Intervista a Oreste Scalzone, prescritto e pronto a rientrare in Italia
Con altri 15 compagni daremo ancora fastidio
di Daniele Zaccaria
Oreste Scalzone è un fiume in piena, dalla sua abitazione parigina riceve fax, spedisce email chilometriche, rilascia dichiarazioni a televisioni spagnole e radio francesi, ma soprattutto risponde alle decine di chiamate che da tre giorni sommergono la sua segreteria telefonica per chiedergli un commento, una battuta, un’impressione sulla sua nuova condizione di uomo libero. La Corte di Milano ha estinto i reati che lo hanno tenuto 26 anni fuori dall’Italia e lui stesso ha fatto sapere che tornerà nel nostro Paese da «pendolare» per disputare «vecchie battaglie in nuove condizioni». Che sarà «guitto» e «teatrante», che gli basterà un quotidiano arrotolato per far sentire la sua voce. Nulla di particolarmente provocatorio o minaccioso, «nessun regolamento di conti», come ha ribadito lui stesso ai giornalisti, evocando la lotta per l’amnistia che conduce da almeno due decenni. Eppure queste dichiarazioni volanti, persino scontate per chi conosce la passione e il gusto per la politica che non hanno mai abbandonato l’ex leader di Potere operaio, hanno suscitato uno sgradevole vespaio di polemiche. Ministri della Repubblica, deputati dell’opposizione, politologi e vecchi agit-prop degli anni’70 in cerca di espiazioni tardive hanno implicitamente decretato che Scalzone potrà varcare le Alpi ma “a bassa intensità”, che è un cittadino libero a tutti gli effetti, ma sarebbe meglio se non si occupasse di politica, insomma che non rompesse le scatole.
Ora che potrai venire in Italia c’è chi ti consiglia di fare il pensionato, di annaffiare le rose e raccontare le favole ai nipotini e c’è chi ti accusa addirittura di avere un comportamento «velenoso».E davvero così strano che uno come te abbia ancora voglia di dire la sua?
Ci sono state diverse reazioni, più o meno scomposte, più o meno livorose e io ci tengo a distinguere tra quelle provenienti dalla classe politica e quelle dei cosiddetti intellettuali. Ma per inquadrare il problema vorrei partire dall’attualità.
Prego…
Qualche mese fa c’è stato un indulto, un provvedimento necessario da tempo come fatto minimo di razionalizzazione del sistema carcerario, per l’affollamento estremo, per le condizioni di vita spesso insopportabili all‘interno delle prigioni, ovvero qualcosa di disfunzionale allo stesso indotto dell’”impresapenale”. L’indulto era stato implorato anche da Papa Giovanni Paolo II che, durante il Giubileo, se ricordate, andò a Rebibbia a lavare i piedi dei detenuti e in seguito fece uno storico discorso a Camere riunite ricevendo molti applausi ma nessuna risposta. Insomma, la situazione era matura da tempo.
Tuttavia, di fronte a questa misura minima, si è scatenato un coro forcaiolo trasversale: penso alla Lega, a gran parte di An, ma anche a diversi settori della sinistra di vecchia tradizione giustizialista e vicini alla magistratura.
Perché tanta esasperazione, tanto zelo punitivo?
Credo che dipenda dalla logica dell’emergenza. Stiamo parlando di un modesto sconto di pena a circa 20mila persone, né di una grazia né di un premio. E’ l’emergenza che ha banalizzato il carcere, che ha diffuso la cultura dellapunizione. Le reazioni scomposte di fronte all’indulto mi sembrano anti-giuridiche: ormai è considerato normale sottomettere alcune tipologie di reato a regimi di reclusione speciale, come adesempio il 41 bis. Il carcere non basta, deve diventare un inferno di gironi tipologici, una punizione senza fine.
Non dimentichiamoci che l’ultimo indulto fu approvato nel 1990 e peraltro non c’erano escludenti come oggi, ma nessuno ebbe nulla da ridire anche di fronte a reati particolarmente odiosi come la strage, i crimini contro l’umanità, la tratta di esseri umani. Oggi le reazioni sono molto più virulente e nel senso comune l‘indulto è associato a una porcheria, a una specie di crimine camuffato.
Dispiace e lascia sconcertati quando questa tendenza è visibile nel “popolo della sinistra”. Quando il Csm ha recentemente evocato l’ipotesi di un’amnistia come soluzione razionale a molti problemi tecnico-carcerari c’è stata un’altra spiacevole levata di scudi, come se l’amnistia non facesse parte del nostro ordinamento. Tutto ciò è pazzesco. Questo imbarabarimento ha fatto perdere anche il senso della misura, persino della razionalità statistica: se una persona esce di carcere e la sera stessa uccide l’amante della moglie o la suocera non è un effetto dell’indulto, ma un fatto statistico. Le conseguenze di un simile clima producono effetti tragicomici come nel caso del ministro della Giustizia.
Puoi spiegarti meglio?
Ad essere sincero, l’onorevole Mastella non mi suscita animosità personale, purtroppo però a volte straparla e dà l’impressione di essere in uno stato confusionale grave. Quando ha saputo che la Corte di Milano aveva estinto i miei reati ha detto: ”Signori, mi dispiace, non posso farci nulla, il problema sono le prescrizioni”. Vorrei ricordare al ministro che nella Costituzione ci sono gli istituti dell’amnistia, dell’indulto e nel codice penale c’è quello della prescrizione.
