«Left» è edito da Mondadori. Se nascesse «Right» l’editore sarebbe Feltrinelli?
Cara Unità,
nell’editoriale della domenica intitolato «Politca e crimine» il buon Furio Colombo dice che durante questi 10 anni di doppio governo (affari e politica) Silvio B. ha raddoppiato la sua ricchezza diventando la 14ª più grande del Mondo. Colombo è preoccupato perché da sinistra non è che si faccia molto per arginare questo attacco alla democrazia. Aggiungo: passi che i vari Augias, Cugia ecc. preferiscano pubblicare i propri libri con Mondadori; ma è cosa assai grottesca che pure un settimanale che si chiama “LEFT” venga distribuito dalla stessa Mondadori. Ora mi chiedo: ma se domani nascesse un nuovo settimanale chiamato “RIGHT” con articoli scritti da Cuffaro, Borghezio, Previti e Romagnoli, lo darebbero da distribuire alla Feltrinelli? Svegliamoci prima che qualcuno si compri pure Murdock!
Davide
l’Unità 29.1.07
CLASSICI La nuova edizione di «Operai e capitale», libro di culto dell’operaismo extraparlamentare. Filiazione innegabile anche se il maestro non si riconobbe negli allievi
C’era una volta «Potere operaio», ma prima ci furono Mario Tronti e la sua «Bibbia»
di Giuseppe Cantarano
In una piovosa sera d’inverno del 1969, stipati su una scassata Fiat 600 e su una smarmittata Citroen Dyane, un gruppo di giovani del movimento studentesco romano si reca a Ferentillo. Un paesino umbro vicino Terni. Hanno in cantiere una rivista e vanno a chiedere lumi a Mario Tronti. La rivista si chiamerà Classe operaia. Sarà la rivista di Potere Operaio, il gruppo della sinistra extraparlamentare che si pone su un terreno di rottura con la tradizione del movimento operaio. E che trae la sua ispirazione dall’operaismo di Tronti e dalle analisi sulla trasformazione dell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche di Raniero Panzieri.
Ma è soprattutto nella reinterpretazione leninista del Capitale di Marx, fornita da Tronti, che Potere Operaio individua gli strumenti teorici per conferire alla politica rivoluzionaria del movimento operaio quella potenza dirompente in grado di abolire il dominio del capitale. Dentro e fuori le fabbriche. Tuttavia, nonostante fosse il punto di riferimento teorico principale, Tronti non diventerà mai il leader di Potere Operaio. Anzi, ne prenderà subito le distanze. Come le prenderà, qualche anno dopo, dal suo operaismo. Perché era consapevole che al di fuori della tradizione del movimento operaio, non avrebbe mai potuto darsi una mobilitazione di massa. Infatti, a differenza degli esponenti di Potere Operaio, Tronti riteneva che la rottura del sistema capitalistico - operata dalla nuova classe operaia, quella delle fabbriche neocapitalistiche dell’ «operaio massa», cresciuta alla scuola del «Marx delle macchine» e di un Lenin antiromantico - dovesse essere guidata dal Pci. Al quale in quegli anni Tronti rimaneva iscritto.
In particolare, erano tre i saggi di Tronti a suscitare l’interesse di quei ragazzi: Lenin in Inghilterra e 1905 in Italia, apparsi nel 1964 e Marx, forza-lavoro, classe operaia, del 1965. Nel 1966 i tre saggi, arricchiti con altre analisi, verranno pubblicati da Einaudi in un libro che diventerà un classico della storia del movimento operaio e del marxismo italiano: Operai e capitale. Che rinnovò non solo il vocabolario della classe operaia, ma indicò le strategie teoriche per la lotta del sessantotto e dell’autunno caldo.
