sabato 27 gennaio 2007

La Provincia di Cremona e Crema 27.1.07
Caso Welby. Ieri sera dalle 21 oltre due ore di seduta. La prossima settimana il verdetto
La commissione «studia» la decisione per Mario Riccio
di Francesca Morandi


Fumata nera ieri sera nella sede dell’Ordine dei medici in via Palestro. Bisognerà attendere una settimana per conoscere il verdetto dei 14 della commissione disciplinare, presieduta da Andrea Bianchi, nei confronti dell’anestesista cremonese Mario Riccio, vuoi per alcuni il «medico coraggioso» che ha guidato Piergiorgio Welby verso la morte dolce, sedato prima che venisse staccata la spina, vuoi per altri «il medico che ha violato le norme del codice deontologico». «La seduta della commissione è ancora in corso con un dibattito molto approfondito e serio. La riaggiorneremo nel giro di una settimana», ha detto il presidente Bianchi alle 22.45 di ieri ai cronisti. Dunque la commissione disciplinare si è presa tempo. La lunga serata dei 14 membri, 13 uomini e una sola collega, è cominciata alle 21, quando nella sede al numero 66 di via Palestro, uno alla volta sono arrivati i medici che dovranno decidere se archiviare la posizione del collega Riccio o se aprire un procedimento disciplinare. Il presidente Bianchi, che auspica di arrivare a una decisione unanime, prima di cominciare i lavori nella stanza al primo piano, ai cronisti aveva anticipato il programma della seduta, che si è aperta con la presentazione del verbale dell’audizione resa da Riccio esattamente un mese fa, mercoledì 27 dicembre, una settimana dopo la morte di Welby, deceduto la sera del 20 dicembre. «I membri potranno poi chiedere tutti gli approfondimenti e può essere disposto un supplemento di istruttoria», ha aggiunto Bianchi. Quanto alla riunione del consiglio dell’Ordine di giovedì sera, il presidente ha spiegato che si è trattato di «una normale seduta con una lettura approfondita del codice deontologico che è stato aggiornato il 16 dicembre scorso». «Non ho le competenze per entrare nel merito della giurisprudenza. Ritengo che in Italia riuscire ad affrontare il tema del testamento biologico sia opportuno», così, infine, il presidente dell’Ordine ha commentato l’intervento del presidente di sezione più anziano della Cassazione, Gaetano Nicastro, giurista di formazione cattolica, che ieri a Roma, alla solennne cerimona di apertura dell’anno giudiziario, non ha mai pronunciato la parola eutanasia e per «rispetto» ai «drammi umani» non ha fatto riferimento al caso Welby. Ma a quello ha pensato quando ha detto che è «indispensabile un intervento del legislatore che affronti i gravi problemi che sempre più si presentano» in seguito al «progresso della farmacologia e dell’ingegneria medica». Progresso di fronte al quale «rimane ambiguo il concetto stesso di accanimento terapeutico». Riccio si è detto soddisfatto dell’intervento del presidente Nicastro «in una occasione così solenne. Vuol dire che il sacrificio di Welby non è stato vano».

venerdì 26 gennaio 2007

il manifesto 26.1.07
L'irriducibile mistero dell'immaginazione
«Kant e la verità dell'apparenza»: per Ananke una raccolta di scritti di Gianni Carchia, nel sessantenario della nascita
di Bruno Accarino


Il tema dell'immaginazione ha una lunga e frastagliata tradizione filosofica, anche in settori insospettabili (come quelli teologici). Pur in un percorso di lettura ricco di forzature, lo Heidegger di Kant e la metafisica (1929) vide bene infatti che l'immaginazione era un nucleo già appartenente, anzi immanente, alla teoria della conoscenza, e in modo piuttosto tormentato. Gli fece eco, molti anni dopo, la sua allieva Hannah Arendt, secondo la quale senza l'immaginazione non avremmo avuto il Kant politico dell'ultima fase. E all'immaginazione è dedicato il saggio che apre una raccolta di scritti di Gianni Carchia (Kant e la verità dell'apparenza, a cura di Gianluca Garelli, Ananke 2006, pp. 159, euro 13), studioso di estetica prematuramente scomparso e di cui ricorre quest'anno il sessantesimo anniversario della nascita.
Carchia, con cui ebbi occasione di collaborare a proposito di Hans Blumenberg, analista accanito dell'immaginazione, lavorò molto anche su Walter Benjamin, di cui si avverte la presenza in momenti non secondari. Qui in particolare mette conto accennare ai due sondaggi che si occupano della funzione e del destino dell'apparenza e che danno il titolo al volume. L'autore non si tira indietro quando deve riconoscere il debito che tutti abbiamo nei confronti dell'idealismo tedesco, nel quale irrompe - movimentando e dinamizzando ciò che prima era statico e inerte - il tempo storico borghese. Il giudizio, attorno al quale è organizzata quella che appunto è la Critica del giudizio di Kant, acquisisce in Hegel i caratteri del processo e recupera così la sua matrice giuridico-forense, incamerando per strada lo spessore della mediazione storica. Su questa posizione, giova ricordarlo, si allineò anche l'Adorno della Dialettica negativa.
Carchia però mostra che quanto solitamente si dà per acquisito - che cioè Hegel abbia visto meglio e più lontano di Kant - qui non ha riscontri. Il residuo che non può essere sciolto nemmeno dalla processualità storica è infatti proprio quello dell'immaginazione, un che di extra-logico e di naturale che corrisponde più a un sentiment (come si diceva in area inglese e scozzese ) che a una dispiegata razionalità valutativa. Ciò che in Hegel viene prima o poi, dal punto di vista dell'esito finale, sottoposto a una pressione ricompositiva, esercita in Kant un tenace diritto di resistenza, rivendicando il diritto a sopravvivere e a non essere riassorbito. E lo fa proprio appellandosi all'immaginazione come a un che di originario, non destinato a scomparire nel rullo compressore della mediazione. Per Hegel ogni «residua immediatezza, ogni non risolta naturalità» (Carchia) si scioglie nel momento stesso in cui si dispiega lo spirito, per Kant lo iato rimane tale: per lui, infatti, il giudizio recepisce un fondo non estirpabile di (nel senso filosoficamente più ambizioso) irrazionalità.
L'elogio dell'apparenza si rivela essere, su scala più ampia, una presa d'atto della finitudine. È quanto risulta evidente a proposito della figura dell'ammirazione. Kant è noto fin dal liceo come il filosofo della sobrietà contro la Schwärmerei, che è una sorta di ubriacatura da eccessivo entusiasmo. Di essa rimane forse vittima anche Platone che, quando deve spiegare i fenomeni dello stupore e dell'ammirazione, si spinge fino all'idea di una comunione intellettuale con l'origine di tutti gli esseri e sposa una linea, diciamo così, «fusionale». Per Kant, invece, il sentimento dell'ammirazione custodisce un mistero e un che di inesplicabile (è infatti vicino al sentimento del sublime): esso, propone Carchia, non è la celebrazione diretta di un'armonia, ma di un'armonia entro il disaccordo. L'ammirazione nasce da uno scossone, anzi da un urto, come scrive letteralmente Kant, ed è l'effetto di uno stupore che si approfondisce e si intensifica accettando la sfida e non ripiegando su soluzioni più comode. A quel punto però il nucleo di mistero viene preservato e non violato, come si conviene a un protagonista della - oggi accerchiata - laicità moderna.

l'Unità 26.1.07
«Giorgiana Masi uccisa da fuoco amico? Orrendo che qualcuno voglia brindarci su»

Il fotografo Tano D’Amico risponde a Cossiga sui fatti del 1977: «Una parte di questo Paese non vuole la verità»
di Marco Bucciantini


«Mi volle incontrare un poliziotto, qualche anno dopo i fatti. Un ufficiale, venne in divisa al bar. Si fece vicino, s’informò degli sviluppi sulla morte di Giorgiana Masi. Gli dissi che l’inchiesta per omicidio era stata archiviata. Il giudice prendeva atto che il proiettile che aveva ucciso Giorgiana era di un calibro piccolo, non in dotazione alle questure, diverso dalle armi in uso quel giorno. La risposta dell’ufficiale mi gelò: è vero - mi disse - i poliziotti non usano quel calibro nelle operazioni di ordine pubblico. Ma nel poligono di Nettuno, i tiratori scelti si allenano proprio con quel calibro. Dopo la “soffiata”, girò i tacchi e non l’ho più visto né sentito».
Tano D’Amico ha ormai 64 anni ed è ancora “in giro”. Bazzica i posti degli ultimi, fotografa i volti che nessuno vede, cerca l’umanità dov’è più disperata e vera. Ama i giovani. Nel 1977 i giovani erano per strada, come Giorgiana, uccisa il 12 maggio durante i disordini in un sit dei radicali. Sul Corriere della Sera in edicola ieri, in un’intervista ad Aldo Cazzullo, il senatore a vita Francesco Cossiga ha raccontato la sua storia, il ’77 visto dal Viminale, il contenimento dei movimenti, i rimpianti, i vanti. Ha parlato di Giorgiana, senza tatto: «Avevo supplicato Pannella in ginocchio: non fate la manifestazione in Piazza Navona... non siete in grado di proteggervi dagli infiltrati». Chi fu a sparare, chiede Cazzullo. «In cinque sappiamo la verità. Non la dirò in pubblico. Ma il capo della mobile mi confidò di aver messo in frigo lo champagne, da bere quando sarebbe emersa la verità», ricorda il senatore, inducendo a pensare che Giorgiana sia stata uccisa dal “fuoco amico”.
Non dirà la verità in pubblico, e non ha più senso che lo faccia in privato. Perché i genitori di Giorgiana sono sotto terra, morti di crepacuore, consumati da quel giorno infinito, il 12 maggio del 1977. Quando torna sui giornali la storia della Masi, si vede quella foto, il poliziotto in borghese con la rivoltella in mano.
È il suo scatto, la foto di Tano D’Amico
«È morta Giorgiana, sono morti i suoi, sono morti i giovani. Quel pomeriggio l’ordine era di farla finita coi contestatori, con chi metteva in discussione il ruolo di chi comandava».
Qualcuno non contestava e basta: sparava, uccideva.
«Ho letto il rimpianto di Cossiga per aver “perso” - a causa dell’intervento dei blindati - molti ragazzi, passati alla lotta armata. Sembra uno di quei film americani quando fanno vedere le malefatte dei pellerossa cattivi. Certo, esistevano. Ma erano una goccia rispetto alla verità storica, al genocidio dei bianchi contro gli indiani d’America. Cossiga conferma una cosa nota: una parte di questo Paese non è interessato alla verità, subordina il valore della verità ad altre ragioni».
Dove sono finiti i giovani?
«Sono stati assenti dalla vita pubblica per vent’anni. Sono ricomparsi contestando la globalizzazione. A Genova c’erano in piazza le monache e i punk, non solo operai e studenti. Era una cosa enorme. E anche lì c’è scappato il morto... Oggi i giovani emergono sono acquiescenti, a testa bassa, hanno già sposato modi e pensieri dominanti. E spesso sono raccomandati».
Quello scatto le piace?
«Sì, quella foto è riuscita a vivere di vita propria. Al di là della denuncia vive perché è l’immagine dell’agguato. Dello Stato che tende trappole ai cittadini, che governa con l’inganno, con i morti....è lo Stato di quegli anni. Lo stesso Cossiga - sulla vicenda Masi - mentì ai cittadini e al Parlamento».
Sono le foto di quegli anni.
«Il mio lavoro era in quel fermento. Come i ragazzi in strada: una voce diversa, forte, non lineare. Occupavamo un posto vuoto. Fra la fine degli anni sessanta e il 1977 nacquero movimenti, giornali, riviste. Perché quello che esisteva non bastava, e con le foto cercavo di riempire uno spazio».
Cosa accade, quel giorno, a Roma?
«Non si può sapere con esattezza. Ma l’idea che qualcuno conservi lo champagne in ghiaccio per festeggiare, è terribile, agghiacciante. Anche si scoprisse che l’assassino è il più impensabile, che festa è? Così si calpesta la memoria di una ragazza che non può più difendere nessuno. E se c’è qualcuno che vuole brindare a quegli anni, provo pena. Il giorno dei funerali, le compagne di scuola di Giorgiana volevano partecipare, chiesero di lasciare per mezza giornata la scuola, dalle parti di Roma Nord. Furono ricacciate in classe minacciate con colpi di arma da fuoco esplosi per aria».
Che fa lei oggi?
«Il fotografo. Vado nei cantieri dove muoiono i lavoratori. Vado fra gli immigrati, fra i precari. Non ho un contratto di lavoro, non ho mai avuto il posto fisso, campare è complicato, ma i miei sono ancora scatti liberi».

