Viaggio oltre lo specchio, le fotografie di Tarkovskij
Le commemorazioni a vent'anni della morte del grande regista Andrej Tarkovskij culminano con una mostra fotografica, viaggio spirituale attraverso le immagini di famiglia e la magia del cinema
di Manuela De Leonardis
Firenze. E' sepolto nel cimitero russo di Sainte-Geneviève-des-Bois, ad una trentina di chilometri da Parigi, perché é nella capitale francese che Andrej Arsenevic Tarkovskij si è spento nel 1986. Ma -ricordiamo- è Firenze, «la città che dà speranza ai visitatori», come ha scritto nei suoi diari, nonché set di uno dei suoi ultimi film (Nostalghia, 1983) che ha accolto il regista quando decise di non tornare in Russia, tre anni prima della morte. La targa commemorativa fuori dall'abitazione - al civico 91 di Via San Niccolò - è stata messa a fine dicembre, tappa ufficiale delle celebrazioni per il ventennale della sua morte. Ma una targa non è che un rettangolo di pietra, piuttosto il ricordo continua a vivere - a pulsare - attraverso la produzione artistica, nonché con quello straordinario strumento che è l'archivio, conservato sempre a Firenze presso l'Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, di cui è presidente il figlio (che come lui si chiama Andrej).
Con i suoi undicimila documenti tra scritti autografi, carteggi, sceneggiature, fotografie e diari (di Tarkovskij sono stati pubblicati Scolpire il tempo, Ubulibri, 2002 e Diari - Martirologio 1970-1986, Edizioni della Meridiana, 2002) questo materiale rappresenta un patrimonio culturale, testimone non solo delle vicende biografiche e della creatività dell'autore di film quali Solaris e Stalker, quanto di un brano di storia che abbraccia buona parte del secolo scorso. La storia della Russia, prima di tutto, dove Tarkovskij era nato nel 1932 in un villaggio sul Volga, Zavrazie. Non è un caso che la mostra fotografica Lo specchio della memoria (dal 19 gennaio al 18 febbraio 2007 all'Archivio Storico del Comune di Firenze), evento centrale delle celebrazioni tarkovskiane sia il racconto di quello che è considerato il film più autobiografico del regista, Lo specchio (Zerkalo, 1974). Un lungometraggio che nel suo fluire apparentemente aritmico è un continuo passaggio dal passato al presente. Una sorta di «recherche» di proustiana memoria resa ancora più intensa dall'alternarsi di bianco/nero e colore. Il tessuto intimistico, umano e personale di Tarkovskij, più volte si va ad intrecciare con la storia collettiva, caricandosi di visionarietà e di riferimenti simbolici. E' il doppio gioco di finzione e realtà: un racconto in cui la fotografia ha un ruolo fondamentale. Il cineasta, infatti, si è avvalso di buona parte di quel cospicuo nucleo - cinquecento tra stampe e negativi su lastra di vetro - degli anni '30 - '40 (oggi conservate a Firenze), scattate soprattutto dall'artista e fotografo Lev Gornung (1902-1993), amico di famiglia. Nel film molte inquadrature, a partire dagli interni e in molte scene in cui compare l'attrice Margarita Terekhova nei panni della madre di Tarkovskij, non sono che la proiezione fedele di quelle immagini. Come a seguire questo flashback anche la mostra propone un percorso inedito di sessanta fotografie - prevalentemente nel formato 30x40 - di cui quaranta prese dall'album di famiglia e venti foto di scena scattate da Alexander Antipenko. Due, in particolare, i volti ricorrenti nelle stampe, quello del padre - il poeta Arsenij - e della madre - Maria Ivanovna Vishniakova - lei stessa interprete nella scena finale. Con i versi del padre, I primi incontri (una delle poesie che in mostra è letta in un soundtrack creato appositamente), invece, inizia il film: «Dei nostri incontri ogni momento noi/ festeggiavamo come epifania,/ soli nell'universo tutto. Tu/ più ardita e lieve di un battito d'ala/ su per la scala, come un capogiro/ volavi sulla soglia, conducendomi/ tra l'umido lillà, dentro il tuo regno/ che sta dall'altra parte dello specchio».