Ora quel libro di culto è stato ripubblicato da Derive Approdi (pp. 315, euro 20,00 ). Un libro «inattuale». Ma, come abbiamo appreso da Nietzsche, sono spesso le idee, i pensieri inattuali ad afferrare meglio l’epoca alla gola. La sua tesi è che la rottura dello sviluppo capitalistico si produce non nel punto in cui il capitale risulta più debole, ma dove sembra esser più forte la classe operaia. In quella fase è proprio l’Italia a offrire le condizioni più favorevoli per realizzare l’alternativa operaia al capitale. La sola alternativa che le contraddizioni del capitale possono realmente prefigurare. Dal punto di vista operaio - sostiene Tronti - le contraddizioni del capitale non vanno né rifiutate né risolte, ma utilizzate. E per utilizzarle, bisogna esasperarle. Anche quando si presentano come ideali del socialismo: «Ricostruire la catena delle contraddizioni, riunificarla, e col pensiero collettivo della classe possederla di nuovo come un processo unico di sviluppo del proprio avversario: questo è il compito della teoria, questa la necessità di una rinascita strategica del movimento operaio internazionale».
Spezzare la catena in un punto critico dove massime appaiono le contraddizioni vuol dire - secondo Tronti - far convergere su quel punto tutte quelle forze che intendono reciderla in blocco. Si rivela del tutto inutile l’appello che chiama a raccolta le forze del capitale in un blocco monolitico, poiché questa azione presuppone un inevitabile processo di ricomposizione della classe operaia. Dunque, una nuova forma di organizzazione politica. È insomma attorno al partito, alla forma dell’organizzazione politica, che l’operaismo si divide.
Mentre Tronti - e Cacciari, Asor Rosa e altri - cercherà anche in ulteriori esperienze politico-culturali di individuare altri linguaggi del politico dentro la crisi del pensiero borghese e operaio, così da rendere espressive le masse, gli esponenti di Potere Operaio - Negri, Piperno - si illudono di poter fuoriuscire dalla crisi sostituendo la ragione borghese con la ragione operaia. La ragione del capitale - che dopo il rovesciamento diventa irrazionale - con quella di Marx, Lenin e Mao. Che prima del rovesciamento era considerata irrazionale dalla ragione classica e borghese.
Per l’operaismo di Tronti resta invece decisiva la questione della forma dell’organizzazione. Dunque del partito. Che rappresenta l’ultimo residuo in cui sopravvive l’appartenenza alla tradizione classica del marxismo. Il partito diventa l’ultimo strumento appartenente alla tattica del passato con cui si cerca di pensare strategicamente il futuro. Poiché solo attraverso il partito è possibile stare dentro la crisi e scomporla nelle sue fasi transitorie. Solo il partito consente di comprendere le singole fasi della crisi e afferrarle una per una.
Bisogna scoprire - scrive Tronti - «le necessità di sviluppo del capitale e ribaltarle in possibilità di sovversione della classe operaia: sono questi due i compiti elementari della teoria e della pratica, della scienza e della politica, della strategia e della tattica». Si tratta, pertanto, nella prassi politica, di tenere nettamente distinta la tattica dalla strategia senza mai sovrapporre l’una all’altra, né tantomeno identificarle, pena l’impossibilità ad agire. All’opposto, bisogna pensarle unite nella teoria, non separarle mai, in quanto una volta distinte «distruggono gli uomini, li dimezzano, ne fanno quest’ombra grigia a cui è ridotto oggi il dirigente politico».
Poi, nell’elaborazione di Tronti, ci sarà l’«autonomia del politico». Dal Marx antigramsciano al decisionismo apocalittico di Carl Schmitt, dalla sovversione operaia al disincanto anti-idolatrico. Per approdare, più recentemente, ad un «pensiero destinale» dai toni malinconici e pessimistici. Nel cui cupo orizzonte tramonta la grande politica del Novecento. Ma questa è un’altra storia. O forse è il solo epilogo «realistico» della storia di quell’operaismo.
