mercoledì 24 gennaio 2007

Liberazione 24.1.07
Caso Welby
Chi è un medico?


Caro Piero,
più della diatriba interna al Vaticano sul caso Welby (…), mi sembra importante l'approssimarsi del 26 gennaio, data in cui l'Ordine dei medici di Cremona deciderà sulle sorti di Mario Riccio, il medico di Piergiorgio Welby.
Già (…), perché di questo si tratta: rapporto medico-paziente. Non ci dovrebbe essere nessun altro tra i due soggetti: non i parenti e gli amici del paziente, né lo Stato né tanto meno la Chiesa. Invece l'Ordine dovrà decretare se Riccio è ancora libero di esercitare la sua professione (…).
Ma più medico di uno che si rapporta soltanto al suo paziente, chiudendo il mondo fuori dalla porta del suo studio? Si pensa a che cosa succederebbe se un ortopedico prima della riduzione di una frattura dovesse contattare l'Ordine? Se uno psichiatra, di fronte a una crisi psicotica, telefonasse ai colleghi per un consulto? Che faremo tra qualche anno? Telecamere in tutte le sale operatorie affinché il Ministero della Sanità valuti se il taglio per operare un'appendicite è della giusta lunghezza o se la dose di anestetico è sufficiente?
Speriamo che l'Ordine ci dica chi è un medico, una volta per tutte.

Paolo Izzo via e-mail


il Riformista 24.1.07
L’eutanasia dei malati di mente
di Livia Profeti


L’Olocausto non è stato il primo esperimento nazista di sterminio “seriale”: tra il 1940 e il 1941 vennero uccisi, in appositi istituti provvisti di camere a gas, circa 70.000 adulti ed un numero indefinito di bambini deformi o ritenuti idioti. Uno sterminio che viene spesso considerato il precedente storico e preparatorio alla “soluzione finale” della questione ebraica.
Nel suo Il nazismo e l'eutanasia dei malati di mente Alice Ricciardi von Platen, racconta che le persone venivano prelevate da ospizi e ospedali, prendendo i nominativi da elenchi compilati sommariamente da medici secondo questionari che li invitavano ad identificare pazienti sofferenti delle patologie più varie: senilità, schizofrenia, forme di labilità mentale, epilessia, malattie neurologiche. Inoltre negli elenchi dovevano essere indicati i pazienti ospedalizzati da più di cinque anni, coloro che non erano di sangue tedesco o affine e comunque tutti gli stranieri.
Apparentemente le giustificazioni ideologiche del micidiale programma furono analoghe a quelle poi utilizzate per la soluzione finale, e quindi sostanzialmente incentrate sul leit motif dell’integrità biologica e morale del popolo tedesco “minacciata” da questi «veri e propri parassiti, scorie dell’umanità». In questo caso però furono due elementi diversi a giocare un ruolo fondamentale: la repulsione per esseri umani non ritenuti semplicemente malati da curare ma visti come “diversi” immodificabili, ed il mero calcolo economico sul loro costo per lo Stato, divenuto particolarmente insostenibile in periodo bellico. Il provvedimento porta infatti la stessa data del primo giorno di guerra e la Ricciardi von Platen riporta la testimonianza di un gerarca che avrebbe ascoltato lo stesso Hitler parlarne in termini di una soluzione idonea a risparmiare sulle spesa ospedaliere.

Liberazione.it 23.1.07
Ansia, panico? Occupiamo la scuola
La paura del futuro
di Franco Berardi Bifo


Gli studenti e le studentesse del liceo bolognese Minghetti hanno occupato per qualche giorno la loro scuola, la settimana scorsa. Non è una gran notizia, perché di occupazioni ce n’è tante: cominciano, finiscono, talvolta cambia qualcosa talvolta non cambia niente. Ma quel che mi ha colpito non è l’occupazione, bensì le motivazioni che sono venute fuori. Alcune delle motivazioni non sono nuove, anche se fin troppo giuste, come la protesta contro il travaso di finanziamenti verso la scuola privata e la diminuzione di finanziamenti per la scuola pubblica. Ma emerge tra le motivazioni una problematica che a mio parere è destinata a diventare quella più importante nel tempo che viene: l’ansia, il panico, il disagio mentale.
In una indagine che è stata svolta prima e durante l’occupazione stessa una larghissima maggioranza di studentesse (molto meno ragazzi) hanno denunciato l’ansia e lo stress, e il panico. La causa più immediata che hanno indicato le ragazze intervistate è il carico di lavoro scolastico, il sentimento di essere sovrastate dai ritmi che la scuola impone loro.
Il nucleo profondo della questione che le ragazze del Minghetti hanno posto riguarda però tutti noi.
Sta diventando adulta una generazione che fin dalla prima infanzia è stata sottoposta a un flusso ininterrotto di stimoli informativi, molti dei quali hanno un carattere di sollecitazione competitiva. Un vero e proprio assedio dell’attenzione da parte del sistema mediatico. La pubblicità lavora sulla percezione di sé, sull’identità in competizione. La televisione e i media virtuali mobilitano costantemente il sistema nervoso sottraendo spazio per la socializzazione, per lo scambio affettivo, per la corporeità. Linguaggio e affettività sono scissi in maniera patogena.
Fino a un paio di decenni fa la sindrome del panico era praticamente sconosciuta. La parola panico aveva un significato indefinito, romantico, aveva a che fare con il sentimento di essere sopraffatti dall’immensità della natura. Ma negli ultimi anni il termine è entrato a far parte del lessico psicopatologico, perché un numero crescente di giovanissimi e di lavoratori (soprattutto quelli che lavorano nei settori in cui si impiega tecnologia informatica) denunciano alcuni fra i sintomi che possono definire una crisi di panico: palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia. Sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, sensazione di soffocamento e di asfissia, dolore al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggere o di svenimento, derealizzazione, paura di perdere il controllo o di impazzire, sensazioni di torpore o di formicolio.
Gli psichiatri non sono in grado di indicare le cause di questo fenomeno, probabilmente perché sfugge al loro campo. Il panico si può definire come una reazione dell’organismo posto in condizioni di sovraccarico informativo. L’organismo riceve troppe informazioni per poterle elaborare affettivamente, e per poter costruire strategie di comportamento razionale.
Per completare il quadro patologico occorre ricordare che un numero crescente di bambini e di ragazzi nella prima adolescenza soffrono di quella sindrome che gli psichiatri americani hanno definito Attention deficit disorder: una incapacità di concentrare l’attenzione su un oggetto mentale per un tempo superiore ai pochi secondi. Non è forse del tutto comprensibile, se teniamo conto del fatto che l’ambiente cognitivo nel quale queste persone sono cresciute è un flusso psicostimolante che sposta continuamente l’oggetto dell’attenzione, come accade nelle pratiche del multitask o dello zapping? Non è forse del tutto comprensibile, visto che l’ambiente di formazione videoelettronico tende a scindere l’esperienza cognitiva e linguistica dal contatto corporeo e dalla socialità affettuosa?
Due psicoanalisti parigini (Michel Bensayag e Gerard Schmit) hanno pubblicato un libro dal titolo L’epoca delle passioni tristi in cui, partendo dalla loro pratica analitica, giungono alla conclusione che la percezione stessa del futuro è divenuta fonte di panico e di depressione. Scrivono i due studiosi: ”La tradizione della psichiatria fenomenologica descrive la depressione come un’esperienza di vita in cui uno sente di non avere più tempo, di avere il tempo contato e di non avere più spazio fino al punto che sentendosi braccato incorre in un autentico stallo esistenziale. Il tempo scorre a gran velocità e non c’è posto in cui scappare: la persona depressa ritrova dappertutto il già noto. Non esiste luogo o rifugio che le consenta di sfuggire alla trappola della depressione”.
Ora, questa descrizione della depressione si attaglia perfettamente alla vita quotidiana di decine di milioni i persone che non si considerano affatto depresse.
Mi pare che proprio questo sia il problema posto dalle studentesse del liceo Minghetti.

l'Unità 24.1.07
I Pacs? Fanno bene alla salute (mentale)
di Vittorio Lingiardi
(Vittorio Lingiardi a partire da quest'anno è il nuovo Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell'Università "la Sapienza" di Roma presso la Facoltà di Psicologia)


Tra le ragioni da elencare a favore della legalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso la più importante è che il mancato riconoscimento sociale di un legame affettivo danneggia la salute mentale e compromette lo sviluppo psicologico. Tale riconoscimento, con tutti i benefici, i diritti e i doveri che ne seguono, va dunque considerato un atto dovuto in nome della salute. I Pacs non sono dunque solo un caso politico-giuridico (la cui assenza pone il nostro paese ai margini dell'Europa), ma anche un intervento a tutela della salute psicologica dei cittadini omosessuali che, come tutti gli altri, devono poter beneficiare dei vantaggi sociali, psicologici e simbolici derivati dal riconoscimento collettivo delle loro relazioni.
Trent'anni fa la comunità scientifica internazionale (soprattutto nella sua componente anglo-americana) «depatologizzava» l'orientamento omosessuale, eliminandolo dagli elenchi dei disturbi mentali. Sembra incredibile che sia successo «solo» trent'anni fa, ma, volendo fare un paragone istruttivo, ricordiamo che, più o meno negli stessi anni, la Svizzera concedeva diritto di voto alle donne, che in Italia avevano votato per la prima volta nel 1946. Una volta maturati i «tempi sociali», nel 2000 l'American Psychiatric Association formula un public statement a favore delle unioni civili. Una scelta coerente: sarebbe alquanto illogico, oltre che crudele, considerare psicologicamente sana una persona, ma poi non riconoscere la legittimità sociale delle sue relazioni affettive e il suo diritto a formare una famiglia. È più o meno quello che succede nel nostro paese, dove, a quanto pare, la scienza e la legge faticano a parlarsi.
Così nascono i cittadini di serie B. E un popolare conduttore televisivo, durante un dibattito sui Pacs, può dire: «una cosa è il rispetto della diversità e una cosa sono le leggi». Infatti due uomini o due donne che si amano e vivono insieme magari da vent'anni non possono avere un riconoscimento giuridico della loro unione, la reversibilità della pensione (possibile invece per i parlamentari anche quando non sussiste legame matrimoniale), agevolazioni fiscali sulla successione ecc. Eppure di fronte allo stato hanno gli stessi doveri degli altri cittadini, pagano le tasse e possono accedere a ogni tipo di carriera pubblica e professionale.
«Minority stress» è il nome che la psichiatria americana dà al disagio psichico che deriva dalla discriminazione e dalla stigmatizzazione sociale di una minoranza. Nello sviluppo psicologico, il riconoscimento sociale ha grande importanza perchè permette a una rappresentazione di consolidarsi nella mente come legittima e convalidata. Questa stabilizzazione ha a sua volta importanza perché, nel suo costituirsi come «possibile» e «legittima», perde il suo contenuto «minaccioso» e quindi disincentiva le azioni violente e persecutorie nei suoi confronti (bullismo, omofobia sociale). Inoltre riduce gli effetti dell'assimilazione della negatività sociale, cioè l'omofobia interiorizzata: un fenomeno alla base della difficoltà ad accettarsi, fino all'autodisprezzo, e di comportamenti inconsciamente autodistruttivi caratteristici di molte persone omosessuali.
Si tratta di argomenti molto semplici, alla base di qualunque percorso di integrazione delle differenze individuali, culturali, sociali. Ma proprio qui sorge il problema del pregiudizio: se in passato le persone omosessuali creavano «scandalo» per via della loro devianza, oggi ciò che indigna (o, più probabilmente, spaventa) è invece la richiesta di normalità. Gay e lesbiche che chiedono di potersi sposare, formare famiglie, avere i diritti e i doveri di tutti.
Credo di aver detto una parola tabù: famiglia. La si vorrebbe immodificabile, incorruttibile, unica. Si tratta invece di un contesto affettivo che assume configurazioni diverse a seconda dell'epoca e della cultura. Originariamente "insieme dei famuli", cioè di coloro che hanno un rapporto di dipendenza dal paterfamilias, la famiglia così è descritta dalla nostra costituzione (art. 29): «La repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare». Matrimonio, ecco l'altra parola da maneggiare con cura (la terza sarà adozione). Esistono due tipi di matrimonio: religioso e civile; quest'ultimo può essere a sua volta distinto, spesso con piccole differenze, in unione civile, pacte civil de solidarité (alla francese, Pacs), civil partnership, ecc.
È stato toccante leggere che, in Inghilterra, il numero di persone gay e lesbiche che, nei primi 10 mesi dall'entrata in vigore della legge (dicembre 2005), ha richiesto la registrazione di partnership si è rivelato di gran lunga superiore alle previsioni: pari a quello previsto per il 2030! Ancora una volta, si misura la distanza tra società e politica. E non quella tra «un capriccio», come lo ha definito il cardinale Trujillo, e una legge.
Infine, una segnalazione accademica per Piero Fassino e per sviluppare un dibattito più empirico e meno emotivo su un tema difficile: sono appena stati pubblicati su Pediatrics (vol.118, n.1, 2006) rivista ufficiale dell'American Academy of Pediatrics, i risultati di una ricerca: «Effetti delle leggi su matrimonio, unioni civili e domestic partnership sulla salute e il benessere dei bambini». Vale la pena di darci una lettura, soprattutto alle conclusioni, dove si legge che «non si evidenzia una relazione tra l'orientamento sessuale dei genitori e le dimensioni emotive, psicosociali e comportamentali indagate nel campione di bambini... Adulti coscienzionsi e capaci di fornire cure, siano essi uomini o donne, etero o omosessuali, possono essere ottimi genitori». A conclusioni analoghe sono giunte tutte le principali associazioni americane nel campo della salute mentale, compresa l'American Psychoanalytic Association («è nell'interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti e capaci di cure. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all'orientamento sessuale»).
Ogni definizione di sé e della propria identità comporta una rinuncia, prima di tutto psicologica. Ma questa rinuncia non può essere basata sulla negazione del diritto all'uguaglianza.

Corriere Salute 24.1.07
La depressione si sta diffondendo tra gli adolescenti
Il 6% dei ragazzi prende antidepressivi
La terapia è necessaria perchè può salvare dal rischio di suicidio. Ma talvolta i farmaci usati non hanno indicazione pediatrica


In Italia il 6% circa dei bambini e degli adolescenti assume antidepressivi. A prendere questi farmaci sono il 3,25% delle femmine da 0 a 17 anni, contro il 2,4% dei maschi. Se ci si focalizza sui teenager, dai 14 ai 17 anni, il ricorso ad antidepressivi riguarda il 6% dei ragazzi e più del 10% delle ragazze. Lo rivela uno studio condotto da Maurizio Bonati, responsabile del laboratorio di salute materno-infantile dell'Istituto Mario Negri di Milano, illustrati oggi all'Istituto superiore di sanitá di Roma nel corso del convegno «Bambini e psicofarmaci: tra incertezza scientifica e diritto alla salute». «La depressione - sottolineano gli esperti - si sta diffondendo nel mondo anche tra gli adolescenti, al punto che il suicidio rappresenta la terza causa di morte in questa fascia d'età».
PRESCRIZIONI SBAGLIATE - Ma se è giusto e doveroso ricorrere agli antidepressivi quando siano indicati, ancora più giusto, secondo Bonati, sarebbe prescrivere quelli giusti. I dati presentati dal ricercatore milanese indicano infatti che circa 20 mila adolescenti ogni anno ricevono almeno una prescrizione di antidepressivi off-label, cioè al di fuori dell'indicazione per cui sono stati autorizzati in commercio. «I medici possono prescrivere diversi antidepressivi nel nostro Paese, ma solo uno di questi è indicato per l'utilizzo nei ragazzi e nei bambini. Invece in quasi due terzi dei casi vengono prescritti farmaci che non dovrebbero essere prescritti nei regazzi o che, addirittura, hanno controindicazioni all'uso pediatrico».
Quali rischi corrono i giovani o giovanissimi che li prendono? «Innazitutto di incorrere negli effetti collaterali di questi preparati» ci risponde Maurizio Bonati, «talvolta anche seri». «Ma soprattutto» prosegue l'esperto, «il rischio è che invece di diminuire il rischio suicidario, che è il principale obbietivo della terapia, lo si aumenti».
RISCHIO SUICIDIO - E il rischio sucidiario è in effetti una delel conseguenze più temure delle depressioni non adeguatamente curate nei giovani. Soffrire di depressione in etá evolutiva - spiegano gli esperti - espone a un alto rischio di suicidio. In particolare, negli Usa i casi di suicidio tra gli adolescenti si sono triplicati negli ultimi 40 anni, rappresentando la terza causa di morte. Secondo «A public health approach to innovation», uno studio recentemente condotto dall'Oms (Organizzazione mondiale della sanità), 3 bambini su 1.000 soffrono di un disturbo depressivo in etá prescolare, il 2% in etá scolare e il 4-8% durante l'adolescenza. Inoltre, dal 30% al 50% degli adolescenti depressi soffre anche di disturbi distimici o ansiosi e tra il 20% e il 30% fa uso di sostanze stupefacenti.
IN FEBBRAIO DECISIONE SUL RITALIN - Altra patologia per la quale vengono impiegati psicofarmaci nei ragazzi è l'ADHD (malattia del distrubo dell'attenzione o dell'iperattività). Entro febbraio arriverà la decisione regolatoria per il Ritalin (metilfenidato), relativa alla sua immissione in commercio e ai criteri di rimborsabilità. Attualmente si stima che circa 5 mila bimbi con Adhd in Italia siano trattati con il Ritalin, nonostante nel nostro Paese non sia ancora stato approvato. Il farmaco è molto prescritto negli Usa. Oltre al Ritalin, verrá monitorato anche l'uso di un altro farmaco registrato in Europa con procedura di mutuo riconoscimento.
La prescrivibilità di questi farmaci sarà comunque regolata da Registro nazionale dei trattamenti (farmacologici e non farmacologici) creato ad hoc per «garantire accuratezza diagnostica e appropriatezza terapeutica.
l.r.