Corriere della Sera 25.1.07
Cossiga: nel '77 sbagliai a rispondere con i blindati
«Da ministro dell'Interno stroncai l'Autonomia, ma così molti finirono nelle Br»
intervista di Aldo Cazzullo
In quattro sapevamo chi ha sparato, ora l'ho detto anche a un deputato di Rifondazione. Fuoco amico? Il capo della mobile mi disse: ho in frigo lo champagne per quando si conoscerà la verità
ROMA — Il senatore a vita Francesco Cossiga, all'epoca ministro dell'Interno, ricorda i fatti del '77: «Ho uno scrupolo. Mandando i blindati in piazza, a Roma a rioccupare l'Università dopo la cacciata di Lama, a Bologna dopo la morte di Lorusso, ho stroncato definitivamente l'autonomia. Ma la chiusura di quello sfogatoio spostò molti verso le Brigate rosse e Prima linea».
ROMA — Presidente Cossiga, nel suo libro sul 1977 Lucia Annunziata la chiama Dottor Stranamore, e la accusa di aver «fatto dello scontro politico una sfida personale con il movimento».
«Sono amico della Annunziata, le presenterò il libro; così come ho amici cari tra gli ex di Lotta continua, tra i ragazzi del '68. Credevano di essere una grande partito operaio, i veri rivoluzionari. Non avevano capito che, se avesse potuto, Togliatti la rivoluzione l'avrebbe fatta eccome, proprio come a Praga, Varsavia, Sofia».
Con i gulag per voi democristiani?
«No. Si sarebbe concesso un partito cattolico: la Dc sarebbe stata come Pax in Polonia o come il partito dei contadini. E Nenni non sarebbe stato impiccato come Slansky ma avrebbe avuto la presidenza di una fondazione».
Cosa risponde a chi le rimprovera di aver soffiato sul fuoco del '77?
«La migliore risposta la potrebbe dare Fausto Bertinotti. Quell'anno lo incontrai a Torino. Parlammo a lungo. Tornato a casa, disse alla moglie: questo è il ministro dell'Interno più democratico che potessimo avere».
Non ha nulla da rimproverarsi?
«Ho uno scrupolo. Io ho stroncato definitivamente l'autonomia: mandando i blindati a travolgere i cancelli dell'università di Roma e rioccuparla dopo la cacciata di Lama; poi inviando a Bologna, dopo la morte di Lorusso, i blindati dei carabinieri con le mitragliatrici, accolti dagli applausi dei comunisti bolognesi. Tollerammo ancora il convegno di settembre; poi demmo l'ultima spazzolata, e l'autonomia finì. Ma la chiusura di quello sfogatoio spostò molti verso le Brigate rosse e Prima Linea».
Sta dicendo che se potesse tornare indietro non manderebbe più i blindati all'università di Roma o a Bologna?
«Mi farei più furbo. Incanalando la violenza verso la piazza, l'avremmo controllata meglio, e alla lunga domata. Riconquistando la piazza, si spinsero le teste calde verso la violenza armata».
Ne parlò mai con suo cugino Berlinguer?
«Berlinguer pose come condizione, per sostenere con l'astensione il primo governo Andreotti, che io rimanessi al Viminale, dove mi aveva messo Moro. Non avevamo bisogno di parlarne. E la disposizione che avevo dato alla polizia era: se sono operai, giratevi dall'altra parte; se sono studenti, picchiate tosto e giusto. Mai più i morti di Reggio Emilia. Dal Pci non vennero mai critiche alla linea dura. Anzi, un grande leader comunista e partigiano…».
Pajetta?