l’Unità 29.1.07
Giappone non crede a Platone
di Giuseppe Montesano
I fiori del vuoto, di Giuseppe Jiso Forzani pp. 134, euro 14,00 Bollati Boringhieri
Platone politico di Giorgio Colli a cura di Enrico Colli, pp.161, euro 12,00 Adelphi
La filosofia nasce in Giappone nel 1874, con lo choc dell'arrivo in massa dell'Occidente sotto forma di corazzate e cannoni. E in Giappone il nome della filosofia sarà tetsugaku. In realtà tetsugaku è formato da due ideogrammi, dove tetsu sta per «vivacità intellettuale, prontezza di ingegno, chiarezza mentale», mentre gaku sta per «insegnamento, studio, sapere»: il giapponese non traduce in modo linguisticamente esatto il termine filosofia, e quindi non ne traduce nemmeno il contenuto. È quello che si può leggere in I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, un bel libro di Giuseppe Jiso Forzani, studioso di filosofia e monaco buddista zen. Forzani scrive: «L'Oriente non ha mai creduto sul serio all'equazione essere=pensiero=parola, anzi non l'ha mai presa fin dall'inizio in considerazione come valido metodo di indagine», e poi cita l'inizio del Daodejing che dice: «Il Dao che si può dire non è il Dao costante». Da questo nasce l'indagine di Forzani intorno al significato di non-dire, di vuoto, di bellezza e di vita nel pensiero giapponese. In sintesi in giapponese il pensare è piuttosto un'azione e un'emozione portata a chiarezza che una logica o un pensiero sull'Essere. Ma se il libro di Forzani è meritorio, è anche vero che paradossalmente soffre di un eccesso di occidentalismo: troppi termini classici della filosofia, troppo Heidegger e troppo «Essere». Perché non mandare tutto questo a picco e ricostruire un «sentimento» del pensiero giapponese a partire dalla sua letteratura e dalla sua poesia? È lì che giace probabilmente il cuore di quella sapienza, nell’essenza ambigua dell'ideogramma: pittorico, vocale e mentale. È forse nel divagante dire intorno al vuoto di Kenko o dei diari delle grandi scrittrici del tempo del Genji Monogatari, nella sospesa fluidità che abolisce il «concetto» negli haiku di Basho e degli altri maestri, che si ritrova quell'estraneità illuminante che la cultura giapponese ci ha comunicato, quel tentare di dire il mondo calandosi dentro di esso. Come scrive Dogen citato da Forzani « ”la compiutezza è indefinibile”: va rifatta come le case di legno del Giappone ogni volta e da ognuno originalmente, non è eterna come le Idee e si fa con e non contro la natura.
All’opposto di questo pensiero ci sarebbe allora Platone: ma a leggere il piccolo e bellissimo Platone politico uno scritto giovanile di Giorgio Colli che verte soprattutto sulla Repubblica, si direbbe che non è affatto così: anche il possente autore del Parmenide non aveva affatto la logica o l'essere come fine supremo, ma il vivere: il vivere in comune degli uomini in una società giusta. E così in questo Platone politico troviamo scritte cose come questa a proposito del cosiddetto comunismo platonico: «Si noti ancora come questo comunismo, che sembra apparentemente tendere a stroncare completamente l’individualismo, non sia altro per Platone che il necessario processo di purificazione e di formazione del vero individuo, poiché, allontanando dall'uomo gli elementi che, come la proprietà e la famiglia, alimentano la sua parte empirica e contingente, a torto secondo lui ricevente il nome di individualità, si viene a liberare la vera essenza individuale dell'anima…" Sorprendente? Discutibile? Certo. Ma ancora più certo è che questo libretto, accompagnato da qualche dialogo ben scelto, andrebbe regalato a molti di quei post-popperiani che continuano a parlare di Platone come se fosse un minus habens filosofico, e discettano a casaccio di totalitarismo platonico e altro: salvo poi, come il maestro liberal Popper che voleva fare un corso di rieducazione per assegnare la patente ai conduttori televisivi, sognare corsi di rieducazione in lode della "famiglia" e della "proprietà" per chiunque la pensi diversamente, trovandosi, per colmo di ironia storica, praticamente d'accordo con il Platone sconfitto e degenerato delle Leggi.