Agenzia Radicale 24.1.06
Heidegger nazista? 11 studiosi smontano l'accusa
Esce in Francia il libro che Gallimard aveva rifiutato di pubblicare; il gruppo diretto da Fedier replica alle clamorose tesi di Faye
di Gerardo Picardo


Cade un’altra idiozia che per anni ha ostacolato l’approccio e la lettura di uno dei più grandi speculativi del Novecento. Un gruppo di undici studiosi universitari francesi, svizzeri e italiani, sotto la direzione di Francois Fedier, ha infatti smontato l'accusa di filonazismo rivolta al filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976).
Il libro Heidegger a' plus forte raison, opera collettiva curata da Fedier, che l'editore francese Gallimard ha rinunciato a pubblicare l'anno scorso, sarà edita nel prossimo fine settimana dall'editore Fayard. Si tratta di una “vittoria” per Fedier, la cui integrità morale era stata messa in causa da Emmanuel Faye, il cui libro Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosofia, stampato dall'editore parigino Albin Michel nel 2005, sosteneva che il grande pensatore tedesco era stato un ideologo del nazionalsocialismo travestito da filosofo. Faye ha poi accusato studiosi come Fedier, che hanno consacrato la loro vita a tradurre e commentare l'opera di Heidegger, di essere nientemeno che dei 'negazionisti'.
Il clamore dell'accusa ha provocato un caso internazionale intorno al libro di Faye, al punto che oltre 3.000 universitari di tutto il mondo, in tredici lingue, hanno ridicolizzato l'accusa come “delirante”.
Il sostegno che in certi ambienti è stato dato al clamore delle tesi di Faye - ad esempio quello dei famosi storici francesi Pierre Vidal-Naquet e Jean-Pierre Vernant, recentemente scomparsi - hanno provocato la controffensiva degli specialisti di Heidegger, capitanati da Fedier.
Il libro Heidegger a' plus forte raison era stato annunciato da Gallimard per la primavera 2006 ma poi l'editore ha rinunciato a stamparlo perché Faye aveva fatto circolare l'insinuazione che si trattasse di un'opera 'negazionista'. Claude Durand, direttore di Fayard, ha ripreso il libro in mano ed ha deciso di pubblicarlo. Nelle 536 pagine del libro coordinato da Fedier si replica alle tesi di Faye definite “approssimative” e piene di “controsensi ed errori”. Sarà la fine della ‘saga’ sul pensatore di Sein und Zeit? Ce lo auguriamo di cuore. Tornando ad appassionarci alla pagina di Heidegger oltre tutti i lacci pseudonazisti cuciti attorno al suo Denken potente che ci invita agli Holzwege del nostro tempo.

martedì 23 gennaio 2007

Liberazione 21.1.07
Intervista a Oreste Scalzone, prescritto e pronto a rientrare in Italia

Con altri 15 compagni daremo ancora fastidio
di Daniele Zaccaria


Oreste Scalzone è un fiume in piena, dalla sua abitazione parigina riceve fax, spedisce email chilometriche, rilascia dichiarazioni a televisioni spagnole e radio francesi, ma soprattutto risponde alle decine di chiamate che da tre giorni sommergono la sua segreteria telefonica per chiedergli un commento, una battuta, un’impressione sulla sua nuova condizione di uomo libero. La Corte di Milano ha estinto i reati che lo hanno tenuto 26 anni fuori dall’Italia e lui stesso ha fatto sapere che tornerà nel nostro Paese da «pendolare» per disputare «vecchie battaglie in nuove condizioni». Che sarà «guitto» e «teatrante», che gli basterà un quotidiano arrotolato per far sentire la sua voce. Nulla di particolarmente provocatorio o minaccioso, «nessun regolamento di conti», come ha ribadito lui stesso ai giornalisti, evocando la lotta per l’amnistia che conduce da almeno due decenni. Eppure queste dichiarazioni volanti, persino scontate per chi conosce la passione e il gusto per la politica che non hanno mai abbandonato l’ex leader di Potere operaio, hanno suscitato uno sgradevole vespaio di polemiche. Ministri della Repubblica, deputati dell’opposizione, politologi e vecchi agit-prop degli anni’70 in cerca di espiazioni tardive hanno implicitamente decretato che Scalzone potrà varcare le Alpi ma “a bassa intensità”, che è un cittadino libero a tutti gli effetti, ma sarebbe meglio se non si occupasse di politica, insomma che non rompesse le scatole.
Ora che potrai venire in Italia c’è chi ti consiglia di fare il pensionato, di annaffiare le rose e raccontare le favole ai nipotini e c’è chi ti accusa addirittura di avere un comportamento «velenoso».E davvero così strano che uno come te abbia ancora voglia di dire la sua?
Ci sono state diverse reazioni, più o meno scomposte, più o meno livorose e io ci tengo a distinguere tra quelle provenienti dalla classe politica e quelle dei cosiddetti intellettuali. Ma per inquadrare il problema vorrei partire dall’attualità.
Prego…
Qualche mese fa c’è stato un indulto, un provvedimento necessario da tempo come fatto minimo di razionalizzazione del sistema carcerario, per l’affollamento estremo, per le condizioni di vita spesso insopportabili all‘interno delle prigioni, ovvero qualcosa di disfunzionale allo stesso indotto dell’”impresapenale”. L’indulto era stato implorato anche da Papa Giovanni Paolo II che, durante il Giubileo, se ricordate, andò a Rebibbia a lavare i piedi dei detenuti e in seguito fece uno storico discorso a Camere riunite ricevendo molti applausi ma nessuna risposta. Insomma, la situazione era matura da tempo.
Tuttavia, di fronte a questa misura minima, si è scatenato un coro forcaiolo trasversale: penso alla Lega, a gran parte di An, ma anche a diversi settori della sinistra di vecchia tradizione giustizialista e vicini alla magistratura.
Perché tanta esasperazione, tanto zelo punitivo?
Credo che dipenda dalla logica dell’emergenza. Stiamo parlando di un modesto sconto di pena a circa 20mila persone, né di una grazia né di un premio. E’ l’emergenza che ha banalizzato il carcere, che ha diffuso la cultura dellapunizione. Le reazioni scomposte di fronte all’indulto mi sembrano anti-giuridiche: ormai è considerato normale sottomettere alcune tipologie di reato a regimi di reclusione speciale, come adesempio il 41 bis. Il carcere non basta, deve diventare un inferno di gironi tipologici, una punizione senza fine.
Non dimentichiamoci che l’ultimo indulto fu approvato nel 1990 e peraltro non c’erano escludenti come oggi, ma nessuno ebbe nulla da ridire anche di fronte a reati particolarmente odiosi come la strage, i crimini contro l’umanità, la tratta di esseri umani. Oggi le reazioni sono molto più virulente e nel senso comune l‘indulto è associato a una porcheria, a una specie di crimine camuffato.
Dispiace e lascia sconcertati quando questa tendenza è visibile nel “popolo della sinistra”. Quando il Csm ha recentemente evocato l’ipotesi di un’amnistia come soluzione razionale a molti problemi tecnico-carcerari c’è stata un’altra spiacevole levata di scudi, come se l’amnistia non facesse parte del nostro ordinamento. Tutto ciò è pazzesco. Questo imbarabarimento ha fatto perdere anche il senso della misura, persino della razionalità statistica: se una persona esce di carcere e la sera stessa uccide l’amante della moglie o la suocera non è un effetto dell’indulto, ma un fatto statistico. Le conseguenze di un simile clima producono effetti tragicomici come nel caso del ministro della Giustizia.
Puoi spiegarti meglio?
Ad essere sincero, l’onorevole Mastella non mi suscita animosità personale, purtroppo però a volte straparla e dà l’impressione di essere in uno stato confusionale grave. Quando ha saputo che la Corte di Milano aveva estinto i miei reati ha detto: ”Signori, mi dispiace, non posso farci nulla, il problema sono le prescrizioni”. Vorrei ricordare al ministro che nella Costituzione ci sono gli istituti dell’amnistia, dell’indulto e nel codice penale c’è quello della prescrizione.
Non è una stravaganza o un crimine. Si rende conto Mastella che il concetto di “giustizia infinita” lo aveva tirato fuori quel fesso di Bush? Poi qualche teo-con un po’ più istruito di lui lo ha corretto perché la “giustizia infinita” corrisponde alla concezione cattolica dell’inquisizione e loro, da bravi fondamentalisti protestanti quali sono, lo hanno sostituito con la “guerra infinita”. La giustizia infinita, senza limiti, contraddice lo stesso Stato di diritto e questo lo dovrebbe sapere anche Mastella.
Valerio Morucci(ex Br) e Sergio Segio (ex Prima linea) hanno criticato, seppur in forme molto diverse, le tua volontà di partecipare in senso lato, al dibattito politico italiano. Segio ti ha addirittura dato del calunniatore e del seminatore d’odio.
Hai fatto bene a distinguere tra i due. Comincerò da Morucci. Valerio lo conosco da quando aveva 17 anni, era un “pariolino povero” frequentava il comitato di base di Lettere (all’Università La Sapienza di Roma ndr), girava su una moto alla Easy Rider, intonava il simpatico slogan “Se vuoi la Rivoluzione non seguire Scalzone” e mi dava del revisionista. Ma in fondo lo faceva in forme molto civili e pacifiche. Premetto che, come tutti sanno, non amo particolarmente le sue scelte, di allora e di oggi, ma nell’intervista rilasciata alla “Stampa” in fondo c’è una certa grazia e una piccola traccia d’affetto nei miei confronti. Diciamo che gli piace vedermi un po’come i fratelli Taviani in “San Michele aveva un gallo”: dipingono il vecchio anarchico derelitto che alla fine incontra i comunisti “veri”, gli ortodossi che gli spiegano quanti errori, quanta ingenuità c’è stata nella sua esistenza, umana e politica. Lo stesso discorso vale anche per Francesco Merlo e Lanfranco Pace: pensano che io viva fuori dal tempo. Non so se hanno ragione, forse sì, forse no, loro però sembrano vivere su una nuvola, una nuvola di Aristofane.
Segio invece…
E’ una vera nota dolente perquanto paradossale (la voce di Scalzone cambia improvvisamente tono ndr) mi chiedo perché i suoi amici non facciano nulla per fermarlo, per consolarlo, per lenire questa profonda ferita narcisistica. Non mi piace affrontare certi discorsi, ma sono quasi costretto. Se divagassi nei sentieri delle polemiche politiche, o anche dello scontro su temi morali, potrei cavarmela col dire che, considerando il suo intero percorso, la storia da lui rivendicata, il fatto che mi attacchi è un onore. Se mi concedessi agli stilemi del leninismo da pamphlet, aggiungo che sono molto più efficaci e cattivi, tra quanti hanno diviso con lui l’ultimo domicilio conosciuto, l’ultima identità, l’ultima firma, aree omogenne della dissociazione politica, anche un Franceschini o un Morucci che schivano la tentazione dell’attacco, perché esercitano una maggiore riflessività e una maggiore lucidità. Ritengo che Segio non possa che essere in una paradossale buona fede, non è un’illazione, è lui che ne dà prova flagrante, sono anni che esordisce con un incipit: “Scalzone è diventato da rivoluzionario calunniatore di professione...”. La tragedia è che lui vorrebbe aver vissuto il rapporto tra il “prima” e il “dopo” come Gallinari o anche solo come me. Il veleno insopportabile che noi siamo per lui è in tal senso il simbolo di tutti i suoi compagni che non lo hanno seguito nelle sue scelte. Ricordo che si faceva chiamare il “Comandante Sirio”, che ci rifiutammo di seguirlo in Prima linea poiché eravamo convinti che l’omicidio politico non fosse un’opzione praticabile. Questo voglio sottolinearlo al di là delle implicazioni e delle considerazioni etiche e personali, ma dal punto di vista teorico e collettivo. Per noi lo Stato non era il Castello di Kafka e non aveva un cuore da colpire, dunque il paradigma del tirannicidio, l’unico a legittimare l’omicidio politico, era impossibile perché le relazioni di potere erano e sono molecolari, mimetiche. Per attaccarlo in modo diretto si sarebbe dovuta compiere un’ecatombe.
Segio dimostra un’odio sconfinato nei miei confronti perché ragiona ancora da militare, da comandante di brigata, e non a caso mi disprezza perché mi sono rifugiato a Parigi. Mi vede come un “disertore”, uno che non ha fatto il “sacrificio” della galera come lui. Quando nel 2002 hanno arrestato Paolo Persichetti ha rilasciato una delirante intervista in cui spiegava che gli stava bene, che meritava di finire in galera.
Hai detto che verrai in Italia da “pendolare”e da “teatrante”, cosa vedi il tuo futuro?
Più che il pendolare farò il nomade, ma per motivi pratici e di buon senso. Andrò in giro, ho amici e parenti da incontrare, ho delle tombe che vorrei visitare. Sarò una specie di guitto cantastorie- un “agit-attore”, come direbbe Bobbio: sono venuto a portare scompiglio tra le mie fila. Il che è del tutto naturale: quando sento un coro antisemita in un corteo di sinistra mi incazzo molto di più che se quel coro viene pronunciato in una manifestazione fascista. Se mi seguiranno in 15 saremo in 15, altrimenti rimarrò da solo e non importa.
Andrò davanti i ministeri e dirò le mie cose finché a Paolo Persichetti e ad altri casi come il suo, non verranno concessi i benefici previsti dalla legge.
E la politica italiana?
Come ho detto nei giorni scorsi non esistono “governi amici”, ma governi e basta, mi tiro fuori dallo schema illusione-delusione, proprio perché non mi aspetto nulla dal governo di centrosinistra.
Detto ciò ritengo che il maggior problema della nostra società, del nostra ragione politica sia culturale, ed è il giustizialismo: è possibile pensare che a tutto ci debba essere soluzione di natura penale? E’ una malattia che affligge gran parte della sinistra italiana, anche se sarà difficile liberarsene. Vedo poca lucidità in giro.
Ti riferisci a qualcuno in particolare?
Mi hanno colpito le affermazioni di Sanguineti sulle virtù dell’odio di classe. Calcolando che Sanguineti nella vita fa il poeta e che si candida a diventare sindaco di Genova, che cosa c’entra l’odio di classe con il municipio? Pensa di governare la sua città odiando metà della popolazione che vuole rappresentare?. Inoltre non puoi dire che sei favorevole l’odio di classe, però poi escludi il ricorso alla violenza . Mi sembra contraddittorio e anche poco elegante.
Oltre a critici e detrattori cisono state anche reazioni positive al tuo prossimo rientro
Ringrazio chi ha speso parole affettuose nei miei confronti, penso in particolare a Francesco Caruso che mi è anche molto simpatico. Un piccolo consiglio però vorrei darglielo a Caruso: lui ha detto di avere un mio poster attaccato in camera da letto. Non so se sia vero o se si tratti di un’invenzione giornalistica, detto ciò gli consiglio di sostituirlo al più presto.
Con cosa?
Con un poster di Rita Hayworth in Gilda: è molto più bella di me.

L'espresso
L'identità è appartenenza
di Eugenio Scalfari


Costruire una identità deprivata dalle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia
Umberto Galimberti è uno dei pensatori che più mi appassionano per la profondità delle sue osservazioni filosofiche, psicologiche, sociali e anche per la nitidezza e semplicità della sua scrittura e del suo eloquio. Per questo da molti anni gli sono amico e consento quasi sempre con le sue tesi.
Su 'Repubblica' del 28 dicembre ho trovato una sua breve scheda a proposito dei mutamenti dell'identità che sono già in corso e ancor più lo saranno nei prossimi anni e decenni, via via che verranno meno le 'appartenenze' sulle quali da secoli e anzi da millenni l'identità della nostra specie e degli individui che la compongono è stata costruita.

Il tema è dunque quello dell'identità e dell'appartenenza, finora strettissimamente connesse tra loro. Ma se le appartenenze si indeboliscono fino a scomparire del tutto in un futuro più o meno prossimo, che fine farà l'identità? Ne avremo ancora una riconoscibile da noi stessi e dagli altri? Dove si specchierà quell'identità nuova priva di specchi nei quali cercare conferma del nostro esistere come soggetti? Con quali strumenti riusciremo a costruirla in assenza delle appartenenze?

Cedo ora a lui la parola perché renda ancor più evidente e attuale la dimensione del problema che ha posto. "Ogni volta che rivendichiamo la nostra identità dimentichiamo che questa è decisa quasi totalmente dalle nostre appartenenze: religiosa innanzitutto (essere cristiani invece che musulmani, ebrei, buddisti, eccetera), culturale (essere nati e cresciuti in Occidente piuttosto che altrove), ideologica (essere di destra o di sinistra o qualunquisti), famigliare (a seconda si abbia o non si abbia una famiglia nobile, borghese, proletaria), di genere (maschio, femmina, transgender), di orientamento sessuale (etero, omo, bisex). Di qui il problema: che ne è della mia identità oggi che i contorni delle diverse appartenenze si smarginano, i confini dei diversi territori diventano permeabili, le leggi allargano le loro maglie per ospitare il più possibile tutta la gente e per garantire a ciascuno l'esercizio della propria libertà?".
Galimberti non è affatto spaventato da questa prospettiva, anzi ci vede "una grande occasione" perché nasca un'identità vera, senza la comoda protezione dell'appartenenza e quindi un 'essere-sé-stessi' senza che nessun dispositivo religioso culturale giuridico possa definirci. Naturalmente non sarà un processo semplice né lineare. Susciterà (sta già suscitando) incertezze e paure, procederà a scossoni, darà luogo a crisi, scontri, azioni e reazioni, ma andrà avanti perché il mondo ha abbattuto i suoi tramezzi e i muri maestri che separavano culture, costumi, persone; la tecnologia ha reso possibile l'unificazione del pianeta.
E conclude: "L'assenza di confini offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, de-situa e così scongiura quella fittizia identità che è data esclusivamente dalle nostre appartenenze". Che ci vanno sempre più strette (la chiosa è mia).
Una descrizione di quanto sta accadendo intorno a noi (e anche dentro di noi) impeccabile e una conclusione fiduciosa com'è nel carattere dell'amico Galimberti. Che però questa volta non mi convince del tutto e lascia comunque aperte molte domande. Provo a formularne qualcuna.
È vero, le appartenenze plasmano l'identità e inevitabilmente costringono la libertà individuale entro limiti prefabbricati. Prefabbricati da chi? Dai 'tempora' e dai 'mores'. Cioè dalle generazioni che sono alle nostre spalle, le quali a loro volta sono cresciute sulle spalle di quanti le precedettero. Insomma dalla storia. Dovremmo dunque cancellare la storia e la memoria? In gran parte la rimozione del passato sta avvenendo, ma è un fenomeno positivo per la ricchezza dell'umanesimo? Poiché credo di conoscere abbastanza bene Galimberti non penso che giudichi positivamente l'appiattimento sul presente delle nuove generazioni. Ma l'annullamento delle appartenenze porta a questo, lo si voglia o no.
Seconda osservazione. Per costruire un'identità fondata sull''essere-sé-stessi' bisogna conoscere, appunto, sé stessi, vecchia raccomandazione dei filosofi da Socrate in poi. Ma è possibile conoscere sé stessi?
Personalmente sono stato anch'io per lungo tempo fautore di questa massima e per quanto possibile ho cercato di applicarmela. Ma col passare degli anni credo d'essere arrivato alla conclusione che conoscere sé stessi sia pressoché impossibile. Se è permesso utilizzare il vecchio lessico kantiano, è impossibile conoscere la 'cosa in sé' da parte di osservatori esterni. Ma - penso io - è altresì impossibile che la cosa in sé si conosca. La cosa in sé, cioè l'essenza della cosa e nel caso nostro il mio 'sé' non è conoscibile, non è oggettivabile. Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l'io, la nostra mente ha capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il 'sé', cioè l'essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell'inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza.
Non ho bisogno di spiegare questi processi a Galimberti che ne è maestro. Ma lo invito a riflettere sul fatto che costruire un'identità de-privata dalle sue appartenenze, si fondi principalmente sull' 'essere-sé-stessi' , quando si sa che conoscere sé stessi è impossibile, equivale a costruire sulla sabbia. Naturalmente ci sono geni creatori, artisti, conquistatori, che appartengono solo a sé stessi e alle loro passioni. Ma una società non è fatta di geni, sarebbe una galera anzi un inferno. Caro Umberto, dopo un lungo periodo di fatiche mentali la cui meta è stata di risolvere la conoscenza della cosa in sé, sono arrivato alla conclusione che noi siamo costruiti in modo da poter conoscere soltanto i fenomeni. La cosa in sé, per dire l'essenza, è come Dio per i credenti: c'è, ma è inconoscibile fino al momento in cui saremo assunti nel regno dei cieli e contempleremo l'Uno partecipando alla sua essenza.
Tutto è possibile, ma l'identità ci serve qui e ora. Quella del credente è certamente un'identità forte. Non essendo la mia, devo cercarla in altre appartenenze.

il manifesto 23.1.07
Una francese alla corte di Bisanzio
Ripercorrendo l'avventurosa esistenza della «basilissa» Anna, «L'impero perduto» di Paolo Cesaretti ricorda la devastazione di Costantinopoli, due secoli prima dell'assalto ottomano, da parte di forze provenienti dalla cristianissima Europa
di Marina Montesano


