domenica 21 gennaio 2007

Corriere della Sera 21.1.07
Il presidente della Camera
Bertinotti: assolutamente contro l'allargamento della base Usa
di Marco Cianca


«Ma non c'è legame diretto tra il caso Vicenza e l'Afghanistan» «Il governo non deve cadere, c'è bisogno di eskimo e grisaglia»

ROMA — Fausto Bertinotti è preoccupato. Della tenuta del governo, certo. Ma ancor più della crisi della politica, chiusa in una torre eburnea, lontana dai bisogni della gente. E allora il presidente della Camera lega concettualmente le due ambasce: «Penso che la durata del governo sia fondamentale perché c'è il problema di costruire il ponte tra la politica e la società». Pace e lavoro, le sue parole d'ordine. Ma la decisione di ampliare la base statunitense di Vicenza mette di nuovo a repentaglio la vita dell'esecutivo, che oscilla tra attendismo e improvviso decisionismo, e proietta foschi bagliori sul voto per il rifinanziamento della missione in Afghanistan. L'invito di Bertinotti è «ascoltare il popolo di Vicenza» anche se pensa che sia «difficilissimo trovare una soluzione». E sui soldati a Kabul spera che alla fine si individui un accettabile compromesso.
«Ma come presidente della Camera — premette — ho l'obbligo di non entrare nel merito delle questioni. Sarebbe incompatibile con la funzione di imparzialità, di garanzia e di rispetto del pluralismo che debbo assolvere. Credo invece sia un dovere prendere parte alla discussione sul terreno della cultura politica».
E allora che può dire su Vicenza?
«Vedo due questioni. La prima è la pace. L'Italia sta facendo dei passi importanti per restituire all'Europa protagonismo e autonomia. Vanno in questa direzione l'intervento in Libano e l'uscita dal drammatico e inquietante teatro iracheno. Scelte così importanti non sembrano avere avuto il necessario rilievo. È come se il grande movimento per la pace, raggiunto un obiettivo, sia stato reso silente».
Avrebbe voluto cortei per festeggiare il ritiro dall'Iraq?
«Avrei voluto una più grande densità della politica nel farsi carico del significato alto di quelle scelte. È come se quanto avvenuto fosse sfuggito dalle mani, in un deficit di passione e di coinvolgimento anche emotivo nel dispiegarsi della costruzione della pace. Se il processo fosse andato avanti, l'ascolto del popolo di Vicenza sarebbe stato diverso. Il secondo problema è il rapporto con le comunità. Tema molto impegnativo e controverso, che non può essere interpretato con formule irridenti che leggono questi fenomeni come manifestazioni egoistiche e contrastanti con l'interesse generale».
Non è così? E' la storia del nimby, not in my backyard, mai nel mio cortile. E questo vale per le discariche, per le centrali, per l'alta velocità e per le basi militari.
«Anche a sinistra c'è stata una diffidenza nei confronti delle comunità viste come resistenza all'organizzazione democratica della società o addirittura regressione. Luogo della tradizione e delle relazioni interpersonali, una nicchia, un'enclave. Invece dobbiamo leggere il fenomeno comunitario con lenti nuove. E cioè come il luogo dove si costruiscono delle soggettività che possono essere tanto dei presidi di chiusura verso l'esterno, fino alle piccole patrie, quanto l'evidenziazione di nuovi bisogni e di nuove aspettative. Questo non vuol dire che ogni rivendicazione sia giusta ma è importante da quale lato la si osserva. E la politica non può continuare a guardarla con la supponenza neo-illuminista di possedere la ragione dell'interesse generale. Il punto da cui partire è: c'è o no un grande disagio sociale? Se una popolazione riesce ad esprimere, come a Vicenza, una posizione che travalica gli schieramenti tradizionali e accomuna casalinghe e intellettuali, allora va presa in considerazione. O bisogna pensare ad un impazzimento generale?»
Il presidente del senato Franco Marini, così come Francesco Rutelli, dice che gli impegni vanno rispettati.
«Il presidente Marini, che stimo e del quale sono molto amico, ha espresso la sua posizione a favore dell'allargamento della base. Con la stessa sincerità io posso dichiarare la mia assoluta contrarietà. Questa dialettica che vede impegnate personalità che hanno incarichi istituzionali, quando avviene nell'assoluto rispetto dell'imparzialità del ruolo nei confronti del procedimento legislativo, costituisce un arricchimento del dibattito perché ne aumenta la trasparenza».
Eppure Prodi ha derubricato Vicenza a questione urbanistica.
«E allora ci sono gli strumenti della politica urbanistica e dalla consultazione dei cittadini».
Favorevole al referendum?
«Favorevole a tutte le forme di partecipazione».
Prodi, oltre a derubricare, ha detto che è una decisione presa e che non si torna indietro.
«In generale la sordità della politica è una risposta cattiva perché così si alza un muro tra la stessa politica e la comunità».
Ma il muro si sta alzando anche all'interno della maggioranza. Rifondazione, i verdi, i comunisti italiani mettono in discussione il voto sull'Afghanistan.
«Non c'è un legame diretto tra Vicenza e l'Afghanistan, c'è un legame di clima politico. Continuo a pensare che questo governo abbia di fronte a sé come dovere quello di durare. Che non è un obiettivo minimalistico o semplicemente il riconoscimento di un bisogno come la stabilità. No, è il problema di garantire un quadro in cui può essere tentata la ricostruzione di un rapporto tra il popolo e la politica. L'impegno è far durare questo governo come condizione necessaria seppure non sufficiente».
Massimo D'Alema dice che ci vuole coerenza mentre Paolo Ferrero annuncia che se non si cambia lui voterà no. Sull'Afghanistan qual è il compromesso possibile?
«Il compromesso va cercato nel governo e nella maggioranza. Per parte mia posso dire soltanto che un buon compromesso è quello che sottolinea il ruolo di pace dell'Italia nello scacchiere internazionale».
E se al Senato si formassero maggioranze diverse?
«Continuo a pensare che la maggioranza di centrosinistra debba essere autosufficiente per tenere fede al patto contratto con gli elettori».
Il governo Prodi non cadrà sulla politica estera?
«Penso che non debba cadere».
Ma su Vicenza lei chiede un passo indietro?
«Nel mio ruolo non posso chiedere niente del genere. Posso però dire che l'ascolto è indispensabile. E non è un atteggiamento paternalistico. Qualche settimana fa la politica italiana fu beneficamente attraversata dal trauma di Mirafiori. Una compagine lavorativa, fino ad allora oscurata e resa invisibile, ha utilizzato l'occasione straordinaria dell'incontro con i segretari generali delle tre confederazioni sindacali per spezzare l'opacità e porre il problema del lavoro».
Lei giudica positivi i fischi di Mirafiori?
«Non ci sono stati solo quelli ma si è svolta una grande discussione. E in ogni caso assumo anche i fischi come una manifestazione che mi spinge a capire che c'è un disagio profondo. Come si fa a derubricare tali questioni?».
L'Unità scrive che non può indossare l'eskimo e la grisaglia.
«E invece sì. E' una concezione sbagliata, l'idea della fissità dei ruoli. Questo è il tempo della mescolanza e della contaminazioni, non delle separazioni, dell'albagia. C'è bisogno dell'eskimo e della grisaglia».
Partito di lotta e di governo?
«Sì, se si vuole cambiare la società. Anche il governo deve assumere la lotta come un fattore di riforma. Altrimenti torniamo a intendere il conflitto come patologia. Se vivessimo nel migliore dei mondi possibili, potrebbe essere cosi. Ma la crisi esiste ed è profonda. Siamo colpiti da una tragedia come quella di Erba e vediamo che la striscia di questi fenomeni riguarda la provincia del Nord che sembrava il territorio più rassicurante e che invece ora appare senza anticorpi. Solitudine, incertezza, precarietà. Si sono desertificati i luoghi della socializzazione. Qui la politica non arriva o è espulsa. Si è chiusa in un recinto autoreferenziale. E può essere spazzata via dall'antipolitica. Siamo ad un punto cruciale».
Ma i giovani di Rifondazione che a Torino contestano il ministro Padoa Schioppa non alimentano questo distacco?
«Intanto erano pochissimi. Lo stesso rettore dà un significato totalmente circoscritto e Padoa Schioppa minimizza. Non bisogna prendere lucciole per lanterne. Il punto veramente rilevante è stato quello di Mirafiori. Non possiamo scordarcene. La rivalutazione del lavoro deve entrare ossessivamente nella costruzione della coscienza nazionale. Camera e Senato dovrebbero avviare una grande inchiesta per rimettere al centro lo stato reale della società italiana».
Non teme una ripresa della violenza?
«La violenza è nelle pieghe della società. E' endemica, insita nella crisi di coesione. Il rischio non è domani ma oggi. Non viene dal conflitto ma dall'incapacità di leggere la sua verità interna e trasformarla in energia e proposta. Da dove viene questa supponenza? In una società in cui non c'è piena occupazione e dove i diritti sono spesso negati, come diavolo viene in mente alla politica, invece di curvarsi umilmente ad indagare, di chiudersi in questa torre d'avorio come se avesse alle spalle decenni di successi invece che di fallimenti?».
Ma allora ci sono stati errori anche da parte di Prodi? Perché fare da Bucarest un annuncio come quello sulla base di Vicenza?
«Non mi è permessa la polemica diretta con il presidente del consiglio».
Il governo quindi va avanti.
«Certo, anche se non vanno sottovalutati i rischi reali che può correre».
Quali rischi?
«Tutti e nessuno. Nessuno perché deve essere prevalente l'esigenza di andare avanti ma tutti perché ogni passaggio è difficile».
Ma intanto il suo predecessore Pierferdinando Casini propone il dialogo sulle liberalizzazioni e si pensa ad una Bicamerale. Sente odore di inciuci?
«No, francamente non colgo questo rischio. C'è invece un lavorio con protagonisti diversi che vorrebbero, sotto la denominazione di politica dell'innovazione, una nuova politica neocentrista di cui, tuttavia, non vedo nè le condizioni reali nè la maturità soggettiva. Insomma, mi pare di più un "vorrei ma non posso"».

l'Unità 21.1.07
«La stazione Termini detitolata»


Usa l’ironia L’Osservatore Romano dopo le precisazioni del sindaco circa l'intitolazione della Stazione Termini a papa Giovanni Paolo II. Il quotidiano ripercorre con disappunto la vicenda, partendo dalle parole del primo cittadino pronunciate all'indomani della morte di Karol Wojtyla, con le quali Veltroni propose «un piccolo gesto: intitolare la stazione Termini a Giovanni Paolo II. Ci sembra bello e significativo che un luogo del viaggio, dell'incontro e dello scambio prenda il nome di chi ha incontrato nella sua vita più persone e popoli di chiunque altro, di chi ha sempre creduto nel valore del dialogo». Poi, però, ricorda sempre l'organo della Santa Sede, «seguirono le polemiche e il sindaco rettificò: non ho mai detto di sostituire il nome della stazione Termini con il nome di Giovanni Paolo II, ho detto solo di aggiungerlo». E infatti le due stele all'interno della stazione, «recano la scritta chiarissima Stazione Termini - Giovanni Paolo II». Infine: «La cerimonia non è stata un'intitolazione, per il semplice motivo che la stazione continuerà a chiamarsi Termini». Chiosa L'Osservatore Romano: «Avevamo capito tutti male. E così, fra ‘dedica’ e ‘intitolazione’, abbiamo assistito alla ‘detitolazione’...».

Repubblica 21.1.07
L'Osservatore critica Veltroni: su Termini "tradito" Wojtyla

ROMA - Non è piaciuta all´Osservatore Romano la decisione di Walter Veltroni di dedicare e non intitolare la Stazione Termini a Giovanni Paolo II. Secondo il giornale, è stata accolta la protesta di chi considerava il nuovo nome un´offesa ai non cattolici. Da qui «un inedito capolavoro di ibrido politico: la detitolazione». «Nessuna polemica - risponde per il Campidoglio Maria Pia Garavaglia - è troppo forte il rapporto che unisce Roma a Papa Wojtyla. Per questo gli dedichiamo la stazione».

Repubblica Roma 21.1.07
Il giornale della Santa Sede accusa il Campidoglio. La Rosa nel Pugno: allora intitoliamo al sindaco Nathan la stazione San Pietro
Termini dedicata a Wojtyla. L'Osservatore: è stata detitolata
Garavaglia: ma su di lui niente polemiche
Osservatore: Un articolo polemico con Veltroni: "Un capolavoro di ibrido politico"
di Giovanna Vitale

L´Osservatore Romano accusa il sindaco Veltroni di aver «detitolato» la stazione Termini, questo il termine utilizzato per stigmatizzare il comportamento del primo cittadino che, secondo il quotidiano della Santa Sede, avrebbe fatto marcia indietro rispetto alla intitolazione dello scalo ferroviario a Karol Wojtyla.
Una vicenda piuttosto controversa, che il foglio vaticano ripercorre pubblicando per intero le parole pronunciate da Veltroni all´indomani della morte del papa polacco. Quando propose, testualmente, «un piccolo gesto: intitolare la stazione Termini a Giovanni Paolo II. Ci sembra bello e significativo che un luogo del viaggio, dell´incontro e dello scambio prenda il nome di chi ha incontrato nella sua vita più persone e popoli di chiunque altro, di chi ha portato ovunque nel mondo la parola della Chiesa e della speranza, di chi ha sempre creduto nel valore del dialogo». Un discorso dopo il quale, ricorda ancora l´Osservatore, «seguirono le polemiche e il sindaco rettificò: "Non ho mai detto di sostituire il nome della stazione Termini con il nome di Giovanni Paolo II, ho detto solo di aggiungerlo"». E infatti le due stele poste all´interno della stazione nel dicembre scorso «recano la scritta chiarissima Stazione Termini - Giovanni Paolo II», prosegue il giornale.
Una ricostruzione puntigliosa, conclusa da una chiosa al vetriolo: «Avevamo capito male, la principale stazione ferroviaria di Roma continuerà a chiamarsi Termini e non stazione Giovanni Paolo II». Per poi sottolineare, non senza malizia, che «il sindaco si è sentito in dovere di rispondere» ad un cittadino che «guarda caso» si era «sentito offeso dalla nuova intitolazione della stazione» poiché lo percepiva come «un atto d´imperio tale da offendere i passeggeri laici e quelli di diverse confessioni religiose». Una mossa affrettata e ingiustificata: «Fra dedica e intitolazione abbiamo assistito - ironizza l´Osservatore - ad un inedito capolavoro di ibrido politico: la detitolazione».
Immediate le reazioni politiche. Con i radicali a rivendicare «la stazione Termini continuerà a chiamarsi così, è una nostra vittoria!», dicono Sergio Revasio e Luigi Castaldi, che lanciano anche una provocazione: «Ora inizierà la battaglia per cambiare il nome alla Stazione San Pietro ed intitolarla a Ernesto Nathan». Mentre «speravamo di sbagliare e invece ancora una volta il Comune di Roma dimostra di essere protagonista e vittima di una pericolosa deriva anticattolica», incalza all´opposto il forzista Francesco Giro, invitando il sindaco a «fare pubblicamente chiarezza su questa brutta vicenda».
A prendere le difese del Campidoglio ci pensa la cattolicissima vicesindaco Maria Pia Garavaglia: «Su una figura così grande come quella di Giovanni Paolo II non intendiamo fare alcuna polemica», taglia corto. Rifiutando ogni distinguo linguistico: «Abbiamo voluto dedicare la stazione Termini, un luogo di incontro e di dialogo ad un Papa che con Roma ha avuto un rapporto profondo e speciale», ribadisce. Ricordando le sue visite «a quasi tutte le parrocchie romane», la «cittadinanza onoraria», i festeggiamenti che «il Comune ha organizzato per i 25 anni di pontificato». Senza dimenticare «l´abbraccio commosso e orgoglioso di Roma nei giorni del funerale». Non ha dubbi la Garavaglia: «Sono i fatti ad escludere ogni possibile polemica».