Non è una stravaganza o un crimine. Si rende conto Mastella che il concetto di “giustizia infinita” lo aveva tirato fuori quel fesso di Bush? Poi qualche teo-con un po’ più istruito di lui lo ha corretto perché la “giustizia infinita” corrisponde alla concezione cattolica dell’inquisizione e loro, da bravi fondamentalisti protestanti quali sono, lo hanno sostituito con la “guerra infinita”. La giustizia infinita, senza limiti, contraddice lo stesso Stato di diritto e questo lo dovrebbe sapere anche Mastella.
Valerio Morucci(ex Br) e Sergio Segio (ex Prima linea) hanno criticato, seppur in forme molto diverse, le tua volontà di partecipare in senso lato, al dibattito politico italiano. Segio ti ha addirittura dato del calunniatore e del seminatore d’odio.
Hai fatto bene a distinguere tra i due. Comincerò da Morucci. Valerio lo conosco da quando aveva 17 anni, era un “pariolino povero” frequentava il comitato di base di Lettere (all’Università La Sapienza di Roma ndr), girava su una moto alla Easy Rider, intonava il simpatico slogan “Se vuoi la Rivoluzione non seguire Scalzone” e mi dava del revisionista. Ma in fondo lo faceva in forme molto civili e pacifiche. Premetto che, come tutti sanno, non amo particolarmente le sue scelte, di allora e di oggi, ma nell’intervista rilasciata alla “Stampa” in fondo c’è una certa grazia e una piccola traccia d’affetto nei miei confronti. Diciamo che gli piace vedermi un po’come i fratelli Taviani in “San Michele aveva un gallo”: dipingono il vecchio anarchico derelitto che alla fine incontra i comunisti “veri”, gli ortodossi che gli spiegano quanti errori, quanta ingenuità c’è stata nella sua esistenza, umana e politica. Lo stesso discorso vale anche per Francesco Merlo e Lanfranco Pace: pensano che io viva fuori dal tempo. Non so se hanno ragione, forse sì, forse no, loro però sembrano vivere su una nuvola, una nuvola di Aristofane.
Segio invece…
E’ una vera nota dolente perquanto paradossale (la voce di Scalzone cambia improvvisamente tono ndr) mi chiedo perché i suoi amici non facciano nulla per fermarlo, per consolarlo, per lenire questa profonda ferita narcisistica. Non mi piace affrontare certi discorsi, ma sono quasi costretto. Se divagassi nei sentieri delle polemiche politiche, o anche dello scontro su temi morali, potrei cavarmela col dire che, considerando il suo intero percorso, la storia da lui rivendicata, il fatto che mi attacchi è un onore. Se mi concedessi agli stilemi del leninismo da pamphlet, aggiungo che sono molto più efficaci e cattivi, tra quanti hanno diviso con lui l’ultimo domicilio conosciuto, l’ultima identità, l’ultima firma, aree omogenne della dissociazione politica, anche un Franceschini o un Morucci che schivano la tentazione dell’attacco, perché esercitano una maggiore riflessività e una maggiore lucidità. Ritengo che Segio non possa che essere in una paradossale buona fede, non è un’illazione, è lui che ne dà prova flagrante, sono anni che esordisce con un incipit: “Scalzone è diventato da rivoluzionario calunniatore di professione...”. La tragedia è che lui vorrebbe aver vissuto il rapporto tra il “prima” e il “dopo” come Gallinari o anche solo come me. Il veleno insopportabile che noi siamo per lui è in tal senso il simbolo di tutti i suoi compagni che non lo hanno seguito nelle sue scelte. Ricordo che si faceva chiamare il “Comandante Sirio”, che ci rifiutammo di seguirlo in Prima linea poiché eravamo convinti che l’omicidio politico non fosse un’opzione praticabile. Questo voglio sottolinearlo al di là delle implicazioni e delle considerazioni etiche e personali, ma dal punto di vista teorico e collettivo. Per noi lo Stato non era il Castello di Kafka e non aveva un cuore da colpire, dunque il paradigma del tirannicidio, l’unico a legittimare l’omicidio politico, era impossibile perché le relazioni di potere erano e sono molecolari, mimetiche. Per attaccarlo in modo diretto si sarebbe dovuta compiere un’ecatombe.
Segio dimostra un’odio sconfinato nei miei confronti perché ragiona ancora da militare, da comandante di brigata, e non a caso mi disprezza perché mi sono rifugiato a Parigi. Mi vede come un “disertore”, uno che non ha fatto il “sacrificio” della galera come lui. Quando nel 2002 hanno arrestato Paolo Persichetti ha rilasciato una delirante intervista in cui spiegava che gli stava bene, che meritava di finire in galera.
Hai detto che verrai in Italia da “pendolare”e da “teatrante”, cosa vedi il tuo futuro?
