martedì 30 gennaio 2007

IL MESSAGGERO - Mercoledì 9 novembre 1977
Chi è il Padrone del Discorso ?
di Ruggero Guarini


Questi gruppi di "analisi collettiva", e i molti altri analoghi spuntati un po’ dappertutto in Italia, sono un grosso fenomeno psico-politico un "sintomo collettivo" che bisognerebbe decifrare. Ma chi può farlo?
Il sociologo? Costui può offrirci soltanto degli strumenti empirici, utili per misurare le dimensione esterne del fenomeno (diffusione di queste pratiche, composizione sociale dei gruppi, età media dei partecipanti, loro identità politica e così via) ma insufficienti a definire il senso.
Il politico? il suo sguardo è troppo interessato. Nel migliore dei casi, in questo fenomeno che lo prende di contropiede, egli si sforzerà di cogliere quegli elementi che gli sembreranno funzionali al suo "discorso ": se esprimerà consenso, vi avrà scorto la possibilità di riassorbirlo o di annetterselo; se emetterà un giudizio di condanna, vi avrà visto un segno per lui minaccioso, di fuga dalla politica.
Lo psicoanalista? I suoi strumenti teorici sono essenziali ma essendo egli stesso un frammento della "formazione sintomatica" che occorre decifrare, sarà troppo coinvolto nella cosa per poterne parlare col necessario distacco.
Limitiamoci dunque a porre tre elementari quesiti:
1) Un mucchio di circa duecento persone è ancora un gruppo psicoterapeutico? E se non è più questo che cosa è? Un circolo culturale? Un’associazione di mutuo soccorso? Un collettivo dedito a una nuova specie di "esercizi spirituali"?
2) Un individuo che a centinaia di pazienti riuniti intorno a lui distribuisce come noccioline manciate di interpretazioni di sogni lapsus deliri e fobie è davvero un analista? E se non lo è, che diavolo sarà? Un pedagogo? Un confessore? Un leader?
3) Qual è il rapporto fra l’identità politica dei partecipanti (quasi tutti giovani della nuova sinistra) e questo loro "bisogno" di una pratica metapolitica? Le due attività sono complementari (nel senso che l’analisi di gruppo, omogenea al "personale" e al "privato" compensa le lacune e colma i buchi lasciati aperti o prodotti dall’attività politica), o sono invece contraddittori, al punto che alla lunga una delle due pratiche sia destinata a prevalere sull’altra, magari fini a liquidarla? Detto con altre parole: questa dicotomia dello Psichico e del Politico si configura come una convivenza pacifica di domini separati o come un conflitto di dimensioni antitetiche?
Infine enunciamo qualcosa che è meno e più di un’ipotesi (è un'ovvia constatazione): oggi c’è in giro una grande domanda di Anima. Il risultato è certamente qualcosa di meno noioso della consueta Grande Chiacchiera politica, ma sarebbe ancora meglio se nelle pratiche generate da questa massiccia domanda non si riproducesse la solita dialettica dello Schiavo e del Padrone…
Insomma questi ragazzi dovrebbero un po’ interrogarsi su quelle nuove forme di "potere" che in questi loro gruppi si vanno articolando intorno a una figura che non cessa di porsi - in quanto interpretante e analizzante - come un nuovo Padrone del discorso.
Chi è questo nuovo Padrone? Un maestro di coscienza? Un genitore morale? Un altro padre politico?
Questo sarebbe il caso più derisorio: il Politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!

IL MESSAGGERO - Mercoledì 9 novembre 1977
Un analista che rifiuta Freud
di Fulvio Stinchelli