Corriere della Sera 21.1.07
L'Osservatore Romano: doveva essere intitolata a Wojtyla. Il Campidoglio: solo una dedica
La stazione Termini, il Papa e le critiche a Veltroni
di Alessandro Capponi

ROMA — Dopo le critiche a sinistra, la stele per Giovanni Paolo II alla stazione Termini suscita le proteste dell'Osservatore Romano. A fine dicembre il sindaco Veltroni con Ruini aveva inaugurato due steli con sopra il nome del Papa polacco. Ora, il rammarico: «Avevamo capito male, la stazione continuerà a chiamarsi Termini e non Giovanni Paolo II».
«Doveva essere intitolata a Giovanni Paolo II». Il Campidoglio: mai detto, gli è stata solo dedicata.
E pensare che doveva essere un omaggio. La stele per Giovanni Paolo II alla stazione Termini, invece, con la sua forma un poco arcuata, oggi, a guardarla dal Campidoglio sembra altro, un boomerang.
Il gesto che per Veltroni è sempre stato «il coronamento del rapporto d'amore tra la città e il Papa», in ordine di tempo ha fatto infuriare: il quotidiano
Liberazione, associazioni laiche, Rosa nel Pugno e comunisti, per mezza giornata la sinistra Ds, e poi, a distanza di poche ore, i centristi e tutta la destra. Adesso, su Veltroni, arriva anche l'ironia dell'Osservatore Romano: «Abbiamo assistito — scriveva ieri il quotidiano della Santa Sede — a un inedito capolavoro di ibrido politico, la detitolazione». Perché? Di certo, c'è che quel giorno di fine dicembre il sindaco, accompagnato da Camillo Ruini, era andato alla stazione Termini a inaugurare due steli con sopra il nome del Papa polacco. Fotografi, sorrisi, strette di mano: il sole era alto e sui due, così come sulla sintonia tra Vaticano e Campidoglio, neanche un'ombra.
E allora perché il quotidiano della Santa sede, un mese più tardi, prende una posizione critica? Esattamente, scrive: «Avevamo capito male, la stazione continuerà a chiamarsi Termini e non stazione Giovanni Paolo II». E ancora: «Il sindaco si è sentito in dovere di rispondere» a un cittadino che «guarda caso» si era «sentito offeso dalla nuova intitolazione della stazione» poiché lo percepiva come «un atto d'imperio tale da offendere i passeggeri laici e quelli di diverse confessioni religiose». E così, prosegue l'Osservatore Romano, «fra dedica e intitolazione abbiamo assistito a un inedito capolavoro di ibrido politico: la detitolazione».
Ma cos'è accaduto in un mese per passare dal sorriso di Ruini all'inchiostro sarcastico? Venti giorni dopo la cerimonia alla stazione Termini, sono arrivate le critiche da sinistra. Un editoriale di Liberazione
diceva: «Un post comunista, sindaco-re della Capitale, decide con atto d'imperio di intitolare la stazione a un Papa». Termini aveva dunque cambiato nome? Nell'attesa di capirlo, la sinistra Ds annuncia un sit in, Rosa nel Pugno e associazioni laiche insorgono. Abbastanza inutilmente, almeno a leggere la risposta che lo stesso Veltroni fa arrivare a un cittadino indignato: «La cerimonia non è stata un'intitolazione per il semplice motivo che quella continuerà a chiamarsi Termini». L'aveva già detto, in verità, aprile 2005: «Non ho mai detto di voler sostituire il nome della stazione Termini con quello di Giovanni Paolo II, ma solo di aggiungerlo». E così quando la sinistra protesta, il sindaco spiega che «la nostra è stata una dedica, in un luogo adatto a ricordare il Papa del viaggio e dell'incontro, della pace e del dialogo. Alla stazione Termini, chiunque andrà si troverà in un luogo che porterà con sé la memoria di un uomo che è diventato simbolo dell'incontro tra le religioni, i popoli, gli individui».
Adesso, dopo le critiche dell'Osservatore Romano, il vicesindaco Maria Pia Garavaglia dice che «su una figura così grande il Campidoglio non intende fare alcuna polemica. Negli anni del suo pontificato, Wojtyla ha visitato quasi tutte le parrocchie, ha accettato la cittadinanza onoraria che come amministrazione gli abbiamo offerto, ha apprezzato pubblicamente i festeggiamenti che il Comune ha organizzato per i venticinque anni di pontificato. E proprio in virtù di questo legame abbiamo voluto dedicargli, unica grande città al mondo, un luogo significativo come la stazione Termini». Intanto però la Rosa nel Pugno chiede «di togliere le scritte, ormai inutili, dalla stele» e di intitolare la stazione San Pietro a Ernesto Nathan, cioè un sindaco (1907-1913) mazziniano, massone, ebreo e laico. Eppure, a guardarla dal Campidoglio, quella stele voleva solo essere un omaggio. Così sobria, elegante, visibile. E con quella forma lì: arcuata, forse troppo.

Repubblica 21.1.07
Se Prodi cadrà la sinistra scomparirà
di Eugenio Scalfari


L´ampliamento della base militare Usa a Vicenza sembrava una piccola cosa, una bega di cortile. Invece, con una reazione a catena, sta provocando un parapiglia. Rifondazione, Verdi, Comunisti e pacifisti sciolti e a pacchetti pretendono, quasi come ritorsione, che l´Italia si ritiri dall´Afghanistan dove il nostro contingente sta da cinque anni sotto le bandiere della Nato in quanto Paese membro della Nato e sta sotto le bandiere dell´Onu in quanto Paese membro dell´Onu.
Il rischio d´una crisi di governo si profila. Il rifinanziamento della missione si farà con decreto, ma poi, entro marzo, il decreto dev´essere convertito in legge. Il rischio che almeno al Senato la conversione sia respinta esiste ed è decisamente elevato. Sono sei o sette i dissidenti dell´estrema sinistra decisi a votare contro anche a dispetto dei rispettivi partiti e non pare, allo stato dei fatti, che valga a recuperarli qualche solenne promessa di ridiscutere con gli alleati gli obiettivi e la natura della missione e neppure la blindatura del voto di fiducia.
La verità è che la loro dissidenza non è controllabile dai partiti di appartenenza. Di provocare la caduta del governo se ne infischiano. Si direbbe anzi che la auspichino. L´errore fu d´averli portati in Parlamento pur conoscendone il carattere e l´ideologia del tanto peggio tanto meglio che alligna in quelle teste pseudo-rivoluzionarie.
Ci sono tre possibili alternative a questi ipotetici accadimenti. La prima è di riuscire a convincerli. Improbabile. La seconda è appunto di blindare il voto con la richiesta di fiducia: esito molto incerto. La terza è una votazione non blindata con il soccorso bianco ma determinante da parte dell´Udc e forse perfino di Forza Italia. Che però potrebbe determinare, a quel punto, non la semplice dissidenza d´una manciata di cani sciolti, ma di interi partiti della sinistra massimalista e uno spettacolare cambio di maggioranza.
Se questa terza ipotesi diventasse realtà, il Capo dello Stato dovrebbe rinviare il governo alle Camere prima di accettarne le dimissioni. Si potrebbe allora verificare che la maggioranza di centrosinistra, cui Prodi dovrebbe rivolgersi per ottenere la riconferma della fiducia, gliela votasse riconfermandolo in carica e archiviando per altri sei mesi la questione afgana (e di conseguenza anche quella vicentina).
L´ipotesi non è del tutto irreale, ma è evidente che si balla sul filo del rasoio e si producono ulteriori fenomeni di distacco e disincanto nella pubblica opinione. Eppure.
Eppure negli ultimi dieci giorni le cose avevano preso una diversa piega. Sembrava, ad ascoltare la tivù e a leggere i resoconti dei giornali e i commenti di gran parte degli osservatori, che la riunione di Caserta avesse messo in evidenza l´impotenza decisionale di Prodi, la débãcle dei riformisti, la netta supremazia della sinistra radicale. Anche l´agenda delle priorità che il governo si proponeva di affrontare entro il 2007 (dopo aver ottenuto entro i termini prestabiliti l´approvazione della Finanziaria che avrebbe invece dovuto essere la sua tomba secondo le previsioni dell´opposizione) era stata immediatamente definita aria fritta.
Ma i fatti sono invece andati in modo alquanto diverso. Li enumero.
Mercoledì scorso governo e sindacati hanno approvato all´unanimità un documento di riforma del pubblico impiego, basato sui principi dell´efficienza, della meritocrazia, della mobilità, dei percorsi per stabilizzare i lavori precari e di sanzionare gli impiegati improduttivi, di incentivare lo smaltimento rapido degli esuberi. Questo documento servirà di base alla stesura del contratto e, per le parti che debbano essere trasformate in norme, per la formulazione di un´apposita legge.
Il ministro Bersani ha ricevuto nel frattempo il via libera dal governo di presentare entro il corrente mese di gennaio la lista dei provvedimenti di liberalizzazione da lui preparati.
Prodi dal canto suo ha preso la decisione di consentire l´ampliamento della base militare Usa a Vicenza, questione assai controversa sia per ragioni di pacifismo ideologico sia di diverse valutazioni ambientali.
In quegli stessi dieci giorni dopo Caserta il ministro degli Esteri ha compiuto l´ennesimo viaggio in Medio Oriente, tra Arabia Saudita, Egitto e Palestina, ribadendo i cardini della linea politica del nostro governo che privilegia i negoziati e il dialogo anche con i due Stati-canaglia (Siria, Iran) come principale via per pacificare la regione.
Il governo ha convocato il primo incontro con i sindacati per iniziare l´esame delle questioni che regolano il nuovo assetto delle previdenze sociali, degli ammortizzatori e delle pensioni. Un incontro è già avvenuto con i rappresentanti delle piccole imprese, dei commercianti, delle cooperative, degli artigiani.
Naturalmente ciascuna di queste iniziative ha provocato reazioni positive e negative. Ne esamineremo tra poco la natura. Tutto ciò – lo ripeto – è avvenuto nei dieci giorni da Caserta a oggi. Fatti alla mano, non mi pare che si possa accusare il governo di ignavia, passività, impotenza, galleggiamento. Molte altre critiche e anche acerbe gli possono essere rivolte e gli sono infatti state rivolte senza risparmio, ma queste no. Sta procedendo speditamente sulla strada che si era prefissa e sulla quale ha avuto il voto degli elettori.
Per completezza – e prima di proseguire l´analisi dei fatti e del loro significato politico – ricordo che a Torino mercoledì scorso il ministro Padoa-Schioppa, invitato dal rettore a svolgere una conferenza su Altiero Spinelli, è stato contestato con urla e petardi fin nel cortile dell´Università, da 50 rappresentanti di centri sociali, Cub e frange estreme di studenti, ed è stato seguito con attenzione e applaudito da 600 studenti e docenti nell´aula in cui parlava.
Due giorni dopo è toccato a Prodi d´esser fischiato da un centinaio di fascisti che lo hanno accolto col saluto a braccio teso all´Università Cattolica di Milano, dove l´aula magna gremita l´ha invece lungamente applaudito isolando i disturbatori.
Purtroppo di questi episodi la televisione e gran parte dei giornali hanno registrato con le immagini e i titoli i fischi dei pochi sottovalutando gli applausi dei più. Non credo per faziosità, ma per canone. Quale canone? Mi sembra interessante affrontare anche questa questione.
Spesso noi giornalisti tendiamo ad evitarla perché in qualche modo ci riguarda direttamente. Ma mi valgo in questo caso d´una annosa esperienza e invoco l´attenuante del mio stato di anziano pensionato. Alla mia età, tra tanti guai e lamentazioni, c´è almeno il privilegio di poter dire senza riguardi ciò che ci aggrada. È uno dei pochi vantaggi che la vecchiaia porta con sé.
* * *
Le agenzie di stampa danno notizie. In ordine cronologico. Quelle che ritengono di particolare interesse per i loro abbonati le fanno precedere da un suono che le sottolinea. I telegiornali e soprattutto i giornali, oltre alle notizie pubblicano anche opinioni, analisi, retroscena. L´oggettività della notizia è accompagnata dalla soggettività dei commenti.
Ma anche l´oggettività della notizia contiene una buona dose di soggettività che stabilisce le pagine in cui sono pubblicate, il rilievo tipografico, il titolo che le sintetizza.
Il limite alla soggettività proviene dalla deontologia la quale vuole che le notizie siano complete. I cattivi giornali spesso ignorano questa prescrizione deontologica; i buoni giornali invece la rispettano, almeno formalmente, ma non sempre sostanzialmente. Spesso accade infatti che una parte della notizia sia messa in rilievo nel titolo e nel testo e un´altra parte relegata tra due virgole o quasi. Qual è il criterio prevalente, faziosità a parte?
Il criterio è l´eccezionalità. L´uomo che morde il cane (come ho già detto altre volte) è una notizia più importante perché eccezionale, del cane che morde l´uomo (a meno che non l´ammazzi).
Un presidente del Consiglio fischiato è certamente una notizia d´eccezione. Il presidente d´un governo di centrosinistra fischiato da attivisti fascisti lo è invece molto meno. Un ministro dell´Economia che adotta una politica di rigore, contestato da un gruppo sparuto di sinistra massimalista non è un fatto eccezionale ma del tutto normale.
Quando Berlusconi a Vicenza attaccò lo stato maggiore della Confindustria in un convegno promosso da quei maggiorenti e fu accolto dall´ovazione d´una platea di industriali, quella fu un fior di notizia e giustamente tenne banco per mesi (lo tiene tuttora). Quando i tre segretari dei sindacati confederali sono stati contestati dagli operai di Mirafiori, quella fu un altro fior di notizia. Ma il Prodi fischiato dai fascisti e il Padoa-Schioppa contestato da un gruppetto di Cobas e centri sociali, queste a mio avviso non sono notizie che meritino particolare rilievo. Invece su alcuni giornali, e non dei minori, hanno avuto sette colonne di testata di prima pagina e l´apertura nei telegiornali delle ore 20.
Naturalmente c´è una giustificazione: la linea determina una scelta. È perfettamente legittimo che un giornale abbia una sua linea e quindi è legittimo che compia le sue scelte (soggettive). Avviene nei "media" di tutto il mondo e quindi anche in Italia.
Il mercato dei "media" è uno dei pochi luoghi in cui vige una concorrenza accanita, che riguarda molteplici aspetti. Riguarda anche la politica, ma lì la varietà concorrenziale è minore: o si sta col governo o si sta con l´opposizione o si sta in mezzo. In teoria la posizione deontologicamente più corretta sarebbe quella di stare nel mezzo, a volte da una parte a volte dall´altra secondo il giudizio sui singoli fatti. Ma questa, appunto, è teoria.
In realtà quest´imparzialità cosiddetta anglosassone non è mai stata adottata neppure dagli anglosassoni. C´è sempre una tendenza, un sentimento, un umore dominante che fa pendere da una parte i piatti della bilancia.
La dominante nella maggior parte dei "media" italiani, per fortuna con qualche rilevante eccezione, tende verso forme di neo-centrismo. Gli attori politici ed economici conoscono benissimo questa inclinazione mediatica e infatti l´agenda neo-centrista viene adottata da gran parte dei giornali e dei telegiornali; è stato così con il governo Berlusconi e lo è con il governo Prodi. Con una differenza notevole: Berlusconi possiede metà dell´universo mediatico nazionale e Prodi no; Berlusconi disponeva d´una maggioranza di cento deputati e cinquanta senatori mentre Prodi ha un solo senatore di maggioranza e, sulla questione Afghanistan, probabilmente neppure quello, sia che metta la fiducia sia che non la metta.
Mi domando che cosa potrebbe accadere dopo.
***
Dopo, se la crisi non sarà in nessun caso evitabile, ci sarà un governo di transizione con il compito di approvare alcuni provvedimenti economici urgenti e la riforma della legge elettorale. Sarà un governo del Presidente (della Repubblica) come sempre avviene nei governi transitori, con compiti e tempi ben delimitati.
Credo che a quel punto il partito democratico nascerà veramente, dettato non solo dall´opportunità ma dalla necessità. Credo anche che, dissolte ormai le coalizioni, la legge elettorale sarà mirata a limitare se non ad escludere del tutto i partiti che si sono dimostrati ribelli o incapaci di tenere a freno le loro frange estreme.
Infine si andrà a votare, in autunno o al massimo nella primavera 2008.
Fare previsioni ora per allora è impossibile. Certo il baricentro politico si sarà spostato e non certo verso la sinistra. Chi avrà seminato vento raccoglierà tempesta, o meglio: tornerà a casa con le classiche pive nel classico sacco.

Repubblica 21.1.07
Rifondazione non chiude la porta
Bertinotti ai suoi: "Preferisco vincere sui temi sociali"
di Umberto Rosso


ROMA - Una doccia gelata. Le parole di Massimo D´Alema a Rifondazione non vanno giù, «tutto sotto il segno della continuità, così non va», mentre il ministro degli Esteri sa benissimo che sull´Afghanistan il Prc vuole un segnale di «disimpegno», un primo passo dell´exit strategy. Ma non siamo allo strappo nei rapporti, fin qui molto buoni fra il vicepremier e Bertinotti. Dietro l´uscita ministro degli Esteri, più che una porta chiusa definitivamente lo stato maggiore rifondarolo ha letto l´inizio di una trattativa. «Massimo D´Alema - come ha "interpretato" il capogruppo del Senato Russo Spena parlando con altri dirigenti del partito, sentiti per telefono subito dopo l´intervento del ministro - non mi è piaciuto, ma ho l´impressione che il "taglio" sia un po´ quello del sindacalista: siccome dobbiamo sederci ad un tavolo per trovare una via d´uscita, lui ha subito alzato l´asticella del confronto».
Proprio attraverso il ministro degli Esteri è passato, e passa, il canale principale di comunicazione del Prc sull´affaire Afghanistan. La soluzione del luglio scorso, con la mozione e la fiducia, che ha scongiurato la rottura, fu mediata appunto da D´Alema, insieme a Prodi. E al titolare della Farnesina lo stato maggiore del Prc ha sempre riservato uno speciale apprezzamento per la svolta in chiave europea della politica estera. Perciò, un no tanto secco al ritiro dall´Afghanistan ha in qualche modo sorpreso Rifondazione, che mettendo in fila gli ultimi fatti - dal sì alla base di Vicenza alla questione del viaggio in Usa di Prodi - comincia a parlare di una «contrazione della svolta, uno stop nella linea nuova lanciata da D´Alema». E tuttavia, appunto, fatta la tara dell´«atto dovuto», nelle parole del leader ds intravedono l´avvio della fase del negoziato.
Dietro lo scontro fra Ulivo e sinistra dell´Unione dunque c´è la voglia di trovare una soluzione del caso Kabul. Facile non è ma in questa direzione sta lavorando anche il presidente della Camera, che pure si guarda bene dal comparire sulla scena della trattative, smentisce contatti con Prodi sull´argomento ritiro, ma ha condensato in una battuta con i suoi collaboratori il suo punto di vista: «Non sempre si può vincere, e io preferisco vincere sul sociale». Tradotto, non si può rischiare una crisi di governo su Kabul mentre c´è da portare avanti l´operazione-equità che Bertinotti si aspetta dall´esecutivo Prodi. E così lasciata cadere ogni tentazione di «via tutti e subito» dal teatro afgano, «ma non abbiamo mai lanciato - ricorda Gennaro Migliore, il capo dei deputati del Prc - diktat così ultimativi», si lavora alla ricerca di uno scatto in avanti. Secondo la formula: far scendere il numero dei militari, far salire l´intervento civile, di cooperazione, del volontariato. Giù il «capitolo» carri armati e dei blindati, su quello degli aiuti alla popolazione. La partita il Prc la gioca su questa «bilancia». Ma di certo, come ancora ieri ha spiegato ai suoi il segretario Franco Giordano, «il governo non potrà presentarci un decreto fotocopia, limitarsi come se nulla fosse successo a riproporre pari pari il vecchio testo del rifinanziamento». Il ministro Ferrero ha perciò il mandato, nelle riunioni del Consiglio dei ministri che fra il 26 e il 26 gennaio dovrebbero varare il provvedimento, di arrivare ad una «soluzione concordata e condivisa», che per il Prc passa attraverso una «discontinuità» con il decreto precedente. Fra le idee che circolano, ad esempio, un «cambio» fra militari, con l´invio della Guardia di finanza per combattere i trafficanti di oppio. Certo, in teoria, pure se da Palazzo Chigi uscisse un testo sgradito ci sarebbero ancora 60 giorni di tempo, e di dibattito parlamentare incandescente, per trovare il punto di mediazione e convertire il decreto. Ma a quel punto per Prodi si spalanca la strada della fiducia. E Rifondazione stavolta la vede a rischio. A Giovanni Russo Spena i duri del suo gruppo, da Turigliatto, a Grassi, a Giannini, hanno già fatto sapere che «se non arriva un segnale forte dal governo, questa volta siamo pronti ad andare fino in fondo». Al punto cioè di non votare la fiducia. Non solo. Nella ricognizione che il capogruppo del Prc ha condotto, risulta molto a rischio il sì di Franca Rame, di due o tre senatori dei Verdi, di Rossi (del Pdci), ma c´è anche un pezzetto dell´Ulivo che sarebbe in grande sofferenza. E per la sovravvivenza di Prodi non basterebbero i sì di Scalfaro, Colombo, Levi Montalcini, mentre Andreotti ormai frequenta poco Palazzo Madama e Cossiga ha già annunciato il suo no.