Più che il pendolare farò il nomade, ma per motivi pratici e di buon senso. Andrò in giro, ho amici e parenti da incontrare, ho delle tombe che vorrei visitare. Sarò una specie di guitto cantastorie- un “agit-attore”, come direbbe Bobbio: sono venuto a portare scompiglio tra le mie fila. Il che è del tutto naturale: quando sento un coro antisemita in un corteo di sinistra mi incazzo molto di più che se quel coro viene pronunciato in una manifestazione fascista. Se mi seguiranno in 15 saremo in 15, altrimenti rimarrò da solo e non importa.
Andrò davanti i ministeri e dirò le mie cose finché a Paolo Persichetti e ad altri casi come il suo, non verranno concessi i benefici previsti dalla legge.
E la politica italiana?
Come ho detto nei giorni scorsi non esistono “governi amici”, ma governi e basta, mi tiro fuori dallo schema illusione-delusione, proprio perché non mi aspetto nulla dal governo di centrosinistra.
Detto ciò ritengo che il maggior problema della nostra società, del nostra ragione politica sia culturale, ed è il giustizialismo: è possibile pensare che a tutto ci debba essere soluzione di natura penale? E’ una malattia che affligge gran parte della sinistra italiana, anche se sarà difficile liberarsene. Vedo poca lucidità in giro.
Ti riferisci a qualcuno in particolare?
Mi hanno colpito le affermazioni di Sanguineti sulle virtù dell’odio di classe. Calcolando che Sanguineti nella vita fa il poeta e che si candida a diventare sindaco di Genova, che cosa c’entra l’odio di classe con il municipio? Pensa di governare la sua città odiando metà della popolazione che vuole rappresentare?. Inoltre non puoi dire che sei favorevole l’odio di classe, però poi escludi il ricorso alla violenza . Mi sembra contraddittorio e anche poco elegante.
Oltre a critici e detrattori cisono state anche reazioni positive al tuo prossimo rientro
Ringrazio chi ha speso parole affettuose nei miei confronti, penso in particolare a Francesco Caruso che mi è anche molto simpatico. Un piccolo consiglio però vorrei darglielo a Caruso: lui ha detto di avere un mio poster attaccato in camera da letto. Non so se sia vero o se si tratti di un’invenzione giornalistica, detto ciò gli consiglio di sostituirlo al più presto.
Con cosa?
Con un poster di Rita Hayworth in Gilda: è molto più bella di me.
L'espresso
L'identità è appartenenza
di Eugenio Scalfari
Costruire una identità deprivata dalle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia
Umberto Galimberti è uno dei pensatori che più mi appassionano per la profondità delle sue osservazioni filosofiche, psicologiche, sociali e anche per la nitidezza e semplicità della sua scrittura e del suo eloquio. Per questo da molti anni gli sono amico e consento quasi sempre con le sue tesi.
Su 'Repubblica' del 28 dicembre ho trovato una sua breve scheda a proposito dei mutamenti dell'identità che sono già in corso e ancor più lo saranno nei prossimi anni e decenni, via via che verranno meno le 'appartenenze' sulle quali da secoli e anzi da millenni l'identità della nostra specie e degli individui che la compongono è stata costruita.
Il tema è dunque quello dell'identità e dell'appartenenza, finora strettissimamente connesse tra loro. Ma se le appartenenze si indeboliscono fino a scomparire del tutto in un futuro più o meno prossimo, che fine farà l'identità? Ne avremo ancora una riconoscibile da noi stessi e dagli altri? Dove si specchierà quell'identità nuova priva di specchi nei quali cercare conferma del nostro esistere come soggetti? Con quali strumenti riusciremo a costruirla in assenza delle appartenenze?
Cedo ora a lui la parola perché renda ancor più evidente e attuale la dimensione del problema che ha posto. "Ogni volta che rivendichiamo la nostra identità dimentichiamo che questa è decisa quasi totalmente dalle nostre appartenenze: religiosa innanzitutto (essere cristiani invece che musulmani, ebrei, buddisti, eccetera), culturale (essere nati e cresciuti in Occidente piuttosto che altrove), ideologica (essere di destra o di sinistra o qualunquisti), famigliare (a seconda si abbia o non si abbia una famiglia nobile, borghese, proletaria), di genere (maschio, femmina, transgender), di orientamento sessuale (etero, omo, bisex). Di qui il problema: che ne è della mia identità oggi che i contorni delle diverse appartenenze si smarginano, i confini dei diversi territori diventano permeabili, le leggi allargano le loro maglie per ospitare il più possibile tutta la gente e per garantire a ciascuno l'esercizio della propria libertà?".
Galimberti non è affatto spaventato da questa prospettiva, anzi ci vede "una grande occasione" perché nasca un'identità vera, senza la comoda protezione dell'appartenenza e quindi un 'essere-sé-stessi' senza che nessun dispositivo religioso culturale giuridico possa definirci. Naturalmente non sarà un processo semplice né lineare. Susciterà (sta già suscitando) incertezze e paure, procederà a scossoni, darà luogo a crisi, scontri, azioni e reazioni, ma andrà avanti perché il mondo ha abbattuto i suoi tramezzi e i muri maestri che separavano culture, costumi, persone; la tecnologia ha reso possibile l'unificazione del pianeta.
E conclude: "L'assenza di confini offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, de-situa e così scongiura quella fittizia identità che è data esclusivamente dalle nostre appartenenze". Che ci vanno sempre più strette (la chiosa è mia).