Le polemiche sullo scontro di civiltà e sulle difficoltà di convivenza tra occidente e mondo musulmano, cui purtroppo gli ultimi anni ci hanno abituato, tendono di solito a ripercorrere frettolosamente il passato nel tentativo di giustificare scelte e posizioni del presente. Così, per esempio, da parte di quanti osteggiano l'ingresso della Turchia in Europa, si sente spesso ripetere che l'impero turco e l'occidente sarebbero stati eterni nemici: in particolare agli ottomani si ascrive la responsabilità di avere inferto un colpo fatale all'impero bizantino, privando così la cristianità di una sua parte fondamentale, quella cui era spettata l'eredità dell'impero romano e, al contempo, della civiltà greca. Al di là del manicheismo insito in tale visione, è interessante sottolineare come questa lettura dimentichi che la Bisanzio cui nel 1453 gli ottomani assestarono la spallata definitiva altro non era se non l'ombra dell'impero di un tempo. Oltre due secoli prima di quell'evento, infatti, l'impero bizantino era stato devastato da forze che provenivano dalla cristianissima Europa, una devastazione dalla quale Costantinopoli non si sarebbe mai ripresa.
A queste circostanze e agli anni che le precedettero fa riferimento il bel libro di Paolo Cesaretti L'impero perduto (Mondadori, pp. 382, euro 19), che ruota intorno alla figura di una protagonista di quel periodo, Anna di Bisanzio. Anna si chiamava in realtà Agnès ed era figlia di Luigi VII di Francia e della sua terza moglie, Alice di Champagne. Nata nel 1171, aveva soltanto nove anni quando lasciò la Francia per andare in sposa ad Alessio II Comneno, anch'egli un bambino appena undicenne: le nozze fra i due principi infanti si celebrarono fastosamente a Costantinopoli nel 1180, anno in cui il piccolo Alessio successe al padre, il basileus Manuele Comneno. Nello stesso 1180 in cui Agnès, ormai Anna, diveniva basilissa di Costantinopoli, suo fratello Filippo II Augusto ascendeva al trono di Francia, e l'unione fra le famiglie regnanti di Francia e di Bisanzio aveva lo scopo di rinsaldare l'alleanza contro l'egemonia dell'imperatore Federico Barbarossa sull'Europa occidentale
Il regno di Manuele aveva infatti inaugurato una politica parzialmente nuova. Profondamente attratto dai costumi occidentali, appassionato di donne, tornei e costumi cavallereschi, il basileus aveva progetti espansionistici: stipulò dunque una larga rete di alleanze il cui scopo immediato era, appunto, la vittoria sul Barbarossa, ma il cui fine reale era forse una sorta di politica «neogiustinianea» che mirava a imporre la sua supremazia sull'intero Mediterraneo.
Come al tempo di Giustiniano, la penisola italica restava centrale sul piano strategico: per questo Manuele cercò un punto di forza sul quale far leva per ristabilirvi la sua autorità, e lo trovò nella città di Ancona che, appoggiandosi all'imperatore bizantino, si sentì abbastanza forte da intraprendere una politica di egemonia sul mare Adriatico, in opposizione alla potenza veneziana. Tuttavia Manuele non visse abbastanza per portare a termine la sua impresa.
Per condurre una politica di questo tipo, egli avrebbe avuto bisogno di instaurare buoni rapporti con i suoi vicini orientali, i principati turco-musulmani di Anatolia, ma non riuscì in tale compito: da quelle forze fu anzi duramente sconfitto in battaglia e morì precocemente all'età di trentasette anni.
Correva dunque l'anno 1180. Incoronato basileus a soli tredici anni, Alessio era - anche in tempi in cui l'età adulta giungeva assai precocemente - troppo giovane per reggere il peso dell'eredità paterna. Fu dunque facile per il cugino del padre, Andronico, sbarazzarsene: lo fece strangolare nel sonno, e il cadavere del ragazzo venne gettato in mare. Figura cupa e affascinante, Andronico, a quel tempo ultrasessantenne, aveva condotto una vita da reietto, prigioniero e poi vagabondo per anni in terra d'Islam. Era tuttavia un uomo colto e coraggioso, capace di guadagnarsi il favore degli eserciti e - sia pure per una breve stagione - delle folle di Costantinopoli. Dopo averne soppresso lo sposo, Andronico prese in moglie la dodicenne Agnès/Anna, mentre sul piano pubblico capovolse la linea di Manuele inaugurando una politica antioccidentale. In Europa però si andava profilando una situazione nuova, destinata a sconvolgere gli assetti internazionali: un avvicinamento tra due nemici storici di Bisanzio, l'Impero e i Normanni, che avrebbe condotto nel 1186 al matrimonio tra l'erede del regno di Sicilia, Costanza di Altavilla, e il figlio del Barbarossa, Enrico VI.
Il rovesciamento di fortune di Andronico si consumò in due anni: nel 1185 i Normanni presero d'assalto Tessalonica, umiliando in ogni modo la popolazione bizantina. In seguito a questo tracollo, le stesse folle che avevano favorito l'usurpatore gli si rivoltarono contro e, sobillate dal cugino Isacco d'Angelo, lo sottoposero a un supplizio crudele. Nella concitazione degli eventi, le vicende della giovanissima Anna si perdono, tanto che Cesaretti ha dovuto condurre un lavoro di raffinata esegesi sulle fonti per trarne qualche notizia sull'ex imperatrice, smarrita nel caos che seguì l'ascesa al potere della nuova dinastia.
Ripetute sconfitte nei Balcani avevano infatti indebolito il governo di Isacco Angelo, al punto che suo fratello Alessio III si impadronì del potere dopo averlo fatto accecare e rinchiudere insieme al figlio Alessio. Intanto, nel 1202 le forze crociate erano concentrate a Venezia, la quale offriva una potente flotta di cinquanta galee per trasportarle oltremare. Il contributo veneziano non era tuttavia gratuito e l'armata crociata non aveva fondi sufficienti: il doge Enrico Dandolo propose allora ai crociati di sdebitarsi aiutando Venezia a sottomettere la città dalmata di Zara, che le si era ribellata. Ma la richiesta di Dandolo celava altri progetti: a Zara infatti si era presentato ai crociati il principe bizantino spodestato, chiedendo aiuto per sconfiggere l'usurpatore e promettendo in cambio denaro e addirittura la fine dello scisma tra le due Chiese. Nel luglio 1203 gli occidentali giunsero a Costantinopoli, sconfissero Alessio III e restaurarono sul trono Isacco e il figlio Alessio IV. La loro prepotenza però provocò una rivolta, alla quale veneziani e crociati risposero con il saccheggio della città e con il rovesciamento dell'impero bizantino.
Ed è in questa fase che ritroviamo Anna, ormai adulta, prima amante e poi moglie del nobile Teodoro Brana. Ormai lontana dalle sue origini francesi, la donna si era trasformata in una fiera bizantina tanto da cercare invano, nelle fasi più concitate dell'assalto occidentale, di far da ponte insieme al marito tra i due contendenti, i greci e i latini.. Dopo il 1204 le sue tracce si smarriscono nuovamente, perdute per sempre insieme all'impero al quale le vicende convulse della sua esistenza l'avevano condotta ad appartenere.

l'Unità 23.1.07
Fabio Mussi: «Rischiano di scomparire sinistra e socialismo»


IL MINISTRO FABIO MUSSI risponde in chat ai lettori e al direttore Antonio Padellaro. Spiega perché non lo convince il progetto di Partito democratico: un’operazione «che porta più indietro e più a destra». Dunque «vado al Congresso per rimettere in discussione questo progetto, che non è ineluttabile»

«Un passo alla volta». Fabio Mussi, Il ministro dell’Università e della Ricerca «nient’affatto convinto» del nascituro Partito Democratico, risponde alle domande dei lettori de l’Unità.it. Intervistato in videochat dal direttore Antonio Padellaro parla di Università, di ricerca, di meritocrazia, di tagli al business degli atenei. Ma soprattutto ribadisce il suo «no» al nuovo partito che cancella la parola «sinistra». Il futuro? «Un passo alla volta».
Ministro Mussi, il numero di messaggi che riguardano il Partito Democratico e i Ds è tale per cui non possiamo non parlarne. Vorrei riassumere un po’ i contenuti: molti dicono «Non vi scindete». Il timore della scissione è una cosa che angoscia molto gli iscritti e militanti dei Ds. Vuole dire una parola chiara su questo punto?
«Io ho dedicato una vita alla sinistra italiana. Sono stato tra i più convinti e tra i più coraggiosi quando si è trattato di compiere delle svolte necessarie per il futuro della sinistra e necessarie per il nostro Paese. Ora non sono affatto convinto. Non posso immaginare che in questo Paese scompaiano persino dal lessico politico le parole «sinistra» e «socialismo». Credo che il partito democratico potrebbe portare a una dissoluzione della principale forza di sinistra dentro un contenitore che a me pare più un grande involucro elettorale che un nuovo partito con una tavola di valori condivisa, una chiara identità, una chiara collocazione internazionale. Io non parto con il piede della scissione. In questi anni ho fatto le mie battaglie ma quando si è trattato di trovare ponti non mi sono mai tirato indietro. Vado al Congresso perché lo voglio vincere, cioè voglio avere la forza sufficiente a fermare questo treno. Quello che sta succedendo nella fusione tra Ds e Margherita riguardo alla questione del Partito Socialista Europeo andrebbe risolta preliminarmente, prima di fare il primo passo perché poi ci si trova in un vicolo cieco. A me sembra un’avventura che può portarci ad un guaio molto serio».
È chiaro che ci sarà un risultato al Congresso: ho l’impressione che se ciò che tu rappresenti riceverà un consenso superiore al 30%, è evidente che questo potrebbe creare una situazione politicamente nuova. Se ciò non avvenisse, ti troverai di fronte a una scelta.
«A quel punto la farò. Ora, siccome un cammino è fatto di un passo alla volta, il mio primo passo è avere i voti per poter rimettere in discussione questo progetto che non è ineluttabile. L’altra cosa che chiedo è la chiarezza: far credere ai dubbiosi e ai contrari che ci si scioglie ma non ci si scioglie, che si fa un altro partito ma i Ds restano, solo per confortarli. Alla fine si illuderanno gli scettici e i contrari e si deluderanno quelli che invece ci credono davvero. Non sono contrario all’alleanza elettorale, anzi vorrei tornare ad allargarla. L’Ulivo che mi piaceva è quello del ’96, mi piace meno quello a cui siamo arrivati».
Una lettera però te la devo leggere: Gianfranco Tannino, Monaco di Baviera: “Vorrei invitare Mussi e tutto il Correntone a far parte del futuro Pd. Se vogliamo che il futuro Pd abbia una identità socialista, è importante che coloro che sentono questa identità, entrino in massa in questo nuovo partito. Un partito in cui credo fermamente, non potendo il nostro Paese sopportare oltre la miriade di partitini, ostacolo oggettivo al buon funzionamento di qualsiasi governo”. Questo è l’argomento che fa più presa: troppi partiti, come si fa ad andare avanti?
«Il problema della frammentazione del sistema politico è serio, ma l’idea che si fa il Partito Democratico per rafforzare la presenza di forze socialiste in Italia è paradossale. Evidentemente si vuole fare il Pd perché si vuole andare oltre la sinistra e il socialismo. Sono pronto a discutere, perché anch’io penso che occorra andare oltre la tradizione classica socialista europea. Ma penso che occorra andare oltre, a sinistra e verso culture più critiche. Mi pare che questa operazione porti invece più indietro e più a destra. L’idea che basta che ci sia qualcuno di sinistra per trasformare questo partito non sta in piedi. Le identità collettive non dipendono dalle testimonianze personali, sono una cosa più complessa, e i partiti non nascono perché una lista ha preso in una Camera il 3% in più della somma delle altre due liste di riferimento in un’altra Camera. Un partito nasce perché ci sono state le leghe operaie, la rivoluzione francese e quella sovietica, la caduta del Muro di Berlino... non esistono nascite politologiche dei partiti».
C’è anche la questione di Vicenza che appassiona molto e fa molto arrabbiare. Come mai, ti chiede Mirko Gigliotti, quando si devono prendere decisioni che coinvolgono i territori non si ascolta la voce della gente? Parlo degli Inceneritori, della Tav e per finire della nuova base americana. Oppure Giuseppe Puleo: "Il sì definitivo di questo governo ai desideri Usa su Vicenza sarà il fallimento totale di Prodi e della sua compagine". Infine, Nizzero: "Caro ministro Mussi, secondo lei il Governo ha rispettato la Costituzione? Ha rispettato la sovranità nazionale?". Il caso Vicenza è la punta di un iceberg dell’insoddisfazione che c’è nel mondo del centrosinistra, ma anche dei Ds, rispetto a questi primi mesi del governo Prodi. Che sta succedendo?
«Un governo di centrosinistra come il nostro deve stare a contatto, sentire la gente, il che non vuol dire dar sempre ragione. Io giro tutte le settimane le Università: prendi qualche fischio però poi hai modo di ragionare. Il metodo dello stare a contatto con le persone deve essere adottato sistematicamente. Poi governare vuol dire anche decidere contro. Sulla base di Vicenza non è in ballo una scelta di politica estera, mi pare che questo governo abbia dato prova di grande autonomia ed anche di una funzione di pace e di cooperazione internazionale dell’Italia».
L’Unità si è permessa di scrivere che non siamo nel Minnesota e quindi c’è una sovranità italiana che forse andrebbe fatta valere.
«Un maggior contatto e discussione con la gente di Vicenza e magari un approfondimento sulle soluzioni possibili andrebbe fatto, lo dico sommessamente perché non voglio creare difficoltà. Quello che non condivido, lo voglio dire chiaramente, è la posizione di quei partiti della maggioranza che dicono: "Se Prodi ha fatto così su Vicenza, allora noi facciamo una ritorsione sull’Afghanistan". Questo non va bene: mi pare che stiamo dando prova di una politica estera complessivamente nuova e voglio dare atto a Massimo D’Alema del lavoro che sta facendo».
Veniamo al tuo lavoro, l’Università e la Ricerca. Parliamo di meritocrazia: io penso che certamente qualcosa il ministero stia facendo, e non soltanto da un punto di vista simbolico. Il problema è che ci sono delle situazioni dove il merito si scontra con delle cose incredibili: intere famiglie che occupano intere facoltà.
«Il merito non è un invenzione, è la carta che hanno i poveri per riscattarsi, è un elemento di uguaglianza. È quando non c’è il merito che vanno avanti i «figli di». Una società nella quale un dottorando, quando ha una borsa, prende 800 euro al mese, è il più colossale oltraggio sociale al merito. Noi dobbiamo garantire carriere che procedono perché si valuta la qualità delle persone e dobbiamo garantire trattamenti economici che riconoscono la fatica che fa un giovane che nella vita si dedica a studiare e a fare ricerca scientifica. Da noi c’è un esercito di servi della gleba, di precari, che con uno stipendio da fame spesso tengono in piedi il sistema. Bisogna ridurre l’età media, ripristinare la piramide cioè avere molti ingressi come ricercatori - come abbiamo già cominciato a fare con il piano straordinario di assunzione dei ricercatori - e centellinare con il contagocce i concorsi per le fasce superiori. Bisogna valorizzare soprattutto i titoli, cioè la certificata carriera professionale, e puntare molto sull’Agenzia di valutazione che è la vera grande novità e che a giorni avrà il decreto applicativo: è lo strumento che permette di spostare l’asse del governo del sistema dal controllo delle procedure, che poi non riesce mai ad essere efficace, alla valutazione dei risultati. A quel punto potrà esserci un sistema anche di finanziamento premiale che valuti chi ottiene i risultati migliori».
Ma non è possibile resuscitare l’ispezione in quelle Università dove queste incrostazioni ci sono e, prima che si arrivi ad un mutamento dei criteri, rischiano di sopravvivere?
«Si possono fare delle ispezioni, tuttavia molti di quei vizi che oggi vediamo consolidati sono avvenuti tutti attraverso procedure legali. C’è anche l’illegalità, e quella si può correggere, ma bisogna riformare il sistema e promuovere un altro principio etico professionale. Da qualche anno a questa parte assistiamo a processi di proliferazione cancerosa. Atenei, facoltà, corsi di laurea, insegnamenti frammentati. In Finanziaria c’è il blocco delle proliferazioni delle sedi: la proibizione per un ateneo di andare ad aprire facoltà fuori comune. Ho bloccato l’apertura di un numero sterminato di università telematiche, ho bloccato il sistema delle convenzioni con le pubbliche amministrazioni o con gli ordini professionali che riconoscevano crediti in massa, ho stabilito che non può aprirsi un corso se non si ha già almeno la metà degli insegnanti strutturati: prima se ne aprivano a bizzeffe con gli insegnanti a contratto. E questo già ridurrà drasticamente il numero dei corsi. A questi fenomeni di moltiplicazione fuori controllo va aggiunto quello delle lauree honoris causa: non una medaglia che si mette nei giorni di festa, ma una laurea a tutti gli effetti. Siamo arrivati a cento, ho già mandato un atto di indirizzo: non firmerò la concessione di lauree honoris causa che non abbiano un’adeguata documentazione».
Tu ti sentiresti di consigliare a un giovane talentuoso ricercatore che ha un’offerta dagli Usa o dalla Gran Bretagna, di rimanere in Italia perché qui troverà quello di cui ha bisogno?
«La cosa che più preoccupa non è tanto che i giovani italiani se ne vanno, tra l’altro il fatto che i nostri giovani laureati siano così ricercati è anche la prova che l’Università italiana ha anche delle eccellenze. L’Ocse vuole applicare il metodo Pisa per la valutazione degli studenti che ora si ferma alle scuole superiori anche all’Università. Io ho detto subito di sì, intanto perchè abbiamo tutto l’interesse a sapere la verità, anche se fosse amara, ma poi perché sono convinto che il risultato non sarebbe sconfortante. Noi non avremo Harvard ma abbiamo una qualità media tutt’altro che disprezzabile. Dopodiché io non avrei niente in contrario se per uno studente italiano che va, ne arrivasse uno dalla Germania, dagli Usa, dalla Cina, dall’India, dal Giappone. È questo che bisogna creare, l’attrattività. Ciò che è grave è il deficit della bilancia commerciale: molti vanno ma pochi vengono. La gente deve andare, ma non per necessità: lo sforzo sarà quello di creare le condizioni non solo perché i giovani che vogliono restare restino, ma perché anche gli stranieri che vogliono venire, vengano. Mobilità e internazionalizzazione sono il segreto per un salto di qualità del nostro sistema».
Luca Nichi ci scrive: “il mio sogno è diventare medico. Ma il numero chiuso continuerà a esserci?” Poi, la laurea breve. Crescenzo dice: “non crede che sarebbe il caso di ripensare all’attuale ordinamento universitario del 3+2 che ha terribilmente banalizzato gli studi”?
«Il numero chiuso a Medicina è una regola europea, e c’è anche una ragione: per diventare medico non basta avere i libri a casa, servono un ospedale, dei letti, dei malati, quindi ci sono facoltà in cui credo che il numero chiuso sia ragionevole. Poi c’è chi si è allargato: si dice che abbiamo troppi studenti, ne abbiamo un milione e ottocento mila, una delle percentuali più basse rispetto ai paesi europei, all’America, al Giappone. Noi abbiamo bisogno di più studenti universitari, di più laureati, e quindi anche qui bisogna intervenire riducendo il numero di corsi a cui si accede a numero chiuso, però tentando anche di frenare l’immensa dissipazione di energia che si ha per strada. Penso all’abbandono tra il primo e il secondo anno di università. Penso al numero di fuori corso, che è un’esagerazione.
Però anche ai ragazzi che ci ascoltano voglio dire: uno studente universitario costa 7.700 euro all’anno e gran parte di quel costo è coperto dal finanziamento pubblico, dalle tasse dei cittadini. Quando ci si iscrive all’università bisogna anche sentire il senso di responsabilità verso la famiglia e verso il resto della società che paga. Per quanto riguarda il discorso dei livelli di laurea,non si tratta di un’invenzione italiana, ma è un sistema che esiste in gran parte del mondo. Ci sono cose che hanno funzionato, altre che non hanno funzionato. Io non penso che sia in sé sbagliata l’idea dei livelli, purché si resti nella logica che il primo livello è una laurea con un chiaro profilo professionale. Quella dopo non è semplicemente l’allungamento della prima, è una specialistica. Bisogna dunque rimetterci un po’ le mani e aggiustare il sistema, c’è bisogno di un bel tagliando. Intanto nei prossimi giorni uscirà il decreto sui dottori di ricerca. Il dottorato deve essere titolo privilegiato che dà punteggio ai concorsi, perché è un titolo prezioso e le imprese devono capire che può aumentare la composizione intellettuale del mercato del lavoro. Credo che occorra anche andare verso un regime fiscale che faciliti l’assunzione dei dottori di ricerca».
Già, la ricerca. Il prof. Francesco Hardt scrive: “il governo Prodi sembra essere riuscito a fare perfino peggio di quanto fatto negli anni precedenti dalla CdL per quanto riguarda i finanziamenti alla ricerca universitaria”. Una constatazione che serpeggia nel mondo accademico.
«Qui proprio sbaglia: se c’è nella Finanziaria una cosa positiva sono i fondi per la ricerca. Quest’anno nei tre grandi fondi pubblici per la ricerca ci sono 276 milioni, nella Finanziaria in vigore prima che arrivassimo noi ce n’erano 100. Sono 300 milioni in più quest’anno, 300 il prossimo, 360 quello dopo. È quasi un miliardo di euro in più. Ci sarà una commissione che tenterà di premiare le scelte più promettenti. In più c’è il fondo che si chiama Italia 2015, che in parte andrà alle imprese e all’industria, in parte tornerà agli enti di ricerca. Insomma soldi in più per la ricerca scientifica ci sono, quindi qui qualcosa cambia».
(a cura di Paola Zanca)