Repubblica 21.1.07
Al palazzo dei congressi i leader Ds incontrano i dirigenti di base. Abbracci tra i rivali al congresso: "Come prima di un match"
"Una sinistra oltre il socialismo"
Pd, il rilancio di D'Alema e Fassino. Mussi annuncia battaglia
di Giovanna Casadio


ROMA - Oltre il socialismo. Ma il peso della sinistra si farà sentire tutto nel Partito democratico. Lo dice Massimo D´Alema, il presidente Ds: «Per esprimere quel vasto campo di forze progressiste presenti nel mondo, la parola socialismo non basta più, è uno dei filoni, una delle storie che sono in questo campo di forze, e persino la parola sinistra non sarebbe onnicomprensiva perché è una parola molto europea. Penso a quei democratici americani che contro la guerra in Iraq hanno fatto molto di più di tanti socialisti europei...c´è bisogno di una nuova sintesi». Scatta l´ovazione dei circa tremila segretari di sezione della Quercia che affollano il Palacongressi, chiamati in prima linea a costruire il Partito democratico con «gli amici» della Margherita, i post dc.
In questo processo del Pd «voglio che ci sia la sinistra con i suoi valori, le sue idee, le sue speranze», scandisce D´Alema. Poi racconta che, «girando il mondo», gli capita di incontrare «qualche compagno della gioventù comunista» con il quale «ci si vedeva, quasi sempre a Mosca». Aneddoti, che il ministro degli Esteri ricorda ai compagni, giovani e meno giovani. Storia, utile per spiegare ai dirigenti di base riuniti nella "Terza assemblea nazionale" che «la sinistra ha continuato a vivere in mille forme diverse» e dopo la diaspora (del comunismo e del socialismo) si potrebbe fare «la raccolta dei nomi e dei movimenti». I Ds, spiegherà a conclusione il segretario, Piero Fassino, pensano a un «Partito democratico dei lavoratori, ma il lavoro è cambiato. Sì a una nuova sfida, mettiamoci in cammino, per noi politici, cresciuti al canto partigiano "soffia il vento, infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar"». La scommessa è «andare oltre».
Sul palco, il segretario e D´Alema stanno seduti accanto, cravatta simile azzurro spento. Diviso dal leggio, il leader anti-Partito democratico, Fabio Mussi, cravatta e sciarpa rosse. È Mussi a prendere per primo la parola: «Il socialismo non è un cane morto, il mondo chiede un nuovo socialismo. Sinistra e socialismo non possono scomparire. Non credo alla fusione con la Margherita, Fassino dice "mai fuori dal Pse" e la Margherita "mai dentro"».Quando D´Alema ha concluso il suo discorso, Mussi va ad abbracciarlo. Appena Fassino ha finito il suo, abbraccio segretario-antagonista. Commenta Mussi ironico: «Prima di un match, i pugili si stringono sempre la mano, ora comincia la partita». Una partita che il leader della sinistra Ds non vuole mollare: «Non lascio il partito ma voglio vincere la battaglia, no al Pd». «Guarda Fabio - replica Fassino in un´ora e mezza di intervento in cui affronta i temi caldi - io, tu, D´Alema e Enrico Letta siamo divisi più dalla storia che dal futuro. Il Pd non mette in discussione le idee, i valori della sinistra attraversano il tempo, cambiano i modi con cui questi valori sono fatti vivere». Dà la carica ai quadri del partito, il segretario. «Con il Pd più sezioni della Quercia e più gazebo che sono l´evoluzione dei tavolini che abbiamo sempre fatto». Il partito è «vero, vitale, forte, radicato nella società, nulla a che vedere «con gli attacchi di questi giorni». Ai Dl: «Se aderiamo al Pse, il campo si allarga». Anche i conti vanno meglio. Li illustra il tesoriere Sposetti: il debito abbattuto, la tempesta della vicenda Unipol superata (un anno fa qui, si parlò di questo), una campagna di sostegno per arrivare nel Pd quasi in pareggio. Dopo la direzione che giovedì ha deciso le regole del congresso di aprile, cascami di polemiche tra Mussi e Fassino sul voto segreto unico per mozioni e candidato segretario. Angius (terza mozione) oggi riunisce la sua area.

Repubblica 21.1.07
La Quercia esibisce il suo popolo: a Roma 3.000 segretari di sezione. Che non sono più le stesse
La base tra tifo e smarrimento "Scarpe rotte eppur bisogna andar"
di Antonello Caporale


Dicono di avere passione, ma si sentono "grandi e fragili come dune di sabbia". E tutti adorano il "leader Maximo"
Niente auto blu o sottosegretari all'Eur: i militanti arrivano in torpedone. Ma la Bindi vuole che vendano le loro sedi

ROMA - Assenti sottosegretari, assessori e sindaci. Non c´è odore di auto blu, il comune di Roma bene ha fatto a non inviare vigili. All´Eur nemmeno un alito di traffico. Sono le dieci. Un torpedone consegna il primo gruppo di segretari di sezione, alcuni cantano "Bella ciao". Alcuni. Gli altri guardano e decidono di non prendere posizione. Di questi tempi, e con questo congresso alle porte, è meglio stare guardinghi.
A Roma è convocata la base diessina. La militanza fedele e organizzata, il gruppo dirigente di primo livello, gli operai specializzati della politica. Più di seimila se ne contano in Italia. Ne basta la metà, e ieri c´era, per riempire il Palacongressi. Uomini e donne, molti gli over 35. Pochi con l´Unità in tasca. Jeans, parecchie cravatte, annullate le barbe. Per dire, ai tempi di Berlinguer un maschio militante su due aveva la barba. Oggi tutti sono ben rasati. Piero Fassino li accarezza con gli occhi: nonostante gli acciacchi i Democratici di sinistra sono l´unico partito che si può permettere di esibire una simile prova muscolare. Gli iscritti non sono rubati all´anagrafe comunale, come accade per qualche altro, e non ci sono defunti tra gli attivisti. Le sezioni sono vere, anche Sky lo sa. E infatti al bancone delle "Convenzioni" propone un catalogo di abbonamento convenientissimo. Chissà, forse è una buona idea trasmettere in sezione il campionato e anche tutta la champions league. Un modo nemmeno troppo disonesto per rivederle zeppe come oggi è questo palazzetto.
Sono stati convocati per partecipare in qualche modo alla decisione di chiudere il partito. E´ tutto già deciso, ma è sempre bello (in qualche modo) partecipare. «Dove c´è passione non c´è potere», dice Stefano Provenzano, segretario di Bracciano. Garantisce: «Qui c´è prestanza ideologica». Ma purtroppo si sogna e si tifa davanti alla tivù. Poi a nanna. Stefano fa il grafico e il suo partito, questo che sta per seppellire, lo vede come «un palazzone con tanti piani e tante finestre». Chi vive all´attico e chi a piano terra. Ognuno fa vita a sé. Normale in fondo. A Gaia Fratini di Arezzo tocca l´introduzione ai lavori. E´ stata scelta perché è giovane ed è donna. Forse anche perché è fassiniana. Fabio Mussi, capo dell´opposizione, che oggi sembra minuscola, promette: «Quando comincerà il congresso parleranno tutti coloro che chiederanno la parola».
Oggi no. La platea è pienamente, convintamente tifosa del segretario. Tifa Fassino ma adora Massimo D´Alema. Al punto che un troncone si stacca dalla sala e lo segue quando sembra che il ministro degli Esteri e presidente del partito voglia farsi un giro e scambiare un´impressione. L´impressione purtroppo è falsa. Il presidente cerca solo una toilette. La scorta sorride, i compagni si imbarazzano. Si ritorna in sala. «Compagni, interventi brevi». Stefano Bazzani è il segretario della sezione milanese dei vip, in verità pochi, rimasti a Milano a votare Quercia. Sezione Centro, ex Togliatti oggi Aniasi. Voterà per Mussi, cioè contro il Partito democratico. Non è tra gli oratori: «In questo partito noi contiamo poco perché l´eletto parla con chi lo vota e non perde tempo in sezione. Il partito poi vive con i soldi degli eletti. E conta chi porta soldi. E la sezione, che raccoglie un tesoro di militanza, riduce il suo peso e il suo prestigio fino a vederlo annullato, azzerato. Siamo grandi ma fragili. Fragili come una duna di sabbia».
Fragili forse, ricchi di sicuro. «Siamo come quelle credenze di cucina piene di ogni bontà. Basterebbe qualche volta aprire e cercare. Ma nessuno apre e nessuno cerca», dice Maurizio Veloccia, ingegnere ventinovenne e segretario nel quartiere romano del Portuense. «Siamo acquartierati sul primato del governo. Quasi smarriti al pensiero di dover trasformare radicalmente questa società. Dinosauri ripiegati sul proprio ombelico: la poltrona da assessore», secondo Francesco D´Ausilio, segretario dell´unione delle sezioni del XIII municipio capitolino». E´ faticoso progettare, se l´auto blu rischia di lasciarti a terra. E benchè la credenza sia piena, è faticoso persino cercare. Bisogna indagare, valutare, poi scegliere. Meglio, no?, la cooptazione. Si fa prima e tutto riesce a puntino. Meno fatica e meno stress. Certo, un giorno i deputati e i senatori dovevano passare dalla sezione, venivano esaminati e scrutati. La potentissima federazione decideva chi bocciare e chi promuovere. Il segretario provinciale, che contava, era fuori dal Parlamento, fuori da qualunque assemblea elettiva, apostolo di Botteghe oscure.
Soldi. Oggi si parla anche di loro: il tesoriere Sposetti, aria da ragioniere duro, dice che ci sono quasi 150 milioni di euro da dare alle banche. Cifra mostruosa ma decisamente più ragionevole dei 500 di qualche anni fa. E´ stato venduto tutto il vendibile, il Bottegone è divenuto botteghino, l´Unità stampa conto terzi.
A Trieste intanto Rosy Bindi ripete che i ds se vogliono fare il matrimonio con la Margherita devono lasciare tutte le loro rimanenti sedi: «Vita nuova e casa nuova», dice Rosy. Meno male che parla a Trieste. Lontana abbastanza per non essere sentita. Nel parterre romano già non si scruta questa frenesia fusionista. Tutti parteggiano per il sì ma con giudizio. Applausi a D´Alema, ma un brivido sulla schiena l´ha fatto venire Mussi quando ha chiesto: «Su questo fondale c´è scritto "Una grande forza". Manca l´aggettivo».
Dov´è la parola sinistra? Dov´è il socialismo? C´è, eccome che c´è. La fatica di Fassino di dirlo e ripeterlo. Da qui al 19 aprile, data del congresso. Si va dove si deve. Proprio come cantavano i partigiani: «Scarpe rotte/eppur bisogna andar».

l'Unità 21.1.07
Ma Mussi replica: «Voglio fermare questo treno»
Nuova polemica sulle regole: «Non è stata la sinistra ds a volere il voto segreto»
di s.c.


«NELL’89 non ebbi dubbi. Ora andiamo verso un congresso di svolta. Credo nell’alleanza democratica ma non nella fusione tra Ds e Dl».
Fabio Mussi ribadisce all’assemblea dei segretari di sezione della Quercia il suo no al Partito democratico. Lo fa con un intervento pacato nei toni, che incassa anche applausi di tutta la platea quando affronta tematiche non direttamente legate alla battaglia congressuale, e che fa apparire già lontane le voci di strappi e scissioni emerse solo qualche giorno fa, quando non si riusciva a trovare l’accordo sul regolamento del congresso.
Curiosamente, è di nuovo sulle regole che si innesca l’unica polemica della giornata. Succede dopo che Fassino, in un passaggio del suo intervento, dice che avrebbe preferito il voto palese, ma che in nome dell’unità ha accettato la richiesta di adottare il voto segreto. Quando le luci del Palazzo dei congressi di Roma stanno spegnendosi, Mussi spiega ai giornalisti rimasti che non era stata la sinistra Ds a chiedere il voto unico e segreto: «Nella commissione per il congresso noi avevamo proposto una modifica statutaria in modo da votare i documenti politici in modo palese nelle sezioni e il segretario nell’assise nazionale. Quando siamo arrivati alla Direzione, la proposta della segreteria, condivisa da Angius, era quella del voto segreto su mozione e segretario, ma disgiunto». Ipotesi che per il ministro avrebbe potuto portare un risultato «paradossale», vale a dire la possibilità che si potesse registrare un voto differente sulla mozione e sul segretario. A quel punto, chiarisce Mussi per mettersi al riparo dalle accuse che già gli piovono addosso tanto dalla maggioranza quanto dalla mozione Angius, «ho chiesto che non si uscisse dallo statuto e che dunque si procedesse a un voto congiunto».
Sul piano della battagli politica, invece, Mussi si attiene a un copione noto, dicendo che punta a incassare i consensi necessari a «fermare il treno». «Io non posso accettare che parole come sinistra e socialismo scompaiano dal lessico politico. Si dice che ci vuole una grande forza, un grande partito, ma bisogna metterci gli aggettivi: socialista e di sinistra». L’applauso scatta solo in alcuni punti della platea. Più forte e meno localizzato arriva sul passaggio dedicato alla collocazione internazionale: «Fassino dice: mai fuori del Pse. La Margherita dice: mai dentro. O l’una o l’altra. Una questione come questa va affrontata prima di decidere, non dopo. Perché non è una questione di diplomazia, ma di identità». Non priviamoci di un sogno, dice il leader della seconda mozione ricordando che «c’è stata una stagione in cui il socialismo era considerato un cane morto» mentre «ora il mondo chiede un nuovo socialismo»: «Senza quello che abbiamo sognato non avremmo potuto fare niente da svegli».

l'Unità Firenze 21.1.07
La storia di Tarkowskij tra ritratti di famiglia e immagini di scena
Fino al 18 febbraio all’Archivio Storico del Comune di Firenze c’è la mostra fotografica dedicata alla vita del regista di «Lo specchio», scomparso a Parigi quarant’anni fa
di Gianni Caverni


Che luce e che aria fresca circonda quella bella signora russa dallo sguardo triste. È Maria, la madre di Andrej Tarkovskij, il regista di tanti film, da Solaris a Stalker, da L’infanzia di Ivan a Nostalghia, morto a Parigi quarant’anni fa. “Lo specchio della memoria” è il titolo della mostra aperta fino al 18 febbraio all’Archivio storico del Comune di Firenze. La memoria è quella della famiglia, scandita da una sessantina di fotografie: quelle restaurate e ristampate, scattate nella prima metà del Novecento e quelle realizzate durante la lavorazione de Lo specchio, il film profondamente autobiografico del ‘75. Si crea un dialogo bellissimo fra immagini originali e foto di scena, che testimonia come Tarkovskij avesse lavorato su questa straordinaria miniera di ricordi e ne avesse fatto un canovaccio estetico. Maria seduta su una palizzata, guarda lontano con una sigaretta fra le labbra, Maria con i figli piccoli, Maria distesa con Andrej seduto in grembo sullo sfondo di un mare grigio. Arsenij, il padre, poeta dal volto scavato e dallo sguardo intenso, che tiene per mano un Andrej di pochi anni, o che insegna al figlio a nuotare nel fiume. E Andrej e la sorellina Marina in un campo, circondati da un mare di fiori bianchi.
Gran parte delle foto che fanno parte di una raccolta familiare e che i genitori hanno trasmesso al regista sono degli anni ‘30, scattate da Lev Gornung, grande fotografo amico di Arsenij. Sono immagini capaci di uscire dalla storia familiare per tratteggiarne una più collettiva, non a caso Lo specchio è il film nel quale gli episodi di vita privata si svolgono sullo sfondo dei drammi dell’URSS, dalla seconda guerra mondiale agli orrori staliniani.
La cura rigorosa di Tarkovskij nella citazione delle fotografie di famiglia è testimoniata dalla scelta del figlio, che della mostra è il curatore, di affiancare le vecchie foto a quelle del ‘75 intrecciandole per valorizzare il racconto di vita ed il racconto del racconto, del film quindi. La capacità di suggestione delle immagini ne esce rafforzata e come distillata. L’ultima sala, decisamente più scura, ha l’atmosfera di una cripta, le fotografie sono illuminate così da vicino e in maniera volutamente imperfetta da ricordare alcune installazioni di Christian Boltanski. Il percorso si conclude con un metaforico sguardo a noi stessi riflessi in uno specchio corrotto e segnato dal tempo.
Orario: martedì-venerdì 10 - 18, sabato e domenica 11 - 18, chiuso il lunedì, ingresso libero.

