una formula passibile di essere elaborata a livello informatico, e di conseguenza abbiamo dovuto eseguire un´analisi più soggettiva dei vari fattori.
In verità, abbiamo studiato i risultati quanto meglio abbiamo potuto, cercando di organizzarli in modo tale che avessero senso per noi e, possibilmente, per i lettori più critici. L´elenco di intelligenze che ne ho ricavato è un tentativo preliminare di organizzare questa grande massa di informazioni.
Vorrei ora ricordare brevemente le intelligenze che abbiamo identificato e riportare uno o due esempi di ciascuna. L´intelligenza linguistica è quel tipo di facoltà che i poeti, forse, esprimono nella sua forma più completa. L´intelligenza logico-matematica, come sottintende il suo stesso nome, è la facoltà logica e matematica, come pure l´attitudine scientifica. Jean Piaget, il grande psicologo dello sviluppo, pensava di studiare tutta l´intelligenza, mentre io ritengo che egli studiasse soltanto lo sviluppo dell´intelligenza logico-matematica.
Anche se in primis parlo delle intelligenze linguistiche e logico-matematiche, ciò non vuole dire che io le reputi le più importanti. In effetti penso che tutte e sette le intelligenze abbiano uguale posizione prioritaria.
Nella nostra società, tuttavia, abbiamo per così dire collocato l´intelligenza linguistica e l´intelligenza logico-matematica su un piedistallo, figurativamente parlando. Buona parte dei nostri test si basa su questa alta considerazione delle facoltà verbali e matematiche dell´individuo. Se si eccelle nell´espressione linguistica e in logica si avranno eccellenti risultati nei test di QI e nel SAT (Test di Valutazione Scolastica, n.d.t.), e si potrà di conseguenza avere accesso a un´università prestigiosa. Se andrà altrettanto bene una volta decollati, dipenderà probabilmente in egual modo dalla misura in cui si è in possesso e si fa uso delle altre intelligenze, ed è a queste che voglio pertanto rivolgere la medesima attenzione.
L´intelligenza spaziale è la facoltà di elaborare un modello mentale di mondo spaziale ed essere in grado di posizionarsi e operare in rapporto a quel modello. I marinai, gli ingegneri, i chirurghi, gli scultori e i pittori - per citare soltanto qualche esempio - sono forniti tutti di un´intelligenza spaziale spiccata e sviluppata.
L´intelligenza musicale è la quarta categoria che ho identificato: Leonard Bernstein ne ha in grande quantità, Mozart, presumibilmente, ne aveva molta di più. L´intelligenza cinestetica corporea è la facoltà di risolvere problemi o creare utilizzando interamente il proprio corpo o alcune sue parti. I ballerini, gli atleti, i chirurghi e gli artigiani presentano tutti un´intelligenza cinestetica corporea molto sviluppata.
Infine, propongo altre due tipologie di intelligenza personale non del tutto chiare, che eludono facilmente l´osservazione, ma sono ciò nondimeno estremamente importanti. L´intelligenza interpersonale è la capacità di comprendere il prossimo e gli altri, di comprendere che cosa li motiva, come lavorano, come collaborare opportunamente con loro. È verosimile che i negozianti di successo, i politici, gli insegnanti, i clinici e i capi religiosi siano tutti individui con un alto livello di intelligenza interpersonale. L´intelligenza intrapersonale, invece, la settima tipologia di intelligenza, è la medesima facoltà correlativa, rivolta però a se stessi: è pertanto la capacità di formarsi un modello preciso e veridico di sé ed essere in grado di usare questo modello per agire efficacemente nella vita.
Queste, dunque, sono le intelligenze che abbiamo descritto nelle nostre ricerche. (In seguito ho aggiunto all´elenco un´ottava intelligenza, quella "naturalistica", e ho preso altresì in considerazione l´idea di una nona, l´intelligenza "esistenziale"). Come ho già detto, si tratta di un elenco preliminare. Chiaramente, ciascuna tipologia di intelligenza può essere a sua volta suddivisa, ed è altresì possibile ridefinire l´elenco.
Inoltre, noi crediamo che gli individui possano differire nei particolari profili di intelligenza che sono loro innati e di sicuro differiscono nei profili che finiscono col ritrovarsi. Penso alle intelligenze come a una serie di potenziali biologici primigeni, che possono essere contemplati nella loro forma più pura soltanto negli individui che sono, in senso tecnico, "tipi strani". In quasi qualunque altro individuo, le intelligenze multiple collaborano tutte insieme alla risoluzione dei problemi e per produrre vari tipi di esiti culturali (professioni, passatempi, e simili).
Questa, in estrema sintesi, è la mia teoria delle intelligenze multiple. Dal mio punto di vista, obiettivo della scuola dovrebbe essere quello di far evolvere le intelligenze e aiutare le persone a conseguire gli obiettivi professionali e velleitari più consoni al loro particolare ventaglio di intelligenze. Coloro che ricevono aiuto in tale iter credo si sentano più impegnati, più competenti e di conseguenza più propensi a servire la società in modo costruttivo.