lunedì 22 gennaio 2007

Agi 20.1.07
Stazione Termini

(AGI) - CdV, 20 gen. - "Avevamo capito male: la principale stazione ferroviaria di Roma continuera' a chiamarsi Stazione Termini". L'Osservatore Romano risponde con ironia alla precisazione del sindaco di Roma Walter Veltroni, sul fatto che "la cerimonia avvenuta il 23 dicembre scorso, alla presenza del card. Tarcisio Bertone, segretario di Stato, e del card. Vicario Camillo Ruini, al di la' delle convinzioni degli stessi partecipanti, aveva il significato di una semplice dedica, materializzata attraverso la posa di due stele". "Per inciso - sottolinea la nota vaticana - le stele recano la scritta, chiarissima, 'Stazione Termini-Giovanni Paolo II'". Cio' nonostante, rileva l'Osservatore, Termini non si chiamera' "Stazione Giovanni Paolo II" ne' "Stazione Termini-Giovanni Paolo II". "Avevamo tutti capito male", continua l'articolo sottolineando che e' bastato che un cittadino dichiarasse di sentirsi offeso dalla nuova intitolazione della stazione. Un atto definito nella lettera alla quale il sindaco Veltroni ha risposto con la sua precisazione, "d'imperio tale da offendere i passeggeri laici e quelli di diverse confessioni religiose". "Qualche malizioso - afferma la nota - ha ricordato tutte le polemiche che nell'aprile del 2005 suscito' proprio l'idea di intitolare al compianto Papa la stazione ferroviaria, con i soliti ossessionati laicisti pronti ad alzare la voce". Puntigliosamente l'Osservatore ricorda che la decisione di intitolare al compianto Papa la stazione ferroviaria era stata osteggiata dai "soliti ossessionati laicisti pronti ad alzare la voce. Quei radicali che, come gia' accaduto per altre questioni, non si fanno sfuggire mai la ghiotta (e rara) occasione per dimostrare a se stessi e agli altri di esistere politicamente". Sono loro, scrive il quotidiano della Santa Sede, che "hanno accusato il sindaco di aver realizzato un blitz, profittando fra l'altro dello sciopero dei giornalisti proclamato il 23 dicembre scorso". Ma tutto questo non scusa il sindaco agli occhi del Vaticano: Veltroni "ha a sua volta colto l'occasione della lettera di quel cittadino per chiarire il suo pensiero su di un equivoco lasciato proliferare per troppo tempo. Ed ha, anzitutto, ricordato i tanti meriti di Giovanni Paolo II, tra i quali le parole spese contro la guerra, l'impegno per il dialogo tra le religioni, caratterizzati da un comune denominatore: il coraggio, quello della fede e quello delle idee. Un coraggio gigantesco, proprio dei Grandi della storia". (AGI)

Repubblica 22.1.07
"Le posizioni del segretario e del correntone sono entrambe nefaste, non sarà un congresso ma un referendum"
"La Quercia ormai è una caserma"
Ds, Angius lancia la terza mozione, attacchi a Fassino e Mussi
di Giovanna Casadio


ROMA - Li ha punti così sul vivo l´analisi di D´Alema e di Fassino sulla necessità di «andare oltre il socialismo» nel Partito democratico, che «i compagni della terza mozione» chiedono di non essere chiamati più «demoscettici» bensì «eurosocialisti». Gli eurosocialisti quindi, guidati da Gavino Angius, Massimo Brutti, da Mauro Zani e Franco Grillini, sfideranno nel congresso dei Ds di aprile Piero Fassino con la "mozione numero 3", attaccano anche la sinistra di Mussi e frenano sul Partito democratico: «Non possono essere un gruppo di intellettuali a decidere sul nuovo partito, e qualsiasi uscita o allontanamento dalla famiglia socialista europea è fuori discussione. Del resto, quando mai i socialisti hanno pensato di essere i soli depositari del cambiamento? La conseguenza però non è lo scioglimento: Blair, Zapatero o Schroeder non lo hanno fatto: Neppure i Ds si sciolgano», dice Angius mantenendo un po´ di suspense (deciderà a fine settimana) sulla propria candidatura alternativa a segretario. Che tuttavia sembra scontata.
La contrapposizione con Fassino è senza sconti. «C´è un modo di dirigere il partito che non condivido, un partito ridotto così è una caserma - accusa Angius - dove bisogna tacere e obbedire, dove si conduce una campagna sottilmente intimidatoria verso chi non la pensa nello stesso modo». La riunione della "terza mozione" è stata convocata ieri, non a caso due giorni dopo la direzione nazionale che ha visto la resa dei conti sulle regole per il congresso (è stato alla fine deciso il voto segreto e unico su mozione e segretario, come piaceva al leader della sinistra, Fabio Mussi) e il giorno dopo l´assemblea dei tremila segretari di sezione, sfoggio di forza e vitalità della Quercia.
È proprio quell´«andare oltre» il socialismo che accende il dibattito tra i riformisti. La Margherita apprezza. «Molto bene D´Alema», commenta il coordinatore Dl, Antonello Soro. In settimana Soro e gli altri "saggi" incaricati di scrivere il "Manifesto" del Pd si incontreranno di nuovo, la bozza di 12 pagine sarà ridotta. Nei Ds le acque restano agitate. «È un errore smantellare il riferimento al socialismo europeo, D´Alema non si rende conto che così smantella una cosa che c´è in nome di una che non c´è», denuncia Valdo Spini. Nicola Rossi, l´economista che ha restituito la tessera Ds, afferma di non essersene pentito e ribadisce le critiche al partito: «Non credo che i Ds siano un partito in salute ma continuo a ritenere che in Italia ci sia un disperato bisogno di un partito della sinistra riformista», argomenta in un´intervista su Raitre a "In mezz´ora". «Fu un errore puntare solo sull´antiberlusconismo durante i cinque anni di opposizione - osserva - Bisognava invece fare battaglie interne alla sinistra per sostenerne l´identità».
Dai «compagni della terza mozione» critiche alla sinistra di Mussi che con la "mozione due" dà «solo un alt al Pd», mentre «noi intendiamo condizionare il corso delle cose e alla fine ci ringrazieranno», sostiene Brutti. Al congresso non ci sarà un dibattito ma «soltanto una conta», e Zani, insiste: «Il congresso dei Ds deve essere sovrano, non ratificare decisioni prese a Orvieto». Lancia la proposta di scegliere nome e collocazione del Pd con un referendum. L´obiettivo è anche quello di allargare il nuovo soggetto politico ad altre forze, in primo luogo lo Sdi di Boselli ma anche a Di Pietro. Boselli per ora ipotizza un´intesa con il Nuovo Psi di De Michelis.

il Riformista 22.1.07
Editoriale
Movimenti. perché non è inutile ragionare ancora sul '77
Quegli ostili alieni che ci misero in crisi


Può anche risultare una stranezza, utilizzare queste righe per occuparci di quanto capitò in Italia (e solo in Italia: perché se il Sessantotto fu una febbre che prese la generazione dei baby boomers quasi sotto ogni cielo, il Settantasette fu, in sostanza, una storia italiana) trent’anni fa. Ma a me sembra proprio di no. E non solo perché in occasione del trentennale escono libri (non banali) e si sprecano le rievocazioni sui giornali, Riformista compreso. Il fatto è, «come eravamo» a parte, che il Settantasette fu davvero, anche se pochissimi in diretta se ne accorsero, un passaggio d’epoca, concluso il quale nulla, ma proprio nulla, sarebbe rimasto come prima. Questo furono ancora in meno a capirlo: e forse si può dire che una simile cecità abbia qualcosa da spartire con la crisi (della politica, dei partiti, della sinistra) dei decenni successivi, e pure con la nostra crisi attuale.
Intendiamoci. Non era facile. Anzi: era quasi impossibile, almeno sulla scorta della cultura politica di cui disponevamo. E la comparsa (non sporadica) della P38 davvero non aiutò quei pochi che, nonostante tutto, volevano cercare di capire meglio. Anzi: l’incapacità o il rifiuto di tanta parte del movimento di prendere pubbliche e non formali distanze da quanti teorizzavano e praticavano la guerriglia dettero forza e argomenti praticamente irresistibili alla tesi, al tempo più che maggioritaria, secondo la quale il movimento in questione era prima di tutto l’acqua in cui nuotavano indisturbati i pesci del terrorismo, e dunque, piuttosto che discettare, si trattava di prosciugare, e in fretta, quell’acqua. Tutto vero. Ma ancor più vero, forse, è che per molti motivi a quel movimento e a quella generazione, così diversa dai fratelli maggiori del Sessantotto, mancò qualsiasi tipo di interlocuzione politica, in primo luogo da parte della sinistra, in primo luogo da parte del Pci. Di un Pci che dopo aver superato, un anno prima, il 35 per cento dei voti, ritenne che il modo migliore, o forse l’unico, per utilizzarlo fosse la politica di unità nazionale, scomoda anticamera forse del compromesso storico o forse, chissà, di una democrazia dell’alternanza del futuro. Chiudendosi a riccio nei confronti di chi questa scelta la contestava, nella convinzione che, magari “oggettivamente”, lo facesse per contrastare “l’ascesa della classe operaia alla direzione dello Stato”: non a caso “diciannovismo” e “sovversivismo” furono le maledizioni più gettonate.
Ripeto. Era difficilissimo, quasi impossibile trovarli, degli interlocutori nel movimento. Ma, se non ci si provò neppure, non fu solo perché il movimento, tutto il movimento, a quella politica era fieramente avverso. Fu prima ancora, credo, per via del fatto che quel movimento e quella generazione apparivano (ci apparivano) letteralmente incomprensibili, del tutto diversi com’erano dalla gruppettistica dei primi anni Settanta. Così diversi da rendere inservibili, nonostante fossero oltre ogni dire estremisti, una categoria classica come quella dell’estremismo: quasi degli alieni che ci erano cresciuti attorno senza che ne avessimo il minimo sentore, ma degli alieni ostili. E più di tutto ci colpiva, come ha scritto Adriano Sofri, quel loro voler essere prima di tutto comunità, senza tema di vedersi ristretti in una sorta di riserva indiana: «Non aveva voglia, quel movimento, di conquistare il potere e nemmeno di guadagnare alla propria causa la maggioranza, ma di mettersi in proprio». Almeno fino a quando (e avvenne presto, ai primi di marzo, a Bologna) «la morte non diventò compagna di quella nuova comunità, e la diede in pegno al vecchio gioco della violenza». Già prima, però, l’incomunicabilità fu totale, e carica di ostilità (valga per tutti il ricordo di Luciano Lama all’università di Roma, ferocemente contestato e infine cacciato non tanto per la sua moderazione, quanto perché era il capo della Cgil). E se non si riuscì in alcun modo a comunicare fu pure perché quel movimento, quei giovani anticipavano a modo loro un mondo nuovo, il nostro, che di emancipazione del lavoro movimento operaio blocco storico egemonia strategia delle alleanze non si ricorda neanche più; e irridevano prima ancora di contestare non solo i sindacati ma i partiti, anzi, il sistema dei partiti, proprio quando questo si sentiva invincibile, e come si vide rapidamente non lo era. Si dice che, a differenza del Sessantotto, il Settantasette abbia lasciato poco o nulla, a parte il disastro di chi al suo riflusso credette di sottrarsi scegliendo la clandestinità terrorista. Non è così. Ci parlava anche (non solo) del futuro, il Settantasette. Anche per questo (non solo per questo, si capisce) fu indagato così poco.

Repubblica 22.1.07
La Cina raccontata da Federico Rampini "Alle otto della sera" su Radiodue
Da Confucio al capitalismo sotto l'ombra di Mao Zedong
di Carlo Ciavoni


Nonostante il suo lungo passato, la Cina continua ad offrire un´immagine di sé ancora con troppe zone oscure. Oggi è sulla ribalta del pianeta, per il suo vorticoso decollo economico, tanto che il suo destino sembra essere proprio quello di essere il prossimo "ombelico del mondo" in questo XXI secolo. Ecco allora l´esigenza di conoscerla meglio, anche attraverso l´analisi del suo passato. Un compito che Radiodue ha accettato subito con uno dei suoi programmi più godibili e fortunati ("Alle otto della sera") che propone venti puntate, in onda dal lunedì al venerdì, fino al 9 febbraio, intitolato "Chung Kuo / Cina, l´Impero di mezzo", scritto da Federico Rampini.
Il giornalista e scrittore che vive a Pechino, corrispondente di Repubblica, racconta la vera storia di Confucio, un pensatore laico la cui influenza nel mondo rivaleggia con quella di Cristo e Maometto e che oggi conosce un revival davvero inaspettato. E ancora Gengis Khan, il Kublai Khan, Marco Polo, la grande epopea delle scoperte navali della dinastia Ming, tutti capitoli di una lunga storia che vide la Cina come il paese più avanzato e sviluppato del mondo. Arrivò il ‘700 e poi l´800, due secoli che segnarono un declino crudele della nazione, già allora la più popolosa del mondo, umiliata e saccheggiata sia dagli imperialismi occidentali che dal Giappone. Si scrissero così, per circa duecento anni, pagine di miseria, decadenza, abiezione morale, schiavismo ed economia dell´oppio. Rampini, sera dopo sera, ricorda quegli orrori – protratti fino alla prima metà del Novecento – sottolineando come riportarli alla memoria sia decisivo per capire la vittoria di Mao Zedong, l´artefice della rivoluzione comunista. L´ombra di Mao continua intanto ad incombere sulla Cina di oggi. La sua eredità è tuttora vivissima, malgrado l´evoluzione marcatamente capitalistica del paese. Ma portare alla luce alcuni aspetti della politica maoista, come l´invasione del Tibet o la Rivoluzione culturale, risulta importante anche per svelare il volto opaco del miracolo economico cinese. Un´opacità che preoccupa, se non altro per il fatto che, per la prima volta nella storia contemporanea, l´economia globale rischia di essere dominata da un paese non democratico capace, al momento, di esportare solo modelli autoritari. Oggi andrà in onda la sesta puntata del ciclo, dopo una prima fase in cui si è introdotta la figura di Confucio, tra interrogativi legati al dubbio se sia stato più di destra o di sinistra e sulle ragioni per cui oggi la sua immagine viene così rilanciata dal regime di Pechino. Stasera entrano in scena il grande ammiraglio Zheng He e le esplorazioni navali cinesi. Ovvero: chi scoprì l'America per primo?

Panorama 15.1.07
Dentro la mente. Incontro con un Nobel
Consigli per una buona memoria
di Luca Sciortino


Eric Kandel, scienziato famoso per i suoi studi sulla capacità umana di ricordare, ne svela i meccanismi segreti

Il destino ha voluto così.
Che tra gli ebrei fuggiti agli orrori del nazismo, fedeli al monito «Non dimenticare mai», ci fosse proprio chi ha capito le basi biologiche di questa esortazione, ovvero chi ha vinto il Nobel per aver dato il massimo contributo alla comprensione dei processi del cervello che ci mettono in grado di ricordare.

Eric Kandel, professore alla Columbia University di New York, a 9 anni emigrò negli Usa, poco dopo l'unione dell'Austria con il Terzo Reich. Proponendosi di comprendere quanto era accaduto nell'Europa della Seconda guerra mondiale, si laureò in storia e letteratura europea; poi, nel «tentativo di capire le radici spesso irrazionali delle motivazioni umane», si interessò di psicoanalisi.
Infine si dedicò alla neurobiologia. Studiando un modello semplice, la lumaca di mare (Aplysia), ha chiarito molti dei meccanismi genetici e molecolari alla base dei processi di memorizzazione.
Il suo nuovo libro Alla ricerca della memoria (Codice) è un'autobiografia intellettuale o, con un gioco di parole, la memoria di chi alla memoria ha dedicato una vita.