il manifesto 21.1.07
Saggi. L'oro nero della guerra in Iraq
Analisi Lo studio di due economisti sul rapporto tra prezzo del petrolio e conflitti militari. I profitti scendono, ma quando iniziano a parlare le armi salgono nuovamente
di Enzo Modugno


Ancora due argomenti a sostegno della tesi che la guerra sia sempre «un buon investimento», come ha affermato di recente il segretario di stato Usa Condoleeza Rice.
Il primo viene da Wall Street, i cui analisti prevedono per il 2007 un buon anadamento dei profitti (un 20 per cento in più rispetto lo scorso anno) per il settore militare industriale. Un aumento sostenuto da una ulteriore impennata delle spese militari e dall'esportazione di missili ed aerei nei paesi arabi ed asiatici. Registato il rapporto di Wall Strett, Il Mondo (26 gennaio) ha prontamente invitato i nostri investitori ad approfittarne.
Ma si può ora documentare un secondo argomento. Questa volta viene da uno studio in cui si analizza la stretta relazione tra le guerre in Medio Oriente e il prezzo del petrolio. Che ci fosse un qualche rapporto tra armi e greggio lo aveva ribadito la guerra in Iraq. Uno dei suoi effetti è stata la «sparizione» del petrolio iracheno al mercato, sparizione che ne ha fatto triplicare il prezzo del greggio. Ma ora due economisti - Jonathan Nitzan, insegnante universitario in Israele e Shimshon Bichler, che insegna alla York University di Toronto - in uno studio apparso su Global Research (e tradotto da www.resistenze.org), considerano nell'arco di trent'anni i profitti delle più importanti compagnie petrolifere, Bp-Amoco, Chevron, Exxon-Mobil, Royal-Dutch, Texaco. E dimostrano che i conflitti direttamente o indirettamente legati al petrolio, hanno avuto queste costanti caratteristiche: ogni conflitto per l'energia è preceduto da un declino dei profitti delle compagnie petrolifere; ogni conflitto per l'energia viene seguito da un periodo nel quale questi profitti vanno oltre la media; e con la sola eccezione del 1996-97, mai le compagnie petrolifere riescono a superare la media senza che prima avvenga un conflitto per l'energia.
Il problema è che adesso il prezzo del barile sta scendendo.
Per questo le recenti dichiarazioni del vicepresidente Usa Dick Cheney e dello stesso presidente Bush sul pericolo iraniano, potrebbero essere qualcosa di più che un semplice avvertimento.
Il 19 febbraio, nelle sue consuete analisi, il Financial Times ha infatti sottolineato che ci sono molti segnali che che sta per succedere qualcosa di molto grosso, arrivando a prevedere qualche tipo di conflitto o scontro militare con l'Iran, condotto dagli Usa direttamente o tramite altri. Ancora un'occasione per gli investitori, nel settore energetico.

La Stampa Tuttolibri 20.1.07
Dizionario del comunismo. Una monumentale opera tra storia, ideologia, economia, cultura
Il comunismo dalla rivoluzione alla legge marziale
di Giorgio Boatti


Inutile nasconderlo: c'è un interrogativo, e non di poco conto, che si presenta al lettore che ha la costanza e la curiosità di attraversare le cinquecento pagine del Dizionario del comunismo nel XX secolo, monumentale opera curata da Silvio Pons e da Robert Service e di cui Einaudi ha appena pubblicato il primo volume. Dopo che ci si è confrontati con i 193 lemmi - da «alfabetizzazione » e «autocritica» sino a «Lunga marcia» e a «Rosa Luxemburg» - che confluiscono in questo lavoro viene infatti da chiedersi se il titolo dell'opera sia coerente. Se non sia cioè in contraddizione con quella dinamica diversificatrice che pare imprimere un movimento centrifugo a molti degli elementi che costituiscono la poderosa e complessa costruzione che viene offerta.
Questa sensazione emerge davanti a voci di compatta sintesi quali quelle che fanno riferimento alle diverse temperie - storiche, ideologiche, economiche, culturali - con cui il comunismo prende corpo nello spazio e nel tempo. Si va, per capirci, dalla «Bolscevizzazione» alla «Collettivizzazione delle campagne», dal «Grande Balzo» cinese alla «Guerriglia in America Latina» o a «Kronstadt», con la disperata rivolta del marzo 1921 dei marinai baltici che nel 1917 avevano entusiasticamente appoggiato la rivoluzione bolscevica, per giungere sino alla «Legge marziale in Polonia» del 1981.
Un senso di ulteriore, vertiginosa variegazione si fa strada anche negli asciutti ma imperdibili ritratti biografici. E questo accade sia quando le schede biografiche sono dedicate, come succede il più delle volte, ai leader che si sono installati alla testa dei partiti, dei movimenti e degli Stati che nel corso del Novecento hanno composto l'universo del mondo comunista, sia quando si rammenta il ruolo di alcuni primattori della storia del secolo coi quali il movimento comunista si è trovato drammaticamente contrapposto in una lotta mortale. Non manca, dunque, in questo dizionario, neppure Hitler: nemico acerrimo e tuttavia, nella micidiale stagione contrassegnata dal patto di non aggressione tra Mosca e Berlino firmato nel 23 agosto 1939, transitorio alleato. Altrettanto variegato è il bouquet delle figure di notissimi, emblematici intellettuali che intrecciano le loro strade col comunismo. Alcuni, come Louis Aragon, sono difensori dell'ortodossia di partito sino al limite della totale cecità politica. Altri, invece, rappresentano voci critiche capaci, con lungimirante lucidità e in tempi non sospetti, di affrontare nodi centrali e conseguenze tragiche dell'ideologia comunista. E' il caso, ad esempio, del coraggioso Vàclal Havel - la voce a lui dedicata è di Francesco Cataluccio - destinato a diventare, dopo numerosi anni di galera nelle carceri di Praga, presidente della Repubblica Cecoslovacca post-regime. O dell'ex-militante Arthur Koestler, autore di Buio a mezzogiorno, rievocato da Tom Villis. O di Hannah Arendt, della quale Abbott Gleason inquadra il fondamentale lavoro attorno alle origini del totalitarismo.
L'apparente frammentazione di molte di queste voci - tutte redatte con un rigore storiografico e una concretezza di dati che tracciano uno spartiacque fondamentale rispetto a opere di polemica ideologica andate per la maggiore in anni recenti - rivela, nell'intreccio complessivo, di non essere affatto tale. A far ben comprendere come si sia effettivamente alle prese con un fenomeno unitario, tale da giustificare quel titolo di «dizionario del comunismo», e non dei «comunismi», attribuito all'opera, sono le voci, ampiamente presenti, che mettono in luce le modalità più significativa attraverso le quali ciò che all'origine pareva il sogno di una palingenesi liberatrice si rovescia nel suo contrario, ponendosi come un incubo totalitario dal quale derivano, scrivono i curatori, «alcune delle peggiori tragedie e dei più infami crimini contro l'umanità compiuti nella storia contemporanea».
A rendere questa dimensione non sono solo voci fondamentali sul sistema repressivo, quale quella sul «Gulag» di Nicolas Werth, sul Kgb di Marta Craveri, sui «campi» disseminati da Cuba alla Cina alla Jugoslavia sino ai «campi della morte» nella Cambogia, ma altri approfondimenti apparentemente meno drammatici. Si prenda il tema, ad esempio, dell'«autobiografia».
In una splendida messa a fuoco, Igal Halfin ricostruisce i passaggi attraverso i quali la narrazione del percorso esistenziale e politico che i militanti rendono alla propria organizzazione muta progressivamente di significato, parallelamente all'imporsi di modelli sempre più autoritari e dittatoriali. Quello che poteva sembrare, all'inizio, il racconto della propria vicenda esistenziale che viene ad approdare, attraverso incontri e prove, lotte e sacrifici, assai simili alla confessione cristiana, a una sorta di rinascita umana e spirituale contrassegnata poi dall'impegno militante, perde ben presto ogni elemento di spontaneità. Già dopo pochi anni dopo l'avvento al potere dei bolscevichi il canovaccio di ogni autobiografia è imposto dall'alto. L'autenticità dell'io, la concretezza delle situazioni in cui ogni vita evolve e matura, cedono rapidamente il passo a un prototipo di racconto monotono, ossessivo, dettato dall'alto e dove ogni verità e soggettività sono severamente espiantate. Tutto questo si accentua negli anni del terrore staliniano quando «chi scriveva la propria autobiografia non raccontava più il proprio divenire comunista - dunque la storia della propria rinascita - ma si limitava a insistere di non essere mai stato altro che tale». L'autobiografia si trasforma in indagine giudiziaria predisposta, dall'individuo, contro se stesso.

Liberazione Lettere 21.1.07
Anni '70. Un tentativo di capire


Caro Sansonetti, l'aggettivo "un po' reazionario" per l'articolo sul 1977 apparso sull' "Unità", te lo potevi risparmiare. C'è in quell'articolo un tentativo di capire che non può essere bollato come reazionario, c'è un tentativo di capire che forse è più di sinistra delle cose che scrivi tu. Me lo ricordo il '77: eravamo attraversati, portavamo con noi una cultura di morte, andavamo in piazza a Bologna cantando: "Enrico fatti una pera". Certo la freddezza francescana di Berlinguer era intollerabile, come era intollerabile la marcia verso il compromesso storico, ma le pere se le facevano tanti di noi e tanti, molti di più cominciarono a farsele proprio allora. Andavamo in piazza a Roma, nel settembre ed eravamo accompagnati da tanti "compagni" assassini di Prima Linea con la valigetta e la pistola, sparavano vicino a me, a duecento metri da piazza del Popolo, la polizia neanche si vedeva, ma loro non sparavano alla polizia, fingevano, in verità sparavano a me e a quelli come me. Io avevo due sanpietrini in tasca, li buttai nel Tevere per non tirarli addosso ai compagni autonomi. Dici che non sta bene demonizzare Toni Negri e Oreste Scalzone. Di quest'ultimo non saprei dire, ma Toni Negri me lo ricordo, al convegno di Potere Operaio a Roma nel 1970 o '71, fece un intervento storico, io scappai fuori dal palazzetto piangendo a dirotto, alla mia ragazza che mi chiedeva cosa avessi riuscii a dire solo: "...questo qui ci vuole fare morire tutti". Me lo ricordo il '77, a dicembre me ne andai a Roma dal Fagioli, all'analisi collettiva, per non crepare, per rimanere di sinistra, anzi per diventare di sinistra e togliermi di dosso la puzza di morte.
Giuseppe Scuto Firenze



Liberazione 20.1.07
Polemica con un articolo un po’ reazionario dell’Unità
Ma quale incubo! C’è bisogno degli anni ’70
di Piero Sansonetti


Quest’anno cade il trentesimo anniversario del 1977, e così tutti i giornali rievocano quell’anno, che fu un po’ il momento di svolta nel decenniosettanta. E rievocando quell’anno - e il movimento di massa molto radicale e ribelle che lo caratterizzò, e che segnò profondamente una generazione intera - rievocano anche tutto il decennio. Lo fanno inmodo abbastanza grossolana, limitandosi a descriverlo come il decennio della violenza e dell’irrazionalità, e indicandolo come un incubo, una stagione da condannare, maledire e mai far tornare. Sembra che non sia nemmeno ammessa la discussione: è scontato che gli anni ’70 sono il male, come si sa che l’acqua è liquida, il fuoco scalda, il Colosseo sta a Roma. Penso che questa analisi sia un rovesciamento completo della verità, e credo che questo rovesciamento della verità non sia dettato da distrazione o poco approfondimento, ma dalla necessità di seppellire l’enorme carica di innovazione in tutti icampi - quello sociale, quello della cultura, dei sentimenti, dell’immaginazione, quello della critica al potere, quello della libertà e dell’egualitarismo, quello della lotta tra i generi, del femminismo, quello della concezione della democrazia, quello del riformismo, quello della consapevolezza ambientalista, quello della battaglia contro i totalitarismi e lo stato oppressore, eccetera eccetera eccetera - che il decennio settanta portò in Italia e nel mondo occidentale. Ieri l’Unità ha pubblicato in prima pagina un articolo del mio amico Vincenzo Vasile - in genere osservatore acuto sui fatti della politica italiana - che lascia di stucco. Un susseguirsi di luoghi comuni della destra, vecchi, sorpassati (c’è anche la critica ai vestiti di Bertinotti e la contrapposizione tra eskimo e grisaglia, che una volta, qualche decennio fa, era il cavallo di battaglia del ”Tempo” di Angiolillo...) e poi il linciaggio morale di Oreste Scalzone, di Toni Negri, di Francesco Caruso (accostatiai bombaroli e liquidati come ex latitanti), infine la richiesta perentoria alla sinistra di porre fine al dissenso e di allinearsi all’ordine governativo. Non c’è spazio per scherzare - dice Vasile, superando le tradizionali posizioni di Cofferati - o si governa o si protesta. Altrimenti - sai come vanno le cose - ” il confine tra disobbedienza e culto dell’illegalità è labile... anche negli anni ’70 ”si cominciò con gli epiteti, si passò ai sampietrini,e infine alle P38 e alle mitragliette armate di geometrica potenza...”. Speriamo che sia solo un articolo, magari sfiggito di penna, quello che abbiamo citato, e che non sia la nuova linea dell’Unità (che nei primi anni’80, mi ricordo, cioè nei tempi della più dura contrapposizione tra il Pci e il movimento, fece una campagna di stampa per chiedere la liberazione di Oreste Scalzone, dal momento che non lo riteneva un terrorista). Oreste Scalzone, come Toni Negri, furono arrestati nel 1979 escontarono alcuni anni di carcere (Negri ne scontò circa 10) e decine di anni di esilio, accusati del reato di partecipazione a banda armata, cioè un reato associativo - politico, di opinione - senza accuse specifiche significative, senza prove, e di conseguenza - qualunque sia il giudizio che si dà sul loro operato e sul loro pensiero - sono stati perseguitati politici. In ogni caso è chiaro che non sarà facile in questi mesi rompere la cappa reazionaria che ci descriverà gli anni ’70 come lastagione dei delitti politici. Noi cercheremo di spiegarvi che non fu così. Dal 6 febbraio (per dodici settimane consecutive) tutti i giovedì accluderemo al quotidiano un fascicolo di 64 pagine, interamente dedicate al racconto, al ricordo e alla discussione su quegli anni. Scriveranno molti dei maggiori intellettuali della sinistra italiana, le immagini saranno tutte curate da Tano D’Amico, uno degli artisti (fotografo) più significativi di quel periodo, e prese dal suo archivio. Perché questa iniziativa? Per dirvi che la violenza negli anni ’70 ci fu: ma non ci fu solo quella e non fu la violenza l’aspetto politico fondamentale. Sono anni straordinari nei quali la sinistra - non solo in Italia - produce la parte più avanzata del suo pensiero e - seppure con grandi tensioni, lotte, divisioni - produce un modello avanzatissimo di società, e prova, in parte, a realizzarlo. Sulla spinta formidabile del movimento che veniva dagli ultimi anni del decennio precedente, e che durò a lungo, più a lungo che in ogni altro paese - movimento giovanile, di classe, di genere - si scompagina la burocrazia dei partiti e dei sindacati, si impongono temi nuovi, sogni nuovi, comportamenti nuovi, nuove culture, abitudini, valori. Poi ci fu lasconfitta. Qui da noi la batosta della Fiat, la riscossa della borghesia, altrove Reagan, la Thatcher. E la ritirata fu precipitosa, devatsante. Abbiamo lasciato nel decennio settanta un patrimonio enorme di idee e di strumenti politici dei quali oggi abbiamo assolutamente bisogno per affrontare la crisi del neoliberismo. Dobbiamo tornare aprenderceli.