«Questo lo dice lei. Un leader mi disse: ora che avete qualche terrorista in carcere, perché non gli date una strizzatina? Gli attacchi semmai venivano da uomini del mio partito, che mi chiedevano una risposta ancora più ferrea. E da Montanelli, che mi rimproverò di aver voluto la milizia rossa, quando Agnelli e Lama si accordarono per creare squadre di autoprotezione contro i sabotaggi in fabbrica. L'intesa avvenne al Viminale. Il presidente della Confindustria e il capo della Cgil però evitarono di incontrarsi. Restarono in due stanze attigue, e io facevo la spola».
In piazza c'erano gli agenti in borghese con la pistola, vero?
«Vero. Ma contro la mia volontà. Chiesi notizie al questore di Roma, che negò. Ma quando i giornalisti dell'Espresso mi mostrarono foto inequivocabili, andai alla Camera a chiedere scusa, e destituii il questore».
Fu un errore vietare i cortei per un mese e mezzo, dopo la morte dell'agente Passamonti?
«Quella decisione non fu mia, ma del comitato interministeriale per la sicurezza, presieduto da Andreotti. Ricordo che Donat-Cattin spinse molto per il divieto. Le mie perplessità furono zittite da Evangelisti, che mi disse: "Non hai le palle per farlo". Fu facile replicargli: "Come fai a dire questo a uno che non sa se tornerà a casa stasera?"».
Le misero anche una bomba in ufficio.
«Nello studio privato di via San Claudio, a mezzogiorno, un'ora in cui ero sempre là. Quel giorno il consiglio dei ministri si era protratto più del previsto. Sentimmo un botto. Un collega pensò al cannone del Gianicolo; ci avvertirono che era una bomba. Tutti balzarono in piedi tranne me, che dissi ad Andreotti: "Giulio, vedrai che l'hanno messa nel mio studio". Era stato un terrorista rosso travestito da frate. Non l'abbiamo mai beccato. I vetri del palazzo andarono in frantumi: dovetti mandare fiori a tutte le signore, ovviamente pagati con i fondi riservati del ministero».
Il 12 maggio fu uccisa Giorgiana Masi.
«Avevo supplicato in ginocchio Pannella di rinunciare alla manifestazione in piazza Navona. Gli ricordai che io stesso avevo mandato la polizia a impedire un comizio democristiano a Genova. Gli dissi che i radicali non erano in grado di difendere la piazza e chiunque si sarebbe potuto infiltrare. Tutto inutile».
Chi fu a sparare?
«La verità la sapevamo in quattro: il procuratore di Roma, il capo della mobile, un maggiore dei carabinieri e io. Ora siamo in cinque: l'ho detta a un deputato di Rifondazione che continuava a rompermi le scatole. Non la dirò in pubblico per non aggiungere dolore a dolore».
«Questo lo dice lei. Il capo della mobile mi confidò di aver messo in frigo una bottiglia di champagne, da bere quando sarebbe emersa la verità, pensando a tutto quanto ci hanno detto».
Capo dei giovani comunisti era D'Alema.
«La Fgci e Cl furono le uniche a contrastare gli autonomi. Infatti vennero prese di mira. Quando a Milano cadde Custrà e venne scattata la famosa foto dell'autonomo che spara, fu una delle due organizzazioni - non dirò quale - a dirci il nome del pistolero».
Adriano Sofri scrive di aver sostenuto l'amnistia nel '77 in quanto, presagendo il diluvio, bisognava comportarsi come se il diluvio ci fosse già stato.
«Stimo Sofri. Mastella dovrebbe avere un gesto di coraggio e graziarlo: è assurdo che Manconi sia sottosegretario e il suo ex leader rischi di dover tornare in galera. Considero Sofri innocente per la morte di Calabresi; credo sappia chi è stato, ma non lo dirà mai. Quanto all'amnistia, la si fa a guerra finita e vinta, non prima. Il Curcio di allora non era quello di oggi. So per certo che quand'era latitante un dirigente del Pci milanese, non dell'ala secchiana, lo contattò per garantirgli il perdono giudiziario in cambio della rinuncia alla lotta armata, invano. E poi Curcio mi è antipatico anche oggi: presuntuoso, supponente. Quando nel suo libro elenca i caduti e li compatisce, non ha una parola per Guido Rossa, su cui peraltro tacciono anche i Ds: nella cultura comunista non c'è comprensione per chi collabora con il potere; un compagno non va tradito neppure quando sbaglia. Questo spiega anche il silenzio sceso su Ugo Pecchioli».