Nel suo ultimo libro c'è tutto quanto è rimasto impresso nella sua memoria. Alla fine di tutta la vita, dunque, non restano che pochi ricordi?
In un certo senso sì. Il cervello si è evoluto per immagazzinare informazioni, ma anche per liberarsene. Troppi ricordi disturbano il cervello e le persone che possiedono moltissima memoria non hanno vita facile.
Come quell'Ireneo Funes che in un racconto di Jorge Luis Borges ricordava ogni istante della sua vita?
E che soffriva: le cose non importanti interferiscono con il pensiero. Siamo fatti in modo che l'esperienza, per passare dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, deve essere focalizzata attentamente o rivissuta. Inoltre la memoria decade nel tempo.
Supponiamo di vivere un'esperienza intensa: come viene fissata una traccia indelebile nel nostro cervello?
Accade che vi è un'alterazione reversibile nella comunicazione tra cellule nervose. Ripetere un'esperienza accende dei geni che codificano per proteine che producono una crescita di nuove connessioni tra cellule nervose, cambiando di fatto l'anatomia del cervello.
E come mai la musica o un profumo fanno affiorare ricordi anche contro la nostra volontà?
È il meccanismo con cui i ricordi vengono alla luce: uno stimolo esterno mette in moto il processo del ricordo. Musica e profumi sono tra gli stimoli più forti.
Perché invecchiando la memoria a breve termine si fa più debole?
Perdiamo cellule nervose e neurotrasmettitori come la dopamina o la serotonina e diventiamo suscettibili a malattie che compromettono la memoria.
Come si può rimediare?
In vari modi: impegnando il cervello e cercando di rimanere in forma fisica. Diverse aziende, tra cui la mia, lavorano per produrre farmaci che, si spera, potranno essere di aiuto.
Quali sono i suoi interessi adesso?
Il mio gruppo ha identificato nei topi una serie di geni che hanno un ruolo nel far scattare la paura appresa o istintiva. Sono geni che potrebbero in futuro divenire il bersaglio di farmaci che combattono l'ansia e inducono una sensazione di sicurezza e rilassamento.
Ma la paura cosa ha a che fare con la memoria?
Molto. Supponga di aver avuto un'esperienza traumatica nella vecchiaia. Potrebbe averne perso le componenti cognitive: ma ogni tanto, senza sapere come mai, un viso, un odore o altro richiama in lei qualcosa di quell'evento scatenando una risposta inappropriata, come la paura. Ciò avviene perché si conservano esperienze emozionali oltre che cognitive, solo che le prime sono radicate nell'inconscio.
Viene in mente la psicoanalisi...
Un mio antico interesse.
Eppure, filosofi come Karl Popper hanno obiettato che la psicoanalisi non è scienza perché le sue affermazioni non possono essere empiricamente controllabili.
Concordo, ma penso pure che se non facciamo ricerche sulla psicoanalisi questa rischierà di divenire una filosofia. Invece la si può far diventare un ramo della scienza. Per esempio, con le tecniche del brain imaging si potrebbe esplorare quale sia il risultato di una psicoterapia. Ma questo è il futuro.

adnkronos.com 21.1.07
Filosofi: Hegel, 200 anni fa la "Fenomenologia dello Spirito"


Roma, 21 gen. - (Adnkronos) - Duecento anni fa, nel 1807, il filosofo tedesco Friedrich Hegel (1770-1831) pubblicava ''La fenomenologia dello spirito'', da lui presentata come propedeutica rispetto al sistema filosofico. Aveva infatti il compito di accompagnare la ''coscienza'' naturale, dai suoi gradi piu' immediati e poveri fino al riconoscimento del ''sapere assoluto'', ossia di quel superamento delle scissioni che solo rende possibile la ''scienza speculativa''. L'opera ha avuto un influsso straordinario su tutto lo sviluppo successivo della filosofia moderna.
''La fenomenologia dello spirito'' e' definita da Hegel come ''storia romanzata della coscienza che attraverso contrasti, scissioni, quindi infelicita' e dolore esce dalla sua individualita' e raggiunge l'universalita', riconoscendosi come ragione che e' realta' e realta' che e' ragione''. In essa ritornano, trovando un piu' ampio sviluppo, due presupposti gia' presenti nelle opere precedenti.
In primis, la ''Fenomenologia'' obbedisce al principio per cui ''il vero e' l'intero'': la verita' si consegue soltanto quando i diversi aspetti parziali della realta' sono considerati non piu' nella loro astratta separazione, bensi' come momenti e articolazioni della totalita' di cui fanno parte. In secondo luogo, Hegel ribadisce che questa totalita', che e' oggetto del vero sapere, non e' qualcosa di gia' dato, che staticamente si offra all'analisi del soggetto come una realta' diversa e contrapposta ad esso. Al contrario, la conoscenza della totalita' assoluta in cui consiste la verita', e' il risultato di un processo gnoseologico, nel quale il soggetto che conosce e' intimamente implicato.

domenica 21 gennaio 2007

Corriere della Sera 21.1.07
Il presidente della Camera
Bertinotti: assolutamente contro l'allargamento della base Usa
di Marco Cianca


«Ma non c'è legame diretto tra il caso Vicenza e l'Afghanistan» «Il governo non deve cadere, c'è bisogno di eskimo e grisaglia»

ROMA — Fausto Bertinotti è preoccupato. Della tenuta del governo, certo. Ma ancor più della crisi della politica, chiusa in una torre eburnea, lontana dai bisogni della gente. E allora il presidente della Camera lega concettualmente le due ambasce: «Penso che la durata del governo sia fondamentale perché c'è il problema di costruire il ponte tra la politica e la società». Pace e lavoro, le sue parole d'ordine. Ma la decisione di ampliare la base statunitense di Vicenza mette di nuovo a repentaglio la vita dell'esecutivo, che oscilla tra attendismo e improvviso decisionismo, e proietta foschi bagliori sul voto per il rifinanziamento della missione in Afghanistan. L'invito di Bertinotti è «ascoltare il popolo di Vicenza» anche se pensa che sia «difficilissimo trovare una soluzione». E sui soldati a Kabul spera che alla fine si individui un accettabile compromesso.
«Ma come presidente della Camera — premette — ho l'obbligo di non entrare nel merito delle questioni. Sarebbe incompatibile con la funzione di imparzialità, di garanzia e di rispetto del pluralismo che debbo assolvere. Credo invece sia un dovere prendere parte alla discussione sul terreno della cultura politica».
E allora che può dire su Vicenza?
«Vedo due questioni. La prima è la pace. L'Italia sta facendo dei passi importanti per restituire all'Europa protagonismo e autonomia. Vanno in questa direzione l'intervento in Libano e l'uscita dal drammatico e inquietante teatro iracheno. Scelte così importanti non sembrano avere avuto il necessario rilievo. È come se il grande movimento per la pace, raggiunto un obiettivo, sia stato reso silente».
Avrebbe voluto cortei per festeggiare il ritiro dall'Iraq?
«Avrei voluto una più grande densità della politica nel farsi carico del significato alto di quelle scelte. È come se quanto avvenuto fosse sfuggito dalle mani, in un deficit di passione e di coinvolgimento anche emotivo nel dispiegarsi della costruzione della pace. Se il processo fosse andato avanti, l'ascolto del popolo di Vicenza sarebbe stato diverso. Il secondo problema è il rapporto con le comunità. Tema molto impegnativo e controverso, che non può essere interpretato con formule irridenti che leggono questi fenomeni come manifestazioni egoistiche e contrastanti con l'interesse generale».
Non è così? E' la storia del nimby, not in my backyard, mai nel mio cortile. E questo vale per le discariche, per le centrali, per l'alta velocità e per le basi militari.
«Anche a sinistra c'è stata una diffidenza nei confronti delle comunità viste come resistenza all'organizzazione democratica della società o addirittura regressione. Luogo della tradizione e delle relazioni interpersonali, una nicchia, un'enclave. Invece dobbiamo leggere il fenomeno comunitario con lenti nuove. E cioè come il luogo dove si costruiscono delle soggettività che possono essere tanto dei presidi di chiusura verso l'esterno, fino alle piccole patrie, quanto l'evidenziazione di nuovi bisogni e di nuove aspettative. Questo non vuol dire che ogni rivendicazione sia giusta ma è importante da quale lato la si osserva. E la politica non può continuare a guardarla con la supponenza neo-illuminista di possedere la ragione dell'interesse generale. Il punto da cui partire è: c'è o no un grande disagio sociale? Se una popolazione riesce ad esprimere, come a Vicenza, una posizione che travalica gli schieramenti tradizionali e accomuna casalinghe e intellettuali, allora va presa in considerazione. O bisogna pensare ad un impazzimento generale?»
Il presidente del senato Franco Marini, così come Francesco Rutelli, dice che gli impegni vanno rispettati.
«Il presidente Marini, che stimo e del quale sono molto amico, ha espresso la sua posizione a favore dell'allargamento della base. Con la stessa sincerità io posso dichiarare la mia assoluta contrarietà. Questa dialettica che vede impegnate personalità che hanno incarichi istituzionali, quando avviene nell'assoluto rispetto dell'imparzialità del ruolo nei confronti del procedimento legislativo, costituisce un arricchimento del dibattito perché ne aumenta la trasparenza».
Eppure Prodi ha derubricato Vicenza a questione urbanistica.
«E allora ci sono gli strumenti della politica urbanistica e dalla consultazione dei cittadini».
Favorevole al referendum?
«Favorevole a tutte le forme di partecipazione».
Prodi, oltre a derubricare, ha detto che è una decisione presa e che non si torna indietro.
«In generale la sordità della politica è una risposta cattiva perché così si alza un muro tra la stessa politica e la comunità».
Ma il muro si sta alzando anche all'interno della maggioranza. Rifondazione, i verdi, i comunisti italiani mettono in discussione il voto sull'Afghanistan.
«Non c'è un legame diretto tra Vicenza e l'Afghanistan, c'è un legame di clima politico. Continuo a pensare che questo governo abbia di fronte a sé come dovere quello di durare. Che non è un obiettivo minimalistico o semplicemente il riconoscimento di un bisogno come la stabilità. No, è il problema di garantire un quadro in cui può essere tentata la ricostruzione di un rapporto tra il popolo e la politica. L'impegno è far durare questo governo come condizione necessaria seppure non sufficiente».
Massimo D'Alema dice che ci vuole coerenza mentre Paolo Ferrero annuncia che se non si cambia lui voterà no. Sull'Afghanistan qual è il compromesso possibile?
«Il compromesso va cercato nel governo e nella maggioranza. Per parte mia posso dire soltanto che un buon compromesso è quello che sottolinea il ruolo di pace dell'Italia nello scacchiere internazionale».
E se al Senato si formassero maggioranze diverse?
«Continuo a pensare che la maggioranza di centrosinistra debba essere autosufficiente per tenere fede al patto contratto con gli elettori».
Il governo Prodi non cadrà sulla politica estera?
«Penso che non debba cadere».
Ma su Vicenza lei chiede un passo indietro?
«Nel mio ruolo non posso chiedere niente del genere. Posso però dire che l'ascolto è indispensabile. E non è un atteggiamento paternalistico. Qualche settimana fa la politica italiana fu beneficamente attraversata dal trauma di Mirafiori. Una compagine lavorativa, fino ad allora oscurata e resa invisibile, ha utilizzato l'occasione straordinaria dell'incontro con i segretari generali delle tre confederazioni sindacali per spezzare l'opacità e porre il problema del lavoro».
Lei giudica positivi i fischi di Mirafiori?
«Non ci sono stati solo quelli ma si è svolta una grande discussione. E in ogni caso assumo anche i fischi come una manifestazione che mi spinge a capire che c'è un disagio profondo. Come si fa a derubricare tali questioni?».
L'Unità scrive che non può indossare l'eskimo e la grisaglia.
«E invece sì. E' una concezione sbagliata, l'idea della fissità dei ruoli. Questo è il tempo della mescolanza e della contaminazioni, non delle separazioni, dell'albagia. C'è bisogno dell'eskimo e della grisaglia».
Partito di lotta e di governo?
«Sì, se si vuole cambiare la società. Anche il governo deve assumere la lotta come un fattore di riforma. Altrimenti torniamo a intendere il conflitto come patologia. Se vivessimo nel migliore dei mondi possibili, potrebbe essere cosi. Ma la crisi esiste ed è profonda. Siamo colpiti da una tragedia come quella di Erba e vediamo che la striscia di questi fenomeni riguarda la provincia del Nord che sembrava il territorio più rassicurante e che invece ora appare senza anticorpi. Solitudine, incertezza, precarietà. Si sono desertificati i luoghi della socializzazione. Qui la politica non arriva o è espulsa. Si è chiusa in un recinto autoreferenziale. E può essere spazzata via dall'antipolitica. Siamo ad un punto cruciale».
Ma i giovani di Rifondazione che a Torino contestano il ministro Padoa Schioppa non alimentano questo distacco?
«Intanto erano pochissimi. Lo stesso rettore dà un significato totalmente circoscritto e Padoa Schioppa minimizza. Non bisogna prendere lucciole per lanterne. Il punto veramente rilevante è stato quello di Mirafiori. Non possiamo scordarcene. La rivalutazione del lavoro deve entrare ossessivamente nella costruzione della coscienza nazionale. Camera e Senato dovrebbero avviare una grande inchiesta per rimettere al centro lo stato reale della società italiana».
Non teme una ripresa della violenza?
«La violenza è nelle pieghe della società. E' endemica, insita nella crisi di coesione. Il rischio non è domani ma oggi. Non viene dal conflitto ma dall'incapacità di leggere la sua verità interna e trasformarla in energia e proposta. Da dove viene questa supponenza? In una società in cui non c'è piena occupazione e dove i diritti sono spesso negati, come diavolo viene in mente alla politica, invece di curvarsi umilmente ad indagare, di chiudersi in questa torre d'avorio come se avesse alle spalle decenni di successi invece che di fallimenti?».
Ma allora ci sono stati errori anche da parte di Prodi? Perché fare da Bucarest un annuncio come quello sulla base di Vicenza?
«Non mi è permessa la polemica diretta con il presidente del consiglio».
Il governo quindi va avanti.
«Certo, anche se non vanno sottovalutati i rischi reali che può correre».
Quali rischi?
«Tutti e nessuno. Nessuno perché deve essere prevalente l'esigenza di andare avanti ma tutti perché ogni passaggio è difficile».
Ma intanto il suo predecessore Pierferdinando Casini propone il dialogo sulle liberalizzazioni e si pensa ad una Bicamerale. Sente odore di inciuci?
«No, francamente non colgo questo rischio. C'è invece un lavorio con protagonisti diversi che vorrebbero, sotto la denominazione di politica dell'innovazione, una nuova politica neocentrista di cui, tuttavia, non vedo nè le condizioni reali nè la maturità soggettiva. Insomma, mi pare di più un "vorrei ma non posso"».

l'Unità 21.1.07
«La stazione Termini detitolata»


Usa l’ironia L’Osservatore Romano dopo le precisazioni del sindaco circa l'intitolazione della Stazione Termini a papa Giovanni Paolo II. Il quotidiano ripercorre con disappunto la vicenda, partendo dalle parole del primo cittadino pronunciate all'indomani della morte di Karol Wojtyla, con le quali Veltroni propose «un piccolo gesto: intitolare la stazione Termini a Giovanni Paolo II. Ci sembra bello e significativo che un luogo del viaggio, dell'incontro e dello scambio prenda il nome di chi ha incontrato nella sua vita più persone e popoli di chiunque altro, di chi ha sempre creduto nel valore del dialogo». Poi, però, ricorda sempre l'organo della Santa Sede, «seguirono le polemiche e il sindaco rettificò: non ho mai detto di sostituire il nome della stazione Termini con il nome di Giovanni Paolo II, ho detto solo di aggiungerlo». E infatti le due stele all'interno della stazione, «recano la scritta chiarissima Stazione Termini - Giovanni Paolo II». Infine: «La cerimonia non è stata un'intitolazione, per il semplice motivo che la stazione continuerà a chiamarsi Termini». Chiosa L'Osservatore Romano: «Avevamo capito tutti male. E così, fra ‘dedica’ e ‘intitolazione’, abbiamo assistito alla ‘detitolazione’...».

Repubblica 21.1.07
L'Osservatore critica Veltroni: su Termini "tradito" Wojtyla

ROMA - Non è piaciuta all´Osservatore Romano la decisione di Walter Veltroni di dedicare e non intitolare la Stazione Termini a Giovanni Paolo II. Secondo il giornale, è stata accolta la protesta di chi considerava il nuovo nome un´offesa ai non cattolici. Da qui «un inedito capolavoro di ibrido politico: la detitolazione». «Nessuna polemica - risponde per il Campidoglio Maria Pia Garavaglia - è troppo forte il rapporto che unisce Roma a Papa Wojtyla. Per questo gli dedichiamo la stazione».

Repubblica Roma 21.1.07
Il giornale della Santa Sede accusa il Campidoglio. La Rosa nel Pugno: allora intitoliamo al sindaco Nathan la stazione San Pietro
Termini dedicata a Wojtyla. L'Osservatore: è stata detitolata
Garavaglia: ma su di lui niente polemiche
Osservatore: Un articolo polemico con Veltroni: "Un capolavoro di ibrido politico"
di Giovanna Vitale

L´Osservatore Romano accusa il sindaco Veltroni di aver «detitolato» la stazione Termini, questo il termine utilizzato per stigmatizzare il comportamento del primo cittadino che, secondo il quotidiano della Santa Sede, avrebbe fatto marcia indietro rispetto alla intitolazione dello scalo ferroviario a Karol Wojtyla.
Una vicenda piuttosto controversa, che il foglio vaticano ripercorre pubblicando per intero le parole pronunciate da Veltroni all´indomani della morte del papa polacco. Quando propose, testualmente, «un piccolo gesto: intitolare la stazione Termini a Giovanni Paolo II. Ci sembra bello e significativo che un luogo del viaggio, dell´incontro e dello scambio prenda il nome di chi ha incontrato nella sua vita più persone e popoli di chiunque altro, di chi ha portato ovunque nel mondo la parola della Chiesa e della speranza, di chi ha sempre creduto nel valore del dialogo». Un discorso dopo il quale, ricorda ancora l´Osservatore, «seguirono le polemiche e il sindaco rettificò: "Non ho mai detto di sostituire il nome della stazione Termini con il nome di Giovanni Paolo II, ho detto solo di aggiungerlo"». E infatti le due stele poste all´interno della stazione nel dicembre scorso «recano la scritta chiarissima Stazione Termini - Giovanni Paolo II», prosegue il giornale.
Una ricostruzione puntigliosa, conclusa da una chiosa al vetriolo: «Avevamo capito male, la principale stazione ferroviaria di Roma continuerà a chiamarsi Termini e non stazione Giovanni Paolo II». Per poi sottolineare, non senza malizia, che «il sindaco si è sentito in dovere di rispondere» ad un cittadino che «guarda caso» si era «sentito offeso dalla nuova intitolazione della stazione» poiché lo percepiva come «un atto d´imperio tale da offendere i passeggeri laici e quelli di diverse confessioni religiose». Una mossa affrettata e ingiustificata: «Fra dedica e intitolazione abbiamo assistito - ironizza l´Osservatore - ad un inedito capolavoro di ibrido politico: la detitolazione».
Immediate le reazioni politiche. Con i radicali a rivendicare «la stazione Termini continuerà a chiamarsi così, è una nostra vittoria!», dicono Sergio Revasio e Luigi Castaldi, che lanciano anche una provocazione: «Ora inizierà la battaglia per cambiare il nome alla Stazione San Pietro ed intitolarla a Ernesto Nathan». Mentre «speravamo di sbagliare e invece ancora una volta il Comune di Roma dimostra di essere protagonista e vittima di una pericolosa deriva anticattolica», incalza all´opposto il forzista Francesco Giro, invitando il sindaco a «fare pubblicamente chiarezza su questa brutta vicenda».
A prendere le difese del Campidoglio ci pensa la cattolicissima vicesindaco Maria Pia Garavaglia: «Su una figura così grande come quella di Giovanni Paolo II non intendiamo fare alcuna polemica», taglia corto. Rifiutando ogni distinguo linguistico: «Abbiamo voluto dedicare la stazione Termini, un luogo di incontro e di dialogo ad un Papa che con Roma ha avuto un rapporto profondo e speciale», ribadisce. Ricordando le sue visite «a quasi tutte le parrocchie romane», la «cittadinanza onoraria», i festeggiamenti che «il Comune ha organizzato per i 25 anni di pontificato». Senza dimenticare «l´abbraccio commosso e orgoglioso di Roma nei giorni del funerale». Non ha dubbi la Garavaglia: «Sono i fatti ad escludere ogni possibile polemica».