Una descrizione di quanto sta accadendo intorno a noi (e anche dentro di noi) impeccabile e una conclusione fiduciosa com'è nel carattere dell'amico Galimberti. Che però questa volta non mi convince del tutto e lascia comunque aperte molte domande. Provo a formularne qualcuna.
È vero, le appartenenze plasmano l'identità e inevitabilmente costringono la libertà individuale entro limiti prefabbricati. Prefabbricati da chi? Dai 'tempora' e dai 'mores'. Cioè dalle generazioni che sono alle nostre spalle, le quali a loro volta sono cresciute sulle spalle di quanti le precedettero. Insomma dalla storia. Dovremmo dunque cancellare la storia e la memoria? In gran parte la rimozione del passato sta avvenendo, ma è un fenomeno positivo per la ricchezza dell'umanesimo? Poiché credo di conoscere abbastanza bene Galimberti non penso che giudichi positivamente l'appiattimento sul presente delle nuove generazioni. Ma l'annullamento delle appartenenze porta a questo, lo si voglia o no.
Seconda osservazione. Per costruire un'identità fondata sull''essere-sé-stessi' bisogna conoscere, appunto, sé stessi, vecchia raccomandazione dei filosofi da Socrate in poi. Ma è possibile conoscere sé stessi?
Personalmente sono stato anch'io per lungo tempo fautore di questa massima e per quanto possibile ho cercato di applicarmela. Ma col passare degli anni credo d'essere arrivato alla conclusione che conoscere sé stessi sia pressoché impossibile. Se è permesso utilizzare il vecchio lessico kantiano, è impossibile conoscere la 'cosa in sé' da parte di osservatori esterni. Ma - penso io - è altresì impossibile che la cosa in sé si conosca. La cosa in sé, cioè l'essenza della cosa e nel caso nostro il mio 'sé' non è conoscibile, non è oggettivabile. Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l'io, la nostra mente ha capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il 'sé', cioè l'essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell'inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza.
Non ho bisogno di spiegare questi processi a Galimberti che ne è maestro. Ma lo invito a riflettere sul fatto che costruire un'identità de-privata dalle sue appartenenze, si fondi principalmente sull' 'essere-sé-stessi' , quando si sa che conoscere sé stessi è impossibile, equivale a costruire sulla sabbia. Naturalmente ci sono geni creatori, artisti, conquistatori, che appartengono solo a sé stessi e alle loro passioni. Ma una società non è fatta di geni, sarebbe una galera anzi un inferno. Caro Umberto, dopo un lungo periodo di fatiche mentali la cui meta è stata di risolvere la conoscenza della cosa in sé, sono arrivato alla conclusione che noi siamo costruiti in modo da poter conoscere soltanto i fenomeni. La cosa in sé, per dire l'essenza, è come Dio per i credenti: c'è, ma è inconoscibile fino al momento in cui saremo assunti nel regno dei cieli e contempleremo l'Uno partecipando alla sua essenza.
Tutto è possibile, ma l'identità ci serve qui e ora. Quella del credente è certamente un'identità forte. Non essendo la mia, devo cercarla in altre appartenenze.
il manifesto 23.1.07
Una francese alla corte di Bisanzio
Ripercorrendo l'avventurosa esistenza della «basilissa» Anna, «L'impero perduto» di Paolo Cesaretti ricorda la devastazione di Costantinopoli, due secoli prima dell'assalto ottomano, da parte di forze provenienti dalla cristianissima Europa
di Marina Montesano
Le polemiche sullo scontro di civiltà e sulle difficoltà di convivenza tra occidente e mondo musulmano, cui purtroppo gli ultimi anni ci hanno abituato, tendono di solito a ripercorrere frettolosamente il passato nel tentativo di giustificare scelte e posizioni del presente. Così, per esempio, da parte di quanti osteggiano l'ingresso della Turchia in Europa, si sente spesso ripetere che l'impero turco e l'occidente sarebbero stati eterni nemici: in particolare agli ottomani si ascrive la responsabilità di avere inferto un colpo fatale all'impero bizantino, privando così la cristianità di una sua parte fondamentale, quella cui era spettata l'eredità dell'impero romano e, al contempo, della civiltà greca. Al di là del manicheismo insito in tale visione, è interessante sottolineare come questa lettura dimentichi che la Bisanzio cui nel 1453 gli ottomani assestarono la spallata definitiva altro non era se non l'ombra dell'impero di un tempo. Oltre due secoli prima di quell'evento, infatti, l'impero bizantino era stato devastato da forze che provenivano dalla cristianissima Europa, una devastazione dalla quale Costantinopoli non si sarebbe mai ripresa.