l’Unità 29.1.07
CLASSICI La «Metafisica dei costumi» del filosofo Kant
La ragion pura diventa politica
di Salvo Fallica
La ragione come luce della dimensione umana, la ragione come sistema critico di conoscenza e comprensione del mondo. È una triade concettuale complessa ma utile per addentrarsi nella filosofia kantiana. Kant, come Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Hegel, rappresenta l’incarnazione medesima della filosofia. La sua rivoluzione copernicana ha aperto le porte alla modernità. Il suo capolavoro è lo studio delle condizioni di possibilità della conoscenza, dell’agire e dell’attività di giudicare in generale. Il sistema critico non ha avuto un vero continuatore, ma non si potrebbe comprendere l’idealismo senza il sistema trascendentale kantiano, né il positivismo o il neopositivismo senza lo studio delle categorie del filosofo tedesco. La stessa fenomenologia husserliana, risente della riflessione teoretica della Critica della Ragion Pura. La filosofia della scienza popperiana o post-popperiana risente dell’influsso kantiano. Ecco perché, al di là delle mode, Kant è ancora attuale. In questa ottica la pubblicazione della Metafisica dei Costumi, a cura di Giuseppe Landolfi Petrone, nella collana Il pensiero Occidentale della casa editrice Bompiani, è una operazione culturale di alto livello. Anche perché recupera un’opera che dai contemporanei di Kant fu giudicata duramente, senza venir ben compresa, dagli studiosi in genere non ha avuto l’attenzione che merita. L’obiettivo kantiano potrebbe apparire molto tecnico, ovvero conciliare l’istanza della fondazione del diritto e dell’educazione alla morale. Ma in realtà l’idea kantiana trascendeva la dimensione del diritto e della pedagogia, con una intenzione puramente filosofica. Dare un senso compiuto al primato della ragione pratica su quella speculativa, puntando su una impostazione «essenzialmente antropologica dell'autonomia morale». Al centro della sua riflessione vi è l’uomo, in una concezione classica della filosofia, recuperata in chiave illuministica e critica. Come spiega Landolfi Petrone nel saggio introduttivo, l’opera consente «di gettare uno sguardo panoramico su tutta la filosofia critica, e allo stesso tempo, di inquadrare in un’ottica più organica l’impegno di Kant intorno alle tematiche etico-civili e antropologiche che caratterizzano l’ultima fase della sua vita».
Repubblica 29.1.07
Nella Quercia tre partiti in cerca della post-sinistra
I Ds sono una convenzione permanente con culture differenti
di Edmondo Berselli
Sullo sfondo si staglia l'appuntamento con il Partito democratico
Il progetto fusionista ha raggiunto ormai un punto di non ritorno
Il passato socialista, il presente riformista, il futuro mobilitante
Il fatto è che ci sono almeno tre partiti, all´ombra della Quercia. E non è detto che essi rispecchino esattamente le tre mozioni che si misureranno al congresso. I partiti reali sono più informali, trasversali, senza confini, come parti di una galassia in espansione. Perché non si dovrebbe dimenticare che il vecchio Pci era un mondo a sé, e come tutti i mondi comprendeva radicali e moderati, ortodossi ed eccentrici, sinistri e destri. Il centralismo democratico consentiva di tagliare le ali, Amendola e Ingrao, e di riportare le differenze ideologiche dentro il mainstream comunista.
Dopo il Big bang del 1989, una volta saltate le regole e le procedure che presidiavano la linea ufficiale delle Botteghe oscure, le diverse anime si sono liberate, e l´unità del partito si è rivelata all´improvviso una costruzione fragilissima.