giovedì 25 gennaio 2007

il manifesto 25.1.07
Viaggio oltre lo specchio, le fotografie di Tarkovskij
Le commemorazioni a vent'anni della morte del grande regista Andrej Tarkovskij culminano con una mostra fotografica, viaggio spirituale attraverso le immagini di famiglia e la magia del cinema
di Manuela De Leonardis


Firenze. E' sepolto nel cimitero russo di Sainte-Geneviève-des-Bois, ad una trentina di chilometri da Parigi, perché é nella capitale francese che Andrej Arsenevic Tarkovskij si è spento nel 1986. Ma -ricordiamo- è Firenze, «la città che dà speranza ai visitatori», come ha scritto nei suoi diari, nonché set di uno dei suoi ultimi film (Nostalghia, 1983) che ha accolto il regista quando decise di non tornare in Russia, tre anni prima della morte. La targa commemorativa fuori dall'abitazione - al civico 91 di Via San Niccolò - è stata messa a fine dicembre, tappa ufficiale delle celebrazioni per il ventennale della sua morte. Ma una targa non è che un rettangolo di pietra, piuttosto il ricordo continua a vivere - a pulsare - attraverso la produzione artistica, nonché con quello straordinario strumento che è l'archivio, conservato sempre a Firenze presso l'Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, di cui è presidente il figlio (che come lui si chiama Andrej).
Con i suoi undicimila documenti tra scritti autografi, carteggi, sceneggiature, fotografie e diari (di Tarkovskij sono stati pubblicati Scolpire il tempo, Ubulibri, 2002 e Diari - Martirologio 1970-1986, Edizioni della Meridiana, 2002) questo materiale rappresenta un patrimonio culturale, testimone non solo delle vicende biografiche e della creatività dell'autore di film quali Solaris e Stalker, quanto di un brano di storia che abbraccia buona parte del secolo scorso. La storia della Russia, prima di tutto, dove Tarkovskij era nato nel 1932 in un villaggio sul Volga, Zavrazie. Non è un caso che la mostra fotografica Lo specchio della memoria (dal 19 gennaio al 18 febbraio 2007 all'Archivio Storico del Comune di Firenze), evento centrale delle celebrazioni tarkovskiane sia il racconto di quello che è considerato il film più autobiografico del regista, Lo specchio (Zerkalo, 1974). Un lungometraggio che nel suo fluire apparentemente aritmico è un continuo passaggio dal passato al presente. Una sorta di «recherche» di proustiana memoria resa ancora più intensa dall'alternarsi di bianco/nero e colore. Il tessuto intimistico, umano e personale di Tarkovskij, più volte si va ad intrecciare con la storia collettiva, caricandosi di visionarietà e di riferimenti simbolici. E' il doppio gioco di finzione e realtà: un racconto in cui la fotografia ha un ruolo fondamentale. Il cineasta, infatti, si è avvalso di buona parte di quel cospicuo nucleo - cinquecento tra stampe e negativi su lastra di vetro - degli anni '30 - '40 (oggi conservate a Firenze), scattate soprattutto dall'artista e fotografo Lev Gornung (1902-1993), amico di famiglia. Nel film molte inquadrature, a partire dagli interni e in molte scene in cui compare l'attrice Margarita Terekhova nei panni della madre di Tarkovskij, non sono che la proiezione fedele di quelle immagini. Come a seguire questo flashback anche la mostra propone un percorso inedito di sessanta fotografie - prevalentemente nel formato 30x40 - di cui quaranta prese dall'album di famiglia e venti foto di scena scattate da Alexander Antipenko. Due, in particolare, i volti ricorrenti nelle stampe, quello del padre - il poeta Arsenij - e della madre - Maria Ivanovna Vishniakova - lei stessa interprete nella scena finale. Con i versi del padre, I primi incontri (una delle poesie che in mostra è letta in un soundtrack creato appositamente), invece, inizia il film: «Dei nostri incontri ogni momento noi/ festeggiavamo come epifania,/ soli nell'universo tutto. Tu/ più ardita e lieve di un battito d'ala/ su per la scala, come un capogiro/ volavi sulla soglia, conducendomi/ tra l'umido lillà, dentro il tuo regno/ che sta dall'altra parte dello specchio».

Corriere della Sera 25.1.07
Cossiga: nel '77 sbagliai a rispondere con i blindati
«Da ministro dell'Interno stroncai l'Autonomia, ma così molti finirono nelle Br»
intervista di Aldo Cazzullo


In quattro sapevamo chi ha sparato, ora l'ho detto anche a un deputato di Rifondazione. Fuoco amico? Il capo della mobile mi disse: ho in frigo lo champagne per quando si conoscerà la verità

ROMA — Il senatore a vita Francesco Cossiga, all'epoca ministro dell'Interno, ricorda i fatti del '77: «Ho uno scrupolo. Mandando i blindati in piazza, a Roma a rioccupare l'Università dopo la cacciata di Lama, a Bologna dopo la morte di Lorusso, ho stroncato definitivamente l'autonomia. Ma la chiusura di quello sfogatoio spostò molti verso le Brigate rosse e Prima linea».

ROMA — Presidente Cossiga, nel suo libro sul 1977 Lucia Annunziata la chiama Dottor Stranamore, e la accusa di aver «fatto dello scontro politico una sfida personale con il movimento».
«Sono amico della Annunziata, le presenterò il libro; così come ho amici cari tra gli ex di Lotta continua, tra i ragazzi del '68. Credevano di essere una grande partito operaio, i veri rivoluzionari. Non avevano capito che, se avesse potuto, Togliatti la rivoluzione l'avrebbe fatta eccome, proprio come a Praga, Varsavia, Sofia».
Con i gulag per voi democristiani?
«No. Si sarebbe concesso un partito cattolico: la Dc sarebbe stata come Pax in Polonia o come il partito dei contadini. E Nenni non sarebbe stato impiccato come Slansky ma avrebbe avuto la presidenza di una fondazione».
Cosa risponde a chi le rimprovera di aver soffiato sul fuoco del '77?
«La migliore risposta la potrebbe dare Fausto Bertinotti. Quell'anno lo incontrai a Torino. Parlammo a lungo. Tornato a casa, disse alla moglie: questo è il ministro dell'Interno più democratico che potessimo avere».
Non ha nulla da rimproverarsi?
«Ho uno scrupolo. Io ho stroncato definitivamente l'autonomia: mandando i blindati a travolgere i cancelli dell'università di Roma e rioccuparla dopo la cacciata di Lama; poi inviando a Bologna, dopo la morte di Lorusso, i blindati dei carabinieri con le mitragliatrici, accolti dagli applausi dei comunisti bolognesi. Tollerammo ancora il convegno di settembre; poi demmo l'ultima spazzolata, e l'autonomia finì. Ma la chiusura di quello sfogatoio spostò molti verso le Brigate rosse e Prima Linea».
Sta dicendo che se potesse tornare indietro non manderebbe più i blindati all'università di Roma o a Bologna?
«Mi farei più furbo. Incanalando la violenza verso la piazza, l'avremmo controllata meglio, e alla lunga domata. Riconquistando la piazza, si spinsero le teste calde verso la violenza armata».
Ne parlò mai con suo cugino Berlinguer?
«Berlinguer pose come condizione, per sostenere con l'astensione il primo governo Andreotti, che io rimanessi al Viminale, dove mi aveva messo Moro. Non avevamo bisogno di parlarne. E la disposizione che avevo dato alla polizia era: se sono operai, giratevi dall'altra parte; se sono studenti, picchiate tosto e giusto. Mai più i morti di Reggio Emilia. Dal Pci non vennero mai critiche alla linea dura. Anzi, un grande leader comunista e partigiano…».
Pajetta?
«Questo lo dice lei. Un leader mi disse: ora che avete qualche terrorista in carcere, perché non gli date una strizzatina? Gli attacchi semmai venivano da uomini del mio partito, che mi chiedevano una risposta ancora più ferrea. E da Montanelli, che mi rimproverò di aver voluto la milizia rossa, quando Agnelli e Lama si accordarono per creare squadre di autoprotezione contro i sabotaggi in fabbrica. L'intesa avvenne al Viminale. Il presidente della Confindustria e il capo della Cgil però evitarono di incontrarsi. Restarono in due stanze attigue, e io facevo la spola».
In piazza c'erano gli agenti in borghese con la pistola, vero?
«Vero. Ma contro la mia volontà. Chiesi notizie al questore di Roma, che negò. Ma quando i giornalisti dell'Espresso mi mostrarono foto inequivocabili, andai alla Camera a chiedere scusa, e destituii il questore».
Fu un errore vietare i cortei per un mese e mezzo, dopo la morte dell'agente Passamonti?
«Quella decisione non fu mia, ma del comitato interministeriale per la sicurezza, presieduto da Andreotti. Ricordo che Donat-Cattin spinse molto per il divieto. Le mie perplessità furono zittite da Evangelisti, che mi disse: "Non hai le palle per farlo". Fu facile replicargli: "Come fai a dire questo a uno che non sa se tornerà a casa stasera?"».
Le misero anche una bomba in ufficio.
«Nello studio privato di via San Claudio, a mezzogiorno, un'ora in cui ero sempre là. Quel giorno il consiglio dei ministri si era protratto più del previsto. Sentimmo un botto. Un collega pensò al cannone del Gianicolo; ci avvertirono che era una bomba. Tutti balzarono in piedi tranne me, che dissi ad Andreotti: "Giulio, vedrai che l'hanno messa nel mio studio". Era stato un terrorista rosso travestito da frate. Non l'abbiamo mai beccato. I vetri del palazzo andarono in frantumi: dovetti mandare fiori a tutte le signore, ovviamente pagati con i fondi riservati del ministero».
Il 12 maggio fu uccisa Giorgiana Masi.
«Avevo supplicato in ginocchio Pannella di rinunciare alla manifestazione in piazza Navona. Gli ricordai che io stesso avevo mandato la polizia a impedire un comizio democristiano a Genova. Gli dissi che i radicali non erano in grado di difendere la piazza e chiunque si sarebbe potuto infiltrare. Tutto inutile».
Chi fu a sparare?
«La verità la sapevamo in quattro: il procuratore di Roma, il capo della mobile, un maggiore dei carabinieri e io. Ora siamo in cinque: l'ho detta a un deputato di Rifondazione che continuava a rompermi le scatole. Non la dirò in pubblico per non aggiungere dolore a dolore».
«Questo lo dice lei. Il capo della mobile mi confidò di aver messo in frigo una bottiglia di champagne, da bere quando sarebbe emersa la verità, pensando a tutto quanto ci hanno detto».
Capo dei giovani comunisti era D'Alema.
«La Fgci e Cl furono le uniche a contrastare gli autonomi. Infatti vennero prese di mira. Quando a Milano cadde Custrà e venne scattata la famosa foto dell'autonomo che spara, fu una delle due organizzazioni - non dirò quale - a dirci il nome del pistolero».
Adriano Sofri scrive di aver sostenuto l'amnistia nel '77 in quanto, presagendo il diluvio, bisognava comportarsi come se il diluvio ci fosse già stato.
«Stimo Sofri. Mastella dovrebbe avere un gesto di coraggio e graziarlo: è assurdo che Manconi sia sottosegretario e il suo ex leader rischi di dover tornare in galera. Considero Sofri innocente per la morte di Calabresi; credo sappia chi è stato, ma non lo dirà mai. Quanto all'amnistia, la si fa a guerra finita e vinta, non prima. Il Curcio di allora non era quello di oggi. So per certo che quand'era latitante un dirigente del Pci milanese, non dell'ala secchiana, lo contattò per garantirgli il perdono giudiziario in cambio della rinuncia alla lotta armata, invano. E poi Curcio mi è antipatico anche oggi: presuntuoso, supponente. Quando nel suo libro elenca i caduti e li compatisce, non ha una parola per Guido Rossa, su cui peraltro tacciono anche i Ds: nella cultura comunista non c'è comprensione per chi collabora con il potere; un compagno non va tradito neppure quando sbaglia. Questo spiega anche il silenzio sceso su Ugo Pecchioli».
Com'erano in realtà i suoi rapporti con Pecchioli?
«Fu sempre leale con me, e io con lui. Siamo stati i responsabili della manipolazione del linguaggio: quando ci accorgemmo che i sovversivi facevano presa sugli operai, cominciammo a chiamarli criminali. Questo non mi impedì, in una conversazione con Carlo Casalegno, di dire cosa pensavo davvero di loro».
Come andò?
«Ero a Torino. Casalegno mi chiese un'intervista. Risposi che avevo parlato fin troppo; ma che l'avrei visto volentieri, per dargli elementi per il suo articolo. Venne con Arrigo Levi. E io dissi che le origini ideologiche delle Br andavano ricercate nel marxismo leninismo storico, unito all'utopia cattolica appresa a Trento. Quando uscì il pezzo di Casalegno, venne da me Tonino Tatò, braccio destro di Berlinguer, a protestare. Tenni il punto: non è vero che Lenin escludesse il terrorismo; lo condannava come azione esemplare, ma lo approvava come detonatore della rivoluzione. L'idea delle Br, appunto. Pochi giorni dopo quell'articolo, Casalegno fu assassinato. E' un altro scrupolo che mi porto dentro. Aver raccolto le mie parole gli costò la vita».
Con alcuni brigatisti lei ha poi avuto rapporti amichevoli.
«Sono stato in carcere a trovare Prospero Gallinari su richiesta della famiglia. Mi disse: io non sono un intellettuale come altri compagni che ha conosciuto, ero un operaio che leggeva di notte; resto un militante comunista, e lei per me resterà sempre il ministro dell'Interno. La cosa mi piacque. Mi adoperai per farlo uscire di prigione, dove sarebbe morto, malandato com'era».
Fu Gallinari a sparare a Moro?
«No. Né lui né Moretti. Mi risulta che fu l'ingegner Altobelli, Germano Maccari, l'ultima figura a emergere. Mancano ancora i due in motocicletta che fecero da staffetta in via Fani. Ma i brigatisti non ne diranno mai i nomi. Tutto si può chiedere a un irriducibile, non quello. Uno di loro mi scrisse, quando Alberto Franceschini prese la tessera Ds, per chiedermi la tessera dell'Udr: "In fondo lei ha portato il primo comunista al governo, D'Alema". La motivazione mi parve ineccepibile. Fui tentato di tesserarlo davvero. Mastella non avrebbe avuto obiezioni: per una tessera in più…».