A queste circostanze e agli anni che le precedettero fa riferimento il bel libro di Paolo Cesaretti L'impero perduto (Mondadori, pp. 382, euro 19), che ruota intorno alla figura di una protagonista di quel periodo, Anna di Bisanzio. Anna si chiamava in realtà Agnès ed era figlia di Luigi VII di Francia e della sua terza moglie, Alice di Champagne. Nata nel 1171, aveva soltanto nove anni quando lasciò la Francia per andare in sposa ad Alessio II Comneno, anch'egli un bambino appena undicenne: le nozze fra i due principi infanti si celebrarono fastosamente a Costantinopoli nel 1180, anno in cui il piccolo Alessio successe al padre, il basileus Manuele Comneno. Nello stesso 1180 in cui Agnès, ormai Anna, diveniva basilissa di Costantinopoli, suo fratello Filippo II Augusto ascendeva al trono di Francia, e l'unione fra le famiglie regnanti di Francia e di Bisanzio aveva lo scopo di rinsaldare l'alleanza contro l'egemonia dell'imperatore Federico Barbarossa sull'Europa occidentale
Il regno di Manuele aveva infatti inaugurato una politica parzialmente nuova. Profondamente attratto dai costumi occidentali, appassionato di donne, tornei e costumi cavallereschi, il basileus aveva progetti espansionistici: stipulò dunque una larga rete di alleanze il cui scopo immediato era, appunto, la vittoria sul Barbarossa, ma il cui fine reale era forse una sorta di politica «neogiustinianea» che mirava a imporre la sua supremazia sull'intero Mediterraneo.
Come al tempo di Giustiniano, la penisola italica restava centrale sul piano strategico: per questo Manuele cercò un punto di forza sul quale far leva per ristabilirvi la sua autorità, e lo trovò nella città di Ancona che, appoggiandosi all'imperatore bizantino, si sentì abbastanza forte da intraprendere una politica di egemonia sul mare Adriatico, in opposizione alla potenza veneziana. Tuttavia Manuele non visse abbastanza per portare a termine la sua impresa.
Per condurre una politica di questo tipo, egli avrebbe avuto bisogno di instaurare buoni rapporti con i suoi vicini orientali, i principati turco-musulmani di Anatolia, ma non riuscì in tale compito: da quelle forze fu anzi duramente sconfitto in battaglia e morì precocemente all'età di trentasette anni.
Correva dunque l'anno 1180. Incoronato basileus a soli tredici anni, Alessio era - anche in tempi in cui l'età adulta giungeva assai precocemente - troppo giovane per reggere il peso dell'eredità paterna. Fu dunque facile per il cugino del padre, Andronico, sbarazzarsene: lo fece strangolare nel sonno, e il cadavere del ragazzo venne gettato in mare. Figura cupa e affascinante, Andronico, a quel tempo ultrasessantenne, aveva condotto una vita da reietto, prigioniero e poi vagabondo per anni in terra d'Islam. Era tuttavia un uomo colto e coraggioso, capace di guadagnarsi il favore degli eserciti e - sia pure per una breve stagione - delle folle di Costantinopoli. Dopo averne soppresso lo sposo, Andronico prese in moglie la dodicenne Agnès/Anna, mentre sul piano pubblico capovolse la linea di Manuele inaugurando una politica antioccidentale. In Europa però si andava profilando una situazione nuova, destinata a sconvolgere gli assetti internazionali: un avvicinamento tra due nemici storici di Bisanzio, l'Impero e i Normanni, che avrebbe condotto nel 1186 al matrimonio tra l'erede del regno di Sicilia, Costanza di Altavilla, e il figlio del Barbarossa, Enrico VI.
Il rovesciamento di fortune di Andronico si consumò in due anni: nel 1185 i Normanni presero d'assalto Tessalonica, umiliando in ogni modo la popolazione bizantina. In seguito a questo tracollo, le stesse folle che avevano favorito l'usurpatore gli si rivoltarono contro e, sobillate dal cugino Isacco d'Angelo, lo sottoposero a un supplizio crudele. Nella concitazione degli eventi, le vicende della giovanissima Anna si perdono, tanto che Cesaretti ha dovuto condurre un lavoro di raffinata esegesi sulle fonti per trarne qualche notizia sull'ex imperatrice, smarrita nel caos che seguì l'ascesa al potere della nuova dinastia.
Ripetute sconfitte nei Balcani avevano infatti indebolito il governo di Isacco Angelo, al punto che suo fratello Alessio III si impadronì del potere dopo averlo fatto accecare e rinchiudere insieme al figlio Alessio. Intanto, nel 1202 le forze crociate erano concentrate a Venezia, la quale offriva una potente flotta di cinquanta galee per trasportarle oltremare. Il contributo veneziano non era tuttavia gratuito e l'armata crociata non aveva fondi sufficienti: il doge Enrico Dandolo propose allora ai crociati di sdebitarsi aiutando Venezia a sottomettere la città dalmata di Zara, che le si era ribellata. Ma la richiesta di Dandolo celava altri progetti: a Zara infatti si era presentato ai crociati il principe bizantino spodestato, chiedendo aiuto per sconfiggere l'usurpatore e promettendo in cambio denaro e addirittura la fine dello scisma tra le due Chiese. Nel luglio 1203 gli occidentali giunsero a Costantinopoli, sconfissero Alessio III e restaurarono sul trono Isacco e il figlio Alessio IV. La loro prepotenza però provocò una rivolta, alla quale veneziani e crociati risposero con il saccheggio della città e con il rovesciamento dell'impero bizantino.