Com'erano in realtà i suoi rapporti con Pecchioli?
«Fu sempre leale con me, e io con lui. Siamo stati i responsabili della manipolazione del linguaggio: quando ci accorgemmo che i sovversivi facevano presa sugli operai, cominciammo a chiamarli criminali. Questo non mi impedì, in una conversazione con Carlo Casalegno, di dire cosa pensavo davvero di loro».
Come andò?
«Ero a Torino. Casalegno mi chiese un'intervista. Risposi che avevo parlato fin troppo; ma che l'avrei visto volentieri, per dargli elementi per il suo articolo. Venne con Arrigo Levi. E io dissi che le origini ideologiche delle Br andavano ricercate nel marxismo leninismo storico, unito all'utopia cattolica appresa a Trento. Quando uscì il pezzo di Casalegno, venne da me Tonino Tatò, braccio destro di Berlinguer, a protestare. Tenni il punto: non è vero che Lenin escludesse il terrorismo; lo condannava come azione esemplare, ma lo approvava come detonatore della rivoluzione. L'idea delle Br, appunto. Pochi giorni dopo quell'articolo, Casalegno fu assassinato. E' un altro scrupolo che mi porto dentro. Aver raccolto le mie parole gli costò la vita».
Con alcuni brigatisti lei ha poi avuto rapporti amichevoli.
«Sono stato in carcere a trovare Prospero Gallinari su richiesta della famiglia. Mi disse: io non sono un intellettuale come altri compagni che ha conosciuto, ero un operaio che leggeva di notte; resto un militante comunista, e lei per me resterà sempre il ministro dell'Interno. La cosa mi piacque. Mi adoperai per farlo uscire di prigione, dove sarebbe morto, malandato com'era».
Fu Gallinari a sparare a Moro?
«No. Né lui né Moretti. Mi risulta che fu l'ingegner Altobelli, Germano Maccari, l'ultima figura a emergere. Mancano ancora i due in motocicletta che fecero da staffetta in via Fani. Ma i brigatisti non ne diranno mai i nomi. Tutto si può chiedere a un irriducibile, non quello. Uno di loro mi scrisse, quando Alberto Franceschini prese la tessera Ds, per chiedermi la tessera dell'Udr: "In fondo lei ha portato il primo comunista al governo, D'Alema". La motivazione mi parve ineccepibile. Fui tentato di tesserarlo davvero. Mastella non avrebbe avuto obiezioni: per una tessera in più…».
salon-voltaire.blogspot.com 24.1.07
Termini: il nome resta. Le Ferrovie non prendono sul serio Veltroni
I viaggiatori che da Natale ad oggi hanno preso un biglietto con destinazione o partenza dalla Stazione Termini di Roma hanno tirato un sospiro di sollievo. Sul documento di viaggio non hanno trovato scritto "Stazione Giovanni Paolo II", come il sindaco Veltroni avrebbe voluto, ma ancora l'antico nome di Termini, tradizionale nella zona fin dal Medioevo. Lo stesso sull'Orario Ufficiale.
I due cippi col nome del defunto papa, installati da Veltroni il 23 dicembre in fretta e furia, approfittando d'uno sciopero dei giornali, valgono solo una "dedica", hanno precisato impietosi alla direzione di Trenitalia.
"Laicisti"? Non lo crediamo. Certo più preoccupati dei costi altissimi che una reale ridenominazione avrebbe comportato in Italia e perfino in Europa, per la ristampa o riprogrammazione di orari, coincidenze, tabelloni, poster, display e computer di agenzie turistiche.