salon-voltaire.blogspot.com 24.1.07
Termini: il nome resta. Le Ferrovie non prendono sul serio Veltroni

I viaggiatori che da Natale ad oggi hanno preso un biglietto con destinazione o partenza dalla Stazione Termini di Roma hanno tirato un sospiro di sollievo. Sul documento di viaggio non hanno trovato scritto "Stazione Giovanni Paolo II", come il sindaco Veltroni avrebbe voluto, ma ancora l'antico nome di Termini, tradizionale nella zona fin dal Medioevo. Lo stesso sull'Orario Ufficiale.
I due cippi col nome del defunto papa, installati da Veltroni il 23 dicembre in fretta e furia, approfittando d'uno sciopero dei giornali, valgono solo una "dedica", hanno precisato impietosi alla direzione di Trenitalia.
"Laicisti"? Non lo crediamo. Certo più preoccupati dei costi altissimi che una reale ridenominazione avrebbe comportato in Italia e perfino in Europa, per la ristampa o riprogrammazione di orari, coincidenze, tabelloni, poster, display e computer di agenzie turistiche.
Uno schiaffo di buonsenso delle Ferrovie al delirio di onnipotenza del politico di professione, che ignorando le conseguenze economiche e culturali del suo gesto - già questo dice la profondità dell'uomo - pensava contro ogni regola di rispetto delle memorie e dei luoghi, che il Potere della politica, la ricerca sfrenata, patologica, del consenso demagogico (in questo caso un piacere alla Chiesa, in cambio di chissà quali favori politici ricevuti; ma anche i voti di una presunta opinione pubblica beghina, sottoculturale e clericale), potessero surrogare qualunque deficit, qualsiasi handicap culturale.
Se almeno si fosse informato, prima di fare le sue scelte, se le avesse sostenute con qualche base culturale, Veltroni non avrebbe rischiato di fare la figura del decisionista ignorante.
Gli era riuscito di stravolgere la Galleria Colonna intitolandola al comico del cinema Alberto Sordi, che non c'entrava niente col luogo e che è stato poco più d'un caratterista di genio; ce l'aveva fatta col glorioso Teatro Quirino trasformato in Teatro Gassman ("Chi era?" si chiederanno i posteri tra 50 anni); ed era infine arrivato a coprirsi di ridicolo con una brutta e funerea ("jettatoria", hanno detto i napoletani) statua del partenopeo Totò in pieno centro di Roma, a piazza Cola di Rienzo, ovviamente ignorata da tutti. Ma non gli è riuscita con le Ferrovie. Siamo contenti, come "Salon Voltaire", che la Stazione Termini abbia resistito all'attacco d'un papa e d'un sindaco uniti, anche se resta l'assurdità culturale dei due cippi dedicatori, oltretutto ad un pontefice appena defunto. Come se una stazione ferroviaria potesse anticipare quel giudizio di santità che neanche la Chiesa ha ancora potuto dare. Per di più, assurdo nell'assurdo, un papa che non ha mai preso il treno, ma solo e sempre l'aereo.
Dividiamo, perciò, il sospiro di sollievo con gli amici laici, razionalisti e liberali che a Roma si sono battuti con coraggio e determinazione (dall'Uaar di Villella e Sgroia, a Vallocchia di No God, a Critica liberale, alla Giordano Bruno).
E registriamo con divertito compiacimento la controproposta dei radicali Sergio Rovasio e Luigi Castaldi, membri della Direzione della Rosa nel Pugno e di Anticlericale.net, che non si "pentono" del loro sano laicismo nel timore di offendere i "radicali cattolici", come ha fatto in un penoso autodafé Bruno Mellano dopo l'aggiunta delle statuine di coppie gay al presepio della Camera.
La vicenda della Stazione Termini 'dedicata' e non 'intitolata' a Giovanni Paolo II, ha mandato su tutte le furie il quotidiano vaticano "L'Osservatore Romano", che se la prende con i "soliti ossessionati laicisti" e con i radicali.
Ma Rovasio e Castaldi hanno controbattuto ricordando l'assurdità di uno "Stato teocratico" che "non può tollerare un ordinamento democratico all'interno dei suoi confini, e vorrebbe la teocrazia applicata anche all'interno dello Stato italiano".
E dov'è il divertimento che dicevamo? Nella provocatoria proposta finale di Rovasio e Castaldi. Per par condicio, dicono, "ora inizierà la battaglia per cambiare il nome alla Stazione San Pietro" [che, malgrado il nome, è in territorio italiano, NdR]. "La nostra proposta - aggiungono - è che diventi Stazione Ernesto Nathan". Non male. Bel colpo, ragazzi. Solo che è poco: una stazione così piccola e insignificante per il più grande sindaco che Roma abbia mai avuto?

<nogod.it 25.1.07
Preti e pedofilia
Dopo l'esternazione odierna di Ratzinger vi trascriviamo il Comunicato Stampa di Maurizio Turco, deputato della Rosa nel Pugno :
"Con sommo stupore apprendo che il capo della Santa Sede, della Chiesa cattolica, dello Stato Città del Vaticano ha oggi chiesto ai media di proteggere i bambini da violenze e volgarità. Verrebbe da dire che il pulpito da cui proviene la predica sul tema del giorno non è, per usare un eufemismo, il più autorevole. Vorremmo anche far presente a Benedetto XVI che di fronte a dei reati - e che reati! - il processo e la sanzione ecclesiastica non possono sostituire il processo e la sanzione penale. Proteggiamo dunque i bambini, sempre e dovunque, ma la Santa sede ritiri l'istruzione "Crimen Sollicitationis" del 16 marzo 1962, con la quale ha prescritto, adottato e fatto adottare, proposto ed imposto alle autorità ecclesiastiche comportamenti volti a sottrarre ad ogni pubblica conoscenza e alla giustizia gli abusi sessuali compiuti da membri del clero, pena la scomunica. E ritiri l'epistola "De Delictis Gravioribus" della Congregazione per la Dottrina della Fede a firma del Cardinale Ratzinger, del 18 maggio 2001, dalla quale risulta che la "Crimen Sollicitationis" è stata richiamata e ribadita a fronte dell'estendersi ed aggravarsi nei decenni di questa vera e propria piaga del mondo ecclesiastico cattolico e degli scandali conseguenti. Insomma - conclude Turco - chi è senza reato scagli la prima pietra. Gli altri si astengano."

Liberazione Lettere 25.1.07
Tante le cose sotto il cielo
Sembra che dobbiamo riparlare degli anni Settanta... e va bene parliamone... Ho letto queste lettere: di Vasile del 19, di Sansonetti del 20 e di Scuto del 21 gennaio e cerco di farmi una immagine di quegli anni basata solo su quello che leggo in questi articoli, poi cerco di recuperare vecchie immagini, mie, vissute personalmente. Bene, devo dire subito che a me quello che leggo non corrisponde o corrisponde in parte.
In quegli anni non c'era solo Autonomia Operaia e la deriva verso la lotta armata di una parte del movimento, anzi, la parte più consistente del movimento stesso aveva un rapporto molto conflittuale con questi compagni.
Per parte più consistente del movimento intendo tutta la sinistra extraparlamentare, che non fu più extraparlamentare da 1976 con Democrazia Proletaria e che raccoglieva tutta Avanguardia Operaia, quasi tutto il PDUP e almeno metà di Lotta Continua. Poi venne il 77...
Se è vero che il 77 fu l'anno della svolta verso la lotta armata, questo fu vero solo per una piccolissima parte dell'intero movimento, che, oltre a Democrazia Proletaria comprendeva anche tante altre forze non compromesse, non solo con la lotta armata ma neanche con una visione della violenza come metodo di lotta politica. Il 77 fu infatti anche l'anno della svolta "creativa" del movimento, si crearono tante istanze culturali che prima non erano annoverate come istanze politiche. Molte di esse esistono ancora, proprio sabato sera ho assistito ad un ottimo concerto nella sede del Centro di Cultura Popolare del Tufello, Centro nato nel 74, io ero tra i fondatori, che ha continuato ad esistere da allora...
Poi venne il 78 e io ricordo ancora oggi con orgoglio che non eravamo "né con lo stato, né con le brigate rosse" di fronte al sequestro Moro. Poi venne anche il 79 e la sconfitta di Nuova Sinistra Unita, Ricordo qualche pomeriggio trascorso con Franco Russo o Giovanni Russo Spena, con i nostri bambini che giocavano, erano tutti compagni di quegli anni e io non ci vedo niente di quelle atmosfere costantemente uggiose descritte negli articoli citati prima.
Per concludere, anche io penso che sia necessario riparlare del 77 e dintorni, forse oggi è possibile finalmente, ma se lo vogliamo fare dobbiamo prendere in considerazione una situazione molto ricca e complessa che, a quanto pare, è stata completamente oscurata dalle frange più violente.
Buon lavoro
Peppe Cancellieri

mercoledì 24 gennaio 2007

Liberazione 24.1.07
Caso Welby
Chi è un medico?