Ed è in questa fase che ritroviamo Anna, ormai adulta, prima amante e poi moglie del nobile Teodoro Brana. Ormai lontana dalle sue origini francesi, la donna si era trasformata in una fiera bizantina tanto da cercare invano, nelle fasi più concitate dell'assalto occidentale, di far da ponte insieme al marito tra i due contendenti, i greci e i latini.. Dopo il 1204 le sue tracce si smarriscono nuovamente, perdute per sempre insieme all'impero al quale le vicende convulse della sua esistenza l'avevano condotta ad appartenere.
l'Unità 23.1.07
Fabio Mussi: «Rischiano di scomparire sinistra e socialismo»
IL MINISTRO FABIO MUSSI risponde in chat ai lettori e al direttore Antonio Padellaro. Spiega perché non lo convince il progetto di Partito democratico: un’operazione «che porta più indietro e più a destra». Dunque «vado al Congresso per rimettere in discussione questo progetto, che non è ineluttabile»
«Un passo alla volta». Fabio Mussi, Il ministro dell’Università e della Ricerca «nient’affatto convinto» del nascituro Partito Democratico, risponde alle domande dei lettori de l’Unità.it. Intervistato in videochat dal direttore Antonio Padellaro parla di Università, di ricerca, di meritocrazia, di tagli al business degli atenei. Ma soprattutto ribadisce il suo «no» al nuovo partito che cancella la parola «sinistra». Il futuro? «Un passo alla volta».
Ministro Mussi, il numero di messaggi che riguardano il Partito Democratico e i Ds è tale per cui non possiamo non parlarne. Vorrei riassumere un po’ i contenuti: molti dicono «Non vi scindete». Il timore della scissione è una cosa che angoscia molto gli iscritti e militanti dei Ds. Vuole dire una parola chiara su questo punto?
«Io ho dedicato una vita alla sinistra italiana. Sono stato tra i più convinti e tra i più coraggiosi quando si è trattato di compiere delle svolte necessarie per il futuro della sinistra e necessarie per il nostro Paese. Ora non sono affatto convinto. Non posso immaginare che in questo Paese scompaiano persino dal lessico politico le parole «sinistra» e «socialismo». Credo che il partito democratico potrebbe portare a una dissoluzione della principale forza di sinistra dentro un contenitore che a me pare più un grande involucro elettorale che un nuovo partito con una tavola di valori condivisa, una chiara identità, una chiara collocazione internazionale. Io non parto con il piede della scissione. In questi anni ho fatto le mie battaglie ma quando si è trattato di trovare ponti non mi sono mai tirato indietro. Vado al Congresso perché lo voglio vincere, cioè voglio avere la forza sufficiente a fermare questo treno. Quello che sta succedendo nella fusione tra Ds e Margherita riguardo alla questione del Partito Socialista Europeo andrebbe risolta preliminarmente, prima di fare il primo passo perché poi ci si trova in un vicolo cieco. A me sembra un’avventura che può portarci ad un guaio molto serio».
È chiaro che ci sarà un risultato al Congresso: ho l’impressione che se ciò che tu rappresenti riceverà un consenso superiore al 30%, è evidente che questo potrebbe creare una situazione politicamente nuova. Se ciò non avvenisse, ti troverai di fronte a una scelta.
«A quel punto la farò. Ora, siccome un cammino è fatto di un passo alla volta, il mio primo passo è avere i voti per poter rimettere in discussione questo progetto che non è ineluttabile. L’altra cosa che chiedo è la chiarezza: far credere ai dubbiosi e ai contrari che ci si scioglie ma non ci si scioglie, che si fa un altro partito ma i Ds restano, solo per confortarli. Alla fine si illuderanno gli scettici e i contrari e si deluderanno quelli che invece ci credono davvero. Non sono contrario all’alleanza elettorale, anzi vorrei tornare ad allargarla. L’Ulivo che mi piaceva è quello del ’96, mi piace meno quello a cui siamo arrivati».
Una lettera però te la devo leggere: Gianfranco Tannino, Monaco di Baviera: “Vorrei invitare Mussi e tutto il Correntone a far parte del futuro Pd. Se vogliamo che il futuro Pd abbia una identità socialista, è importante che coloro che sentono questa identità, entrino in massa in questo nuovo partito. Un partito in cui credo fermamente, non potendo il nostro Paese sopportare oltre la miriade di partitini, ostacolo oggettivo al buon funzionamento di qualsiasi governo”. Questo è l’argomento che fa più presa: troppi partiti, come si fa ad andare avanti?
«Il problema della frammentazione del sistema politico è serio, ma l’idea che si fa il Partito Democratico per rafforzare la presenza di forze socialiste in Italia è paradossale. Evidentemente si vuole fare il Pd perché si vuole andare oltre la sinistra e il socialismo. Sono pronto a discutere, perché anch’io penso che occorra andare oltre la tradizione classica socialista europea. Ma penso che occorra andare oltre, a sinistra e verso culture più critiche. Mi pare che questa operazione porti invece più indietro e più a destra. L’idea che basta che ci sia qualcuno di sinistra per trasformare questo partito non sta in piedi. Le identità collettive non dipendono dalle testimonianze personali, sono una cosa più complessa, e i partiti non nascono perché una lista ha preso in una Camera il 3% in più della somma delle altre due liste di riferimento in un’altra Camera. Un partito nasce perché ci sono state le leghe operaie, la rivoluzione francese e quella sovietica, la caduta del Muro di Berlino... non esistono nascite politologiche dei partiti».