l'Unità 19.1.07
Eskimo e grisaglia
di Vincenzo Vasile


Abbiamo un problema. Un problema, tra gli altri. Che potrebbe diventare un grosso problema. In pochi giorni sono rimbalzati in prima pagina e sui teleschermi le immagini di un vecchio, brutto film. Intendiamoci, l'effetto minestrone è soprattutto mediatico, e nel raccontare il sommario di uno dei tanti tg (pubblici e privati) sappiamo di mettere in fila episodi di natura e origini diverse e complesse. Ecco cosa dice il telegiornale, senza battere ciglio.
Dice che il ministro Padoa Schioppa è stato accolto l'altra sera all'Università di Torino da petardi e fumogeni perché ritenuto un pericoloso «agente delle multinazionali». E lo stesso tg mostra uno striscione con la «A» dell'anarchia davanti a un corteo abbastanza pacifico di gente abbastanza pacifica che non vuole l'«allargamento» della base Usa a Vicenza. E ci sono le bombette, inesplose, ma innescabili, firmate dagli «insurrezionalisti» e «separatisti» sardi recapitate a due sottosegretari. E si rivede, in collegamento da Parigi, Oreste Scalzone, che annuncia una sua prossima turnè italiana per rilanciare «nelle nuove condizioni vecchie battaglie». Sempre su maxischermo il professor Toni Negri riappare in un'altra epifania televisiva per insultare Sergio Cofferati, sul tema - guarda un po' - della legalità. Per indebito ossequio dei conduttori dei talk show e dei programmi di «approfondimento», costoro - «ex-latitanti» - possono fregiarsi dell'eufemismo ammiccante di «ex-rifugiati». Il deputato Caruso che a quei tempi era sul passeggino s'è entusiasmato per l'aria di revival che tira, al punto da annunciare la presenza di bombe molotov nel cortile di Montecitorio. Si annuncia da altre fonti anche un blitz anti-Prodi per il prossimo fine settimana.
In attesa del prossimo notiziario, interi scaffali di biblioteche e archivi giudiziari ci possono far riflettere sul confine labile tra disobbedienza, culto dell'illegalità, sovversivismo, pericoli di tenuta democratica. Chi non li ha vissuti, quegli anni cui alludono i vecchi/nuovi disobbedienti che affollano i nostri telegiornali, non sa che a quei tempi si cominciò con gli epiteti, si passò ai sampietrini, e infine alle P38 e alle mitragliette armate di geometrica potenza.
Stavolta c'è una novità: a differenza del passato, essi sono i beniamini di una Destra ad alto tasso becero che si rispecchia e gode di tante immagini deformate, e può sentenziare che il governo sarebbe «ostaggio» delle spinte e delle forze più «radicali». È questo un discorso che vorremmo fare sommessamente soprattutto a chi - a sinistra - corteggia, anche solo con il silenzio, i laudatori del brutto tempo andato, e i loro più o meno consapevoli giovani seguaci.
Sia chiaro. Nulla da dire se il presidente della Camera Bertinotti proclama in queste ore il suo pacifismo: non ci sembra che con ciò stia violando i vincoli del suo incarico istituzionale. Ma dovrebbe spiegare meglio che cosa volesse intendere, intervistato l'altra sera da Grparlamento, quando ha detto che «ogni atto» che impedisca il rafforzamento di basi militari «è buona cosa». A noi pare che non solo Bertinotti abbia detto qualche parola di troppo. Ma che finora un po' tutti - ed è una riflessione da farsi senza insulti - ci eravamo illusi che dando «rappresentanza» a un certo mondo, come, per esempio, con certe candidature di «indipendenti» nelle file di Rifondazione, se ne potessero smorzare spinte e velleità agitatrici.
È questo un tema che la sinistra radicale che sta al governo, diciamo la sinistra radicale che veste in grisaglia, o quanto meno in giacca e cravatta, dovrebbe porsi con maggiore serietà e coerenza di quanto non stia mostrando in queste ore confuse. Vogliamo segnalare questo punto critico. E preveniamo, anche, una prevedibile risposta. Se si vuol dire che profonde sono le ragioni che spingono una parte forse marginale della sinistra a inseguire vecchi e ambigui miti, siamo d'accordo. Ma se ci fermiamo su questa soglia giustificazionista, non ne usciamo. L'auto-assoluzione ideologica è un vecchio vizio, comune alle nostre diverse anime. Nella Giornata dello scrutatore, splendido racconto-pamphlet degli anni del primo centrosinistra, Italo Calvino raccontava di quella «compagna» che ripeteva che «ben altro» era/è il problema: la sinistra riformista degli anni Sessanta, non si accorse, rinviando a «ben altro», come le suore democristiane portassero in cabina elettorale al Cottolengo vagonate di ciechi e di dementi.
Oggi c'è una questione urgente, che riguarda invece la sinistra cosiddetta «radicale», e ancora una volta non si può rinviare tutto alla soluzione di «ben altro». Eskimo e giacca e cravatta, indossati assieme, non stanno bene addosso a nessuno, formano un look pasticciato che non si addice a nessuna forza politica che abbia scelto la strada del governo del paese. Anzi, bisogna convincersi che l'eskimo di Oreste Scalzone è semplicemente un capo d'abbigliamento fuori tempo: per quel che ricordiamo, anche quand'era in auge assorbiva unto e umidità, non riparava dal brutto tempo. Meglio metterlo in soffitta.

sabato 20 gennaio 2007

l'Unità 20.1.07
«Quel ribellismo veniva da lontano, dal 1968 e dalle stesse avanzate elettorali comuniste. Ma non trovò sbocco»
Asor Rosa: il Settantasette? Una catastrofe per la sinistra
di Bruno Gravagnuolo


ANNIVERSARI Parla lo storico della letteratura italiana che dalle colonne dell’Unità «aprì» al movimento con il famoso articolo incentrato su Le due società: «Il vero limite fu il compromesso storico. E il Pci finì stretto da destra e da sinistra»

Le due società. Fu questa la chiave di lettura che Alberto Asor Rosa, grande italianista, artefice di esperienze teoriche come Quaderni Rossi e Classe operaia, ex Psiup poi passato al Pci nel 1976 e direttore di Rinascita nel 1989, adoperò per spiegare la natura di un movimento indocile e refrattario ad ogni tradizione politica come quello del 1977. Venuto clamorosamente alla ribalta con la cacciata di Lama dall’Università di Roma da parte degli «autonomi» il 17 febbraio di quell’anno. Significava che da una parte c’erano i garantiti, coloro che riuscivano a incamerarre un reddito sicuro, inclusi i ceti subalterni organizzati che godevano dei benefici del Welfare. E dall’altra una vasta massa di giovani precari, marginalizzati, senza prospettiva di inserimento sociale. E che in qualche modo faceva di necessità virtù. Teorizzando e praticando « comunità antagonista», soggettivismo libertario, rifiuto del «progetto» e dell’eticità del futuro. E rigettando le logiche e le pratiche del movimento operaio organizzato.
Quella di Asor era una chiave di lettura originale, messa a punto in un articolo de l’Unità del 20 marzo 1977(poi confluita in un volume Einaudi), tre giorni dopo l’aggressione a Lama. E che non solo metteva a fuoco una fenomenologia di comportamenti inaccettabili, ma inesplicabili per il Pci. Ma che anticipava in qualche modo il futuro degli anni 80 e 90: precariato come fulcro del capitalismo flessibile e globale. Individualismo di massa. Edonismo. E soprattutto - dice oggi Asor Rosa - «anticipava integralmente la perdita di aura e di prestigio etico che avvolgevano il Pci e il sindacato. Il suo ruolo sacrale e la sua missione finalistica».
Ovviamente, e questo Asor lo sa bene, tutti quei germi culturali erano una certa cosa nel contesto di fine anni 70. Diventeranno altra cosa, e con segno conservatore, nel clima caratterizzato dalla sconfitta del Pci dopo l’uccisione di Moro. Con l’ondata neoliberista e con la sfida craxiana. Torniamo allora a riparlare con Asor Rosa di quella stagione oggi, a trent’anni da quei fatti, in un clima integralmente mutato. Per capire se quel ciclo di eventi fu in qualche modo «periodizzante», se rappresenta uno spartiacque tra un prima e un poi. O se invece fu solo un accidente effimero, e non degno di enfasi storiografica. Intanto escono tanti libri e tante rievocazioni, da Ali di Piombo di Concetto Vecchio a 1977 di Lucia Annunziata, che visse i fatti di quell’anno da giovane cronista del Manifesto. Cronista «simpatetica» e schierata con gli studenti, alla quale capitò, come essa stessa racconta nel libro, di doversi scontrare con Rossana Rossanda, molto più critica di Annunziata sui caratteri di violenza e di radicalismo autolesionista insiti nel «movimento» (e tra gli episodi narrati c’è la reprimenda di Rossanda alla cronista che aveva portato in redazione come trofeo un sampietrino).
Ebbene, il giudizio di Annunziata sul Pci dinanzi al movimento è ancora oggi aspro: integrale chiusura settaria, ottusità. Non senza notazioni auobiografiche generazionali: «Odiavamo i nostri padri comunisti». Che ne pensa Asor? Integralmente sbagliate la cautela e la condanna fatte proprie dal Pci di allora? Replica articolata, ma chiara. «Era palese - dice - che quel movimento fosse in rotta di collisione culturale e politica con un partito che allora sperimentava una via ambiziosa e dalla logica ferrea: la cogestione del sistema con la Dc. E il tutto dopo le grandi avanzate elettorali del 1975 e del 1976. Avanzate che avevano condotto il Pci a pochi punti percentuali dalla Dc, e che avevano costretto quest’ultima, visto che non c’era maggioranza, a considerare l’idea di un condominio politico, con il Pci fuori dal governo». E allora, prosegue Asor, se la realtà era questa, se quelli i vincoli internazionali, se quella la logica del sistema politico, «lo scontro con la galassia giovanile di sinistra era inevitabile. E con una galassia di esclusi oltretutto, che a differenza dei giovani del 1968 non avevano in sé la cultura e le categorie del movimento operaio».
Dunque, nessuna mediazione era possibile? Nessuna apertura? Nessuna capacità di inglobare quell’insorgenza? E ancora: che tipo di insorgenza era, da un punto di vista sociale? Risponde ancora Asor: «Era una ribellione piccolo borghese e di massa, agita da una sorta di nuovo semiproletariato intellettuale stazionante dentro l’università, che aveva spalancato le sue porte sotto la spinta operaia e studentesca. E lo dico, sia chiaro, senza nessun moralismo aristocratico. Occorreva capire che si trattava di un processo schiuso dalla stagione del 1968, dalle stesse lotte sociali di dieci anni prima. E soprattutto dalla stessa imponente avanzata del Pci. Invece prevalse il muro del “compromesso storico”, e poi l’involuzione della violenza brigatista». Insomma per Asor il Pci di quegli anni accreditava l’idea di «una società bloccata a controllo totale», in condominio con l’altra forza chiave, la Dc. Società senza sbocchi politici, e che incoraggiava di fatto velleità violente. Senza dubbio, e Asor ci tiene a precisarlo, quella del compromesso storico e della connessa «austerity» - specie di keynesismo berlingueriano - «costituivano una strategia alta». Ovverosia, «erano il massimo limite raggiungibile - sia in chiave di proposta che di autolegittimazione - che una forza politica comunista potesse raggiungere in occidente». E tuttavia, continua Asor Rosa, «io non fui d’accordo con quella linea, perché reputavo che fosse un vicolo cieco. Non portava il Pci al governo, e non dava sbocco alla sua forza, lasciandolo inerme dinanzi all’attacco reazionario, che pure vi fu negli anni di piombo».
D’accordo, ma di là degli errori di «settarismo» e di ingenuità - l’errore di far entrare Lama nell’Università occupata - che cos’altro si poteva mettere in campo dinanzi a quell’esplosione che veniva di lontano, come lei dice? «Intanto ci voleva un’analisi diversa di quel movimento, e del sostrato sociale sotteso. Un’attenzione specifica. Ma soprattutto occorreva offrire una concreta sponda politica all’onda montante. Parlo di una prospettiva di alternativa a sinistra, l’unica capace di rappresentare uno sbocco, in quelle condizioni». E sia professore, il suo non è «senno del poi», visto che proprio quella fu allora la sua posizione. Eppure non ha appena detto che il compromesso storico era altresì la frontiera più avanzata che un partito comunista in occidente potesse lambire? «Certo, ma il punto era esattamente quello: superare la frontiera. E mettere all’ordine del giorno la possibilità di oltrepassare la tradizione comunista. Delineare quindi una nuova identità di sinistra, ben piantata, nelle nuove condizioni, sul movimento operaio e sui ceti subalterni, ma inedita e sostenibile in occidente». E in effetti proprio a questo progetto tentò di lavorare Asor Rosa tra fine anni 70 e anni 80 con la rivista Laboratorio politico (c’erano Tronti, Cacciari, Accornero, Bolaffi, Marramao), tesa a un riformismo di massa, di sinistra, neosocialista (non craxiano, ma anti) e alternativo al sistema politico bloccato (anche dalla perdurante identità comunista di allora).
Progetto fallito, malgrado le speranze del 1989 e malgrado il Pds, che a questo doveva servire. E ritardo destinato a pesare ancora oggi, per Asor Rosa, «in un momento in cui l’idea del partito democratico, oltre che allontanamento da quel compito, è anche a mio avviso deriva e sradicamento dalla prospettiva di una sinistra autonoma, forte e radicata».
Ma torniamo al 1977, e alla violenza terrorista, che in qualche modo ne fu l’epilogo amaro. «Nel 1977- dice Asor - allorché la contrapposizione al Pci e al sindacato si fece totale, il passaggio alla lotta armata non fu più un tabù riservato a poche avanguardie militarizzate. Divenne a suo modo di massa. Cosicché l’anticomunismo di sinistra si saldò a quello di destra. E il fallimento dell’ultima operazione politica del mondo uscito dall’antifascismo e dalla Resistenza - il compromesso storico - genera una tenaglia estremistica: tenaglia della destra e della sinistra». Infine, un’ultima notazione, di nuovo sulla mentalità e sulla cultura di quegli anni. Dalla riscoperta di Nietzsche, alle radio libere, alla creatività, al libertarismo «foucaultiano» e «deleuziano», alla rivalutazione del corpo e del femminismo. Ebbene, benché poi riciclate con segno diverso, e in un’altro contesto, tutte quelle istanze non hanno anche rinnovato il costume e la sensibilità dei nostri anni? «Con tutta franchezza e a decenni di distanza da quel periodo, direi intanto che ricordo quegli anni con enorme tristezza. Li ricordo come anni plumbei, di sconfitta. O almeno come inizio della sconfitta. E infatti il Pci si involve all’opposizione: battuto, isolato, come negli anni 50. Il tutto mentre avanza il craxismo. Quanto al libertarismo e al mutamento di costume, direi che i veri presupposti di quel che esplode nel 1977 stanno nel 1968. Fu quella la vera data spartiacque ed è lì che si piantano i semi di quella gigantesca rivoluzione del costume che investirà da cima a fondo la società italiana, non nel 1977».

venerdì 19 gennaio 2007

Repubblica DIARIO 19.1.07
Il Settantasette quando nei cortei spuntò la P38
Trent'anni fa il terrorismo prendeva il sopravvento
di Adriano Sofri


Gli scontri studenteschi, i gruppi, armati e non, e la violenza che montava
Un movimento diviso tra velleità creative ed estremismo rivoluzionario