Caro Piero,
più della diatriba interna al Vaticano sul caso Welby (…), mi sembra importante l'approssimarsi del 26 gennaio, data in cui l'Ordine dei medici di Cremona deciderà sulle sorti di Mario Riccio, il medico di Piergiorgio Welby.
Già (…), perché di questo si tratta: rapporto medico-paziente. Non ci dovrebbe essere nessun altro tra i due soggetti: non i parenti e gli amici del paziente, né lo Stato né tanto meno la Chiesa. Invece l'Ordine dovrà decretare se Riccio è ancora libero di esercitare la sua professione (…).
Ma più medico di uno che si rapporta soltanto al suo paziente, chiudendo il mondo fuori dalla porta del suo studio? Si pensa a che cosa succederebbe se un ortopedico prima della riduzione di una frattura dovesse contattare l'Ordine? Se uno psichiatra, di fronte a una crisi psicotica, telefonasse ai colleghi per un consulto? Che faremo tra qualche anno? Telecamere in tutte le sale operatorie affinché il Ministero della Sanità valuti se il taglio per operare un'appendicite è della giusta lunghezza o se la dose di anestetico è sufficiente?
Speriamo che l'Ordine ci dica chi è un medico, una volta per tutte.

Paolo Izzo via e-mail


il Riformista 24.1.07
L’eutanasia dei malati di mente
di Livia Profeti


L’Olocausto non è stato il primo esperimento nazista di sterminio “seriale”: tra il 1940 e il 1941 vennero uccisi, in appositi istituti provvisti di camere a gas, circa 70.000 adulti ed un numero indefinito di bambini deformi o ritenuti idioti. Uno sterminio che viene spesso considerato il precedente storico e preparatorio alla “soluzione finale” della questione ebraica.
Nel suo Il nazismo e l'eutanasia dei malati di mente Alice Ricciardi von Platen, racconta che le persone venivano prelevate da ospizi e ospedali, prendendo i nominativi da elenchi compilati sommariamente da medici secondo questionari che li invitavano ad identificare pazienti sofferenti delle patologie più varie: senilità, schizofrenia, forme di labilità mentale, epilessia, malattie neurologiche. Inoltre negli elenchi dovevano essere indicati i pazienti ospedalizzati da più di cinque anni, coloro che non erano di sangue tedesco o affine e comunque tutti gli stranieri.
Apparentemente le giustificazioni ideologiche del micidiale programma furono analoghe a quelle poi utilizzate per la soluzione finale, e quindi sostanzialmente incentrate sul leit motif dell’integrità biologica e morale del popolo tedesco “minacciata” da questi «veri e propri parassiti, scorie dell’umanità». In questo caso però furono due elementi diversi a giocare un ruolo fondamentale: la repulsione per esseri umani non ritenuti semplicemente malati da curare ma visti come “diversi” immodificabili, ed il mero calcolo economico sul loro costo per lo Stato, divenuto particolarmente insostenibile in periodo bellico. Il provvedimento porta infatti la stessa data del primo giorno di guerra e la Ricciardi von Platen riporta la testimonianza di un gerarca che avrebbe ascoltato lo stesso Hitler parlarne in termini di una soluzione idonea a risparmiare sulle spesa ospedaliere.

Liberazione.it 23.1.07
Ansia, panico? Occupiamo la scuola
La paura del futuro
di Franco Berardi Bifo


Gli studenti e le studentesse del liceo bolognese Minghetti hanno occupato per qualche giorno la loro scuola, la settimana scorsa. Non è una gran notizia, perché di occupazioni ce n’è tante: cominciano, finiscono, talvolta cambia qualcosa talvolta non cambia niente. Ma quel che mi ha colpito non è l’occupazione, bensì le motivazioni che sono venute fuori. Alcune delle motivazioni non sono nuove, anche se fin troppo giuste, come la protesta contro il travaso di finanziamenti verso la scuola privata e la diminuzione di finanziamenti per la scuola pubblica. Ma emerge tra le motivazioni una problematica che a mio parere è destinata a diventare quella più importante nel tempo che viene: l’ansia, il panico, il disagio mentale.
In una indagine che è stata svolta prima e durante l’occupazione stessa una larghissima maggioranza di studentesse (molto meno ragazzi) hanno denunciato l’ansia e lo stress, e il panico. La causa più immediata che hanno indicato le ragazze intervistate è il carico di lavoro scolastico, il sentimento di essere sovrastate dai ritmi che la scuola impone loro.
Il nucleo profondo della questione che le ragazze del Minghetti hanno posto riguarda però tutti noi.
Sta diventando adulta una generazione che fin dalla prima infanzia è stata sottoposta a un flusso ininterrotto di stimoli informativi, molti dei quali hanno un carattere di sollecitazione competitiva. Un vero e proprio assedio dell’attenzione da parte del sistema mediatico. La pubblicità lavora sulla percezione di sé, sull’identità in competizione. La televisione e i media virtuali mobilitano costantemente il sistema nervoso sottraendo spazio per la socializzazione, per lo scambio affettivo, per la corporeità. Linguaggio e affettività sono scissi in maniera patogena.
Fino a un paio di decenni fa la sindrome del panico era praticamente sconosciuta. La parola panico aveva un significato indefinito, romantico, aveva a che fare con il sentimento di essere sopraffatti dall’immensità della natura. Ma negli ultimi anni il termine è entrato a far parte del lessico psicopatologico, perché un numero crescente di giovanissimi e di lavoratori (soprattutto quelli che lavorano nei settori in cui si impiega tecnologia informatica) denunciano alcuni fra i sintomi che possono definire una crisi di panico: palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia. Sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, sensazione di soffocamento e di asfissia, dolore al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggere o di svenimento, derealizzazione, paura di perdere il controllo o di impazzire, sensazioni di torpore o di formicolio.
Gli psichiatri non sono in grado di indicare le cause di questo fenomeno, probabilmente perché sfugge al loro campo. Il panico si può definire come una reazione dell’organismo posto in condizioni di sovraccarico informativo. L’organismo riceve troppe informazioni per poterle elaborare affettivamente, e per poter costruire strategie di comportamento razionale.
Per completare il quadro patologico occorre ricordare che un numero crescente di bambini e di ragazzi nella prima adolescenza soffrono di quella sindrome che gli psichiatri americani hanno definito Attention deficit disorder: una incapacità di concentrare l’attenzione su un oggetto mentale per un tempo superiore ai pochi secondi. Non è forse del tutto comprensibile, se teniamo conto del fatto che l’ambiente cognitivo nel quale queste persone sono cresciute è un flusso psicostimolante che sposta continuamente l’oggetto dell’attenzione, come accade nelle pratiche del multitask o dello zapping? Non è forse del tutto comprensibile, visto che l’ambiente di formazione videoelettronico tende a scindere l’esperienza cognitiva e linguistica dal contatto corporeo e dalla socialità affettuosa?
Due psicoanalisti parigini (Michel Bensayag e Gerard Schmit) hanno pubblicato un libro dal titolo L’epoca delle passioni tristi in cui, partendo dalla loro pratica analitica, giungono alla conclusione che la percezione stessa del futuro è divenuta fonte di panico e di depressione. Scrivono i due studiosi: ”La tradizione della psichiatria fenomenologica descrive la depressione come un’esperienza di vita in cui uno sente di non avere più tempo, di avere il tempo contato e di non avere più spazio fino al punto che sentendosi braccato incorre in un autentico stallo esistenziale. Il tempo scorre a gran velocità e non c’è posto in cui scappare: la persona depressa ritrova dappertutto il già noto. Non esiste luogo o rifugio che le consenta di sfuggire alla trappola della depressione”.
Ora, questa descrizione della depressione si attaglia perfettamente alla vita quotidiana di decine di milioni i persone che non si considerano affatto depresse.
Mi pare che proprio questo sia il problema posto dalle studentesse del liceo Minghetti.

l'Unità 24.1.07
I Pacs? Fanno bene alla salute (mentale)
di Vittorio Lingiardi
(Vittorio Lingiardi a partire da quest'anno è il nuovo Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell'Università "la Sapienza" di Roma presso la Facoltà di Psicologia)


Tra le ragioni da elencare a favore della legalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso la più importante è che il mancato riconoscimento sociale di un legame affettivo danneggia la salute mentale e compromette lo sviluppo psicologico. Tale riconoscimento, con tutti i benefici, i diritti e i doveri che ne seguono, va dunque considerato un atto dovuto in nome della salute. I Pacs non sono dunque solo un caso politico-giuridico (la cui assenza pone il nostro paese ai margini dell'Europa), ma anche un intervento a tutela della salute psicologica dei cittadini omosessuali che, come tutti gli altri, devono poter beneficiare dei vantaggi sociali, psicologici e simbolici derivati dal riconoscimento collettivo delle loro relazioni.
Trent'anni fa la comunità scientifica internazionale (soprattutto nella sua componente anglo-americana) «depatologizzava» l'orientamento omosessuale, eliminandolo dagli elenchi dei disturbi mentali. Sembra incredibile che sia successo «solo» trent'anni fa, ma, volendo fare un paragone istruttivo, ricordiamo che, più o meno negli stessi anni, la Svizzera concedeva diritto di voto alle donne, che in Italia avevano votato per la prima volta nel 1946. Una volta maturati i «tempi sociali», nel 2000 l'American Psychiatric Association formula un public statement a favore delle unioni civili. Una scelta coerente: sarebbe alquanto illogico, oltre che crudele, considerare psicologicamente sana una persona, ma poi non riconoscere la legittimità sociale delle sue relazioni affettive e il suo diritto a formare una famiglia. È più o meno quello che succede nel nostro paese, dove, a quanto pare, la scienza e la legge faticano a parlarsi.
Così nascono i cittadini di serie B. E un popolare conduttore televisivo, durante un dibattito sui Pacs, può dire: «una cosa è il rispetto della diversità e una cosa sono le leggi». Infatti due uomini o due donne che si amano e vivono insieme magari da vent'anni non possono avere un riconoscimento giuridico della loro unione, la reversibilità della pensione (possibile invece per i parlamentari anche quando non sussiste legame matrimoniale), agevolazioni fiscali sulla successione ecc. Eppure di fronte allo stato hanno gli stessi doveri degli altri cittadini, pagano le tasse e possono accedere a ogni tipo di carriera pubblica e professionale.
«Minority stress» è il nome che la psichiatria americana dà al disagio psichico che deriva dalla discriminazione e dalla stigmatizzazione sociale di una minoranza. Nello sviluppo psicologico, il riconoscimento sociale ha grande importanza perchè permette a una rappresentazione di consolidarsi nella mente come legittima e convalidata. Questa stabilizzazione ha a sua volta importanza perché, nel suo costituirsi come «possibile» e «legittima», perde il suo contenuto «minaccioso» e quindi disincentiva le azioni violente e persecutorie nei suoi confronti (bullismo, omofobia sociale). Inoltre riduce gli effetti dell'assimilazione della negatività sociale, cioè l'omofobia interiorizzata: un fenomeno alla base della difficoltà ad accettarsi, fino all'autodisprezzo, e di comportamenti inconsciamente autodistruttivi caratteristici di molte persone omosessuali.
Si tratta di argomenti molto semplici, alla base di qualunque percorso di integrazione delle differenze individuali, culturali, sociali. Ma proprio qui sorge il problema del pregiudizio: se in passato le persone omosessuali creavano «scandalo» per via della loro devianza, oggi ciò che indigna (o, più probabilmente, spaventa) è invece la richiesta di normalità. Gay e lesbiche che chiedono di potersi sposare, formare famiglie, avere i diritti e i doveri di tutti.
Credo di aver detto una parola tabù: famiglia. La si vorrebbe immodificabile, incorruttibile, unica. Si tratta invece di un contesto affettivo che assume configurazioni diverse a seconda dell'epoca e della cultura. Originariamente "insieme dei famuli", cioè di coloro che hanno un rapporto di dipendenza dal paterfamilias, la famiglia così è descritta dalla nostra costituzione (art. 29): «La repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare». Matrimonio, ecco l'altra parola da maneggiare con cura (la terza sarà adozione). Esistono due tipi di matrimonio: religioso e civile; quest'ultimo può essere a sua volta distinto, spesso con piccole differenze, in unione civile, pacte civil de solidarité (alla francese, Pacs), civil partnership, ecc.
È stato toccante leggere che, in Inghilterra, il numero di persone gay e lesbiche che, nei primi 10 mesi dall'entrata in vigore della legge (dicembre 2005), ha richiesto la registrazione di partnership si è rivelato di gran lunga superiore alle previsioni: pari a quello previsto per il 2030! Ancora una volta, si misura la distanza tra società e politica. E non quella tra «un capriccio», come lo ha definito il cardinale Trujillo, e una legge.
Infine, una segnalazione accademica per Piero Fassino e per sviluppare un dibattito più empirico e meno emotivo su un tema difficile: sono appena stati pubblicati su Pediatrics (vol.118, n.1, 2006) rivista ufficiale dell'American Academy of Pediatrics, i risultati di una ricerca: «Effetti delle leggi su matrimonio, unioni civili e domestic partnership sulla salute e il benessere dei bambini». Vale la pena di darci una lettura, soprattutto alle conclusioni, dove si legge che «non si evidenzia una relazione tra l'orientamento sessuale dei genitori e le dimensioni emotive, psicosociali e comportamentali indagate nel campione di bambini... Adulti coscienzionsi e capaci di fornire cure, siano essi uomini o donne, etero o omosessuali, possono essere ottimi genitori». A conclusioni analoghe sono giunte tutte le principali associazioni americane nel campo della salute mentale, compresa l'American Psychoanalytic Association («è nell'interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti e capaci di cure. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all'orientamento sessuale»).
Ogni definizione di sé e della propria identità comporta una rinuncia, prima di tutto psicologica. Ma questa rinuncia non può essere basata sulla negazione del diritto all'uguaglianza.