Corriere della Sera 21.1.07
L'Osservatore Romano: doveva essere intitolata a Wojtyla. Il Campidoglio: solo una dedica
La stazione Termini, il Papa e le critiche a Veltroni
di Alessandro Capponi

ROMA — Dopo le critiche a sinistra, la stele per Giovanni Paolo II alla stazione Termini suscita le proteste dell'Osservatore Romano. A fine dicembre il sindaco Veltroni con Ruini aveva inaugurato due steli con sopra il nome del Papa polacco. Ora, il rammarico: «Avevamo capito male, la stazione continuerà a chiamarsi Termini e non Giovanni Paolo II».
«Doveva essere intitolata a Giovanni Paolo II». Il Campidoglio: mai detto, gli è stata solo dedicata.
E pensare che doveva essere un omaggio. La stele per Giovanni Paolo II alla stazione Termini, invece, con la sua forma un poco arcuata, oggi, a guardarla dal Campidoglio sembra altro, un boomerang.
Il gesto che per Veltroni è sempre stato «il coronamento del rapporto d'amore tra la città e il Papa», in ordine di tempo ha fatto infuriare: il quotidiano
Liberazione, associazioni laiche, Rosa nel Pugno e comunisti, per mezza giornata la sinistra Ds, e poi, a distanza di poche ore, i centristi e tutta la destra. Adesso, su Veltroni, arriva anche l'ironia dell'Osservatore Romano: «Abbiamo assistito — scriveva ieri il quotidiano della Santa Sede — a un inedito capolavoro di ibrido politico, la detitolazione». Perché? Di certo, c'è che quel giorno di fine dicembre il sindaco, accompagnato da Camillo Ruini, era andato alla stazione Termini a inaugurare due steli con sopra il nome del Papa polacco. Fotografi, sorrisi, strette di mano: il sole era alto e sui due, così come sulla sintonia tra Vaticano e Campidoglio, neanche un'ombra.
E allora perché il quotidiano della Santa sede, un mese più tardi, prende una posizione critica? Esattamente, scrive: «Avevamo capito male, la stazione continuerà a chiamarsi Termini e non stazione Giovanni Paolo II». E ancora: «Il sindaco si è sentito in dovere di rispondere» a un cittadino che «guarda caso» si era «sentito offeso dalla nuova intitolazione della stazione» poiché lo percepiva come «un atto d'imperio tale da offendere i passeggeri laici e quelli di diverse confessioni religiose». E così, prosegue l'Osservatore Romano, «fra dedica e intitolazione abbiamo assistito a un inedito capolavoro di ibrido politico: la detitolazione».
Ma cos'è accaduto in un mese per passare dal sorriso di Ruini all'inchiostro sarcastico? Venti giorni dopo la cerimonia alla stazione Termini, sono arrivate le critiche da sinistra. Un editoriale di Liberazione
diceva: «Un post comunista, sindaco-re della Capitale, decide con atto d'imperio di intitolare la stazione a un Papa». Termini aveva dunque cambiato nome? Nell'attesa di capirlo, la sinistra Ds annuncia un sit in, Rosa nel Pugno e associazioni laiche insorgono. Abbastanza inutilmente, almeno a leggere la risposta che lo stesso Veltroni fa arrivare a un cittadino indignato: «La cerimonia non è stata un'intitolazione per il semplice motivo che quella continuerà a chiamarsi Termini». L'aveva già detto, in verità, aprile 2005: «Non ho mai detto di voler sostituire il nome della stazione Termini con quello di Giovanni Paolo II, ma solo di aggiungerlo». E così quando la sinistra protesta, il sindaco spiega che «la nostra è stata una dedica, in un luogo adatto a ricordare il Papa del viaggio e dell'incontro, della pace e del dialogo. Alla stazione Termini, chiunque andrà si troverà in un luogo che porterà con sé la memoria di un uomo che è diventato simbolo dell'incontro tra le religioni, i popoli, gli individui».
Adesso, dopo le critiche dell'Osservatore Romano, il vicesindaco Maria Pia Garavaglia dice che «su una figura così grande il Campidoglio non intende fare alcuna polemica. Negli anni del suo pontificato, Wojtyla ha visitato quasi tutte le parrocchie, ha accettato la cittadinanza onoraria che come amministrazione gli abbiamo offerto, ha apprezzato pubblicamente i festeggiamenti che il Comune ha organizzato per i venticinque anni di pontificato. E proprio in virtù di questo legame abbiamo voluto dedicargli, unica grande città al mondo, un luogo significativo come la stazione Termini». Intanto però la Rosa nel Pugno chiede «di togliere le scritte, ormai inutili, dalla stele» e di intitolare la stazione San Pietro a Ernesto Nathan, cioè un sindaco (1907-1913) mazziniano, massone, ebreo e laico. Eppure, a guardarla dal Campidoglio, quella stele voleva solo essere un omaggio. Così sobria, elegante, visibile. E con quella forma lì: arcuata, forse troppo.

Repubblica 21.1.07
Se Prodi cadrà la sinistra scomparirà
di Eugenio Scalfari


L´ampliamento della base militare Usa a Vicenza sembrava una piccola cosa, una bega di cortile. Invece, con una reazione a catena, sta provocando un parapiglia. Rifondazione, Verdi, Comunisti e pacifisti sciolti e a pacchetti pretendono, quasi come ritorsione, che l´Italia si ritiri dall´Afghanistan dove il nostro contingente sta da cinque anni sotto le bandiere della Nato in quanto Paese membro della Nato e sta sotto le bandiere dell´Onu in quanto Paese membro dell´Onu.
Il rischio d´una crisi di governo si profila. Il rifinanziamento della missione si farà con decreto, ma poi, entro marzo, il decreto dev´essere convertito in legge. Il rischio che almeno al Senato la conversione sia respinta esiste ed è decisamente elevato. Sono sei o sette i dissidenti dell´estrema sinistra decisi a votare contro anche a dispetto dei rispettivi partiti e non pare, allo stato dei fatti, che valga a recuperarli qualche solenne promessa di ridiscutere con gli alleati gli obiettivi e la natura della missione e neppure la blindatura del voto di fiducia.
La verità è che la loro dissidenza non è controllabile dai partiti di appartenenza. Di provocare la caduta del governo se ne infischiano. Si direbbe anzi che la auspichino. L´errore fu d´averli portati in Parlamento pur conoscendone il carattere e l´ideologia del tanto peggio tanto meglio che alligna in quelle teste pseudo-rivoluzionarie.
Ci sono tre possibili alternative a questi ipotetici accadimenti. La prima è di riuscire a convincerli. Improbabile. La seconda è appunto di blindare il voto con la richiesta di fiducia: esito molto incerto. La terza è una votazione non blindata con il soccorso bianco ma determinante da parte dell´Udc e forse perfino di Forza Italia. Che però potrebbe determinare, a quel punto, non la semplice dissidenza d´una manciata di cani sciolti, ma di interi partiti della sinistra massimalista e uno spettacolare cambio di maggioranza.
Se questa terza ipotesi diventasse realtà, il Capo dello Stato dovrebbe rinviare il governo alle Camere prima di accettarne le dimissioni. Si potrebbe allora verificare che la maggioranza di centrosinistra, cui Prodi dovrebbe rivolgersi per ottenere la riconferma della fiducia, gliela votasse riconfermandolo in carica e archiviando per altri sei mesi la questione afgana (e di conseguenza anche quella vicentina).
L´ipotesi non è del tutto irreale, ma è evidente che si balla sul filo del rasoio e si producono ulteriori fenomeni di distacco e disincanto nella pubblica opinione. Eppure.
Eppure negli ultimi dieci giorni le cose avevano preso una diversa piega. Sembrava, ad ascoltare la tivù e a leggere i resoconti dei giornali e i commenti di gran parte degli osservatori, che la riunione di Caserta avesse messo in evidenza l´impotenza decisionale di Prodi, la débãcle dei riformisti, la netta supremazia della sinistra radicale. Anche l´agenda delle priorità che il governo si proponeva di affrontare entro il 2007 (dopo aver ottenuto entro i termini prestabiliti l´approvazione della Finanziaria che avrebbe invece dovuto essere la sua tomba secondo le previsioni dell´opposizione) era stata immediatamente definita aria fritta.
Ma i fatti sono invece andati in modo alquanto diverso. Li enumero.
Mercoledì scorso governo e sindacati hanno approvato all´unanimità un documento di riforma del pubblico impiego, basato sui principi dell´efficienza, della meritocrazia, della mobilità, dei percorsi per stabilizzare i lavori precari e di sanzionare gli impiegati improduttivi, di incentivare lo smaltimento rapido degli esuberi. Questo documento servirà di base alla stesura del contratto e, per le parti che debbano essere trasformate in norme, per la formulazione di un´apposita legge.
Il ministro Bersani ha ricevuto nel frattempo il via libera dal governo di presentare entro il corrente mese di gennaio la lista dei provvedimenti di liberalizzazione da lui preparati.
Prodi dal canto suo ha preso la decisione di consentire l´ampliamento della base militare Usa a Vicenza, questione assai controversa sia per ragioni di pacifismo ideologico sia di diverse valutazioni ambientali.
In quegli stessi dieci giorni dopo Caserta il ministro degli Esteri ha compiuto l´ennesimo viaggio in Medio Oriente, tra Arabia Saudita, Egitto e Palestina, ribadendo i cardini della linea politica del nostro governo che privilegia i negoziati e il dialogo anche con i due Stati-canaglia (Siria, Iran) come principale via per pacificare la regione.
Il governo ha convocato il primo incontro con i sindacati per iniziare l´esame delle questioni che regolano il nuovo assetto delle previdenze sociali, degli ammortizzatori e delle pensioni. Un incontro è già avvenuto con i rappresentanti delle piccole imprese, dei commercianti, delle cooperative, degli artigiani.
Naturalmente ciascuna di queste iniziative ha provocato reazioni positive e negative. Ne esamineremo tra poco la natura. Tutto ciò – lo ripeto – è avvenuto nei dieci giorni da Caserta a oggi. Fatti alla mano, non mi pare che si possa accusare il governo di ignavia, passività, impotenza, galleggiamento. Molte altre critiche e anche acerbe gli possono essere rivolte e gli sono infatti state rivolte senza risparmio, ma queste no. Sta procedendo speditamente sulla strada che si era prefissa e sulla quale ha avuto il voto degli elettori.
Per completezza – e prima di proseguire l´analisi dei fatti e del loro significato politico – ricordo che a Torino mercoledì scorso il ministro Padoa-Schioppa, invitato dal rettore a svolgere una conferenza su Altiero Spinelli, è stato contestato con urla e petardi fin nel cortile dell´Università, da 50 rappresentanti di centri sociali, Cub e frange estreme di studenti, ed è stato seguito con attenzione e applaudito da 600 studenti e docenti nell´aula in cui parlava.
Due giorni dopo è toccato a Prodi d´esser fischiato da un centinaio di fascisti che lo hanno accolto col saluto a braccio teso all´Università Cattolica di Milano, dove l´aula magna gremita l´ha invece lungamente applaudito isolando i disturbatori.
Purtroppo di questi episodi la televisione e gran parte dei giornali hanno registrato con le immagini e i titoli i fischi dei pochi sottovalutando gli applausi dei più. Non credo per faziosità, ma per canone. Quale canone? Mi sembra interessante affrontare anche questa questione.
Spesso noi giornalisti tendiamo ad evitarla perché in qualche modo ci riguarda direttamente. Ma mi valgo in questo caso d´una annosa esperienza e invoco l´attenuante del mio stato di anziano pensionato. Alla mia età, tra tanti guai e lamentazioni, c´è almeno il privilegio di poter dire senza riguardi ciò che ci aggrada. È uno dei pochi vantaggi che la vecchiaia porta con sé.
* * *
Le agenzie di stampa danno notizie. In ordine cronologico. Quelle che ritengono di particolare interesse per i loro abbonati le fanno precedere da un suono che le sottolinea. I telegiornali e soprattutto i giornali, oltre alle notizie pubblicano anche opinioni, analisi, retroscena. L´oggettività della notizia è accompagnata dalla soggettività dei commenti.
Ma anche l´oggettività della notizia contiene una buona dose di soggettività che stabilisce le pagine in cui sono pubblicate, il rilievo tipografico, il titolo che le sintetizza.
Il limite alla soggettività proviene dalla deontologia la quale vuole che le notizie siano complete. I cattivi giornali spesso ignorano questa prescrizione deontologica; i buoni giornali invece la rispettano, almeno formalmente, ma non sempre sostanzialmente. Spesso accade infatti che una parte della notizia sia messa in rilievo nel titolo e nel testo e un´altra parte relegata tra due virgole o quasi. Qual è il criterio prevalente, faziosità a parte?
Il criterio è l´eccezionalità. L´uomo che morde il cane (come ho già detto altre volte) è una notizia più importante perché eccezionale, del cane che morde l´uomo (a meno che non l´ammazzi).
Un presidente del Consiglio fischiato è certamente una notizia d´eccezione. Il presidente d´un governo di centrosinistra fischiato da attivisti fascisti lo è invece molto meno. Un ministro dell´Economia che adotta una politica di rigore, contestato da un gruppo sparuto di sinistra massimalista non è un fatto eccezionale ma del tutto normale.
Quando Berlusconi a Vicenza attaccò lo stato maggiore della Confindustria in un convegno promosso da quei maggiorenti e fu accolto dall´ovazione d´una platea di industriali, quella fu un fior di notizia e giustamente tenne banco per mesi (lo tiene tuttora). Quando i tre segretari dei sindacati confederali sono stati contestati dagli operai di Mirafiori, quella fu un altro fior di notizia. Ma il Prodi fischiato dai fascisti e il Padoa-Schioppa contestato da un gruppetto di Cobas e centri sociali, queste a mio avviso non sono notizie che meritino particolare rilievo. Invece su alcuni giornali, e non dei minori, hanno avuto sette colonne di testata di prima pagina e l´apertura nei telegiornali delle ore 20.
Naturalmente c´è una giustificazione: la linea determina una scelta. È perfettamente legittimo che un giornale abbia una sua linea e quindi è legittimo che compia le sue scelte (soggettive). Avviene nei "media" di tutto il mondo e quindi anche in Italia.
Il mercato dei "media" è uno dei pochi luoghi in cui vige una concorrenza accanita, che riguarda molteplici aspetti. Riguarda anche la politica, ma lì la varietà concorrenziale è minore: o si sta col governo o si sta con l´opposizione o si sta in mezzo. In teoria la posizione deontologicamente più corretta sarebbe quella di stare nel mezzo, a volte da una parte a volte dall´altra secondo il giudizio sui singoli fatti. Ma questa, appunto, è teoria.
In realtà quest´imparzialità cosiddetta anglosassone non è mai stata adottata neppure dagli anglosassoni. C´è sempre una tendenza, un sentimento, un umore dominante che fa pendere da una parte i piatti della bilancia.
La dominante nella maggior parte dei "media" italiani, per fortuna con qualche rilevante eccezione, tende verso forme di neo-centrismo. Gli attori politici ed economici conoscono benissimo questa inclinazione mediatica e infatti l´agenda neo-centrista viene adottata da gran parte dei giornali e dei telegiornali; è stato così con il governo Berlusconi e lo è con il governo Prodi. Con una differenza notevole: Berlusconi possiede metà dell´universo mediatico nazionale e Prodi no; Berlusconi disponeva d´una maggioranza di cento deputati e cinquanta senatori mentre Prodi ha un solo senatore di maggioranza e, sulla questione Afghanistan, probabilmente neppure quello, sia che metta la fiducia sia che non la metta.
Mi domando che cosa potrebbe accadere dopo.
***
Dopo, se la crisi non sarà in nessun caso evitabile, ci sarà un governo di transizione con il compito di approvare alcuni provvedimenti economici urgenti e la riforma della legge elettorale. Sarà un governo del Presidente (della Repubblica) come sempre avviene nei governi transitori, con compiti e tempi ben delimitati.
Credo che a quel punto il partito democratico nascerà veramente, dettato non solo dall´opportunità ma dalla necessità. Credo anche che, dissolte ormai le coalizioni, la legge elettorale sarà mirata a limitare se non ad escludere del tutto i partiti che si sono dimostrati ribelli o incapaci di tenere a freno le loro frange estreme.
Infine si andrà a votare, in autunno o al massimo nella primavera 2008.
Fare previsioni ora per allora è impossibile. Certo il baricentro politico si sarà spostato e non certo verso la sinistra. Chi avrà seminato vento raccoglierà tempesta, o meglio: tornerà a casa con le classiche pive nel classico sacco.

Repubblica 21.1.07
Rifondazione non chiude la porta
Bertinotti ai suoi: "Preferisco vincere sui temi sociali"
di Umberto Rosso


ROMA - Una doccia gelata. Le parole di Massimo D´Alema a Rifondazione non vanno giù, «tutto sotto il segno della continuità, così non va», mentre il ministro degli Esteri sa benissimo che sull´Afghanistan il Prc vuole un segnale di «disimpegno», un primo passo dell´exit strategy. Ma non siamo allo strappo nei rapporti, fin qui molto buoni fra il vicepremier e Bertinotti. Dietro l´uscita ministro degli Esteri, più che una porta chiusa definitivamente lo stato maggiore rifondarolo ha letto l´inizio di una trattativa. «Massimo D´Alema - come ha "interpretato" il capogruppo del Senato Russo Spena parlando con altri dirigenti del partito, sentiti per telefono subito dopo l´intervento del ministro - non mi è piaciuto, ma ho l´impressione che il "taglio" sia un po´ quello del sindacalista: siccome dobbiamo sederci ad un tavolo per trovare una via d´uscita, lui ha subito alzato l´asticella del confronto».
Proprio attraverso il ministro degli Esteri è passato, e passa, il canale principale di comunicazione del Prc sull´affaire Afghanistan. La soluzione del luglio scorso, con la mozione e la fiducia, che ha scongiurato la rottura, fu mediata appunto da D´Alema, insieme a Prodi. E al titolare della Farnesina lo stato maggiore del Prc ha sempre riservato uno speciale apprezzamento per la svolta in chiave europea della politica estera. Perciò, un no tanto secco al ritiro dall´Afghanistan ha in qualche modo sorpreso Rifondazione, che mettendo in fila gli ultimi fatti - dal sì alla base di Vicenza alla questione del viaggio in Usa di Prodi - comincia a parlare di una «contrazione della svolta, uno stop nella linea nuova lanciata da D´Alema». E tuttavia, appunto, fatta la tara dell´«atto dovuto», nelle parole del leader ds intravedono l´avvio della fase del negoziato.
Dietro lo scontro fra Ulivo e sinistra dell´Unione dunque c´è la voglia di trovare una soluzione del caso Kabul. Facile non è ma in questa direzione sta lavorando anche il presidente della Camera, che pure si guarda bene dal comparire sulla scena della trattative, smentisce contatti con Prodi sull´argomento ritiro, ma ha condensato in una battuta con i suoi collaboratori il suo punto di vista: «Non sempre si può vincere, e io preferisco vincere sul sociale». Tradotto, non si può rischiare una crisi di governo su Kabul mentre c´è da portare avanti l´operazione-equità che Bertinotti si aspetta dall´esecutivo Prodi. E così lasciata cadere ogni tentazione di «via tutti e subito» dal teatro afgano, «ma non abbiamo mai lanciato - ricorda Gennaro Migliore, il capo dei deputati del Prc - diktat così ultimativi», si lavora alla ricerca di uno scatto in avanti. Secondo la formula: far scendere il numero dei militari, far salire l´intervento civile, di cooperazione, del volontariato. Giù il «capitolo» carri armati e dei blindati, su quello degli aiuti alla popolazione. La partita il Prc la gioca su questa «bilancia». Ma di certo, come ancora ieri ha spiegato ai suoi il segretario Franco Giordano, «il governo non potrà presentarci un decreto fotocopia, limitarsi come se nulla fosse successo a riproporre pari pari il vecchio testo del rifinanziamento». Il ministro Ferrero ha perciò il mandato, nelle riunioni del Consiglio dei ministri che fra il 26 e il 26 gennaio dovrebbero varare il provvedimento, di arrivare ad una «soluzione concordata e condivisa», che per il Prc passa attraverso una «discontinuità» con il decreto precedente. Fra le idee che circolano, ad esempio, un «cambio» fra militari, con l´invio della Guardia di finanza per combattere i trafficanti di oppio. Certo, in teoria, pure se da Palazzo Chigi uscisse un testo sgradito ci sarebbero ancora 60 giorni di tempo, e di dibattito parlamentare incandescente, per trovare il punto di mediazione e convertire il decreto. Ma a quel punto per Prodi si spalanca la strada della fiducia. E Rifondazione stavolta la vede a rischio. A Giovanni Russo Spena i duri del suo gruppo, da Turigliatto, a Grassi, a Giannini, hanno già fatto sapere che «se non arriva un segnale forte dal governo, questa volta siamo pronti ad andare fino in fondo». Al punto cioè di non votare la fiducia. Non solo. Nella ricognizione che il capogruppo del Prc ha condotto, risulta molto a rischio il sì di Franca Rame, di due o tre senatori dei Verdi, di Rossi (del Pdci), ma c´è anche un pezzetto dell´Ulivo che sarebbe in grande sofferenza. E per la sovravvivenza di Prodi non basterebbero i sì di Scalfaro, Colombo, Levi Montalcini, mentre Andreotti ormai frequenta poco Palazzo Madama e Cossiga ha già annunciato il suo no.