«Ci tolgono la gioia, ci tolgono la vita... ». Migliaia di giovani ebbero nel '77 un'iniziazione travolgente, di cui serbano un ricordo geloso, come di qualcosa di riservato, incompreso o violato da chi non c'era, da chi era contro. Non feci allora gran conto delle rivelazioni teoriche, l'operaio sociale e il pensiero desiderante e il resto. Mi impressionava invece l'attaccamento intenerito e spaventato a una vita comune, separata e irriducibile a quella del mondo ufficiale e adulto: una comunità che si rannicchiava nel suo territorio, l'università e le scuole, certe piazze di quartiere e case occupate, e ne usciva come si azzarda una sortita in uno stato d'assedio, e non voleva cambiare il mondo, ma tenersene uno per sé. Di quella comunità romantica in modo adolescente, composta per tanta parte da adolescenti veri, le espressioni migliori si trovano nelle fotografie di Tano D'Amico e nell'effusione delle famose lettere a Lotta Continua, che allora leggevo con esasperazione. Anche la breve allegria, la dissacrazione del mondo ufficiale scemo-scemo, aveva un'aria di comunità a parte, di riserva indiana, appunto. Non aveva voglia, quel movimento, di conquistare il potere e nemmeno di guadagnare alla propria causa la maggioranza, ma di mettersi in proprio. La Repressione fu il suo spettro: non che mancasse la repressione concreta, ché anzi Francesco Cossiga, bersaglio lui stesso di un odio smisurato, sostenne con un oltranzismo infantile il ruolo di duellante, e andò a occhi chiusi al suo appuntamento con la tragedia.
La moltitudine di ragazze e ragazzi che fino all'inizio del '77 erano restati in aspettativa altrove, o non avevano ancora raggiunto l'età per mettersi in corteo, si riconobbe unita da qualcosa – disoccupazione giovanile, massificazione scolastica, ma sono razionalizzazioni prosaiche di un più sfuggente senso di esclusione e di misconoscimento – e subito si sentì minacciata da un Potere che la odiava e la scandalizzava con la morte dei giovani.La morte diventò compagna di quella nuova comunità, e la diede in pegno al vecchio gioco della violenza.
Lotta Continua si era sciolta. In realtà, continuava a esserci, ma con un impulso a ritrasformarsi nel "movimento" - non c'ero più io, smesso. Negli altri gruppi c'era un irrigidimento conservatore e una smobilitazione militante. Il quotidiano di Lc moltiplicò la sua influenza, pagando un doppio scotto: di una reticenza sulle malefatte nel "movimento", e di una esposizione al ricatto dei suoi reparti maneschi. In quel vuoto l'Autonomia operaia e i gruppi che avevano già fatto il passo della clandestinità terrorista ebbero a portata un frutto insperato, e ne fecero un boccone. Non fu affare di ideologia: la loro era poco attraente. Nemmeno di efficienza e brutalità organizzativa, che c'era, ma respingeva le persone, salvo sequestrarle nei momenti dello scontro fisico. Il movente era in quella sensazione di malvagità del potere, di invidia dei giovani e della loro voglia di amicizia e di felicità. Le nuove reclute conoscevano le prime vittime, i primi picchiati o incarcerati, e bisognava votarsi alla solidarietà con loro, disporsi a emularne la pena. Su questo sentimento si innestava il martirologio antico, la sequela dei caduti di cui si imparavano i nomi, i compagni carcerati, lo Stato, la Repressione. Un movimento, anche il più ingenuo e innocente, che non sia educato alla nonviolenza, non si sottrae alla stretta fra violenza repressiva e violenza dello scasso. (A Genova nel 2001 successe di nuovo, e si sono già perdute le molotov d'ordinanza).
La partita si giocò il 12 marzo a Roma. Alla vigilia, a Bologna, Francesco Lorusso, 25 anni, studente di Lotta Continua, era stato ucciso dalla pistola di un carabiniere, a ridosso di un'incursione, malaugurata ma innocua, di militanti di sinistra in un'assemblea di Comunione e Liberazione, cui non aveva partecipato. La manifestazione fu enorme, e si misurò con uno schieramento di polizia a sua volta enorme. Blindato l'accesso a via Nazionale, prevalse la volontà di far valere la forza politica del corteo, che scese per via Cavour. Quando già la testa era a largo Argentina, un gruppo, facendosi scudo di uno spezzone composto da donne, attaccò con le molotov la sede della Dc e la polizia schierata. Le forze dell'ordine, o almeno i loro capi, non aspettavano altro. La città a ferro e fuoco: centinaia di feriti, arrestati, vetrine infrante, auto (utilitarie per lo più) incendiate o sfasciate, armerie svaligiate, sparatorie, caccia all'uomo. Nella gran parte dei manifestanti restò un senso di frustrazione e di inganno. Ma nemmeno quella amarezza bastò a rovesciare il tavolo. Si sentì di muoversi in un vicolo cieco, senza il coraggio di una ritirata, che un ricatto facile faceva passare per diserzione. Nemmeno il giornale di Lc usò parole abbastanza nette. Non che non le pensasse: ma si lasciò a sua volta legare dal senso di responsabilità. Voleva stare dentro il movimento per scongiurarne la resa ai feticisti della violenza e ai reclutatori della lotta armata. Nel corso dell'anno, il giornale arrivò alla rottura piena con l'idolo dell'"unità del movimento", più drammaticamente quando fu ammazzato Carlo Casalegno a Torino. Quella Lc trasfusa nel "movimento" lo convogliò nel convegno di settembre a Bologna e ne sventò un ulteriore esito violento, e ottenne anzi una piccola ricucitura negli strappi che avevano contrapposto la città "comunista" ai giovani, di cui il funerale di Lorusso lividamente confinato in periferia fu la macchia peggiore. Ma dal vicolo cieco il "movimento" non sarebbe più uscito. Il resto dell'anno riservò altri ammazzamenti, e "gambizzazioni" - neologismo d'annata - e attentati e scontri e Giorgiana Masi e odio e rancore senza fine. Gli adolescenti che avevano Aldo Moro.
Fuori gioco, seguivo con trepidazione i miei compagni che si prodigavano per tenere le cose di qua dal precipizio – Alex Langer nella famosa foto, accucciato con le mani giunte accanto al poliziotto che giace in strada colpito il 2 febbraio 1977, Marco Boato che sfida la minaccia teppistica nel Palasport di Bologna, Enrico Deaglio che risponde alla "condanna a morte"» fornendo i percorsi delle sue giornate. Il corteo del 12 marzo lo seguii dai bordi. A un angolo di via Cavour mi intrattenni con Umberto Terracini, trepidante per il più piccolo dei suoi figli, che tante volte mi aveva raccomandato. Massimo aveva allora vent'anni, è morto nel 1995. Ero persuaso che bisognasse impedire che il retaggio dell'estremismo politicante e filoterrorista si saldasse con la nuova leva militante, nel vittimismo e nel lutto. Che fosse essenziale, prima del diluvio, dare un segno di svolta e disarmare la retorica del complotto e del martirio con un'amnistia per tutti, sinistra e destra. Sentendo di essere alla vigilia del diluvio, fare come se si fosse all´indomani del diluvio. Liquidare una partita, perchè la prossima non si caricasse del debito antico. «Vuoi tirare fuori Curcio?», mi chiedevano. Volevo: se non altro, avrebbe impedito ai ragazzi in corteo di gridare, senza sapere perché, "Curcio libero". Qualcun altro rivendicava l'amnistia politica per "i compagni prigionieri", dagli autonomi a Guattari, ma era una parola d'ordine agitatoria, come gridare "Curcio libero". La mia speranza era irrealistica. Questo non toglie che mi interroghi sui suoi eventuali effetti. C'è sempre quel tornante dell'assassinio di Moro, a fare da pietra di paragone.
Il '77 si porta dietro la sensazione soffocante di un angolo in cui si resta inchiodati, senza scampo. Però le cose non sono ineluttabili come diventano una volta consumate. Che cosa sarebbe successo se il Pci non avesse deciso di cercare la prova di forza, se il 17 febbraio Luciano Lama - piuttosto l'esecutore incauto di quella decisione - non fosse andato a sfidare il movimento alla Sapienza? Su questo giornale Eugenio Scalfari commentò l'errore di Lama. Ci sono errori che costano molto cari. Quella giornata scavò fra il movimento operaio e i giovani un fossato mai più colmato. Da parte di professionisti del realismo, fu una prova di imprudenza micidiale. A distanza di tre anni, fu ripetuta a Mirafiori con il comizio di Berlinguer che, a domanda, ammise con un involuto imbarazzo l'appoggio all'occupazione, e il messaggio fu che aveva incitato a occupare. La marcia dei cosiddetti 40 mila fu poi l'equivalente del 12 marzo romano. Due tappe essenziali nella destituzione della classe operaia in Italia.

Repubblica 19.1.07
Un paese diviso e spaventato
Il paese delle urla e delle rivoltelle
di Giorgio Bocca


Per Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, quel '77 gli piombò addosso come una slavina di giovani selvaggi. Fu qualcosa di imprevedibile

Al megaconvegno contro la repressione a Bologna si andò con la famiglia intera: mia moglie e io all'hotel Jolly, matrimoniale con bagno, i tre figli adolescenti sotto i portici dell'università con i sacchi a pelo. Si diceva che erano arrivati a Bologna in sessantamila: l'Italia ribollente della contestazione, più parole che rivoltelle, che faceva da coro all'avanguardia rivoluzionaria delle Brigate Rosse, molte parole ma anche qualche rivoltella. E subito l'impressione di una festa giovanile più che di un'adunata sediziosa, subito l'impressione che si era lì per divertirsi più che per combattere. Così del resto era avvenuto tutto l'anno. Sì c'erano i brigatisti e i gambizzati, i Prima linea irresponsabili e feroci e ogni mattino fra le otto e le nove c'era l'ora in cui l'uomo-simbolo, la vittima esemplare, poteva cadere sull'asfalto di una strada, nel suo sangue ma la tragedia si mescolava sempre alla festa, alla vacanza; quelli di Prima Linea "staccavano" per andar a sciare al Sestriere, i brigatisti rossi emiliani andavano a Spigarolo per provare i nuovi culatelli e a Bologna al megaconvegno si andava per la politica ma anche per lo scontro teatrale fra studenti anarcoidi e militanti del Pci che era una cosa seria ma sembrava un po' una storia come La secchia rapita. Quei tumulti metà veri e metà recitati piacevano molto a tutti, facevano parte di quelle lotte civili che sono la passione degli italiani, quelle guerre in cui tra una battaglia e un agguato torni a casa per dormire nel tuo letto.
Bologna era al centro di quella tragicommedia esplosa il 12 marzo di quel burrascoso '77. Al centro della città si è formata una sacca di rabbia e di scontento: migliaia di giovani di sinistra che dopo uno scontro con i cattolici di Cl partono in corteo diretti a Piazza Grande. I carabinieri cercano di fermarli, parte un colpo di moschetto e colpisce a morte lo studente Francesco Lorusso di Lotta continua. È la rivolta. I giovani danno fuoco al "Cantunzein", il ristorante dove il professor Zangheri sindaco della città invita gli stranieri che vengono a visitare il "miracolo rosso" di Bologna, il comunismo ricco, la grande trovata del "capitalismo gestito dai compagni". Da lì l'idea della sinistra radicale di fare proprio a Bologna un maxiconvegno contro la repressione. Ne nasce qualcosa di veramente maxicomprensivo di tutta l'Italia intellettuale e politica di allora. Tutti vengono a Bologna alla ricerca della loro identità, che in sostanza rimane l'identità della italica borghesia, ma che tutti vogliono mascherare, rifiutare, deformare. È una colossale commedia degli equivoci che il popolo bolognese dei negozianti e dei ristoratori capisce al volo ricevendo fraternamente i "sovversivi" in cui riconosce i figli che ha mandato all'università perché diventino anche loro dottori, professori. I promotori del maxiconvegno nati e vissuti in Bologna la dotta vogliono la rivoluzione ma anche il corpo accademico, invitano avvocati democratici, psichiatri, magistrati, giornalisti a patto che accettino gli sberleffi e gli "scemo" della base movimentista, vogliono ospitare lo spontaneismo giovanile ma nel rispetto della buona cultura, si rivolgono a una classe operaia immaginaria mentre quella vera, presente a Bologna in carne e ossa sta nei servizi d'ordine delle aziende municipalizzate. Ha risposto bene il sindaco professore ai giovani del convegno che si presentavano come occupanti di Bologna: «Ragazzi, l'abbiamo occupata già noi del Pci».
La città risolve da sola i problemi della coesistenza con i bravi ragazzi che si dicono rivoluzionari. Trasforma l'invasione in affare. Il resto lo fanno gli intellettuali che recitano se stessi, la Maciocchi, Dario Fo, Felix Guattari, Alain Guillaume che fraternizzano con Mimmo Pinto leader dei "disoccupati organizzati" arrivato da Napoli.
Bologna invasa ricorda un po' la battaglia di Alesia del divo Cesare, gli eserciti in campo sono l'uno dentro l´altro assedianti assediati. Potrebbe succedere che un autonomo vestito da poliziotto spari sugli studenti come che un poliziotto vestito da autonomo spari sui carabinieri. Del resto anche i giovani che protestano contro la repressione si sono già divisi fra radicali e moderati. Gli intellettuali, i riformisti, i garantisti si ritrovano a discutere all'università e nei vecchi palazzi forniti dal municipio comunista mentre i duri, quelli venuti a Bologna per menare e magari per sparare, si ritrovano al palazzetto dello sport, i Volsci romani, gli autonomi di Padova, quelli di Potere operaio, quelli di Senza tregua e di Prima linea che urlano "Curcio libero".
Ma nello schieramento concentrico ci sono anche diecimila poliziotti che circondano il palazzetto dello sport senza attaccarlo e attorno ai poliziotti nella periferia della città il governo ha mandato anche i soldati dell'esercito per essere ben sicuro che il vulcano non esploderà. Anche gli studenti giovanissimi delle scuole medie si sono riuniti in un teatro, sono gli ascoltatori di Radio Alice del rivoluzionario Bifo, giovane e divertente che ho preso in giro sul giornale. Entro nel teatro e mi riconoscono. Sale un coro più scherzoso che minaccioso: «Radio Alice non si tocca, sequestriamo Giorgio Bocca». Forse ci sono anche i miei figli a ritmare la filastrocca.
Il '77. Dice Renato Curcio il fondatore delle Br: quel '77 ci è piombato addosso come una slavina di giovani selvaggi. "Slavina" è la parola giusta. Il Movimento, come lo chiamano, è qualcosa di imprevedibile, di inarrestabile. Le Br cercano disperatamente di chiudergli le porte avendo capito che ne sarebbero travolti, una chiusura totale, maniacale, disperata. Il nucleo storico ma anche Moretti e Fenzi, i brigatisti nuovi della O, l'organizzazione che viene dopo il primo slancio rivoluzionario, capiscono a tatto, a odore, a istinto o prima che a ragione che la slavina giovanile è qualcosa di anarcoide che ha tagliato i ponti con la storia di famiglia, con il partito comunista, con gli operai, con la disciplina leninista, con i pugni di acciaio. Ricorda il brigatista Ognibene: noi dal carcere ci rendevamo conto che non saremmo mai riusciti a controllare quella leva giovanile. Nel '77 ogni possibilità di costituire un partito era caduta, le forze sociali in movimento erano troppo composite, i nostri legami con l'esterno erano stati sommersi dalla quantità di lotte ambigue e mutevoli. A un certo punto fra noi del gruppo storico si arrivò a dire: «Compagni noi le Brigate rosse le abbiamo fatte, potremmo anche disfarle».

Repubblica 19.1.07
I libri
La città emiliana fu l'epicentro per tutto il movimento
dentro il precipizio di Bologna la grassa
di Michele Serra


Nel settembre di quell'anno, Bologna si riempì di giovani e intellettuali, arrivati dall'Italia e dall'Europa, per una specie di folle happening rivoluzionario

Manca a certificarlo una fotografia di Robert Capa. Ma pare proprio che il carrello dei bolliti del ristorante "Cantunzein", appena svaligiato, abbia fatto la sua parte nei tumulti attorno a piazza Verdi, pieno centro di Bologna. Tra le armi proprie e improprie di quegli anni, e di quell'anno in particolare, sarebbe bello potere ricordare solo quella: l'icona di una rivoluzione dadaista.
Il carrello sulle barricate è l'immagine più diffusa della vulgata postuma sul Settantasette bolognese. E rappresenta bene l'attitudine teatrale, giocosa, beffarda di una delle anime di quella rivolta rimasta molto local nonostante sia stata goffamente globalizzata da un celeberrimo e surreale intervento di intellettuali francesi, compreso il vecchio Sartre, che promossero la povera Bologna a "capitale mondiale della repressione". (Soltanto il cardinal Biffi, vent'anni dopo, riuscirà a dare di Bologna un'immagine perfino più incongrua e sopra le righe, definendola "sazia e disperata": quando si dice gli opposti estremismi...).
Ma in Italia - altro che dadaismo - si sparava. Ci si ammazzava per la strada, in un crescendo di agguati e regolamenti di conti che hanno avuto per soli emuli, in questo paese, le guerre di mafia. In quei giorni del marzo bolognese lo studente Francesco Lorusso venne freddato sotto i portici dai colpi della polizia. Fu l'anno in cui caddero a Roma Giorgiana Masi, sempre per mano di agenti di Stato, a Milano l'agente Custrà ucciso dagli autonomi, a Torino Casalegno dai terroristi rossi. La P38 era il ripugnante feticcio di una parte minoritaria ma ancora molto contigua della sinistra rivoluzionaria: un pistolone da gangster-movie la cui sagoma omicida veniva mimata a mani nude nei cortei di autonomia.
Il movimento del Settantasette fu strenuamente radicale: in tutto. Nei suoi ribaltamenti linguistici, nel ribollente rifiuto delle convenzioni e perfino del senso della politica; ma anche nella drasticità inappellabile, davvero "estrema" (nel senso che, un passo più in là, non c'era più niente, anzi c'erano la morte della politica e il Riflusso) di molti suoi atti, di molte sue istanze, collettive e individuali. A differenza del Sessantotto, che era stato pura politica, e si era posto la questione del potere fino a diventare quasi la parodia del comunismo dei padri, con piccoli Politburo di ventenni che questionavano di strategia e di tattica, il Settantasette fa semplicemente a pezzi la politica tradizionale, o forse la politica tout court. Parla di "desideri" e non più di bisogni sociali, ignora oppure spregia la questione del potere e dell'egemonia, esalta il soggetto "desiderante", la libertà incondizionata, assoluta, non veicolabile da nessuna autorità. Si fa beffe, anarchicamente, di qualunque forma istituzionale abbia assunto, fin lì, la politica. Inevitabile e fatale il cozzo frontale con il Pci, il sindacato, la sinistra storica, la morale e il moralismo del movimento operaio, l'addolorata prudenza berlingueriana. "Noi odiavamo i comunisti", scrive Lucia Annunziata del suo libro 1977.
Insieme all'assalto al palco di Luciano Lama, all'Università di Roma, la sommossa bolognese fu l'altra conferma, forse perfino più rilevante, della natura anti-comunista (letteralmente) di quel movimento di studenti: circostanza che fu notata, e lodata, anche sul Corriere della Sera. La città allora simbolo del comunismo riformista era anche il simbolo dell'imborghesimento di una classe dirigente e di una base sociale orgogliose delle loro conquiste e della loro egemonia. Perbeniste, moderate, in fin dei conti soddisfatte: imperdonabile e odiosa condizione, la soddisfazione, per quella piccola moltitudine di giovani che incarnava con una foga quasi visionaria, quasi dolorosa, la smania di desiderare, di sperimentare, di godere.
Quell'ostentato sporgersi oltre il limite, verso il precipizio, che è tipico di molte adolescenze, in quel momento, in quel movimento, diventa una specie di anima collettiva: un'esperienza bruciante da consumare tutta intera, tutti insieme e subito, comprese le evidenti pulsioni di morte, di consunzione strenua, e pazienza se dopo rimarranno solo le ceneri. Il movimento è insieme generoso (perché non fa calcoli) e masochista (perché non fa calcoli). La politica è poco, la politica è stretta per istanze e parole d´ordine che sono squisitamente esistenziali, identitarie: i "desideranti" non sanno che farsene di conquiste sociali che si esauriscono nel decoro dei padri operai e delle loro cooperative. La fatica e il sangue che quelle conquiste popolari costarono non riesce minimamente a pesare nello scontro convulso di quei giorni, a calmierarlo. Il Pci bolognese consuma la sua onta facendosi sempre più Stato, chiudendosi astiosamente (odio che risponde a odio) e appoggiando sostanzialmente la repressione dei moti. Ci vorranno molti anni, in città, per ricucire almeno in parte quella ferita: in buona parte grazie alla rimozione.
Nel settembre di quell'anno Bologna si riempì di giovani, arrivati da tutta Italia, per una specie di folle happening rivoluzionario "contro la repressione", con gli immancabili intellettò francesi. Non accade niente di particolarmente sgradevole, semmai qualcosa di divertente: per esempio una discussione pubblica se fondare o non fondare un nuovo partito armato, alla presenza dei giornalisti e probabilmente di qualche decina di agenti in borghese. Tutto si disfa in fretta, smobilita, cessa di essere politica (nella misura in cui è riuscito ad esserlo) e diventa memoria personale. Il Settantasette finisce nel 77: poca cosa. Di lì in poi, parleranno da un lato le armi dei brigatisti, dall'altro una placida, irresistibile restaurazione, che sostanzialmente dura fino ai giorni nostri e della quale non si incaricarono né lo Stato e neanche l'odiato Pci: più banalmente, è avvenuta ad opera del consumismo, della televisione, del conformismo sociale.
Di quel vitalismo irriducibile resta molto controversa, anche oggi, un'interpretazione politica: l'autodefinizione del movimento fu di sinistra estrema, e si deve prenderla per buona. Anche se per l'opinione marxista classica si trattava di velleitarismo piccolo-borghese. Ancora più complicata la discussione se si prova a ragionare sui "desideri" e i "desideranti" con il senno di poi, cioè il nostro: cinicamente, potremmo dire che molti dei desideri che l'ottuso Pci non seppe e non poté esaudire (né reprimere) li ha abbondantemente esauditi il Grande Fratello nel prosieguo dell'epoca...
Non è un caso, comunque, se le tracce più convincenti di quel periodo, le più visibili, le più tipiche e anche le più apprezzabili, sono impresse nella memoria artistica e culturale e non in quella politica. Restando nella sola Bologna: la stagione del rock demenziale, il cabaret surreale del Gran Pavese, un fiorire notevole di scrittura e scrittori, il fumetto d'avanguardia e soprattutto il geniale lavoro di Andrea Pazienza - morto per droga poco più che trentenne - che seppe raccontare con furore quasi céliniano (ma allegro! diamine!) i giorni e soprattutto le notti di quei gruppi di studenti famelici di vita, allucinati dalle droghe, disperatamente amorosi.
Il vitalismo e soprattutto il narcisismo sono, in politica, vizi capitali, anche se magari schiudono le porte del potere individuale meglio e più in fretta, come è avvenuto, del resto, per molti degli ex rivoluzionari di quegli anni. Ma dell'arte, il narcisismo è spesso alimento, ragione fondante. Purtroppo non tutti da quelle parti, e in quell´anno, erano artisti.