Corriere Salute 24.1.07
La depressione si sta diffondendo tra gli adolescenti
Il 6% dei ragazzi prende antidepressivi
La terapia è necessaria perchè può salvare dal rischio di suicidio. Ma talvolta i farmaci usati non hanno indicazione pediatrica


In Italia il 6% circa dei bambini e degli adolescenti assume antidepressivi. A prendere questi farmaci sono il 3,25% delle femmine da 0 a 17 anni, contro il 2,4% dei maschi. Se ci si focalizza sui teenager, dai 14 ai 17 anni, il ricorso ad antidepressivi riguarda il 6% dei ragazzi e più del 10% delle ragazze. Lo rivela uno studio condotto da Maurizio Bonati, responsabile del laboratorio di salute materno-infantile dell'Istituto Mario Negri di Milano, illustrati oggi all'Istituto superiore di sanitá di Roma nel corso del convegno «Bambini e psicofarmaci: tra incertezza scientifica e diritto alla salute». «La depressione - sottolineano gli esperti - si sta diffondendo nel mondo anche tra gli adolescenti, al punto che il suicidio rappresenta la terza causa di morte in questa fascia d'età».
PRESCRIZIONI SBAGLIATE - Ma se è giusto e doveroso ricorrere agli antidepressivi quando siano indicati, ancora più giusto, secondo Bonati, sarebbe prescrivere quelli giusti. I dati presentati dal ricercatore milanese indicano infatti che circa 20 mila adolescenti ogni anno ricevono almeno una prescrizione di antidepressivi off-label, cioè al di fuori dell'indicazione per cui sono stati autorizzati in commercio. «I medici possono prescrivere diversi antidepressivi nel nostro Paese, ma solo uno di questi è indicato per l'utilizzo nei ragazzi e nei bambini. Invece in quasi due terzi dei casi vengono prescritti farmaci che non dovrebbero essere prescritti nei regazzi o che, addirittura, hanno controindicazioni all'uso pediatrico».
Quali rischi corrono i giovani o giovanissimi che li prendono? «Innazitutto di incorrere negli effetti collaterali di questi preparati» ci risponde Maurizio Bonati, «talvolta anche seri». «Ma soprattutto» prosegue l'esperto, «il rischio è che invece di diminuire il rischio suicidario, che è il principale obbietivo della terapia, lo si aumenti».
RISCHIO SUICIDIO - E il rischio sucidiario è in effetti una delel conseguenze più temure delle depressioni non adeguatamente curate nei giovani. Soffrire di depressione in etá evolutiva - spiegano gli esperti - espone a un alto rischio di suicidio. In particolare, negli Usa i casi di suicidio tra gli adolescenti si sono triplicati negli ultimi 40 anni, rappresentando la terza causa di morte. Secondo «A public health approach to innovation», uno studio recentemente condotto dall'Oms (Organizzazione mondiale della sanità), 3 bambini su 1.000 soffrono di un disturbo depressivo in etá prescolare, il 2% in etá scolare e il 4-8% durante l'adolescenza. Inoltre, dal 30% al 50% degli adolescenti depressi soffre anche di disturbi distimici o ansiosi e tra il 20% e il 30% fa uso di sostanze stupefacenti.
IN FEBBRAIO DECISIONE SUL RITALIN - Altra patologia per la quale vengono impiegati psicofarmaci nei ragazzi è l'ADHD (malattia del distrubo dell'attenzione o dell'iperattività). Entro febbraio arriverà la decisione regolatoria per il Ritalin (metilfenidato), relativa alla sua immissione in commercio e ai criteri di rimborsabilità. Attualmente si stima che circa 5 mila bimbi con Adhd in Italia siano trattati con il Ritalin, nonostante nel nostro Paese non sia ancora stato approvato. Il farmaco è molto prescritto negli Usa. Oltre al Ritalin, verrá monitorato anche l'uso di un altro farmaco registrato in Europa con procedura di mutuo riconoscimento.
La prescrivibilità di questi farmaci sarà comunque regolata da Registro nazionale dei trattamenti (farmacologici e non farmacologici) creato ad hoc per «garantire accuratezza diagnostica e appropriatezza terapeutica.
l.r.


Agenzia Radicale 24.1.06
Heidegger nazista? 11 studiosi smontano l'accusa
Esce in Francia il libro che Gallimard aveva rifiutato di pubblicare; il gruppo diretto da Fedier replica alle clamorose tesi di Faye
di Gerardo Picardo


Cade un’altra idiozia che per anni ha ostacolato l’approccio e la lettura di uno dei più grandi speculativi del Novecento. Un gruppo di undici studiosi universitari francesi, svizzeri e italiani, sotto la direzione di Francois Fedier, ha infatti smontato l'accusa di filonazismo rivolta al filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976).
Il libro Heidegger a' plus forte raison, opera collettiva curata da Fedier, che l'editore francese Gallimard ha rinunciato a pubblicare l'anno scorso, sarà edita nel prossimo fine settimana dall'editore Fayard. Si tratta di una “vittoria” per Fedier, la cui integrità morale era stata messa in causa da Emmanuel Faye, il cui libro Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosofia, stampato dall'editore parigino Albin Michel nel 2005, sosteneva che il grande pensatore tedesco era stato un ideologo del nazionalsocialismo travestito da filosofo. Faye ha poi accusato studiosi come Fedier, che hanno consacrato la loro vita a tradurre e commentare l'opera di Heidegger, di essere nientemeno che dei 'negazionisti'.
Il clamore dell'accusa ha provocato un caso internazionale intorno al libro di Faye, al punto che oltre 3.000 universitari di tutto il mondo, in tredici lingue, hanno ridicolizzato l'accusa come “delirante”.
Il sostegno che in certi ambienti è stato dato al clamore delle tesi di Faye - ad esempio quello dei famosi storici francesi Pierre Vidal-Naquet e Jean-Pierre Vernant, recentemente scomparsi - hanno provocato la controffensiva degli specialisti di Heidegger, capitanati da Fedier.
Il libro Heidegger a' plus forte raison era stato annunciato da Gallimard per la primavera 2006 ma poi l'editore ha rinunciato a stamparlo perché Faye aveva fatto circolare l'insinuazione che si trattasse di un'opera 'negazionista'. Claude Durand, direttore di Fayard, ha ripreso il libro in mano ed ha deciso di pubblicarlo. Nelle 536 pagine del libro coordinato da Fedier si replica alle tesi di Faye definite “approssimative” e piene di “controsensi ed errori”. Sarà la fine della ‘saga’ sul pensatore di Sein und Zeit? Ce lo auguriamo di cuore. Tornando ad appassionarci alla pagina di Heidegger oltre tutti i lacci pseudonazisti cuciti attorno al suo Denken potente che ci invita agli Holzwege del nostro tempo.

martedì 23 gennaio 2007

Liberazione 21.1.07
Intervista a Oreste Scalzone, prescritto e pronto a rientrare in Italia