C’è anche la questione di Vicenza che appassiona molto e fa molto arrabbiare. Come mai, ti chiede Mirko Gigliotti, quando si devono prendere decisioni che coinvolgono i territori non si ascolta la voce della gente? Parlo degli Inceneritori, della Tav e per finire della nuova base americana. Oppure Giuseppe Puleo: "Il sì definitivo di questo governo ai desideri Usa su Vicenza sarà il fallimento totale di Prodi e della sua compagine". Infine, Nizzero: "Caro ministro Mussi, secondo lei il Governo ha rispettato la Costituzione? Ha rispettato la sovranità nazionale?". Il caso Vicenza è la punta di un iceberg dell’insoddisfazione che c’è nel mondo del centrosinistra, ma anche dei Ds, rispetto a questi primi mesi del governo Prodi. Che sta succedendo?
«Un governo di centrosinistra come il nostro deve stare a contatto, sentire la gente, il che non vuol dire dar sempre ragione. Io giro tutte le settimane le Università: prendi qualche fischio però poi hai modo di ragionare. Il metodo dello stare a contatto con le persone deve essere adottato sistematicamente. Poi governare vuol dire anche decidere contro. Sulla base di Vicenza non è in ballo una scelta di politica estera, mi pare che questo governo abbia dato prova di grande autonomia ed anche di una funzione di pace e di cooperazione internazionale dell’Italia».
L’Unità si è permessa di scrivere che non siamo nel Minnesota e quindi c’è una sovranità italiana che forse andrebbe fatta valere.
«Un maggior contatto e discussione con la gente di Vicenza e magari un approfondimento sulle soluzioni possibili andrebbe fatto, lo dico sommessamente perché non voglio creare difficoltà. Quello che non condivido, lo voglio dire chiaramente, è la posizione di quei partiti della maggioranza che dicono: "Se Prodi ha fatto così su Vicenza, allora noi facciamo una ritorsione sull’Afghanistan". Questo non va bene: mi pare che stiamo dando prova di una politica estera complessivamente nuova e voglio dare atto a Massimo D’Alema del lavoro che sta facendo».
Veniamo al tuo lavoro, l’Università e la Ricerca. Parliamo di meritocrazia: io penso che certamente qualcosa il ministero stia facendo, e non soltanto da un punto di vista simbolico. Il problema è che ci sono delle situazioni dove il merito si scontra con delle cose incredibili: intere famiglie che occupano intere facoltà.
«Il merito non è un invenzione, è la carta che hanno i poveri per riscattarsi, è un elemento di uguaglianza. È quando non c’è il merito che vanno avanti i «figli di». Una società nella quale un dottorando, quando ha una borsa, prende 800 euro al mese, è il più colossale oltraggio sociale al merito. Noi dobbiamo garantire carriere che procedono perché si valuta la qualità delle persone e dobbiamo garantire trattamenti economici che riconoscono la fatica che fa un giovane che nella vita si dedica a studiare e a fare ricerca scientifica. Da noi c’è un esercito di servi della gleba, di precari, che con uno stipendio da fame spesso tengono in piedi il sistema. Bisogna ridurre l’età media, ripristinare la piramide cioè avere molti ingressi come ricercatori - come abbiamo già cominciato a fare con il piano straordinario di assunzione dei ricercatori - e centellinare con il contagocce i concorsi per le fasce superiori. Bisogna valorizzare soprattutto i titoli, cioè la certificata carriera professionale, e puntare molto sull’Agenzia di valutazione che è la vera grande novità e che a giorni avrà il decreto applicativo: è lo strumento che permette di spostare l’asse del governo del sistema dal controllo delle procedure, che poi non riesce mai ad essere efficace, alla valutazione dei risultati. A quel punto potrà esserci un sistema anche di finanziamento premiale che valuti chi ottiene i risultati migliori».
Ma non è possibile resuscitare l’ispezione in quelle Università dove queste incrostazioni ci sono e, prima che si arrivi ad un mutamento dei criteri, rischiano di sopravvivere?
«Si possono fare delle ispezioni, tuttavia molti di quei vizi che oggi vediamo consolidati sono avvenuti tutti attraverso procedure legali. C’è anche l’illegalità, e quella si può correggere, ma bisogna riformare il sistema e promuovere un altro principio etico professionale. Da qualche anno a questa parte assistiamo a processi di proliferazione cancerosa. Atenei, facoltà, corsi di laurea, insegnamenti frammentati. In Finanziaria c’è il blocco delle proliferazioni delle sedi: la proibizione per un ateneo di andare ad aprire facoltà fuori comune. Ho bloccato l’apertura di un numero sterminato di università telematiche, ho bloccato il sistema delle convenzioni con le pubbliche amministrazioni o con gli ordini professionali che riconoscevano crediti in massa, ho stabilito che non può aprirsi un corso se non si ha già almeno la metà degli insegnanti strutturati: prima se ne aprivano a bizzeffe con gli insegnanti a contratto. E questo già ridurrà drasticamente il numero dei corsi. A questi fenomeni di moltiplicazione fuori controllo va aggiunto quello delle lauree honoris causa: non una medaglia che si mette nei giorni di festa, ma una laurea a tutti gli effetti. Siamo arrivati a cento, ho già mandato un atto di indirizzo: non firmerò la concessione di lauree honoris causa che non abbiano un’adeguata documentazione».