Paul Ginsborg: I giovani del movimento del '77 differivano radicalmente dai loro idealisti e ideologizzati predecessori del ‘68.
Vittorio Foa: Il mito della centralità operaia, dell´operaio forte che con le sue vittorie cambia il mond era già contestato "da sinistra" nel 1977
Jean-Paul Sartre: Da febbraio l'Italia è scossa dalla rivolta dei giovani proletari, dei dimenticati dal compromesso storico e dal gioco istituzionale
Giorgio Amendola: Queste anime nobili che protestano per Radio Alice, mi fanno pensar a quelli che, tra il '20 e il '22, degli squadristi dicevano "teste calde"

Repubblica 19.1.07
La frontiera del riformismo
di Tony Blair


Solidarietà, giustizia, uguaglianza: erano i valori in cui credevamo noi progressisti, e lo sono ancora. Ma il mondo in cui quei valori si sono formati è profondamente cambiato. Era un mondo di classi sociali nettamente differenziate, di produzione di massa, di uomini d'affari in doppio petto, di grandi aziende rigidamente distinte dalle piccole. Oggi quel mondo si è trasformato al punto da risultare irriconoscibile. La produzione di massa non esiste più negli stessi termini, tecnologia e globalizzazione hanno reso necessario un costante riadattamento al mercato, un grande business può improvvisamente scomparire e uno piccolo diventare grande con altrettanta rapidità. La parola d'ordine è diventata «liberalizzazione». Per qualcuno, nella sinistra europea, questa è una parolaccia. Eppure descrive il modo in cui vivono e lavorano gli uomini e le donne del nostro tempo.
Un nuovo modello sociale europeo, per fare i conti con questo mondo, deve basarsi di meno sulla protezione dei cittadini e di più sullo sforzo di dare alla gente il potere di controllare le proprie vite. Per realizzare un obiettivo simile, una buona istruzione per tutti è il singolo elemento più importante. Ma non è il solo. Siamo di fronte a una classe sociale in continua espansione. Una classe che io definirei la classe di coloro che aspirano a un maggiore benessere, a un'elevazione della propria condizione sociale, e che perciò è meno tollerante nei confronti della criminalità, più preoccupata per la propria sicurezza, più attenta ai benefici ma pure ai problemi creati dall'immigrazione.
Se le forze progressiste d'Europa non capiscono questo, allora i valori su cui è basato il nostro credo politico, i valori di solidarietà, giustizia, uguaglianza, non servono a niente; allora le forze progressiste diventano forze conservatrici, interessate a difendere uno status quo anziché a innovare. Può anche darsi che, così facendo, riescano a farsi eleggere al governo: ma non riusciranno a restarci a lungo perché non sapranno dare risposte alle aspirazioni della maggioranza. E se c'è una cosa che ho appreso dalla mia esperienza personale, è che un leader e un partito possono attuare i cambiamenti che hanno in mente solo se rimangono al governo per un periodo prolungato di tempo.
Tutto ciò è facile a dirsi, ma difficile a farsi. In Gran Bretagna le forze progressiste ci sono riuscite: hanno vinto tre elezioni consecutive, ora hanno buone possibilità di vincere una quarta volta. Come è stato possibile? Imboccando la Terza Via, che non era una via di mezzo tra conservatorismo e progressismo: era uno stato d´animo, un modo di essere. Alla cui base c'è un concetto fondamentale: ascoltare la gente, non se stessi. Non per diventare prigionieri del populismo, ma semplicemente perché prima viene la gente e poi veniamo noi, i politici di professione, i militanti, gli attivisti. Ascoltare il desiderio di compassione sociale della gente, ma anche il desiderio di avere successo, di elevarsi, di crescere socialmente. Se non lo faremo, non sorprendiamoci se la gente si rivolge alla destra per ottenere risposte. La destra, in Gran Bretagna, oggi è in uno stato politico confusionale. Ci attacca, ma non sa cosa proporre, né su quali principi assestarsi. I Tory sono confusi per una precisa ragione: perché noi abbiamo occupato il centro. Ed è un centro che si muove continuamente. Se lo abbandoniamo, i Tory riprenderanno terreno.
Dunque dobbiamo essere coraggiosi, non timorosi. Certamente non dobbiamo pensare soltanto a questa classe che aspira a un maggiore benessere, ma non possiamo nemmeno schierarci contro di essa. Il futuro del modello sociale europeo continua a essere fondato sui nostri valori tradizionali, ma dipende dalla nostra capacità di cambiare insieme al mondo in cui viviamo. I partiti progressisti continueranno naturalmente ad avere bisogno dei loro militanti, ma io penso a partiti che rispondano soprattutto a quelli che vorrei chiamare i nostri «azionisti» più che ai nostri attivisti: gente che ci vota e ci assegna la fiducia perché sa di poter ricevere in cambio quello che chiede.
Facciamolo e potremo rimanere partiti di governo per lungo tempo. Senza abbandonare i nostri valori, ma imparando a farli funzionare nel mondo moderno. Impariamo a coniugare insieme aspirazioni e compassione. Se un mondo più individualista contrasta con la nostra visione di progressismo, allora secondo me abbiamo un problema: perché non c'è niente di male nell'individualismo, nel mondo d'oggi la gente vuole più individualismo, significa maggiore controllo della propria vita, maggior capacità di scegliere, maggiori opportunità. Non c'è nulla di male nemmeno nel materialismo: la gente vuole più beni materiali, è normale, a patto di ricordarsi, come forze progressiste, di salvaguardare coloro che hanno di meno. La distinzione tra noi e la destra sta appunto in questo: i progressisti si battono affinché la maggiore libertà di scelta si espanda il più possibile, affinché non siano solo i più privilegiati a beneficiarne. Ritorno al punto iniziale, fondamentale: non dobbiamo essere noi politici a dire alla gente quello che deve volere, dobbiamo ascoltare la gente, lasciare che sia la gente a dirci ciò che vuole e capirla. I progressisti, nell'Europa odierna, devono porsi sulla frontiera del cambiamento continuo. E su quella frontiera devono restare.

(dal discorso del premier britannico al convegno "Britain and Europe in the global age", organizzato a Londra dalla fondazione Policy Network)


Repubblica 19.1.07
L'ansia di sapere chi siamo davvero
di Umberto Galimberti


Non ci sarebbe tanta inquietudine se un valore comparisse nell'età della tecnica
Eugenio Scalfari sull'Espresso è intervenuto sul tema cruciale della nostra identità in un'epoca di grandi cambiamenti
Si sono infatti indebolite tutte le appartenenze culturali, ideologiche, famigliari, religiose e sessuali che ci connotavano

Eugenio Scalfari, sull'Espresso del 18 gennaio, interviene su un tema che entrambi consideriamo molto importante e che potrebbe essere formulato così: che ne è della nostra identità, oggi, in cui assistiamo all'indebolirsi di tutte le appartenenze territoriali, culturali, religiose, ideologiche, familiari, di genere, sessuali, che finora hanno costituito il perimetro, all'interno del quale, si è costituita, è cresciuta, ha preso forma la nostra identità?
Non stiamo diventando anime perse, senza punti di riferimento, che vagano come naufraghi nel mare di quella malintesa libertà che, svincolata da tutte le appartenenze, ritrova se stessa nella semplice possibilità di revocare tutte le scelte, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti, senza la possibilità di costruire una vera biografia?
Entrambi conveniamo che questa è la tendenza del nostro tempo, determinata dai processi di de-territorializzazione indotti dalla globalizzazione e dai processi migratori; dal relativismo culturale conseguente alla conoscenza delle altre culture resa possibile dall'enorme espansione dei mezzi di comunicazione; dal relativismo religioso per cui, chi aderisce a una fede oggi non giudica miscredente e tanto meno combatte chi aderisce ad altre fedi, preferendo, alla posizione di Ratzinger, quella relativista del vescovo del Quattrocento Niccolò Cusano, che giudicava le diverse religioni una semplice variazione di riti dell'unica religione («una religio in varietate rituum»).
Ancora, entrambi conveniamo che forse incominciano a trovare concreta attuazione i principi illuministici della libertà individuale e della tolleranza in ordine alle modalità di convivenza che possono assumere la forma della famiglia nucleare, allargata o di fatto, in ordine all'appartenenza di genere e all'orientamento sessuale, su cui più non pesano le condanne sociali di un tempo con conseguenti pratiche di emarginazione. Ma se è vero che, da che mondo è mondo, l'identità di ciascuno è stata determinata dalle reti delle proprie appartenenze che la definivano e la identificavano, che ne è della nostra identità oggi che tutte le appartenenze si indeboliscono, si smarginano, si contaminano, diventano ciascuna permeabile all'altra?
Io vedo nell'abbattimento dei confini, entro cui la storia finora ha «confinato» popoli e individui, una grande occasione in ordine non solo a una maggior attuazione del concetto di «tolleranza», su cui anche Eugenio Scalfari, conoscendo la matrice illuminista del suo pensiero, credo convenga, ma anche la possibilità offerta a tutti di costruire una propria identità senza la comoda protezione dell'appartenenza, e quindi un esser-se-stessi senza che nessun dispositivo territoriale, culturale, religioso, possa davvero codificarci.
Su questo punto Scalfari muove due obiezioni che vanno al cuore del problema. La prima è che «costruire un'identità deprivata delle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia», perché le appartenenze non sono solo comodi rifugi per chi non è in grado altrimenti di darsi un'identità, ma sono quelle basi culturali che, trasmesse da generazioni a generazioni, consentono a ciascuno individuo di non partire ogni volta da zero, e soprattutto di non «appiattirsi sul presente» che, senza passato e senza futuro, o come dice Scalfari «senza storia» finisce col non sapere come orientarsi, e soprattutto col non avere alcun punto di riferimento che non siano le occasioni del presente.
Vero. Ho sempre in mente un mio bravissimo studente, che dopo essersi laureato in Filosofia con un'ottima tesi, mi chiese se poteva concorrere per un dottorato. Alla mia osservazione che un dottorato in Filosofia non gli avrebbe dato, rispetto alla laurea, maggiori occasioni per inserirsi nel mondo del lavoro, mi rispose: «Lo so, ma almeno per tre anni faccio quello che mi piace e quindi sto bene». Appiattimento sull'assoluto presente, perché la formula del passato, che premiava con una carriera accademica i migliori, oggi non trova più attuazione, e il futuro non appare più come una promessa, ma come un'incognita, quando non come una minaccia.
La storia, fatta di presente, passato e futuro, sembra abbia perso la sua capacità di costruire identità, sostituita in questo dalla tecnica, che ha risolto l'identità di ciascuno nella sua «funzionalità» all'interno degli apparati di appartenenza che si incaricano di distribuire identità. Del resto che significato ha quel gran circolare di biglietti da visita, dove l'identità di ciascuno è data dalla sua collocazione all'interno dell'apparato di appartenenza, e dove il proprio nome e cognome acquista rilievo solo a partire dalla funzione che all'interno dell'apparato ciascuno svolge?
Nell'assegnare identità e appartenenza la tecnica ha sostituito la storia. E questo non è un inconveniente da poco perché, mentre la storia è percorsa dall´idea di «progresso» che porta in sé quel tratto «qualitativo» tendenzialmente indirizzato al miglioramento delle condizioni umane, la tecnica segue solo linee di «sviluppo» che segnano un incremento «quantitativo» molto spesso afinalizzato. Non ci sarebbe infatti tanta inquietudine, tanto stress, tanto consumo di psicofarmaci, tante domande circa il senso della propria esistenza, se un fine, uno scopo, un'idea, un ideale, un valore facesse la sua comparsa nell'età della tecnica.
Nasce da qui quel risveglio religioso che fa contenti gli uomini di fede, i quali promettono un senso al di là della terra. Ma è su questa terra che, sia io sia Scalfari, vorremmo trovare tracce di sensatezza, magari potenziando la cultura e quindi la scuola, dove la cultura si trasmette, affinché l'uomo non si rassegni a diventare un semplice ingranaggio nel meccanismo della tecnica, per giunta con qualche inconveniente e qualche inadeguatezza rispetto alle macchine che quotidianamente utilizza (Günther Anders, L'uomo è antiquato, Bollati Boringhieri).
E qui si affaccia la mia seconda proposta che invita ciascuno di noi, nel desertificarsi di tutte le appartenenze, a riprendere l'antico messaggio dell'oracolo di Delfi: «Conosci te stesso». A questo proposito Eugenio Scalfari interviene obiettando che, dopo aver seguito per molto tempo questo invito, è giunto alla conclusione (che potrebbe far impallidire tutti gli psicoanalisti) che questa conoscenza di sé è di fatto impossibile perché, scrive opportunamente Scalfari dall'alto della sua biografia: «Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l'io, la nostra mente a capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il «sé», cioè l'essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell'inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza».
Se la psicoanalisi facesse tesoro di queste considerazioni avrebbe una buona occasione per riattivare il proprio pensiero, oggi un po' pigro e stantio, abbandonare la propria pretesa, talvolta eccessiva, di trasformare o cambiare la condizione di quanti a lei si rivolgono, e indirizzare la conoscenza di sé là dove Nietzsche la indica: «Diventa ciò che sei». Prendi coscienza, nei limiti che ti è consentito, delle tue potenzialità e delle tue non idoneità, sviluppa le prime e rinuncia alle seconde, evitando di sognare di poter diventare ciò che non sei, perché attratto dai modelli che questa società ti propone e che non ti corrispondono.
«Diventa ciò che sei» potrebbe essere allora il modo di costruire un'identità nel deserto delle apparenze dovuto al defilarsi della storia, e nella coercizione in quell'appartenenza a cui la tecnica ci costringe, senza che noi ci si possa davvero identificare.
Riconosco che le mie, più che proposte, sono possibili vie d'uscita dal dominio incontrastato che la tecnica e l'economia, e non più la storia, sembrano esercitare nella nostra epoca. E perciò ringrazio Eugenio Scalfari per aver prestato attenzione a questo tema, che a me pare alla base delle ansie e anche dei dissesti esistenziali dell'uomo d'oggi. E di essere intervenuto con osservazioni perfettamente mirate che hanno consentito di approfondire il problema venendo così incontro all'inquietudine del nostro tempo in cui, per dirla con Hölderlin: «Più non son gli dèi fuggiti, e ancor non sono i venienti».