Repubblica 21.1.07
Al palazzo dei congressi i leader Ds incontrano i dirigenti di base. Abbracci tra i rivali al congresso: "Come prima di un match"
"Una sinistra oltre il socialismo"
Pd, il rilancio di D'Alema e Fassino. Mussi annuncia battaglia
di Giovanna Casadio


ROMA - Oltre il socialismo. Ma il peso della sinistra si farà sentire tutto nel Partito democratico. Lo dice Massimo D´Alema, il presidente Ds: «Per esprimere quel vasto campo di forze progressiste presenti nel mondo, la parola socialismo non basta più, è uno dei filoni, una delle storie che sono in questo campo di forze, e persino la parola sinistra non sarebbe onnicomprensiva perché è una parola molto europea. Penso a quei democratici americani che contro la guerra in Iraq hanno fatto molto di più di tanti socialisti europei...c´è bisogno di una nuova sintesi». Scatta l´ovazione dei circa tremila segretari di sezione della Quercia che affollano il Palacongressi, chiamati in prima linea a costruire il Partito democratico con «gli amici» della Margherita, i post dc.
In questo processo del Pd «voglio che ci sia la sinistra con i suoi valori, le sue idee, le sue speranze», scandisce D´Alema. Poi racconta che, «girando il mondo», gli capita di incontrare «qualche compagno della gioventù comunista» con il quale «ci si vedeva, quasi sempre a Mosca». Aneddoti, che il ministro degli Esteri ricorda ai compagni, giovani e meno giovani. Storia, utile per spiegare ai dirigenti di base riuniti nella "Terza assemblea nazionale" che «la sinistra ha continuato a vivere in mille forme diverse» e dopo la diaspora (del comunismo e del socialismo) si potrebbe fare «la raccolta dei nomi e dei movimenti». I Ds, spiegherà a conclusione il segretario, Piero Fassino, pensano a un «Partito democratico dei lavoratori, ma il lavoro è cambiato. Sì a una nuova sfida, mettiamoci in cammino, per noi politici, cresciuti al canto partigiano "soffia il vento, infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar"». La scommessa è «andare oltre».
Sul palco, il segretario e D´Alema stanno seduti accanto, cravatta simile azzurro spento. Diviso dal leggio, il leader anti-Partito democratico, Fabio Mussi, cravatta e sciarpa rosse. È Mussi a prendere per primo la parola: «Il socialismo non è un cane morto, il mondo chiede un nuovo socialismo. Sinistra e socialismo non possono scomparire. Non credo alla fusione con la Margherita, Fassino dice "mai fuori dal Pse" e la Margherita "mai dentro"».Quando D´Alema ha concluso il suo discorso, Mussi va ad abbracciarlo. Appena Fassino ha finito il suo, abbraccio segretario-antagonista. Commenta Mussi ironico: «Prima di un match, i pugili si stringono sempre la mano, ora comincia la partita». Una partita che il leader della sinistra Ds non vuole mollare: «Non lascio il partito ma voglio vincere la battaglia, no al Pd». «Guarda Fabio - replica Fassino in un´ora e mezza di intervento in cui affronta i temi caldi - io, tu, D´Alema e Enrico Letta siamo divisi più dalla storia che dal futuro. Il Pd non mette in discussione le idee, i valori della sinistra attraversano il tempo, cambiano i modi con cui questi valori sono fatti vivere». Dà la carica ai quadri del partito, il segretario. «Con il Pd più sezioni della Quercia e più gazebo che sono l´evoluzione dei tavolini che abbiamo sempre fatto». Il partito è «vero, vitale, forte, radicato nella società, nulla a che vedere «con gli attacchi di questi giorni». Ai Dl: «Se aderiamo al Pse, il campo si allarga». Anche i conti vanno meglio. Li illustra il tesoriere Sposetti: il debito abbattuto, la tempesta della vicenda Unipol superata (un anno fa qui, si parlò di questo), una campagna di sostegno per arrivare nel Pd quasi in pareggio. Dopo la direzione che giovedì ha deciso le regole del congresso di aprile, cascami di polemiche tra Mussi e Fassino sul voto segreto unico per mozioni e candidato segretario. Angius (terza mozione) oggi riunisce la sua area.

Repubblica 21.1.07
La Quercia esibisce il suo popolo: a Roma 3.000 segretari di sezione. Che non sono più le stesse
La base tra tifo e smarrimento "Scarpe rotte eppur bisogna andar"
di Antonello Caporale


Dicono di avere passione, ma si sentono "grandi e fragili come dune di sabbia". E tutti adorano il "leader Maximo"
Niente auto blu o sottosegretari all'Eur: i militanti arrivano in torpedone. Ma la Bindi vuole che vendano le loro sedi

ROMA - Assenti sottosegretari, assessori e sindaci. Non c´è odore di auto blu, il comune di Roma bene ha fatto a non inviare vigili. All´Eur nemmeno un alito di traffico. Sono le dieci. Un torpedone consegna il primo gruppo di segretari di sezione, alcuni cantano "Bella ciao". Alcuni. Gli altri guardano e decidono di non prendere posizione. Di questi tempi, e con questo congresso alle porte, è meglio stare guardinghi.
A Roma è convocata la base diessina. La militanza fedele e organizzata, il gruppo dirigente di primo livello, gli operai specializzati della politica. Più di seimila se ne contano in Italia. Ne basta la metà, e ieri c´era, per riempire il Palacongressi. Uomini e donne, molti gli over 35. Pochi con l´Unità in tasca. Jeans, parecchie cravatte, annullate le barbe. Per dire, ai tempi di Berlinguer un maschio militante su due aveva la barba. Oggi tutti sono ben rasati. Piero Fassino li accarezza con gli occhi: nonostante gli acciacchi i Democratici di sinistra sono l´unico partito che si può permettere di esibire una simile prova muscolare. Gli iscritti non sono rubati all´anagrafe comunale, come accade per qualche altro, e non ci sono defunti tra gli attivisti. Le sezioni sono vere, anche Sky lo sa. E infatti al bancone delle "Convenzioni" propone un catalogo di abbonamento convenientissimo. Chissà, forse è una buona idea trasmettere in sezione il campionato e anche tutta la champions league. Un modo nemmeno troppo disonesto per rivederle zeppe come oggi è questo palazzetto.
Sono stati convocati per partecipare in qualche modo alla decisione di chiudere il partito. E´ tutto già deciso, ma è sempre bello (in qualche modo) partecipare. «Dove c´è passione non c´è potere», dice Stefano Provenzano, segretario di Bracciano. Garantisce: «Qui c´è prestanza ideologica». Ma purtroppo si sogna e si tifa davanti alla tivù. Poi a nanna. Stefano fa il grafico e il suo partito, questo che sta per seppellire, lo vede come «un palazzone con tanti piani e tante finestre». Chi vive all´attico e chi a piano terra. Ognuno fa vita a sé. Normale in fondo. A Gaia Fratini di Arezzo tocca l´introduzione ai lavori. E´ stata scelta perché è giovane ed è donna. Forse anche perché è fassiniana. Fabio Mussi, capo dell´opposizione, che oggi sembra minuscola, promette: «Quando comincerà il congresso parleranno tutti coloro che chiederanno la parola».
Oggi no. La platea è pienamente, convintamente tifosa del segretario. Tifa Fassino ma adora Massimo D´Alema. Al punto che un troncone si stacca dalla sala e lo segue quando sembra che il ministro degli Esteri e presidente del partito voglia farsi un giro e scambiare un´impressione. L´impressione purtroppo è falsa. Il presidente cerca solo una toilette. La scorta sorride, i compagni si imbarazzano. Si ritorna in sala. «Compagni, interventi brevi». Stefano Bazzani è il segretario della sezione milanese dei vip, in verità pochi, rimasti a Milano a votare Quercia. Sezione Centro, ex Togliatti oggi Aniasi. Voterà per Mussi, cioè contro il Partito democratico. Non è tra gli oratori: «In questo partito noi contiamo poco perché l´eletto parla con chi lo vota e non perde tempo in sezione. Il partito poi vive con i soldi degli eletti. E conta chi porta soldi. E la sezione, che raccoglie un tesoro di militanza, riduce il suo peso e il suo prestigio fino a vederlo annullato, azzerato. Siamo grandi ma fragili. Fragili come una duna di sabbia».
Fragili forse, ricchi di sicuro. «Siamo come quelle credenze di cucina piene di ogni bontà. Basterebbe qualche volta aprire e cercare. Ma nessuno apre e nessuno cerca», dice Maurizio Veloccia, ingegnere ventinovenne e segretario nel quartiere romano del Portuense. «Siamo acquartierati sul primato del governo. Quasi smarriti al pensiero di dover trasformare radicalmente questa società. Dinosauri ripiegati sul proprio ombelico: la poltrona da assessore», secondo Francesco D´Ausilio, segretario dell´unione delle sezioni del XIII municipio capitolino». E´ faticoso progettare, se l´auto blu rischia di lasciarti a terra. E benchè la credenza sia piena, è faticoso persino cercare. Bisogna indagare, valutare, poi scegliere. Meglio, no?, la cooptazione. Si fa prima e tutto riesce a puntino. Meno fatica e meno stress. Certo, un giorno i deputati e i senatori dovevano passare dalla sezione, venivano esaminati e scrutati. La potentissima federazione decideva chi bocciare e chi promuovere. Il segretario provinciale, che contava, era fuori dal Parlamento, fuori da qualunque assemblea elettiva, apostolo di Botteghe oscure.
Soldi. Oggi si parla anche di loro: il tesoriere Sposetti, aria da ragioniere duro, dice che ci sono quasi 150 milioni di euro da dare alle banche. Cifra mostruosa ma decisamente più ragionevole dei 500 di qualche anni fa. E´ stato venduto tutto il vendibile, il Bottegone è divenuto botteghino, l´Unità stampa conto terzi.
A Trieste intanto Rosy Bindi ripete che i ds se vogliono fare il matrimonio con la Margherita devono lasciare tutte le loro rimanenti sedi: «Vita nuova e casa nuova», dice Rosy. Meno male che parla a Trieste. Lontana abbastanza per non essere sentita. Nel parterre romano già non si scruta questa frenesia fusionista. Tutti parteggiano per il sì ma con giudizio. Applausi a D´Alema, ma un brivido sulla schiena l´ha fatto venire Mussi quando ha chiesto: «Su questo fondale c´è scritto "Una grande forza". Manca l´aggettivo».
Dov´è la parola sinistra? Dov´è il socialismo? C´è, eccome che c´è. La fatica di Fassino di dirlo e ripeterlo. Da qui al 19 aprile, data del congresso. Si va dove si deve. Proprio come cantavano i partigiani: «Scarpe rotte/eppur bisogna andar».

l'Unità 21.1.07
Ma Mussi replica: «Voglio fermare questo treno»
Nuova polemica sulle regole: «Non è stata la sinistra ds a volere il voto segreto»
di s.c.


«NELL’89 non ebbi dubbi. Ora andiamo verso un congresso di svolta. Credo nell’alleanza democratica ma non nella fusione tra Ds e Dl».
Fabio Mussi ribadisce all’assemblea dei segretari di sezione della Quercia il suo no al Partito democratico. Lo fa con un intervento pacato nei toni, che incassa anche applausi di tutta la platea quando affronta tematiche non direttamente legate alla battaglia congressuale, e che fa apparire già lontane le voci di strappi e scissioni emerse solo qualche giorno fa, quando non si riusciva a trovare l’accordo sul regolamento del congresso.
Curiosamente, è di nuovo sulle regole che si innesca l’unica polemica della giornata. Succede dopo che Fassino, in un passaggio del suo intervento, dice che avrebbe preferito il voto palese, ma che in nome dell’unità ha accettato la richiesta di adottare il voto segreto. Quando le luci del Palazzo dei congressi di Roma stanno spegnendosi, Mussi spiega ai giornalisti rimasti che non era stata la sinistra Ds a chiedere il voto unico e segreto: «Nella commissione per il congresso noi avevamo proposto una modifica statutaria in modo da votare i documenti politici in modo palese nelle sezioni e il segretario nell’assise nazionale. Quando siamo arrivati alla Direzione, la proposta della segreteria, condivisa da Angius, era quella del voto segreto su mozione e segretario, ma disgiunto». Ipotesi che per il ministro avrebbe potuto portare un risultato «paradossale», vale a dire la possibilità che si potesse registrare un voto differente sulla mozione e sul segretario. A quel punto, chiarisce Mussi per mettersi al riparo dalle accuse che già gli piovono addosso tanto dalla maggioranza quanto dalla mozione Angius, «ho chiesto che non si uscisse dallo statuto e che dunque si procedesse a un voto congiunto».
Sul piano della battagli politica, invece, Mussi si attiene a un copione noto, dicendo che punta a incassare i consensi necessari a «fermare il treno». «Io non posso accettare che parole come sinistra e socialismo scompaiano dal lessico politico. Si dice che ci vuole una grande forza, un grande partito, ma bisogna metterci gli aggettivi: socialista e di sinistra». L’applauso scatta solo in alcuni punti della platea. Più forte e meno localizzato arriva sul passaggio dedicato alla collocazione internazionale: «Fassino dice: mai fuori del Pse. La Margherita dice: mai dentro. O l’una o l’altra. Una questione come questa va affrontata prima di decidere, non dopo. Perché non è una questione di diplomazia, ma di identità». Non priviamoci di un sogno, dice il leader della seconda mozione ricordando che «c’è stata una stagione in cui il socialismo era considerato un cane morto» mentre «ora il mondo chiede un nuovo socialismo»: «Senza quello che abbiamo sognato non avremmo potuto fare niente da svegli».

l'Unità Firenze 21.1.07
La storia di Tarkowskij tra ritratti di famiglia e immagini di scena
Fino al 18 febbraio all’Archivio Storico del Comune di Firenze c’è la mostra fotografica dedicata alla vita del regista di «Lo specchio», scomparso a Parigi quarant’anni fa
di Gianni Caverni


Che luce e che aria fresca circonda quella bella signora russa dallo sguardo triste. È Maria, la madre di Andrej Tarkovskij, il regista di tanti film, da Solaris a Stalker, da L’infanzia di Ivan a Nostalghia, morto a Parigi quarant’anni fa. “Lo specchio della memoria” è il titolo della mostra aperta fino al 18 febbraio all’Archivio storico del Comune di Firenze. La memoria è quella della famiglia, scandita da una sessantina di fotografie: quelle restaurate e ristampate, scattate nella prima metà del Novecento e quelle realizzate durante la lavorazione de Lo specchio, il film profondamente autobiografico del ‘75. Si crea un dialogo bellissimo fra immagini originali e foto di scena, che testimonia come Tarkovskij avesse lavorato su questa straordinaria miniera di ricordi e ne avesse fatto un canovaccio estetico. Maria seduta su una palizzata, guarda lontano con una sigaretta fra le labbra, Maria con i figli piccoli, Maria distesa con Andrej seduto in grembo sullo sfondo di un mare grigio. Arsenij, il padre, poeta dal volto scavato e dallo sguardo intenso, che tiene per mano un Andrej di pochi anni, o che insegna al figlio a nuotare nel fiume. E Andrej e la sorellina Marina in un campo, circondati da un mare di fiori bianchi.
Gran parte delle foto che fanno parte di una raccolta familiare e che i genitori hanno trasmesso al regista sono degli anni ‘30, scattate da Lev Gornung, grande fotografo amico di Arsenij. Sono immagini capaci di uscire dalla storia familiare per tratteggiarne una più collettiva, non a caso Lo specchio è il film nel quale gli episodi di vita privata si svolgono sullo sfondo dei drammi dell’URSS, dalla seconda guerra mondiale agli orrori staliniani.
La cura rigorosa di Tarkovskij nella citazione delle fotografie di famiglia è testimoniata dalla scelta del figlio, che della mostra è il curatore, di affiancare le vecchie foto a quelle del ‘75 intrecciandole per valorizzare il racconto di vita ed il racconto del racconto, del film quindi. La capacità di suggestione delle immagini ne esce rafforzata e come distillata. L’ultima sala, decisamente più scura, ha l’atmosfera di una cripta, le fotografie sono illuminate così da vicino e in maniera volutamente imperfetta da ricordare alcune installazioni di Christian Boltanski. Il percorso si conclude con un metaforico sguardo a noi stessi riflessi in uno specchio corrotto e segnato dal tempo.
Orario: martedì-venerdì 10 - 18, sabato e domenica 11 - 18, chiuso il lunedì, ingresso libero.

il manifesto 21.1.07
Saggi. L'oro nero della guerra in Iraq
Analisi Lo studio di due economisti sul rapporto tra prezzo del petrolio e conflitti militari. I profitti scendono, ma quando iniziano a parlare le armi salgono nuovamente
di Enzo Modugno


Ancora due argomenti a sostegno della tesi che la guerra sia sempre «un buon investimento», come ha affermato di recente il segretario di stato Usa Condoleeza Rice.
Il primo viene da Wall Street, i cui analisti prevedono per il 2007 un buon anadamento dei profitti (un 20 per cento in più rispetto lo scorso anno) per il settore militare industriale. Un aumento sostenuto da una ulteriore impennata delle spese militari e dall'esportazione di missili ed aerei nei paesi arabi ed asiatici. Registato il rapporto di Wall Strett, Il Mondo (26 gennaio) ha prontamente invitato i nostri investitori ad approfittarne.
Ma si può ora documentare un secondo argomento. Questa volta viene da uno studio in cui si analizza la stretta relazione tra le guerre in Medio Oriente e il prezzo del petrolio. Che ci fosse un qualche rapporto tra armi e greggio lo aveva ribadito la guerra in Iraq. Uno dei suoi effetti è stata la «sparizione» del petrolio iracheno al mercato, sparizione che ne ha fatto triplicare il prezzo del greggio. Ma ora due economisti - Jonathan Nitzan, insegnante universitario in Israele e Shimshon Bichler, che insegna alla York University di Toronto - in uno studio apparso su Global Research (e tradotto da www.resistenze.org), considerano nell'arco di trent'anni i profitti delle più importanti compagnie petrolifere, Bp-Amoco, Chevron, Exxon-Mobil, Royal-Dutch, Texaco. E dimostrano che i conflitti direttamente o indirettamente legati al petrolio, hanno avuto queste costanti caratteristiche: ogni conflitto per l'energia è preceduto da un declino dei profitti delle compagnie petrolifere; ogni conflitto per l'energia viene seguito da un periodo nel quale questi profitti vanno oltre la media; e con la sola eccezione del 1996-97, mai le compagnie petrolifere riescono a superare la media senza che prima avvenga un conflitto per l'energia.
Il problema è che adesso il prezzo del barile sta scendendo.
Per questo le recenti dichiarazioni del vicepresidente Usa Dick Cheney e dello stesso presidente Bush sul pericolo iraniano, potrebbero essere qualcosa di più che un semplice avvertimento.
Il 19 febbraio, nelle sue consuete analisi, il Financial Times ha infatti sottolineato che ci sono molti segnali che che sta per succedere qualcosa di molto grosso, arrivando a prevedere qualche tipo di conflitto o scontro militare con l'Iran, condotto dagli Usa direttamente o tramite altri. Ancora un'occasione per gli investitori, nel settore energetico.