Tratto da "The Development and Education of the Mind". Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 15.1.07
Nelle sale "La guerra dei fiori rossi" di Zhang Yuan e Wang Shou, invisi alle autorità di Pechino
Il piccolo ribelle all'asilo dei divieti l'altra faccia della Cina di Mao
di Renata Pisu


Un´infanzia cinese, tanti bambini di un asilo nel cuore di Pechino, una città che si indovina al di là dei muri rosso porpora, come quelli della Città Proibita. Una Cina piccina, una Cina vicina, giochi e canzoncine, tutti in fila per uno, mani dietro la schiena. Seduti! In piedi! Piccolissimi cinesi dai tre ai cinque anni che imparano a vestirsi da soli e porgono il culetto nudo alla maestra la quale con un asciugamano umido lo strofina bene, cerimonia serale prima della buonanotte. Piccole cose di piccoli cinesi nella Cina degli anni Cinquanta, quando già regnava Mao, il grande paese aveva mosso i primi passi della sua lunga marcia verso la modernità e nessuno sapeva come sarebbe andata a finire la storia, che cosa avrebbero mai fatto da grandi tutti quei bambini e quelle bambine. Sarebbero diventati robot o ribelli?
Zhang Yuan, regista di fama internazionale, vincitore di un Leone d´argento per il film "Diciassette anni", con questa nuova opera "La guerra dei fiori rossi" che sugli schermi italiani da questo fine settimana, racconta, puntando l´obiettivo su 135 attori-bambini, un presente minimo che è già passato e suscita nostalgia, tant´è vero che in Cina il film ha subito conosciuto grande successo di pubblico, tutti a godersi il ricordo di quando eravamo "poveri ma belli" e i bambini portavano i pantaloncini spaccati sul di dietro, proprio come nel film, così per un bisogno bastava accucciarsi per terra e non si sprecavano tonnellate di cellulosa per i pannolini. Film minimo tutto centrato sui bambini - pochi gli adulti, né antipatici né simpatici, indifferenti anche se influenti - "La guerra dei fiori rossi" è tratto da un racconto autobiografico dello scrittore Wang Shou, personaggio che in Cina gode di una fama unica, è il ribelle più noto e più sboccato che ci sia, fiumi di parolacce e commenti irriverenti sgorgano dalla sua bocca quando parla, dal suo pennello quando scrive. Oggi come oggi, grazie ai suoi sceneggiati televisivi vanta una audience che va dai duecento ai trecento milioni di spettatori a serata, tuttavia Wang Shou, che avrebbe desiderato fare cinema, non può farlo. L´unico film da lui diretto "Baba" ha suscitato tali e tante ire ufficiali che il grande schermo gli è stato precluso, il piccolo no, altrimenti vi sarebbe un sollevamento dei telespettatori.
Comunque Wang Shou, che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura di "La guerra dei fiori rossi", adesso si è preso una rivincita: sì, perché il protagonista della vicenda è proprio lui da piccolo, il bambino che lo impersona gli assomiglia come se fosse suo figlio, l´infanzia raccontata nel film è la sua, è lui l´unica pecora nera dell´asilo che si fa la pipì addosso davanti a tutta la classe, che mai riesce a meritarsi il premio di un fiore rosso perché non riesce proprio a fare la cacca a comando, collettivamente, tutti i maschietti accucciati in fila in una latrina e le femminucce in quella di faccia. E che fomenta addirittura la rivolta di tutti i compagni contro una delle maestre che, secondo lui, è un mostro divoratore di bambini. Per punizione viene rinchiuso in uno stanzino buio e quando gli viene finalmente permesso di unirsi ai compagni si sente ancora più isolato di prima. Soccomberà al conformismo imposto dagli adulti, o insisterà a voler crescere a modo suo, alla faccia di tutti?
Sapendo che il piccolo ribelle è in realtà Wang Shou, la domanda potrebbe sembrare retorica, ma non tutti lo sanno e l´immagine finale del film - il bambino che medita seduto su di un masso - sembra suggerire che la questione è aperta. Ma questo è il finale che la censura ha imposto, come ha imposto tanti altri tagli. Il finale pensato da Zhang Yuan (e concordato con Wang Shou) era un finale forte: un corteo di lavoratori modello sfilava davanti al piccolo suonando tamburi e inneggiando al partito. Lui gli faceva pipì addosso. Zhang Yuan spiega di aver acconsentito a questo e altri tagli perché non ne poteva più di fare film clandestini, film cioè che in Cina non vengono proiettati perché la sceneggiatura non è stata sottoposta alla censura preventiva e che magari vengono poi riprodotti in copie pirata sulle quali la casa di produzione non guadagna niente. Nessuno dei suoi film più famosi e trionfatori a vari festival mondiali come "Bastardi pechinesi", "Palazzo Orientale, Palazzo Occidentale" e "Diciassette anni", era mai stato sottoposto alla censura dei tutori della pubblica morale socialista, quindi non erano film "cinesi". Con "La guerra dei fiori rossi" Zhang Yuan ha cambiato tattica e così questo suo film è il primo davvero "cinese" ("Diciassette anni" fu presentato a Venezia sotto bandiera italiana) e fa parte addirittura della lista dei film raccomandati dal Ministero della Cultura. Ed è anche la prima vera coproduzione cinematografica italo-cinese ufficialmente riconosciuta, prodotto per l´Italia da Marco Muller con la società cinese Good Tidings e in associazione con Rai cinema e l´Istituto Luce. Una coproduzione italo-cinese che presto sarà vista anche in Francia e in Gran Bretagna, un piccolo "kolossal" che resta un capolavoro nonostante i tagli di una censura che forse sta diventando un tantino più intelligente.