Con altri 15 compagni daremo ancora fastidio
di Daniele Zaccaria


Oreste Scalzone è un fiume in piena, dalla sua abitazione parigina riceve fax, spedisce email chilometriche, rilascia dichiarazioni a televisioni spagnole e radio francesi, ma soprattutto risponde alle decine di chiamate che da tre giorni sommergono la sua segreteria telefonica per chiedergli un commento, una battuta, un’impressione sulla sua nuova condizione di uomo libero. La Corte di Milano ha estinto i reati che lo hanno tenuto 26 anni fuori dall’Italia e lui stesso ha fatto sapere che tornerà nel nostro Paese da «pendolare» per disputare «vecchie battaglie in nuove condizioni». Che sarà «guitto» e «teatrante», che gli basterà un quotidiano arrotolato per far sentire la sua voce. Nulla di particolarmente provocatorio o minaccioso, «nessun regolamento di conti», come ha ribadito lui stesso ai giornalisti, evocando la lotta per l’amnistia che conduce da almeno due decenni. Eppure queste dichiarazioni volanti, persino scontate per chi conosce la passione e il gusto per la politica che non hanno mai abbandonato l’ex leader di Potere operaio, hanno suscitato uno sgradevole vespaio di polemiche. Ministri della Repubblica, deputati dell’opposizione, politologi e vecchi agit-prop degli anni’70 in cerca di espiazioni tardive hanno implicitamente decretato che Scalzone potrà varcare le Alpi ma “a bassa intensità”, che è un cittadino libero a tutti gli effetti, ma sarebbe meglio se non si occupasse di politica, insomma che non rompesse le scatole.
Ora che potrai venire in Italia c’è chi ti consiglia di fare il pensionato, di annaffiare le rose e raccontare le favole ai nipotini e c’è chi ti accusa addirittura di avere un comportamento «velenoso».E davvero così strano che uno come te abbia ancora voglia di dire la sua?
Ci sono state diverse reazioni, più o meno scomposte, più o meno livorose e io ci tengo a distinguere tra quelle provenienti dalla classe politica e quelle dei cosiddetti intellettuali. Ma per inquadrare il problema vorrei partire dall’attualità.
Prego…
Qualche mese fa c’è stato un indulto, un provvedimento necessario da tempo come fatto minimo di razionalizzazione del sistema carcerario, per l’affollamento estremo, per le condizioni di vita spesso insopportabili all‘interno delle prigioni, ovvero qualcosa di disfunzionale allo stesso indotto dell’”impresapenale”. L’indulto era stato implorato anche da Papa Giovanni Paolo II che, durante il Giubileo, se ricordate, andò a Rebibbia a lavare i piedi dei detenuti e in seguito fece uno storico discorso a Camere riunite ricevendo molti applausi ma nessuna risposta. Insomma, la situazione era matura da tempo.
Tuttavia, di fronte a questa misura minima, si è scatenato un coro forcaiolo trasversale: penso alla Lega, a gran parte di An, ma anche a diversi settori della sinistra di vecchia tradizione giustizialista e vicini alla magistratura.
Perché tanta esasperazione, tanto zelo punitivo?
Credo che dipenda dalla logica dell’emergenza. Stiamo parlando di un modesto sconto di pena a circa 20mila persone, né di una grazia né di un premio. E’ l’emergenza che ha banalizzato il carcere, che ha diffuso la cultura dellapunizione. Le reazioni scomposte di fronte all’indulto mi sembrano anti-giuridiche: ormai è considerato normale sottomettere alcune tipologie di reato a regimi di reclusione speciale, come adesempio il 41 bis. Il carcere non basta, deve diventare un inferno di gironi tipologici, una punizione senza fine.
Non dimentichiamoci che l’ultimo indulto fu approvato nel 1990 e peraltro non c’erano escludenti come oggi, ma nessuno ebbe nulla da ridire anche di fronte a reati particolarmente odiosi come la strage, i crimini contro l’umanità, la tratta di esseri umani. Oggi le reazioni sono molto più virulente e nel senso comune l‘indulto è associato a una porcheria, a una specie di crimine camuffato.
Dispiace e lascia sconcertati quando questa tendenza è visibile nel “popolo della sinistra”. Quando il Csm ha recentemente evocato l’ipotesi di un’amnistia come soluzione razionale a molti problemi tecnico-carcerari c’è stata un’altra spiacevole levata di scudi, come se l’amnistia non facesse parte del nostro ordinamento. Tutto ciò è pazzesco. Questo imbarabarimento ha fatto perdere anche il senso della misura, persino della razionalità statistica: se una persona esce di carcere e la sera stessa uccide l’amante della moglie o la suocera non è un effetto dell’indulto, ma un fatto statistico. Le conseguenze di un simile clima producono effetti tragicomici come nel caso del ministro della Giustizia.
Puoi spiegarti meglio?
Ad essere sincero, l’onorevole Mastella non mi suscita animosità personale, purtroppo però a volte straparla e dà l’impressione di essere in uno stato confusionale grave. Quando ha saputo che la Corte di Milano aveva estinto i miei reati ha detto: ”Signori, mi dispiace, non posso farci nulla, il problema sono le prescrizioni”. Vorrei ricordare al ministro che nella Costituzione ci sono gli istituti dell’amnistia, dell’indulto e nel codice penale c’è quello della prescrizione.
Non è una stravaganza o un crimine. Si rende conto Mastella che il concetto di “giustizia infinita” lo aveva tirato fuori quel fesso di Bush? Poi qualche teo-con un po’ più istruito di lui lo ha corretto perché la “giustizia infinita” corrisponde alla concezione cattolica dell’inquisizione e loro, da bravi fondamentalisti protestanti quali sono, lo hanno sostituito con la “guerra infinita”. La giustizia infinita, senza limiti, contraddice lo stesso Stato di diritto e questo lo dovrebbe sapere anche Mastella.
Valerio Morucci(ex Br) e Sergio Segio (ex Prima linea) hanno criticato, seppur in forme molto diverse, le tua volontà di partecipare in senso lato, al dibattito politico italiano. Segio ti ha addirittura dato del calunniatore e del seminatore d’odio.
Hai fatto bene a distinguere tra i due. Comincerò da Morucci. Valerio lo conosco da quando aveva 17 anni, era un “pariolino povero” frequentava il comitato di base di Lettere (all’Università La Sapienza di Roma ndr), girava su una moto alla Easy Rider, intonava il simpatico slogan “Se vuoi la Rivoluzione non seguire Scalzone” e mi dava del revisionista. Ma in fondo lo faceva in forme molto civili e pacifiche. Premetto che, come tutti sanno, non amo particolarmente le sue scelte, di allora e di oggi, ma nell’intervista rilasciata alla “Stampa” in fondo c’è una certa grazia e una piccola traccia d’affetto nei miei confronti. Diciamo che gli piace vedermi un po’come i fratelli Taviani in “San Michele aveva un gallo”: dipingono il vecchio anarchico derelitto che alla fine incontra i comunisti “veri”, gli ortodossi che gli spiegano quanti errori, quanta ingenuità c’è stata nella sua esistenza, umana e politica. Lo stesso discorso vale anche per Francesco Merlo e Lanfranco Pace: pensano che io viva fuori dal tempo. Non so se hanno ragione, forse sì, forse no, loro però sembrano vivere su una nuvola, una nuvola di Aristofane.
Segio invece…
E’ una vera nota dolente perquanto paradossale (la voce di Scalzone cambia improvvisamente tono ndr) mi chiedo perché i suoi amici non facciano nulla per fermarlo, per consolarlo, per lenire questa profonda ferita narcisistica. Non mi piace affrontare certi discorsi, ma sono quasi costretto. Se divagassi nei sentieri delle polemiche politiche, o anche dello scontro su temi morali, potrei cavarmela col dire che, considerando il suo intero percorso, la storia da lui rivendicata, il fatto che mi attacchi è un onore. Se mi concedessi agli stilemi del leninismo da pamphlet, aggiungo che sono molto più efficaci e cattivi, tra quanti hanno diviso con lui l’ultimo domicilio conosciuto, l’ultima identità, l’ultima firma, aree omogenne della dissociazione politica, anche un Franceschini o un Morucci che schivano la tentazione dell’attacco, perché esercitano una maggiore riflessività e una maggiore lucidità. Ritengo che Segio non possa che essere in una paradossale buona fede, non è un’illazione, è lui che ne dà prova flagrante, sono anni che esordisce con un incipit: “Scalzone è diventato da rivoluzionario calunniatore di professione...”. La tragedia è che lui vorrebbe aver vissuto il rapporto tra il “prima” e il “dopo” come Gallinari o anche solo come me. Il veleno insopportabile che noi siamo per lui è in tal senso il simbolo di tutti i suoi compagni che non lo hanno seguito nelle sue scelte. Ricordo che si faceva chiamare il “Comandante Sirio”, che ci rifiutammo di seguirlo in Prima linea poiché eravamo convinti che l’omicidio politico non fosse un’opzione praticabile. Questo voglio sottolinearlo al di là delle implicazioni e delle considerazioni etiche e personali, ma dal punto di vista teorico e collettivo. Per noi lo Stato non era il Castello di Kafka e non aveva un cuore da colpire, dunque il paradigma del tirannicidio, l’unico a legittimare l’omicidio politico, era impossibile perché le relazioni di potere erano e sono molecolari, mimetiche. Per attaccarlo in modo diretto si sarebbe dovuta compiere un’ecatombe.
Segio dimostra un’odio sconfinato nei miei confronti perché ragiona ancora da militare, da comandante di brigata, e non a caso mi disprezza perché mi sono rifugiato a Parigi. Mi vede come un “disertore”, uno che non ha fatto il “sacrificio” della galera come lui. Quando nel 2002 hanno arrestato Paolo Persichetti ha rilasciato una delirante intervista in cui spiegava che gli stava bene, che meritava di finire in galera.
Hai detto che verrai in Italia da “pendolare”e da “teatrante”, cosa vedi il tuo futuro?
Più che il pendolare farò il nomade, ma per motivi pratici e di buon senso. Andrò in giro, ho amici e parenti da incontrare, ho delle tombe che vorrei visitare. Sarò una specie di guitto cantastorie- un “agit-attore”, come direbbe Bobbio: sono venuto a portare scompiglio tra le mie fila. Il che è del tutto naturale: quando sento un coro antisemita in un corteo di sinistra mi incazzo molto di più che se quel coro viene pronunciato in una manifestazione fascista. Se mi seguiranno in 15 saremo in 15, altrimenti rimarrò da solo e non importa.
Andrò davanti i ministeri e dirò le mie cose finché a Paolo Persichetti e ad altri casi come il suo, non verranno concessi i benefici previsti dalla legge.
E la politica italiana?
Come ho detto nei giorni scorsi non esistono “governi amici”, ma governi e basta, mi tiro fuori dallo schema illusione-delusione, proprio perché non mi aspetto nulla dal governo di centrosinistra.
Detto ciò ritengo che il maggior problema della nostra società, del nostra ragione politica sia culturale, ed è il giustizialismo: è possibile pensare che a tutto ci debba essere soluzione di natura penale? E’ una malattia che affligge gran parte della sinistra italiana, anche se sarà difficile liberarsene. Vedo poca lucidità in giro.
Ti riferisci a qualcuno in particolare?
Mi hanno colpito le affermazioni di Sanguineti sulle virtù dell’odio di classe. Calcolando che Sanguineti nella vita fa il poeta e che si candida a diventare sindaco di Genova, che cosa c’entra l’odio di classe con il municipio? Pensa di governare la sua città odiando metà della popolazione che vuole rappresentare?. Inoltre non puoi dire che sei favorevole l’odio di classe, però poi escludi il ricorso alla violenza . Mi sembra contraddittorio e anche poco elegante.
Oltre a critici e detrattori cisono state anche reazioni positive al tuo prossimo rientro
Ringrazio chi ha speso parole affettuose nei miei confronti, penso in particolare a Francesco Caruso che mi è anche molto simpatico. Un piccolo consiglio però vorrei darglielo a Caruso: lui ha detto di avere un mio poster attaccato in camera da letto. Non so se sia vero o se si tratti di un’invenzione giornalistica, detto ciò gli consiglio di sostituirlo al più presto.
Con cosa?
Con un poster di Rita Hayworth in Gilda: è molto più bella di me.

L'espresso
L'identità è appartenenza
di Eugenio Scalfari


Costruire una identità deprivata dalle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia
Umberto Galimberti è uno dei pensatori che più mi appassionano per la profondità delle sue osservazioni filosofiche, psicologiche, sociali e anche per la nitidezza e semplicità della sua scrittura e del suo eloquio. Per questo da molti anni gli sono amico e consento quasi sempre con le sue tesi.
Su 'Repubblica' del 28 dicembre ho trovato una sua breve scheda a proposito dei mutamenti dell'identità che sono già in corso e ancor più lo saranno nei prossimi anni e decenni, via via che verranno meno le 'appartenenze' sulle quali da secoli e anzi da millenni l'identità della nostra specie e degli individui che la compongono è stata costruita.

Il tema è dunque quello dell'identità e dell'appartenenza, finora strettissimamente connesse tra loro. Ma se le appartenenze si indeboliscono fino a scomparire del tutto in un futuro più o meno prossimo, che fine farà l'identità? Ne avremo ancora una riconoscibile da noi stessi e dagli altri? Dove si specchierà quell'identità nuova priva di specchi nei quali cercare conferma del nostro esistere come soggetti? Con quali strumenti riusciremo a costruirla in assenza delle appartenenze?

Cedo ora a lui la parola perché renda ancor più evidente e attuale la dimensione del problema che ha posto. "Ogni volta che rivendichiamo la nostra identità dimentichiamo che questa è decisa quasi totalmente dalle nostre appartenenze: religiosa innanzitutto (essere cristiani invece che musulmani, ebrei, buddisti, eccetera), culturale (essere nati e cresciuti in Occidente piuttosto che altrove), ideologica (essere di destra o di sinistra o qualunquisti), famigliare (a seconda si abbia o non si abbia una famiglia nobile, borghese, proletaria), di genere (maschio, femmina, transgender), di orientamento sessuale (etero, omo, bisex). Di qui il problema: che ne è della mia identità oggi che i contorni delle diverse appartenenze si smarginano, i confini dei diversi territori diventano permeabili, le leggi allargano le loro maglie per ospitare il più possibile tutta la gente e per garantire a ciascuno l'esercizio della propria libertà?".
Galimberti non è affatto spaventato da questa prospettiva, anzi ci vede "una grande occasione" perché nasca un'identità vera, senza la comoda protezione dell'appartenenza e quindi un 'essere-sé-stessi' senza che nessun dispositivo religioso culturale giuridico possa definirci. Naturalmente non sarà un processo semplice né lineare. Susciterà (sta già suscitando) incertezze e paure, procederà a scossoni, darà luogo a crisi, scontri, azioni e reazioni, ma andrà avanti perché il mondo ha abbattuto i suoi tramezzi e i muri maestri che separavano culture, costumi, persone; la tecnologia ha reso possibile l'unificazione del pianeta.
E conclude: "L'assenza di confini offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, de-situa e così scongiura quella fittizia identità che è data esclusivamente dalle nostre appartenenze". Che ci vanno sempre più strette (la chiosa è mia).
Una descrizione di quanto sta accadendo intorno a noi (e anche dentro di noi) impeccabile e una conclusione fiduciosa com'è nel carattere dell'amico Galimberti. Che però questa volta non mi convince del tutto e lascia comunque aperte molte domande. Provo a formularne qualcuna.
È vero, le appartenenze plasmano l'identità e inevitabilmente costringono la libertà individuale entro limiti prefabbricati. Prefabbricati da chi? Dai 'tempora' e dai 'mores'. Cioè dalle generazioni che sono alle nostre spalle, le quali a loro volta sono cresciute sulle spalle di quanti le precedettero. Insomma dalla storia. Dovremmo dunque cancellare la storia e la memoria? In gran parte la rimozione del passato sta avvenendo, ma è un fenomeno positivo per la ricchezza dell'umanesimo? Poiché credo di conoscere abbastanza bene Galimberti non penso che giudichi positivamente l'appiattimento sul presente delle nuove generazioni. Ma l'annullamento delle appartenenze porta a questo, lo si voglia o no.
Seconda osservazione. Per costruire un'identità fondata sull''essere-sé-stessi' bisogna conoscere, appunto, sé stessi, vecchia raccomandazione dei filosofi da Socrate in poi. Ma è possibile conoscere sé stessi?
Personalmente sono stato anch'io per lungo tempo fautore di questa massima e per quanto possibile ho cercato di applicarmela. Ma col passare degli anni credo d'essere arrivato alla conclusione che conoscere sé stessi sia pressoché impossibile. Se è permesso utilizzare il vecchio lessico kantiano, è impossibile conoscere la 'cosa in sé' da parte di osservatori esterni. Ma - penso io - è altresì impossibile che la cosa in sé si conosca. La cosa in sé, cioè l'essenza della cosa e nel caso nostro il mio 'sé' non è conoscibile, non è oggettivabile. Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l'io, la nostra mente ha capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il 'sé', cioè l'essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell'inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza.
Non ho bisogno di spiegare questi processi a Galimberti che ne è maestro. Ma lo invito a riflettere sul fatto che costruire un'identità de-privata dalle sue appartenenze, si fondi principalmente sull' 'essere-sé-stessi' , quando si sa che conoscere sé stessi è impossibile, equivale a costruire sulla sabbia. Naturalmente ci sono geni creatori, artisti, conquistatori, che appartengono solo a sé stessi e alle loro passioni. Ma una società non è fatta di geni, sarebbe una galera anzi un inferno. Caro Umberto, dopo un lungo periodo di fatiche mentali la cui meta è stata di risolvere la conoscenza della cosa in sé, sono arrivato alla conclusione che noi siamo costruiti in modo da poter conoscere soltanto i fenomeni. La cosa in sé, per dire l'essenza, è come Dio per i credenti: c'è, ma è inconoscibile fino al momento in cui saremo assunti nel regno dei cieli e contempleremo l'Uno partecipando alla sua essenza.
Tutto è possibile, ma l'identità ci serve qui e ora. Quella del credente è certamente un'identità forte. Non essendo la mia, devo cercarla in altre appartenenze.