Se i Ds fossero ancora un partito racchiuso nel canone della socialdemocrazia europea, l´appuntamento congressuale di metà aprile non sarebbe che un normale evento della sua vita organizzata. Ma adesso che sullo sfondo si staglia l´appuntamento con il partito democratico, orientarsi è più difficile. Suggestioni indotte dall´identità si uniscono a calcoli elettorali; alla spinta "oltre" il socialismo si affiancano nostalgie per le certezze passate; e una non dichiarata ma già evidente battaglia per la leadership del partito e del centrosinistra complica tutti i calcoli strategici sul futuro dei Ds e della sinistra italiana.
Va messo in conto che oggi, quasi due decenni dopo la Bolognina di Occhetto, i Ds sono una formazione politica culturalmente complessa, in cui allignano miglioristi, riformatori, vetero e neosocialisti, cattolici e zapateristi, statalisti, liberali e ultraliberali. Più che un partito, una convenzione permanente, un plebiscito litigioso, una imprecisata "nazione progressista" che raduna sensibilità e culture differenti, in attesa di una sintesi ulteriore che consenta di armonizzare le diversità in un contenitore nuovo.
Basta aggiungere il deludente dato elettorale della primavera scorsa, quel 17 per cento delle politiche, per avere la sensazione che il partito è troppo piccolo per contenere tutte le sue anime, pur essendo la maggiore forza politica del centrosinistra. Proprio questa sua complessità, insieme ai numeri ridotti, potrebbe diagnosticarlo come «l´homme malade della politica italiana», a sentire Lanfranco Turci, uno degli esponenti di prima fila del Pci-Pds-Ds emiliano (la cui fuoruscita dal partito prima delle elezioni politiche del 2006, con la candidatura per la Rosa nel pugno, è stata accolta con il silenzio attonito e imbarazzato che saluta gli scismi irrimediabili).
Le tre entità principali che si agitano dentro i Ds sono facilmente descrivibili. Il primo partito è guidato da Cesare Salvi e Fabio Mussi, e rappresenta la componente neosocialista, avversa alla confluenza nell´ "indistinto" del partito democratico. Incarna una cultura dotata di consistenza storica, che prova a resistere alla "necessità" della transizione verso la "meteora" del partito democratico. E nello stesso tempo capitalizza la possibilità di proporsi come opposizione interna, svincolata dal peso della responsabilità verso scelte e obiettivi comune. Verrebbe quindi facile definire i neosocialisti diessini come una forza reazionaria, o come i sostenitori di una soluzione che prescinde dal contesto politico e dalla storia recente, ma ciò non serve a ridurne la portata implicitamente scissionista, e dunque la sfida politica e ideologica che essi conducono verso il centro del partito. Per Mussi infatti il partito «evapora», e i suoi leader propongono un riformismo talmente compromissorio da risultare politicamente irrilevante.
Quanto ai citati leader, ossia Massimo D´Alema e Piero Fassino, il loro orientamento politico è quello di chi ha una sola carta da giocare, e l´ha già giocata: si tratta naturalmente del passaggio al partito democratico, cioè della fusione con la Margherita e qualche formazione politica minore. Il processo fusionista ha raggiunto il punto di non ritorno; benché il gruppo dirigente ancora non chiarisca se il congresso decreterà lo scioglimento dei Ds, tutta la prima linea diessina lascia intendere che indietro non si torna. Non foss´altro che per inerzia, per automatismo, il partito democratico non può essere rinnegato. A costo di «perdere pezzi», come hanno chiarito il il sindaco ultrariformista di Torino, Sergio Chiamparino, e il dalemiano Nicola Latorre. C´è una scommessa politica essenziale, in cui i vertici del partito stanno riversando tutto il loro impegno, giocando l´unica partita per loro possibile, con uno sforzo in cui hanno accettato di mettere all´opera tutta la loro credibilità. Se la politica è anche lavoro oscuro e ingrato, i vertici diessini stanno facendo la loro parte.