Uno schiaffo di buonsenso delle Ferrovie al delirio di onnipotenza del politico di professione, che ignorando le conseguenze economiche e culturali del suo gesto - già questo dice la profondità dell'uomo - pensava contro ogni regola di rispetto delle memorie e dei luoghi, che il Potere della politica, la ricerca sfrenata, patologica, del consenso demagogico (in questo caso un piacere alla Chiesa, in cambio di chissà quali favori politici ricevuti; ma anche i voti di una presunta opinione pubblica beghina, sottoculturale e clericale), potessero surrogare qualunque deficit, qualsiasi handicap culturale.
Se almeno si fosse informato, prima di fare le sue scelte, se le avesse sostenute con qualche base culturale, Veltroni non avrebbe rischiato di fare la figura del decisionista ignorante.
Gli era riuscito di stravolgere la Galleria Colonna intitolandola al comico del cinema Alberto Sordi, che non c'entrava niente col luogo e che è stato poco più d'un caratterista di genio; ce l'aveva fatta col glorioso Teatro Quirino trasformato in Teatro Gassman ("Chi era?" si chiederanno i posteri tra 50 anni); ed era infine arrivato a coprirsi di ridicolo con una brutta e funerea ("jettatoria", hanno detto i napoletani) statua del partenopeo Totò in pieno centro di Roma, a piazza Cola di Rienzo, ovviamente ignorata da tutti. Ma non gli è riuscita con le Ferrovie. Siamo contenti, come "Salon Voltaire", che la Stazione Termini abbia resistito all'attacco d'un papa e d'un sindaco uniti, anche se resta l'assurdità culturale dei due cippi dedicatori, oltretutto ad un pontefice appena defunto. Come se una stazione ferroviaria potesse anticipare quel giudizio di santità che neanche la Chiesa ha ancora potuto dare. Per di più, assurdo nell'assurdo, un papa che non ha mai preso il treno, ma solo e sempre l'aereo.
Dividiamo, perciò, il sospiro di sollievo con gli amici laici, razionalisti e liberali che a Roma si sono battuti con coraggio e determinazione (dall'Uaar di Villella e Sgroia, a Vallocchia di No God, a Critica liberale, alla Giordano Bruno).
E registriamo con divertito compiacimento la controproposta dei radicali Sergio Rovasio e Luigi Castaldi, membri della Direzione della Rosa nel Pugno e di Anticlericale.net, che non si "pentono" del loro sano laicismo nel timore di offendere i "radicali cattolici", come ha fatto in un penoso autodafé Bruno Mellano dopo l'aggiunta delle statuine di coppie gay al presepio della Camera.
La vicenda della Stazione Termini 'dedicata' e non 'intitolata' a Giovanni Paolo II, ha mandato su tutte le furie il quotidiano vaticano "L'Osservatore Romano", che se la prende con i "soliti ossessionati laicisti" e con i radicali.
Ma Rovasio e Castaldi hanno controbattuto ricordando l'assurdità di uno "Stato teocratico" che "non può tollerare un ordinamento democratico all'interno dei suoi confini, e vorrebbe la teocrazia applicata anche all'interno dello Stato italiano".
E dov'è il divertimento che dicevamo? Nella provocatoria proposta finale di Rovasio e Castaldi. Per par condicio, dicono, "ora inizierà la battaglia per cambiare il nome alla Stazione San Pietro" [che, malgrado il nome, è in territorio italiano, NdR]. "La nostra proposta - aggiungono - è che diventi Stazione Ernesto Nathan". Non male. Bel colpo, ragazzi. Solo che è poco: una stazione così piccola e insignificante per il più grande sindaco che Roma abbia mai avuto?