il manifesto 23.1.07
Una francese alla corte di Bisanzio
Ripercorrendo l'avventurosa esistenza della «basilissa» Anna, «L'impero perduto» di Paolo Cesaretti ricorda la devastazione di Costantinopoli, due secoli prima dell'assalto ottomano, da parte di forze provenienti dalla cristianissima Europa
di Marina Montesano


Le polemiche sullo scontro di civiltà e sulle difficoltà di convivenza tra occidente e mondo musulmano, cui purtroppo gli ultimi anni ci hanno abituato, tendono di solito a ripercorrere frettolosamente il passato nel tentativo di giustificare scelte e posizioni del presente. Così, per esempio, da parte di quanti osteggiano l'ingresso della Turchia in Europa, si sente spesso ripetere che l'impero turco e l'occidente sarebbero stati eterni nemici: in particolare agli ottomani si ascrive la responsabilità di avere inferto un colpo fatale all'impero bizantino, privando così la cristianità di una sua parte fondamentale, quella cui era spettata l'eredità dell'impero romano e, al contempo, della civiltà greca. Al di là del manicheismo insito in tale visione, è interessante sottolineare come questa lettura dimentichi che la Bisanzio cui nel 1453 gli ottomani assestarono la spallata definitiva altro non era se non l'ombra dell'impero di un tempo. Oltre due secoli prima di quell'evento, infatti, l'impero bizantino era stato devastato da forze che provenivano dalla cristianissima Europa, una devastazione dalla quale Costantinopoli non si sarebbe mai ripresa.
A queste circostanze e agli anni che le precedettero fa riferimento il bel libro di Paolo Cesaretti L'impero perduto (Mondadori, pp. 382, euro 19), che ruota intorno alla figura di una protagonista di quel periodo, Anna di Bisanzio. Anna si chiamava in realtà Agnès ed era figlia di Luigi VII di Francia e della sua terza moglie, Alice di Champagne. Nata nel 1171, aveva soltanto nove anni quando lasciò la Francia per andare in sposa ad Alessio II Comneno, anch'egli un bambino appena undicenne: le nozze fra i due principi infanti si celebrarono fastosamente a Costantinopoli nel 1180, anno in cui il piccolo Alessio successe al padre, il basileus Manuele Comneno. Nello stesso 1180 in cui Agnès, ormai Anna, diveniva basilissa di Costantinopoli, suo fratello Filippo II Augusto ascendeva al trono di Francia, e l'unione fra le famiglie regnanti di Francia e di Bisanzio aveva lo scopo di rinsaldare l'alleanza contro l'egemonia dell'imperatore Federico Barbarossa sull'Europa occidentale
Il regno di Manuele aveva infatti inaugurato una politica parzialmente nuova. Profondamente attratto dai costumi occidentali, appassionato di donne, tornei e costumi cavallereschi, il basileus aveva progetti espansionistici: stipulò dunque una larga rete di alleanze il cui scopo immediato era, appunto, la vittoria sul Barbarossa, ma il cui fine reale era forse una sorta di politica «neogiustinianea» che mirava a imporre la sua supremazia sull'intero Mediterraneo.
Come al tempo di Giustiniano, la penisola italica restava centrale sul piano strategico: per questo Manuele cercò un punto di forza sul quale far leva per ristabilirvi la sua autorità, e lo trovò nella città di Ancona che, appoggiandosi all'imperatore bizantino, si sentì abbastanza forte da intraprendere una politica di egemonia sul mare Adriatico, in opposizione alla potenza veneziana. Tuttavia Manuele non visse abbastanza per portare a termine la sua impresa.
Per condurre una politica di questo tipo, egli avrebbe avuto bisogno di instaurare buoni rapporti con i suoi vicini orientali, i principati turco-musulmani di Anatolia, ma non riuscì in tale compito: da quelle forze fu anzi duramente sconfitto in battaglia e morì precocemente all'età di trentasette anni.
Correva dunque l'anno 1180. Incoronato basileus a soli tredici anni, Alessio era - anche in tempi in cui l'età adulta giungeva assai precocemente - troppo giovane per reggere il peso dell'eredità paterna. Fu dunque facile per il cugino del padre, Andronico, sbarazzarsene: lo fece strangolare nel sonno, e il cadavere del ragazzo venne gettato in mare. Figura cupa e affascinante, Andronico, a quel tempo ultrasessantenne, aveva condotto una vita da reietto, prigioniero e poi vagabondo per anni in terra d'Islam. Era tuttavia un uomo colto e coraggioso, capace di guadagnarsi il favore degli eserciti e - sia pure per una breve stagione - delle folle di Costantinopoli. Dopo averne soppresso lo sposo, Andronico prese in moglie la dodicenne Agnès/Anna, mentre sul piano pubblico capovolse la linea di Manuele inaugurando una politica antioccidentale. In Europa però si andava profilando una situazione nuova, destinata a sconvolgere gli assetti internazionali: un avvicinamento tra due nemici storici di Bisanzio, l'Impero e i Normanni, che avrebbe condotto nel 1186 al matrimonio tra l'erede del regno di Sicilia, Costanza di Altavilla, e il figlio del Barbarossa, Enrico VI.
Il rovesciamento di fortune di Andronico si consumò in due anni: nel 1185 i Normanni presero d'assalto Tessalonica, umiliando in ogni modo la popolazione bizantina. In seguito a questo tracollo, le stesse folle che avevano favorito l'usurpatore gli si rivoltarono contro e, sobillate dal cugino Isacco d'Angelo, lo sottoposero a un supplizio crudele. Nella concitazione degli eventi, le vicende della giovanissima Anna si perdono, tanto che Cesaretti ha dovuto condurre un lavoro di raffinata esegesi sulle fonti per trarne qualche notizia sull'ex imperatrice, smarrita nel caos che seguì l'ascesa al potere della nuova dinastia.
Ripetute sconfitte nei Balcani avevano infatti indebolito il governo di Isacco Angelo, al punto che suo fratello Alessio III si impadronì del potere dopo averlo fatto accecare e rinchiudere insieme al figlio Alessio. Intanto, nel 1202 le forze crociate erano concentrate a Venezia, la quale offriva una potente flotta di cinquanta galee per trasportarle oltremare. Il contributo veneziano non era tuttavia gratuito e l'armata crociata non aveva fondi sufficienti: il doge Enrico Dandolo propose allora ai crociati di sdebitarsi aiutando Venezia a sottomettere la città dalmata di Zara, che le si era ribellata. Ma la richiesta di Dandolo celava altri progetti: a Zara infatti si era presentato ai crociati il principe bizantino spodestato, chiedendo aiuto per sconfiggere l'usurpatore e promettendo in cambio denaro e addirittura la fine dello scisma tra le due Chiese. Nel luglio 1203 gli occidentali giunsero a Costantinopoli, sconfissero Alessio III e restaurarono sul trono Isacco e il figlio Alessio IV. La loro prepotenza però provocò una rivolta, alla quale veneziani e crociati risposero con il saccheggio della città e con il rovesciamento dell'impero bizantino.
Ed è in questa fase che ritroviamo Anna, ormai adulta, prima amante e poi moglie del nobile Teodoro Brana. Ormai lontana dalle sue origini francesi, la donna si era trasformata in una fiera bizantina tanto da cercare invano, nelle fasi più concitate dell'assalto occidentale, di far da ponte insieme al marito tra i due contendenti, i greci e i latini.. Dopo il 1204 le sue tracce si smarriscono nuovamente, perdute per sempre insieme all'impero al quale le vicende convulse della sua esistenza l'avevano condotta ad appartenere.

l'Unità 23.1.07
Fabio Mussi: «Rischiano di scomparire sinistra e socialismo»


IL MINISTRO FABIO MUSSI risponde in chat ai lettori e al direttore Antonio Padellaro. Spiega perché non lo convince il progetto di Partito democratico: un’operazione «che porta più indietro e più a destra». Dunque «vado al Congresso per rimettere in discussione questo progetto, che non è ineluttabile»