Ma è qui che si può individuare la prima vera sfasatura, il primo possibile imprevisto, l´incognita, lo scarto nei calcoli della leadership ds. Perché, ognuna a suo modo, le due diverse posizioni assunte dall´interno dei Ds rispetto al partito democratico appartengono alla tradizione e alla storia della politica. A un´idea convenzionale e riconoscibile. Mussi e Salvi, così come con sfumature diverse Angius, Brutti, Zani, Pasquino e altri refrattari, restano legati a una concezione capace di legare le riforme economiche a un disegno socialdemocratico.
A loro volta, Fassino e D´Alema puntano su un accorpamento fra soggetti esistenti, per rendere credibile e politicamente attraente su un piano di massa e nel nome del riformismo «quella cultura liberal-solidarista-socialista che finora è stata appannaggio di sparute élite» (come ha scritto Michele Salvati in uno dei suoi molti manifesti per il partito democratico).
La sfasatura invece si apre non appena si mette a fuoco l´iniziativa di Walter Veltroni. Un fautore indiscusso del partito democratico. Ma nello stesso tempo il possibile portatore di un´ipotesi politica alternativa, anche se ancora indefinibile. Di un oltre che è più oltre. Con le sue "lezioni" nei teatri, a Roma e a Napoli (prossimamente a Milano, Torino e in altre città) e con la sua capacità di riversare emozioni politiche nel pubblico, il sindaco di Roma ha fatto intravedere la possibilità di sparigliare tutto. Le immagini di Gandhi, Chaplin, Kennedy, Martin Luther King, Mandela ma anche Alcide De Gasperi, Helmut Kohl e infine Barack Obama che accompagnano l´exploit teatrale di Veltroni (intitolato «Che cos´è la politica»), configurano un immaginario avulso dalla storicità dell´esperienza politica italiana, e anche europea. Mentre Fassino e D´Alema, così come Salvi e Mussi, lavorano politicamente secondo un´idea identificabile di partito e di società, Veltroni sembra dare per scontato l´azzeramento dei partiti italiani, e insieme a loro dei blocchi storici, delle egemonie culturali, degli stessi interessi organizzati.
Per lui il partito democratico appare semmai come una via lattea, struttura galattica dai legami deboli, priva di nessi economici fondanti, e proprio per questo capace di sovrapporsi senza scarti a una società destrutturata. Pensiero debole che si rivolge a una società debole. Lui stesso, Walter, non è un leader, è piuttosto una polarità che irradia sentimenti: l´esserci insieme, l´utopia che induce a camminare verso l´utopia, il partecipare al momento di un´emozione. La vaghezza culturale di questa concezione della politica è mitigata dal fatto che mentre D´Alema e Fassino sono inevitabilmente pesanti, ovvero concreti e novecenteschi, Veltroni è leggero, alla moda, capace di miscelare sul piano tecnico Baricco e Berlusconi.
Detto ancora più esplicitamente: D´Alema e Fassino, come anche quelli del vecchio Correntone, lavorano dentro il sistema politico cambiandone faticosamente i pezzi oppure resistendo al cambiamento; l´outsider Veltroni, invece, leggero come l´aria, agisce per cambiare i partiti ma anche l´intero formato e stile della politica: e almeno per il momento sembra quindi più in sintonia con i sentimenti diffusi, con le sensibilità e le frustrazioni dell´elettorato di sinistra.
Così sotto la Quercia sembra di contemplare nello stesso istante il passato socialista, il presente riformista e il futuro mobilitante. Tre partiti. Due che implicano lacrime identitarie ed evocano scissioni, nuove metamorfosi e rinunce, l´eterno rivolgimento interno della sinistra; mentre il terzo implica un sorriso consapevole e carico di nostalgia sulla fine dei partiti stessi, il richiamo a storie di varia e bella umanità, in attesa dell´avvento, così suggestivo, ma anche così inafferrabile, della post-sinistra.