Repubblica 19.1.07
Come cambia il cervello di una madre
Una lezione oggi all'Auditorium
di Massimo Ammaniti


Le ricerche scientifiche illuminano il mondo della maternità e dello sviluppo infantile
Le modificazioni psichiche possono scivolare anche verso la patologia
Sotto la spinta degli ormoni la donna migliora le prestazioni e addirittura i suoi neuroni diventano più grandi
È durante la gravidanza che si attiva quello che è stato definito il "circuito cerebrale materno"

Pubblichiamo parte della "lectio" che Massimo Ammaniti terrà oggi all'Auditorium di Roma alle 15,30, nell'ambito del Festival delle Scienze

Se nel famoso e discusso quadro del pittore francese Gustave Courbet L'origine del mondo la creazione umana viene collocata nel corpo o meglio nei genitali femminili, la ricerca psicologica e neurobiologica più recente ha spostato l'attenzione sulla mente e sul cervello delle madri.
Nella storia della specie umana la maternità è profondamente cambiata, con tutta probabilità con l'acquisizione della posizione eretta, che ha favorito la cura e l'allevamento dei figli. Infatti, a differenza degli altri primati, con la posizione eretta il contatto e lo scambio visivo fra madre e figli sono divenuti quanto mai determinanti nella comunicazione e nella condivisione dei reciproci stati d'animo, confermato anche dal fatto che nell'occhio umano si può cogliere la direzione dello sguardo in quanto la pupilla e l'iride sono ben distinguibili.
Queste particolari capacità umane sono divenute via via più importanti per l'allevamento dei figli, dal momento che i lattanti, se sono relativamente immaturi sul piano motorio, sono allo stesso tempo precoci nello sviluppo delle competenze comunicative, requisito indispensabile per far parte della comunità umana. Per tal motivo le madri e i padri si preparano per molto tempo a prendersi cura e ad interagire con i figli fin dalla nascita accompagnandoli fino alle soglie dell'età adulta.
Già Freud, nel suo scritto del 1914 Introduzione al Narcisismo, aveva parlato della tendenza dei genitori «ad attribuire ogni perfezione al figlio» che viene al mondo, con la missione di mettere in atto i sogni e i desideri irrealizzati dei genitori, in altri termini un amore fortemente contrassegnato dal narcisismo. Ma nella maternità, come ha messo in luce la ricerca più recente di Daniel Stern, vi è anche un profondo cambiamento psichico in ogni donna, caratterizzato dall'emergere della costellazione materna. Dopo la fecondazione ogni donna, in modo più o meno consapevole, si comincia a chiedere se sia in grado di mettere al mondo un figlio e farlo crescere, se saprà amarlo rispondendo alle sue esigenze psicologiche e infine se sarà come la propria madre o addirittura più brava.
Durante la gravidanza si creano le condizioni perché una donna diventi anche madre e si prepari a pensare per due, ossia per quando si dovrà occupare del figlio ormai nato. In modo quasi sotterraneo ogni donna si comincia a vedere come madre e si costruisce un'immagine mentale del figlio, che in questa fase è solo una presenza all'interno del proprio corpo via via più evidente. Naturalmente ogni donna ha un suo percorso personale guidato da una sorta di navigatore mentale che ha preso corpo nei primi anni della sua vita, costituito dai legami di attaccamento con i propri genitori che adesso sono il riferimento essenziale nel diventare madre. Va segnalato che i legami di attaccamento che una donna ha avuto con i propri genitori permettono di predire, addirittura con una probabilità del 75%, l'attaccamento del figlio ad un anno, una trasmissione intergenerazionale che costituisce una sorta di deriva tipica di ogni famiglia.
Negli ultimi mesi di gravidanza il pensiero di ogni donna si focalizza sempre più sul figlio, uno stato mentale caratterizzato da preoccupazioni insistenti sullo stato di salute del figlio che obbligano la donna ad occuparsi del figlio e di se stessa e verificare che tutta proceda nel migliore dei modi. Si tratta di uno stato psichico specifico - «quasi una malattia» - descritto dallo psicoanalista inglese Winnicott, ossia la preoccupazione materna primaria. Si è parlato fino ad ora quasi esclusivamente della madre, ma anche il padre compartecipa, oggi ancora di più rispetto al passato, all'attesa e alla nascita del figlio e anche lui manifesta le stesse preoccupazioni, anche se meno intense.
Proprio in queste ultime fasi della gravidanza e subito dopo la nascita del figlio vi è il rischio che queste modificazioni psichiche comportino uno scivolamento verso la patologia: non è infrequente che compaiano disturbi ossessivi oppure stati depressivi, che possono riguardare il 10% delle madri. La cronaca ha raccontato negli ultimi anni i comportamenti di madri che hanno colpito anche con violenza i figli, spesso senza che le persone di famiglia si rendessero conto della presenza di queste difficoltà.
Se questo avviene nella mente delle madri, anche a livello del cervello avvengono grandi cambiamenti durante la gravidanza, come viene raccontato nel libro The mommy brain (Il cervello delle madri, Basic Books) di Katherine Ellison. Tramite questi cambiamenti il cervello delle madri sotto la spinta degli ormoni migliora le sue prestazioni, addirittura i neuroni diventano più grandi.
In campo animale sono state effettuate delle prove mettendo a confronto il comportamento delle topoline che avevano avuto da poco una cucciolata con topoline ancora vergini. Messe all'interno di un labirinto le topoline dovevano trovare il cibo nascosto in uno dei bracci e mentre le topoline vergini ci mettevano sette giorni a scovarlo, le topoline madri ci impiegavano solo tre minuti. Occuparsi dei figli obbliga ad aguzzare l'ingegno per farli sopravvivere, questa conclusione potrebbe ribaltare il luogo comune che avere figli ostacola la realizzazione femminile ad esempio in campo lavorativo.
Ma passiamo ora alle madri nella specie umana. Durante la gravidanza si attiva quello che è stato definito il circuito cerebrale materno, che indubbiamente facilita la comunicazione col figlio neonato e permette di focalizzare su di lui tutte le proprie energie. Anche la recente scoperta dei neuroni specchio a livello cerebrale apre interessanti sviluppi per studiare il comportamento delle madri. Infatti le madri anche osservando il comportamento del figlio, ad esempio se questo pianga o rida, entrano in risonanza emotiva col figlio come se stessero anche loro provando le stesse emozioni. Naturalmente le madri non si limitano ad osservare i comportamenti dei figli, sono anche in grado - come abbiamo messo in luce tramite le nostre ricerche - di attivare le aree cerebrali che predispongono le risposte motorie quando il bambino pianga o manifesti un malessere.
Se l'uomo è riuscito a sopravvivere anche in condizioni difficili e addirittura avverse questo è dipeso dalle sue grandi capacità di adattamento e di comunicazione, che si cominciano a sviluppare fin dalla nascita con l'aiuto dei genitori e della famiglia. La ricerca sta illuminando il mondo della maternità e dello sviluppo infantile, ma non dimentichiamo che - come Freud annotò - scrittori ed artisti hanno spesso intuito, anche molti secoli prima, quello che stiamo scoprendo oggi: basta guardare il disegno di Raffaello Le teste della Madonna e del bambino in cui vengono colte con grande intensità le espressioni emotive di una madre e del figlio nell'unicità del loro incontro.

il manifesto 19.1.07
Quel tribunale custode del potere temporale
In nome dell'ortodossia La complicità degli stati, il silenzio del Vaticano. «L'inquisizione in Italia» di Andrea Del Col.
di Vincenzo Lavenia


«Se volete somigliare a Gesù Cristo, siate martiri e non carnefici». Lo scriveva Voltaire nel Trattato sulla tolleranza, bollando i roghi della giustizia ecclesiastica. Lo ripete Andrea Del Col nel ponderoso volume L'Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo (Mondadori, pp. 964, euro 15,80). La sua coscienza di cristiano è turbata dai mille anni di coercizione religiosa promossa da Roma, ma il lettore non dovrà aspettarsi cedimenti al facile moralismo che domina le indagini storiche degli ultimi anni. Chi di recente ha tentato di assolvere l'Inquisizione vinto da nostalgie reazionarie non ha mai messo piede in archivio, ricorda l'autore; chi ancora ne dipinge le procedure a tinte «neogotiche», ignorando i risultati di molte ricerche rigorose, ricicla stereotipi della propaganda di quei protestanti che in età moderna non furono meno teneri dei cattolici quando si trattò di annientare i «nemici».
Del Col ha la capacità di esporre i fatti in modo chiaro anche a chi nulla sa dei dibattiti che impegnano gli storici di professione (virtù rara); e ha il coraggio di raccontarne per la prima volta tutta la lunga vicenda dalla lotta anticatara alla condanna della Teologia della liberazione. Poiché Roma ospita il papato parlare di Inquisizione nel nostro paese significa interrogarsi sulla «mancata Riforma» in Italia: una questione che ha alle spalle una lunga (e stanca) tradizione. E tuttavia il libro non assume né la prospettiva giacobina di De Sanctis né quella, più sfumata, di Croce (e di Gramsci). Più che di eretici l'autore parla di giudici, per dirci che l'Inquisizione non costituì un incidente di percorso nella storia della Chiesa. Fondato sul diritto canonico e radicato in una teologia che giustifica la coercizione religiosa, il Sant'Uffizio condizionò la struttura dogmatica e lo scontro di potere interno alla gerarchia. Che dopo due secoli un papa provenga di nuovo da una carriera interna alla Congregazione per la Dottrina della Fede (il nome che il Sant'Uffizio ha assunto dopo il Vaticano II) rivela che quella storia non è affatto conclusa. Né si può dire, con la domanda di perdono pronunciata da Giovanni Paolo II, che l'errore è stato dei singoli e non dell'intera istituzione, se di errore si deve parlare in sede storica.
Il Giubileo del 2000, ricorda Del Col, ha permesso agli studiosi di accedere a fonti sino ad allora inaccessibili, ma la riflessione sull'Inquisizione deve molto alla caduta del franchismo in Spagna e alle ricerche di storici della cultura popolare (Carlo Ginzburg), a interpreti del peso dell'egemonia cattolica in Italia (Adriano Prosperi), a chi ha posto in rilievo quanto abbia contato l'apparato penale dell'Inquisizione nella nascita del reato d'opinione (Elena Brambilla) e a chi ha ricostruito le vicende dei processi e della censura (Massimo Firpo, Gigliola Fragnito) o l'assenza di cacce alle streghe nell'Italia moderna (Giovanni Romeo).
Del Col sistema decenni di ricerche; ricorda che la lotta antiereticale fu condotta con il consenso degli Stati, della rete ecclesiastica ordinaria e di larghi settori della popolazione; rileva ancora una volta che i roghi di streghe in età moderna furono pochi se li si paragona a quelli d'Oltralpe, anche se fu l'Inquisizione a creare il paradigma demonologico. E tiene conto di nuove domande: che peso ebbe l'Inquisizione nel formare la disciplina quotidiana del cristiano; se incise di più l'espurgazione o la condanna dei libri, e quanta efficacia ebbe la censura; se si passò il confine che separa antigiudaismo e antisemitismo; come quell'istituzione maschile contrastò i carismi femminili; come mise sotto controllo il culto dei santi e come arginò gli scandali sessuali in confessionale (facendo però sapiente uso del perdono sacramentale per indurre pentiti e fedeli alla delazione e abbreviare così le cause con procedure sommarie).
Infine, Del Col fa un passo in avanti, e si mette a contare. Può apparire oziosa la numerologia delle vittime, ma sapere che i roghi sono stati poco più di mille in trecento anni, in una percentuale piuttosto bassa sul totale dei processi, e concentrata durante l'emergenza ereticale del Cinquecento, mette davanti a dati di fatto prima che alle interpretazioni. Fa riflettere che le Inquisizioni spagnola e portoghese abbiano ammazzato di più; che abbiano ammazzato di più (e con minore rispetto delle regole del tempo) i tribunali riformati e quelli statali, che dai giudici papali impararono.
D'altra parte, Del Col non intende sostituire la leggenda nera con un mito opposto. La misura dell'attività giudiziaria prova che il tribunale fu pervasivo, che seppe uniformare. Né, si legge, la sua attività calò nel Settecento, come si sostiene in base alla burocratizzazione del Sant'Uffizio e all'inefficace contrasto opposto a giansenisti, illuministi e massoni. La sindrome da assedio di cui si nutrì per secoli alimentò in età contemporanea la condanna del marxismo, dell'evoluzionismo, del liberalismo e dell'emancipazione ebraica. E sapere che Angelo Roncalli (più tardi Giovanni XXIII) finì nella rete di delatori negli anni dell'ossessione antimodernista, certo non consola.

l'Unità 19.1.07
Eskimo e grisaglia
di Vincenzo Vasile


Abbiamo un problema. Un problema, tra gli altri. Che potrebbe diventare un grosso problema. In pochi giorni sono rimbalzati in prima pagina e sui teleschermi le immagini di un vecchio, brutto film. Intendiamoci, l'effetto minestrone è soprattutto mediatico, e nel raccontare il sommario di uno dei tanti tg (pubblici e privati) sappiamo di mettere in fila episodi di natura e origini diverse e complesse. Ecco cosa dice il telegiornale, senza battere ciglio.
Dice che il ministro Padoa Schioppa è stato accolto l'altra sera all'Università di Torino da petardi e fumogeni perché ritenuto un pericoloso «agente delle multinazionali». E lo stesso tg mostra uno striscione con la «A» dell'anarchia davanti a un corteo abbastanza pacifico di gente abbastanza pacifica che non vuole l'«allargamento» della base Usa a Vicenza. E ci sono le bombette, inesplose, ma innescabili, firmate dagli «insurrezionalisti» e «separatisti» sardi recapitate a due sottosegretari. E si rivede, in collegamento da Parigi, Oreste Scalzone, che annuncia una sua prossima turnè italiana per rilanciare «nelle nuove condizioni vecchie battaglie». Sempre su maxischermo il professor Toni Negri riappare in un'altra epifania televisiva per insultare Sergio Cofferati, sul tema - guarda un po' - della legalità. Per indebito ossequio dei conduttori dei talk show e dei programmi di «approfondimento», costoro - «ex-latitanti» - possono fregiarsi dell'eufemismo ammiccante di «ex-rifugiati». Il deputato Caruso che a quei tempi era sul passeggino s'è entusiasmato per l'aria di revival che tira, al punto da annunciare la presenza di bombe molotov nel cortile di Montecitorio. Si annuncia da altre fonti anche un blitz anti-Prodi per il prossimo fine settimana.
In attesa del prossimo notiziario, interi scaffali di biblioteche e archivi giudiziari ci possono far riflettere sul confine labile tra disobbedienza, culto dell'illegalità, sovversivismo, pericoli di tenuta democratica. Chi non li ha vissuti, quegli anni cui alludono i vecchi/nuovi disobbedienti che affollano i nostri telegiornali, non sa che a quei tempi si cominciò con gli epiteti, si passò ai sampietrini, e infine alle P38 e alle mitragliette armate di geometrica potenza.
Stavolta c'è una novità: a differenza del passato, essi sono i beniamini di una Destra ad alto tasso becero che si rispecchia e gode di tante immagini deformate, e può sentenziare che il governo sarebbe «ostaggio» delle spinte e delle forze più «radicali». È questo un discorso che vorremmo fare sommessamente soprattutto a chi - a sinistra - corteggia, anche solo con il silenzio, i laudatori del brutto tempo andato, e i loro più o meno consapevoli giovani seguaci.
Sia chiaro. Nulla da dire se il presidente della Camera Bertinotti proclama in queste ore il suo pacifismo: non ci sembra che con ciò stia violando i vincoli del suo incarico istituzionale. Ma dovrebbe spiegare meglio che cosa volesse intendere, intervistato l'altra sera da Grparlamento, quando ha detto che «ogni atto» che impedisca il rafforzamento di basi militari «è buona cosa». A noi pare che non solo Bertinotti abbia detto qualche parola di troppo. Ma che finora un po' tutti - ed è una riflessione da farsi senza insulti - ci eravamo illusi che dando «rappresentanza» a un certo mondo, come, per esempio, con certe candidature di «indipendenti» nelle file di Rifondazione, se ne potessero smorzare spinte e velleità agitatrici.
È questo un tema che la sinistra radicale che sta al governo, diciamo la sinistra radicale che veste in grisaglia, o quanto meno in giacca e cravatta, dovrebbe porsi con maggiore serietà e coerenza di quanto non stia mostrando in queste ore confuse. Vogliamo segnalare questo punto critico. E preveniamo, anche, una prevedibile risposta. Se si vuol dire che profonde sono le ragioni che spingono una parte forse marginale della sinistra a inseguire vecchi e ambigui miti, siamo d'accordo. Ma se ci fermiamo su questa soglia giustificazionista, non ne usciamo. L'auto-assoluzione ideologica è un vecchio vizio, comune alle nostre diverse anime. Nella Giornata dello scrutatore, splendido racconto-pamphlet degli anni del primo centrosinistra, Italo Calvino raccontava di quella «compagna» che ripeteva che «ben altro» era/è il problema: la sinistra riformista degli anni Sessanta, non si accorse, rinviando a «ben altro», come le suore democristiane portassero in cabina elettorale al Cottolengo vagonate di ciechi e di dementi.
Oggi c'è una questione urgente, che riguarda invece la sinistra cosiddetta «radicale», e ancora una volta non si può rinviare tutto alla soluzione di «ben altro». Eskimo e giacca e cravatta, indossati assieme, non stanno bene addosso a nessuno, formano un look pasticciato che non si addice a nessuna forza politica che abbia scelto la strada del governo del paese. Anzi, bisogna convincersi che l'eskimo di Oreste Scalzone è semplicemente un capo d'abbigliamento fuori tempo: per quel che ricordiamo, anche quand'era in auge assorbiva unto e umidità, non riparava dal brutto tempo. Meglio metterlo in soffitta.