«Un passo alla volta». Fabio Mussi, Il ministro dell’Università e della Ricerca «nient’affatto convinto» del nascituro Partito Democratico, risponde alle domande dei lettori de l’Unità.it. Intervistato in videochat dal direttore Antonio Padellaro parla di Università, di ricerca, di meritocrazia, di tagli al business degli atenei. Ma soprattutto ribadisce il suo «no» al nuovo partito che cancella la parola «sinistra». Il futuro? «Un passo alla volta».
Ministro Mussi, il numero di messaggi che riguardano il Partito Democratico e i Ds è tale per cui non possiamo non parlarne. Vorrei riassumere un po’ i contenuti: molti dicono «Non vi scindete». Il timore della scissione è una cosa che angoscia molto gli iscritti e militanti dei Ds. Vuole dire una parola chiara su questo punto?
«Io ho dedicato una vita alla sinistra italiana. Sono stato tra i più convinti e tra i più coraggiosi quando si è trattato di compiere delle svolte necessarie per il futuro della sinistra e necessarie per il nostro Paese. Ora non sono affatto convinto. Non posso immaginare che in questo Paese scompaiano persino dal lessico politico le parole «sinistra» e «socialismo». Credo che il partito democratico potrebbe portare a una dissoluzione della principale forza di sinistra dentro un contenitore che a me pare più un grande involucro elettorale che un nuovo partito con una tavola di valori condivisa, una chiara identità, una chiara collocazione internazionale. Io non parto con il piede della scissione. In questi anni ho fatto le mie battaglie ma quando si è trattato di trovare ponti non mi sono mai tirato indietro. Vado al Congresso perché lo voglio vincere, cioè voglio avere la forza sufficiente a fermare questo treno. Quello che sta succedendo nella fusione tra Ds e Margherita riguardo alla questione del Partito Socialista Europeo andrebbe risolta preliminarmente, prima di fare il primo passo perché poi ci si trova in un vicolo cieco. A me sembra un’avventura che può portarci ad un guaio molto serio».
È chiaro che ci sarà un risultato al Congresso: ho l’impressione che se ciò che tu rappresenti riceverà un consenso superiore al 30%, è evidente che questo potrebbe creare una situazione politicamente nuova. Se ciò non avvenisse, ti troverai di fronte a una scelta.
«A quel punto la farò. Ora, siccome un cammino è fatto di un passo alla volta, il mio primo passo è avere i voti per poter rimettere in discussione questo progetto che non è ineluttabile. L’altra cosa che chiedo è la chiarezza: far credere ai dubbiosi e ai contrari che ci si scioglie ma non ci si scioglie, che si fa un altro partito ma i Ds restano, solo per confortarli. Alla fine si illuderanno gli scettici e i contrari e si deluderanno quelli che invece ci credono davvero. Non sono contrario all’alleanza elettorale, anzi vorrei tornare ad allargarla. L’Ulivo che mi piaceva è quello del ’96, mi piace meno quello a cui siamo arrivati».
Una lettera però te la devo leggere: Gianfranco Tannino, Monaco di Baviera: “Vorrei invitare Mussi e tutto il Correntone a far parte del futuro Pd. Se vogliamo che il futuro Pd abbia una identità socialista, è importante che coloro che sentono questa identità, entrino in massa in questo nuovo partito. Un partito in cui credo fermamente, non potendo il nostro Paese sopportare oltre la miriade di partitini, ostacolo oggettivo al buon funzionamento di qualsiasi governo”. Questo è l’argomento che fa più presa: troppi partiti, come si fa ad andare avanti?
«Il problema della frammentazione del sistema politico è serio, ma l’idea che si fa il Partito Democratico per rafforzare la presenza di forze socialiste in Italia è paradossale. Evidentemente si vuole fare il Pd perché si vuole andare oltre la sinistra e il socialismo. Sono pronto a discutere, perché anch’io penso che occorra andare oltre la tradizione classica socialista europea. Ma penso che occorra andare oltre, a sinistra e verso culture più critiche. Mi pare che questa operazione porti invece più indietro e più a destra. L’idea che basta che ci sia qualcuno di sinistra per trasformare questo partito non sta in piedi. Le identità collettive non dipendono dalle testimonianze personali, sono una cosa più complessa, e i partiti non nascono perché una lista ha preso in una Camera il 3% in più della somma delle altre due liste di riferimento in un’altra Camera. Un partito nasce perché ci sono state le leghe operaie, la rivoluzione francese e quella sovietica, la caduta del Muro di Berlino... non esistono nascite politologiche dei partiti».
C’è anche la questione di Vicenza che appassiona molto e fa molto arrabbiare. Come mai, ti chiede Mirko Gigliotti, quando si devono prendere decisioni che coinvolgono i territori non si ascolta la voce della gente? Parlo degli Inceneritori, della Tav e per finire della nuova base americana. Oppure Giuseppe Puleo: "Il sì definitivo di questo governo ai desideri Usa su Vicenza sarà il fallimento totale di Prodi e della sua compagine". Infine, Nizzero: "Caro ministro Mussi, secondo lei il Governo ha rispettato la Costituzione? Ha rispettato la sovranità nazionale?". Il caso Vicenza è la punta di un iceberg dell’insoddisfazione che c’è nel mondo del centrosinistra, ma anche dei Ds, rispetto a questi primi mesi del governo Prodi. Che sta succedendo?
«Un governo di centrosinistra come il nostro deve stare a contatto, sentire la gente, il che non vuol dire dar sempre ragione. Io giro tutte le settimane le Università: prendi qualche fischio però poi hai modo di ragionare. Il metodo dello stare a contatto con le persone deve essere adottato sistematicamente. Poi governare vuol dire anche decidere contro. Sulla base di Vicenza non è in ballo una scelta di politica estera, mi pare che questo governo abbia dato prova di grande autonomia ed anche di una funzione di pace e di cooperazione internazionale dell’Italia».
L’Unità si è permessa di scrivere che non siamo nel Minnesota e quindi c’è una sovranità italiana che forse andrebbe fatta valere.
«Un maggior contatto e discussione con la gente di Vicenza e magari un approfondimento sulle soluzioni possibili andrebbe fatto, lo dico sommessamente perché non voglio creare difficoltà. Quello che non condivido, lo voglio dire chiaramente, è la posizione di quei partiti della maggioranza che dicono: "Se Prodi ha fatto così su Vicenza, allora noi facciamo una ritorsione sull’Afghanistan". Questo non va bene: mi pare che stiamo dando prova di una politica estera complessivamente nuova e voglio dare atto a Massimo D’Alema del lavoro che sta facendo».
Veniamo al tuo lavoro, l’Università e la Ricerca. Parliamo di meritocrazia: io penso che certamente qualcosa il ministero stia facendo, e non soltanto da un punto di vista simbolico. Il problema è che ci sono delle situazioni dove il merito si scontra con delle cose incredibili: intere famiglie che occupano intere facoltà.
«Il merito non è un invenzione, è la carta che hanno i poveri per riscattarsi, è un elemento di uguaglianza. È quando non c’è il merito che vanno avanti i «figli di». Una società nella quale un dottorando, quando ha una borsa, prende 800 euro al mese, è il più colossale oltraggio sociale al merito. Noi dobbiamo garantire carriere che procedono perché si valuta la qualità delle persone e dobbiamo garantire trattamenti economici che riconoscono la fatica che fa un giovane che nella vita si dedica a studiare e a fare ricerca scientifica. Da noi c’è un esercito di servi della gleba, di precari, che con uno stipendio da fame spesso tengono in piedi il sistema. Bisogna ridurre l’età media, ripristinare la piramide cioè avere molti ingressi come ricercatori - come abbiamo già cominciato a fare con il piano straordinario di assunzione dei ricercatori - e centellinare con il contagocce i concorsi per le fasce superiori. Bisogna valorizzare soprattutto i titoli, cioè la certificata carriera professionale, e puntare molto sull’Agenzia di valutazione che è la vera grande novità e che a giorni avrà il decreto applicativo: è lo strumento che permette di spostare l’asse del governo del sistema dal controllo delle procedure, che poi non riesce mai ad essere efficace, alla valutazione dei risultati. A quel punto potrà esserci un sistema anche di finanziamento premiale che valuti chi ottiene i risultati migliori».
Ma non è possibile resuscitare l’ispezione in quelle Università dove queste incrostazioni ci sono e, prima che si arrivi ad un mutamento dei criteri, rischiano di sopravvivere?
«Si possono fare delle ispezioni, tuttavia molti di quei vizi che oggi vediamo consolidati sono avvenuti tutti attraverso procedure legali. C’è anche l’illegalità, e quella si può correggere, ma bisogna riformare il sistema e promuovere un altro principio etico professionale. Da qualche anno a questa parte assistiamo a processi di proliferazione cancerosa. Atenei, facoltà, corsi di laurea, insegnamenti frammentati. In Finanziaria c’è il blocco delle proliferazioni delle sedi: la proibizione per un ateneo di andare ad aprire facoltà fuori comune. Ho bloccato l’apertura di un numero sterminato di università telematiche, ho bloccato il sistema delle convenzioni con le pubbliche amministrazioni o con gli ordini professionali che riconoscevano crediti in massa, ho stabilito che non può aprirsi un corso se non si ha già almeno la metà degli insegnanti strutturati: prima se ne aprivano a bizzeffe con gli insegnanti a contratto. E questo già ridurrà drasticamente il numero dei corsi. A questi fenomeni di moltiplicazione fuori controllo va aggiunto quello delle lauree honoris causa: non una medaglia che si mette nei giorni di festa, ma una laurea a tutti gli effetti. Siamo arrivati a cento, ho già mandato un atto di indirizzo: non firmerò la concessione di lauree honoris causa che non abbiano un’adeguata documentazione».
Tu ti sentiresti di consigliare a un giovane talentuoso ricercatore che ha un’offerta dagli Usa o dalla Gran Bretagna, di rimanere in Italia perché qui troverà quello di cui ha bisogno?
«La cosa che più preoccupa non è tanto che i giovani italiani se ne vanno, tra l’altro il fatto che i nostri giovani laureati siano così ricercati è anche la prova che l’Università italiana ha anche delle eccellenze. L’Ocse vuole applicare il metodo Pisa per la valutazione degli studenti che ora si ferma alle scuole superiori anche all’Università. Io ho detto subito di sì, intanto perchè abbiamo tutto l’interesse a sapere la verità, anche se fosse amara, ma poi perché sono convinto che il risultato non sarebbe sconfortante. Noi non avremo Harvard ma abbiamo una qualità media tutt’altro che disprezzabile. Dopodiché io non avrei niente in contrario se per uno studente italiano che va, ne arrivasse uno dalla Germania, dagli Usa, dalla Cina, dall’India, dal Giappone. È questo che bisogna creare, l’attrattività. Ciò che è grave è il deficit della bilancia commerciale: molti vanno ma pochi vengono. La gente deve andare, ma non per necessità: lo sforzo sarà quello di creare le condizioni non solo perché i giovani che vogliono restare restino, ma perché anche gli stranieri che vogliono venire, vengano. Mobilità e internazionalizzazione sono il segreto per un salto di qualità del nostro sistema».
Luca Nichi ci scrive: “il mio sogno è diventare medico. Ma il numero chiuso continuerà a esserci?” Poi, la laurea breve. Crescenzo dice: “non crede che sarebbe il caso di ripensare all’attuale ordinamento universitario del 3+2 che ha terribilmente banalizzato gli studi”?
«Il numero chiuso a Medicina è una regola europea, e c’è anche una ragione: per diventare medico non basta avere i libri a casa, servono un ospedale, dei letti, dei malati, quindi ci sono facoltà in cui credo che il numero chiuso sia ragionevole. Poi c’è chi si è allargato: si dice che abbiamo troppi studenti, ne abbiamo un milione e ottocento mila, una delle percentuali più basse rispetto ai paesi europei, all’America, al Giappone. Noi abbiamo bisogno di più studenti universitari, di più laureati, e quindi anche qui bisogna intervenire riducendo il numero di corsi a cui si accede a numero chiuso, però tentando anche di frenare l’immensa dissipazione di energia che si ha per strada. Penso all’abbandono tra il primo e il secondo anno di università. Penso al numero di fuori corso, che è un’esagerazione.
Però anche ai ragazzi che ci ascoltano voglio dire: uno studente universitario costa 7.700 euro all’anno e gran parte di quel costo è coperto dal finanziamento pubblico, dalle tasse dei cittadini. Quando ci si iscrive all’università bisogna anche sentire il senso di responsabilità verso la famiglia e verso il resto della società che paga. Per quanto riguarda il discorso dei livelli di laurea,non si tratta di un’invenzione italiana, ma è un sistema che esiste in gran parte del mondo. Ci sono cose che hanno funzionato, altre che non hanno funzionato. Io non penso che sia in sé sbagliata l’idea dei livelli, purché si resti nella logica che il primo livello è una laurea con un chiaro profilo professionale. Quella dopo non è semplicemente l’allungamento della prima, è una specialistica. Bisogna dunque rimetterci un po’ le mani e aggiustare il sistema, c’è bisogno di un bel tagliando. Intanto nei prossimi giorni uscirà il decreto sui dottori di ricerca. Il dottorato deve essere titolo privilegiato che dà punteggio ai concorsi, perché è un titolo prezioso e le imprese devono capire che può aumentare la composizione intellettuale del mercato del lavoro. Credo che occorra anche andare verso un regime fiscale che faciliti l’assunzione dei dottori di ricerca».
Già, la ricerca. Il prof. Francesco Hardt scrive: “il governo Prodi sembra essere riuscito a fare perfino peggio di quanto fatto negli anni precedenti dalla CdL per quanto riguarda i finanziamenti alla ricerca universitaria”. Una constatazione che serpeggia nel mondo accademico.
«Qui proprio sbaglia: se c’è nella Finanziaria una cosa positiva sono i fondi per la ricerca. Quest’anno nei tre grandi fondi pubblici per la ricerca ci sono 276 milioni, nella Finanziaria in vigore prima che arrivassimo noi ce n’erano 100. Sono 300 milioni in più quest’anno, 300 il prossimo, 360 quello dopo. È quasi un miliardo di euro in più. Ci sarà una commissione che tenterà di premiare le scelte più promettenti. In più c’è il fondo che si chiama Italia 2015, che in parte andrà alle imprese e all’industria, in parte tornerà agli enti di ricerca. Insomma soldi in più per la ricerca scientifica ci sono, quindi qui qualcosa cambia».
(a cura di Paola Zanca)