<nogod.it 25.1.07
Preti e pedofilia
Dopo l'esternazione odierna di Ratzinger vi trascriviamo il Comunicato Stampa di Maurizio Turco, deputato della Rosa nel Pugno :
"Con sommo stupore apprendo che il capo della Santa Sede, della Chiesa cattolica, dello Stato Città del Vaticano ha oggi chiesto ai media di proteggere i bambini da violenze e volgarità. Verrebbe da dire che il pulpito da cui proviene la predica sul tema del giorno non è, per usare un eufemismo, il più autorevole. Vorremmo anche far presente a Benedetto XVI che di fronte a dei reati - e che reati! - il processo e la sanzione ecclesiastica non possono sostituire il processo e la sanzione penale. Proteggiamo dunque i bambini, sempre e dovunque, ma la Santa sede ritiri l'istruzione "Crimen Sollicitationis" del 16 marzo 1962, con la quale ha prescritto, adottato e fatto adottare, proposto ed imposto alle autorità ecclesiastiche comportamenti volti a sottrarre ad ogni pubblica conoscenza e alla giustizia gli abusi sessuali compiuti da membri del clero, pena la scomunica. E ritiri l'epistola "De Delictis Gravioribus" della Congregazione per la Dottrina della Fede a firma del Cardinale Ratzinger, del 18 maggio 2001, dalla quale risulta che la "Crimen Sollicitationis" è stata richiamata e ribadita a fronte dell'estendersi ed aggravarsi nei decenni di questa vera e propria piaga del mondo ecclesiastico cattolico e degli scandali conseguenti. Insomma - conclude Turco - chi è senza reato scagli la prima pietra. Gli altri si astengano."
Liberazione Lettere 25.1.07
Tante le cose sotto il cielo
Sembra che dobbiamo riparlare degli anni Settanta... e va bene parliamone... Ho letto queste lettere: di Vasile del 19, di Sansonetti del 20 e di Scuto del 21 gennaio e cerco di farmi una immagine di quegli anni basata solo su quello che leggo in questi articoli, poi cerco di recuperare vecchie immagini, mie, vissute personalmente. Bene, devo dire subito che a me quello che leggo non corrisponde o corrisponde in parte.
In quegli anni non c'era solo Autonomia Operaia e la deriva verso la lotta armata di una parte del movimento, anzi, la parte più consistente del movimento stesso aveva un rapporto molto conflittuale con questi compagni.
Per parte più consistente del movimento intendo tutta la sinistra extraparlamentare, che non fu più extraparlamentare da 1976 con Democrazia Proletaria e che raccoglieva tutta Avanguardia Operaia, quasi tutto il PDUP e almeno metà di Lotta Continua. Poi venne il 77...
Se è vero che il 77 fu l'anno della svolta verso la lotta armata, questo fu vero solo per una piccolissima parte dell'intero movimento, che, oltre a Democrazia Proletaria comprendeva anche tante altre forze non compromesse, non solo con la lotta armata ma neanche con una visione della violenza come metodo di lotta politica. Il 77 fu infatti anche l'anno della svolta "creativa" del movimento, si crearono tante istanze culturali che prima non erano annoverate come istanze politiche. Molte di esse esistono ancora, proprio sabato sera ho assistito ad un ottimo concerto nella sede del Centro di Cultura Popolare del Tufello, Centro nato nel 74, io ero tra i fondatori, che ha continuato ad esistere da allora...
Poi venne il 78 e io ricordo ancora oggi con orgoglio che non eravamo "né con lo stato, né con le brigate rosse" di fronte al sequestro Moro. Poi venne anche il 79 e la sconfitta di Nuova Sinistra Unita, Ricordo qualche pomeriggio trascorso con Franco Russo o Giovanni Russo Spena, con i nostri bambini che giocavano, erano tutti compagni di quegli anni e io non ci vedo niente di quelle atmosfere costantemente uggiose descritte negli articoli citati prima.
Per concludere, anche io penso che sia necessario riparlare del 77 e dintorni, forse oggi è possibile finalmente, ma se lo vogliamo fare dobbiamo prendere in considerazione una situazione molto ricca e complessa che, a quanto pare, è stata completamente oscurata dalle frange più violente.
Buon lavoro
Peppe Cancellieri