La Stampa Tuttolibri 20.1.07
Dizionario del comunismo. Una monumentale opera tra storia, ideologia, economia, cultura
Il comunismo dalla rivoluzione alla legge marziale
di Giorgio Boatti


Inutile nasconderlo: c'è un interrogativo, e non di poco conto, che si presenta al lettore che ha la costanza e la curiosità di attraversare le cinquecento pagine del Dizionario del comunismo nel XX secolo, monumentale opera curata da Silvio Pons e da Robert Service e di cui Einaudi ha appena pubblicato il primo volume. Dopo che ci si è confrontati con i 193 lemmi - da «alfabetizzazione » e «autocritica» sino a «Lunga marcia» e a «Rosa Luxemburg» - che confluiscono in questo lavoro viene infatti da chiedersi se il titolo dell'opera sia coerente. Se non sia cioè in contraddizione con quella dinamica diversificatrice che pare imprimere un movimento centrifugo a molti degli elementi che costituiscono la poderosa e complessa costruzione che viene offerta.
Questa sensazione emerge davanti a voci di compatta sintesi quali quelle che fanno riferimento alle diverse temperie - storiche, ideologiche, economiche, culturali - con cui il comunismo prende corpo nello spazio e nel tempo. Si va, per capirci, dalla «Bolscevizzazione» alla «Collettivizzazione delle campagne», dal «Grande Balzo» cinese alla «Guerriglia in America Latina» o a «Kronstadt», con la disperata rivolta del marzo 1921 dei marinai baltici che nel 1917 avevano entusiasticamente appoggiato la rivoluzione bolscevica, per giungere sino alla «Legge marziale in Polonia» del 1981.
Un senso di ulteriore, vertiginosa variegazione si fa strada anche negli asciutti ma imperdibili ritratti biografici. E questo accade sia quando le schede biografiche sono dedicate, come succede il più delle volte, ai leader che si sono installati alla testa dei partiti, dei movimenti e degli Stati che nel corso del Novecento hanno composto l'universo del mondo comunista, sia quando si rammenta il ruolo di alcuni primattori della storia del secolo coi quali il movimento comunista si è trovato drammaticamente contrapposto in una lotta mortale. Non manca, dunque, in questo dizionario, neppure Hitler: nemico acerrimo e tuttavia, nella micidiale stagione contrassegnata dal patto di non aggressione tra Mosca e Berlino firmato nel 23 agosto 1939, transitorio alleato. Altrettanto variegato è il bouquet delle figure di notissimi, emblematici intellettuali che intrecciano le loro strade col comunismo. Alcuni, come Louis Aragon, sono difensori dell'ortodossia di partito sino al limite della totale cecità politica. Altri, invece, rappresentano voci critiche capaci, con lungimirante lucidità e in tempi non sospetti, di affrontare nodi centrali e conseguenze tragiche dell'ideologia comunista. E' il caso, ad esempio, del coraggioso Vàclal Havel - la voce a lui dedicata è di Francesco Cataluccio - destinato a diventare, dopo numerosi anni di galera nelle carceri di Praga, presidente della Repubblica Cecoslovacca post-regime. O dell'ex-militante Arthur Koestler, autore di Buio a mezzogiorno, rievocato da Tom Villis. O di Hannah Arendt, della quale Abbott Gleason inquadra il fondamentale lavoro attorno alle origini del totalitarismo.
L'apparente frammentazione di molte di queste voci - tutte redatte con un rigore storiografico e una concretezza di dati che tracciano uno spartiacque fondamentale rispetto a opere di polemica ideologica andate per la maggiore in anni recenti - rivela, nell'intreccio complessivo, di non essere affatto tale. A far ben comprendere come si sia effettivamente alle prese con un fenomeno unitario, tale da giustificare quel titolo di «dizionario del comunismo», e non dei «comunismi», attribuito all'opera, sono le voci, ampiamente presenti, che mettono in luce le modalità più significativa attraverso le quali ciò che all'origine pareva il sogno di una palingenesi liberatrice si rovescia nel suo contrario, ponendosi come un incubo totalitario dal quale derivano, scrivono i curatori, «alcune delle peggiori tragedie e dei più infami crimini contro l'umanità compiuti nella storia contemporanea».
A rendere questa dimensione non sono solo voci fondamentali sul sistema repressivo, quale quella sul «Gulag» di Nicolas Werth, sul Kgb di Marta Craveri, sui «campi» disseminati da Cuba alla Cina alla Jugoslavia sino ai «campi della morte» nella Cambogia, ma altri approfondimenti apparentemente meno drammatici. Si prenda il tema, ad esempio, dell'«autobiografia».
In una splendida messa a fuoco, Igal Halfin ricostruisce i passaggi attraverso i quali la narrazione del percorso esistenziale e politico che i militanti rendono alla propria organizzazione muta progressivamente di significato, parallelamente all'imporsi di modelli sempre più autoritari e dittatoriali. Quello che poteva sembrare, all'inizio, il racconto della propria vicenda esistenziale che viene ad approdare, attraverso incontri e prove, lotte e sacrifici, assai simili alla confessione cristiana, a una sorta di rinascita umana e spirituale contrassegnata poi dall'impegno militante, perde ben presto ogni elemento di spontaneità. Già dopo pochi anni dopo l'avvento al potere dei bolscevichi il canovaccio di ogni autobiografia è imposto dall'alto. L'autenticità dell'io, la concretezza delle situazioni in cui ogni vita evolve e matura, cedono rapidamente il passo a un prototipo di racconto monotono, ossessivo, dettato dall'alto e dove ogni verità e soggettività sono severamente espiantate. Tutto questo si accentua negli anni del terrore staliniano quando «chi scriveva la propria autobiografia non raccontava più il proprio divenire comunista - dunque la storia della propria rinascita - ma si limitava a insistere di non essere mai stato altro che tale». L'autobiografia si trasforma in indagine giudiziaria predisposta, dall'individuo, contro se stesso.

Liberazione Lettere 21.1.07
Anni '70. Un tentativo di capire


Caro Sansonetti, l'aggettivo "un po' reazionario" per l'articolo sul 1977 apparso sull' "Unità", te lo potevi risparmiare. C'è in quell'articolo un tentativo di capire che non può essere bollato come reazionario, c'è un tentativo di capire che forse è più di sinistra delle cose che scrivi tu. Me lo ricordo il '77: eravamo attraversati, portavamo con noi una cultura di morte, andavamo in piazza a Bologna cantando: "Enrico fatti una pera". Certo la freddezza francescana di Berlinguer era intollerabile, come era intollerabile la marcia verso il compromesso storico, ma le pere se le facevano tanti di noi e tanti, molti di più cominciarono a farsele proprio allora. Andavamo in piazza a Roma, nel settembre ed eravamo accompagnati da tanti "compagni" assassini di Prima Linea con la valigetta e la pistola, sparavano vicino a me, a duecento metri da piazza del Popolo, la polizia neanche si vedeva, ma loro non sparavano alla polizia, fingevano, in verità sparavano a me e a quelli come me. Io avevo due sanpietrini in tasca, li buttai nel Tevere per non tirarli addosso ai compagni autonomi. Dici che non sta bene demonizzare Toni Negri e Oreste Scalzone. Di quest'ultimo non saprei dire, ma Toni Negri me lo ricordo, al convegno di Potere Operaio a Roma nel 1970 o '71, fece un intervento storico, io scappai fuori dal palazzetto piangendo a dirotto, alla mia ragazza che mi chiedeva cosa avessi riuscii a dire solo: "...questo qui ci vuole fare morire tutti". Me lo ricordo il '77, a dicembre me ne andai a Roma dal Fagioli, all'analisi collettiva, per non crepare, per rimanere di sinistra, anzi per diventare di sinistra e togliermi di dosso la puzza di morte.
Giuseppe Scuto Firenze



Liberazione 20.1.07
Polemica con un articolo un po’ reazionario dell’Unità
Ma quale incubo! C’è bisogno degli anni ’70
di Piero Sansonetti


Quest’anno cade il trentesimo anniversario del 1977, e così tutti i giornali rievocano quell’anno, che fu un po’ il momento di svolta nel decenniosettanta. E rievocando quell’anno - e il movimento di massa molto radicale e ribelle che lo caratterizzò, e che segnò profondamente una generazione intera - rievocano anche tutto il decennio. Lo fanno inmodo abbastanza grossolana, limitandosi a descriverlo come il decennio della violenza e dell’irrazionalità, e indicandolo come un incubo, una stagione da condannare, maledire e mai far tornare. Sembra che non sia nemmeno ammessa la discussione: è scontato che gli anni ’70 sono il male, come si sa che l’acqua è liquida, il fuoco scalda, il Colosseo sta a Roma. Penso che questa analisi sia un rovesciamento completo della verità, e credo che questo rovesciamento della verità non sia dettato da distrazione o poco approfondimento, ma dalla necessità di seppellire l’enorme carica di innovazione in tutti icampi - quello sociale, quello della cultura, dei sentimenti, dell’immaginazione, quello della critica al potere, quello della libertà e dell’egualitarismo, quello della lotta tra i generi, del femminismo, quello della concezione della democrazia, quello del riformismo, quello della consapevolezza ambientalista, quello della battaglia contro i totalitarismi e lo stato oppressore, eccetera eccetera eccetera - che il decennio settanta portò in Italia e nel mondo occidentale. Ieri l’Unità ha pubblicato in prima pagina un articolo del mio amico Vincenzo Vasile - in genere osservatore acuto sui fatti della politica italiana - che lascia di stucco. Un susseguirsi di luoghi comuni della destra, vecchi, sorpassati (c’è anche la critica ai vestiti di Bertinotti e la contrapposizione tra eskimo e grisaglia, che una volta, qualche decennio fa, era il cavallo di battaglia del ”Tempo” di Angiolillo...) e poi il linciaggio morale di Oreste Scalzone, di Toni Negri, di Francesco Caruso (accostatiai bombaroli e liquidati come ex latitanti), infine la richiesta perentoria alla sinistra di porre fine al dissenso e di allinearsi all’ordine governativo. Non c’è spazio per scherzare - dice Vasile, superando le tradizionali posizioni di Cofferati - o si governa o si protesta. Altrimenti - sai come vanno le cose - ” il confine tra disobbedienza e culto dell’illegalità è labile... anche negli anni ’70 ”si cominciò con gli epiteti, si passò ai sampietrini,e infine alle P38 e alle mitragliette armate di geometrica potenza...”. Speriamo che sia solo un articolo, magari sfiggito di penna, quello che abbiamo citato, e che non sia la nuova linea dell’Unità (che nei primi anni’80, mi ricordo, cioè nei tempi della più dura contrapposizione tra il Pci e il movimento, fece una campagna di stampa per chiedere la liberazione di Oreste Scalzone, dal momento che non lo riteneva un terrorista). Oreste Scalzone, come Toni Negri, furono arrestati nel 1979 escontarono alcuni anni di carcere (Negri ne scontò circa 10) e decine di anni di esilio, accusati del reato di partecipazione a banda armata, cioè un reato associativo - politico, di opinione - senza accuse specifiche significative, senza prove, e di conseguenza - qualunque sia il giudizio che si dà sul loro operato e sul loro pensiero - sono stati perseguitati politici. In ogni caso è chiaro che non sarà facile in questi mesi rompere la cappa reazionaria che ci descriverà gli anni ’70 come lastagione dei delitti politici. Noi cercheremo di spiegarvi che non fu così. Dal 6 febbraio (per dodici settimane consecutive) tutti i giovedì accluderemo al quotidiano un fascicolo di 64 pagine, interamente dedicate al racconto, al ricordo e alla discussione su quegli anni. Scriveranno molti dei maggiori intellettuali della sinistra italiana, le immagini saranno tutte curate da Tano D’Amico, uno degli artisti (fotografo) più significativi di quel periodo, e prese dal suo archivio. Perché questa iniziativa? Per dirvi che la violenza negli anni ’70 ci fu: ma non ci fu solo quella e non fu la violenza l’aspetto politico fondamentale. Sono anni straordinari nei quali la sinistra - non solo in Italia - produce la parte più avanzata del suo pensiero e - seppure con grandi tensioni, lotte, divisioni - produce un modello avanzatissimo di società, e prova, in parte, a realizzarlo. Sulla spinta formidabile del movimento che veniva dagli ultimi anni del decennio precedente, e che durò a lungo, più a lungo che in ogni altro paese - movimento giovanile, di classe, di genere - si scompagina la burocrazia dei partiti e dei sindacati, si impongono temi nuovi, sogni nuovi, comportamenti nuovi, nuove culture, abitudini, valori. Poi ci fu lasconfitta. Qui da noi la batosta della Fiat, la riscossa della borghesia, altrove Reagan, la Thatcher. E la ritirata fu precipitosa, devatsante. Abbiamo lasciato nel decennio settanta un patrimonio enorme di idee e di strumenti politici dei quali oggi abbiamo assolutamente bisogno per affrontare la crisi del neoliberismo. Dobbiamo tornare aprenderceli.

l'Unità 19.1.07
Eskimo e grisaglia
di Vincenzo Vasile


Abbiamo un problema. Un problema, tra gli altri. Che potrebbe diventare un grosso problema. In pochi giorni sono rimbalzati in prima pagina e sui teleschermi le immagini di un vecchio, brutto film. Intendiamoci, l'effetto minestrone è soprattutto mediatico, e nel raccontare il sommario di uno dei tanti tg (pubblici e privati) sappiamo di mettere in fila episodi di natura e origini diverse e complesse. Ecco cosa dice il telegiornale, senza battere ciglio.
Dice che il ministro Padoa Schioppa è stato accolto l'altra sera all'Università di Torino da petardi e fumogeni perché ritenuto un pericoloso «agente delle multinazionali». E lo stesso tg mostra uno striscione con la «A» dell'anarchia davanti a un corteo abbastanza pacifico di gente abbastanza pacifica che non vuole l'«allargamento» della base Usa a Vicenza. E ci sono le bombette, inesplose, ma innescabili, firmate dagli «insurrezionalisti» e «separatisti» sardi recapitate a due sottosegretari. E si rivede, in collegamento da Parigi, Oreste Scalzone, che annuncia una sua prossima turnè italiana per rilanciare «nelle nuove condizioni vecchie battaglie». Sempre su maxischermo il professor Toni Negri riappare in un'altra epifania televisiva per insultare Sergio Cofferati, sul tema - guarda un po' - della legalità. Per indebito ossequio dei conduttori dei talk show e dei programmi di «approfondimento», costoro - «ex-latitanti» - possono fregiarsi dell'eufemismo ammiccante di «ex-rifugiati». Il deputato Caruso che a quei tempi era sul passeggino s'è entusiasmato per l'aria di revival che tira, al punto da annunciare la presenza di bombe molotov nel cortile di Montecitorio. Si annuncia da altre fonti anche un blitz anti-Prodi per il prossimo fine settimana.
In attesa del prossimo notiziario, interi scaffali di biblioteche e archivi giudiziari ci possono far riflettere sul confine labile tra disobbedienza, culto dell'illegalità, sovversivismo, pericoli di tenuta democratica. Chi non li ha vissuti, quegli anni cui alludono i vecchi/nuovi disobbedienti che affollano i nostri telegiornali, non sa che a quei tempi si cominciò con gli epiteti, si passò ai sampietrini, e infine alle P38 e alle mitragliette armate di geometrica potenza.
Stavolta c'è una novità: a differenza del passato, essi sono i beniamini di una Destra ad alto tasso becero che si rispecchia e gode di tante immagini deformate, e può sentenziare che il governo sarebbe «ostaggio» delle spinte e delle forze più «radicali». È questo un discorso che vorremmo fare sommessamente soprattutto a chi - a sinistra - corteggia, anche solo con il silenzio, i laudatori del brutto tempo andato, e i loro più o meno consapevoli giovani seguaci.
Sia chiaro. Nulla da dire se il presidente della Camera Bertinotti proclama in queste ore il suo pacifismo: non ci sembra che con ciò stia violando i vincoli del suo incarico istituzionale. Ma dovrebbe spiegare meglio che cosa volesse intendere, intervistato l'altra sera da Grparlamento, quando ha detto che «ogni atto» che impedisca il rafforzamento di basi militari «è buona cosa». A noi pare che non solo Bertinotti abbia detto qualche parola di troppo. Ma che finora un po' tutti - ed è una riflessione da farsi senza insulti - ci eravamo illusi che dando «rappresentanza» a un certo mondo, come, per esempio, con certe candidature di «indipendenti» nelle file di Rifondazione, se ne potessero smorzare spinte e velleità agitatrici.
È questo un tema che la sinistra radicale che sta al governo, diciamo la sinistra radicale che veste in grisaglia, o quanto meno in giacca e cravatta, dovrebbe porsi con maggiore serietà e coerenza di quanto non stia mostrando in queste ore confuse. Vogliamo segnalare questo punto critico. E preveniamo, anche, una prevedibile risposta. Se si vuol dire che profonde sono le ragioni che spingono una parte forse marginale della sinistra a inseguire vecchi e ambigui miti, siamo d'accordo. Ma se ci fermiamo su questa soglia giustificazionista, non ne usciamo. L'auto-assoluzione ideologica è un vecchio vizio, comune alle nostre diverse anime. Nella Giornata dello scrutatore, splendido racconto-pamphlet degli anni del primo centrosinistra, Italo Calvino raccontava di quella «compagna» che ripeteva che «ben altro» era/è il problema: la sinistra riformista degli anni Sessanta, non si accorse, rinviando a «ben altro», come le suore democristiane portassero in cabina elettorale al Cottolengo vagonate di ciechi e di dementi.
Oggi c'è una questione urgente, che riguarda invece la sinistra cosiddetta «radicale», e ancora una volta non si può rinviare tutto alla soluzione di «ben altro». Eskimo e giacca e cravatta, indossati assieme, non stanno bene addosso a nessuno, formano un look pasticciato che non si addice a nessuna forza politica che abbia scelto la strada del governo del paese. Anzi, bisogna convincersi che l'eskimo di Oreste Scalzone è semplicemente un capo d'abbigliamento fuori tempo: per quel che ricordiamo, anche quand'era in auge assorbiva unto e umidità, non riparava dal brutto tempo. Meglio metterlo in soffitta.