Tu ti sentiresti di consigliare a un giovane talentuoso ricercatore che ha un’offerta dagli Usa o dalla Gran Bretagna, di rimanere in Italia perché qui troverà quello di cui ha bisogno?
«La cosa che più preoccupa non è tanto che i giovani italiani se ne vanno, tra l’altro il fatto che i nostri giovani laureati siano così ricercati è anche la prova che l’Università italiana ha anche delle eccellenze. L’Ocse vuole applicare il metodo Pisa per la valutazione degli studenti che ora si ferma alle scuole superiori anche all’Università. Io ho detto subito di sì, intanto perchè abbiamo tutto l’interesse a sapere la verità, anche se fosse amara, ma poi perché sono convinto che il risultato non sarebbe sconfortante. Noi non avremo Harvard ma abbiamo una qualità media tutt’altro che disprezzabile. Dopodiché io non avrei niente in contrario se per uno studente italiano che va, ne arrivasse uno dalla Germania, dagli Usa, dalla Cina, dall’India, dal Giappone. È questo che bisogna creare, l’attrattività. Ciò che è grave è il deficit della bilancia commerciale: molti vanno ma pochi vengono. La gente deve andare, ma non per necessità: lo sforzo sarà quello di creare le condizioni non solo perché i giovani che vogliono restare restino, ma perché anche gli stranieri che vogliono venire, vengano. Mobilità e internazionalizzazione sono il segreto per un salto di qualità del nostro sistema».
Luca Nichi ci scrive: “il mio sogno è diventare medico. Ma il numero chiuso continuerà a esserci?” Poi, la laurea breve. Crescenzo dice: “non crede che sarebbe il caso di ripensare all’attuale ordinamento universitario del 3+2 che ha terribilmente banalizzato gli studi”?
«Il numero chiuso a Medicina è una regola europea, e c’è anche una ragione: per diventare medico non basta avere i libri a casa, servono un ospedale, dei letti, dei malati, quindi ci sono facoltà in cui credo che il numero chiuso sia ragionevole. Poi c’è chi si è allargato: si dice che abbiamo troppi studenti, ne abbiamo un milione e ottocento mila, una delle percentuali più basse rispetto ai paesi europei, all’America, al Giappone. Noi abbiamo bisogno di più studenti universitari, di più laureati, e quindi anche qui bisogna intervenire riducendo il numero di corsi a cui si accede a numero chiuso, però tentando anche di frenare l’immensa dissipazione di energia che si ha per strada. Penso all’abbandono tra il primo e il secondo anno di università. Penso al numero di fuori corso, che è un’esagerazione.
Però anche ai ragazzi che ci ascoltano voglio dire: uno studente universitario costa 7.700 euro all’anno e gran parte di quel costo è coperto dal finanziamento pubblico, dalle tasse dei cittadini. Quando ci si iscrive all’università bisogna anche sentire il senso di responsabilità verso la famiglia e verso il resto della società che paga. Per quanto riguarda il discorso dei livelli di laurea,non si tratta di un’invenzione italiana, ma è un sistema che esiste in gran parte del mondo. Ci sono cose che hanno funzionato, altre che non hanno funzionato. Io non penso che sia in sé sbagliata l’idea dei livelli, purché si resti nella logica che il primo livello è una laurea con un chiaro profilo professionale. Quella dopo non è semplicemente l’allungamento della prima, è una specialistica. Bisogna dunque rimetterci un po’ le mani e aggiustare il sistema, c’è bisogno di un bel tagliando. Intanto nei prossimi giorni uscirà il decreto sui dottori di ricerca. Il dottorato deve essere titolo privilegiato che dà punteggio ai concorsi, perché è un titolo prezioso e le imprese devono capire che può aumentare la composizione intellettuale del mercato del lavoro. Credo che occorra anche andare verso un regime fiscale che faciliti l’assunzione dei dottori di ricerca».
Già, la ricerca. Il prof. Francesco Hardt scrive: “il governo Prodi sembra essere riuscito a fare perfino peggio di quanto fatto negli anni precedenti dalla CdL per quanto riguarda i finanziamenti alla ricerca universitaria”. Una constatazione che serpeggia nel mondo accademico.
«Qui proprio sbaglia: se c’è nella Finanziaria una cosa positiva sono i fondi per la ricerca. Quest’anno nei tre grandi fondi pubblici per la ricerca ci sono 276 milioni, nella Finanziaria in vigore prima che arrivassimo noi ce n’erano 100. Sono 300 milioni in più quest’anno, 300 il prossimo, 360 quello dopo. È quasi un miliardo di euro in più. Ci sarà una commissione che tenterà di premiare le scelte più promettenti. In più c’è il fondo che si chiama Italia 2015, che in parte andrà alle imprese e all’industria, in parte tornerà agli enti di ricerca. Insomma soldi in più per la ricerca scientifica ci sono, quindi qui qualcosa cambia».
(a cura di Paola Zanca)