Quarantasei anni, faccia scavata e sguardo ardente dietro le lenti fumé un passato di rissoso eretico freudiano alle spalle, Massimo Fagioli è oggi lo psicoanalista italiano di gran lunga più seguito e ascoltato. Da due anni, nello spazio universitario concessogli dall’illuminato pluralismo del professor Reda per l’intercessione del suo amico e collega Nicola Lalli, tiene seminari bisettimanali sempre più affollati. Terapia di gruppo? Psicodramma? L’autore di "Istinto di morte e conoscenza" respinge seccamente queste definizioni etichetta che "lo soffocano", dice, "senza appartenergli".
Mezzo scienziato e mezzo profeta, rinnega paternità, filosofie e ideologie: Freud? Un pasticcione. Lacan? Un altro che non ha capito niente. La psicoanalisi? Si, purché sia quella che passa per l’ "inconscio mare calmo", la "fantasia di sparizione" e l’"istinto di annullamento". Sono questi i tre cardini della "scoperta" su cui ruotano ossessivamente la dottrina e la "predicazione" di Fagioli.
Lo incontriamo nel suo quieto studio di Via Nomentana, in una cornice rigorosamente freudiana: pochi libri, quadri anonimi, scrittoio modesto, poltrone comode e il sacro divanetto. Osserviamo. "Qual cosa di Herr Professor comunque rimane". Risponde: "Restano le analisi individuali che continuo a fare, perché i seminari sono gratuiti, ma il mio vero campo d’azione è l’analisi collettiva, una cosa che Freud non ha mai fatto".
Prima di arrivare all’analisi collettiva, che è il successo del giorno, vogliamo soffermarci un attimo sul punto di partenza?
"Per me tutto cominciò al liceo, quando, vivendo in ambiente medico, feci la prima osservazione: Le malattie psichiche distruggono più di quelle fisiche. Una gamba rotta o una broncopolmonite trovavano soluzione mentre i pazienti depressi venivano liquidati col manicomio. Decisi allora di fare medicina e specializzarmi in psichiatria. Dopo la laurea, la pratica presso l’ospedale psichiatrico di Venezia. Per un anno e mezzo mi attenni al ruolo e alle disposizioni: non dovevo far altro che girare la chiavetta e zac: elettroshock. Allora mi chiesi: ma cosa sto facendo? Sto alla catena di montaggio? Avvito le teste? Me ne andai e cominciò un periodo duro per me. Prima Verona, dove mi cacciarono perché ero "rosso", poi approdai a Padova, dove un minimo di ricerca si faceva. E lì mi venne la prima ispirazione. Dissi: l’istinto di morte è l’istinto di morte, d’accordo, ma questi, i malati, non muovono un dito. Dov’è tutta questa aggressività? Un esempio? Reparto agitati: trenta ricoverati, due infermieri. Mai accaduto un incidente. Allora, quest’istinto di morte non è distruzione. Incominciai così a studiare questo istinto passando e andando sempre più a fondo nel rapporto con l’inconscio. Mi trasferii in Svizzera, dove ebbi modo di superare la sindrome del malato per vedere cosa ci fosse dietro. Nel ’64 feci la mia analisi personale, la svolta fondamentale".
C’è un episodio cui puoi legare questo momento del passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi?
"Si, ed è connesso a un paziente il quale, un giorno, mi rimproverò di non averlo assistito in una determinata circostanza e di avergli, quindi, 'fatto del male'. Ma se quel giorno, mi dissi, io ero in ospedale, come posso avergli fatto del male? Fu un’illuminazione: è l’assenza che fa del male. Cos’è l’assenza? E’ una pulsione attiva di annullamento".
Qui spunta Lacan….
"No. Lacan dice che è una mancanza. La mia, ripeto, è pulsione attiva di annullamento. La si può verificare nel "Non visto" e nel gioco infantile del "Bubù settete", dove il bambino appare e sparisce. Di qui mille passaggi, verifiche e confronti. Una storia lunga, che comincia, però, qui: dalla scoperta dell’annullamento".
Arrivando a questa scoperta e nel lavoro successivo, l'insegnamento di Freud l’hai tenuto presente?
"L’ho rifiutato e lo rifiuto totalmente".
Anche tu, però, in questa ricerca , pratichi "l’arte del sospetto"?
"Ma nemmeno per idea. Il sospetto parte da una verità precostituita e accertata: Io mi metto in sospetto se temo che tu mi dia un pugno. La mia ricerca non ha condizionamenti di questo tipo".
E’ importante, secondo te, che Freud sia nato?
"Io, sulla nascita delle persone, evito di intervenire. Giusto che sia nato, lo sbaglio è che si è messo a fare lo psicoanalista. Se avesse fatto il medico generico sarebbe stato molto meglio. Diciamo le cose come stanno: esiste una bibliografia enorme, opera di predecessori di Freud, che sta a dimostrare che Freud non ha scoperto niente. Se una certa società e una certa cultura oggi lo idealizzano tanto ciò è dovuto al fatto che con Freud l’analisi non si fa e questa società ha paura che la gente faccia l’analisi, perché fare l’analisi sul serio significa vederci chiaro, rendersi conto dei 'mucchi di sabbia' di tanta cultura, significa imparare a dire di no. E chi sa dire di no rimette tutto in discussione: affare scomodo. Freud, invece, è comodo perché finge di fare l’analisi. Infatti, non ha metodo, si limita a codificare la non trasformazione umana. La sua è un’analisi interminabile, perché parte dal punto di vista che non c’è niente da fare e allora si ricade nella vecchia psicoterapia di sostegno. Roba dei tempi di Ippocrate. Non c’è trasformazione…..".
Invece, nella tua c’è, a quanto lasci capire. Ma prima di te?
"C’è Marx. Ecco uno che aveva intuito la psicoanalisi, parlando di trasformazione. Mi riferisco al giovane Marx, quello dei 'Manoscritti' e dell’'Ideologia tedesca'".
Meno male che anche tu hai un padre, ma veniamo ai tempi nostri: quando ti sei deciso a rompere con la Società di Psicoanalisi Italiana?
"E’ una storia risaputa. Comunque, fu nel ’68. Sentii che i tempi erano maturi per tirar fuori quel che avevo scoperto e già praticavo. Pubblicai il mio primo libro e fu l’innesco della reazione a catena che mi ha portato agli attuali seminari basati sull’analisi collettiva".
Anche qui c’entra Marx?
"Eh, sì. Perché tutta quella gente raccolta intorno a me parla, racconta, domanda, ascolta e domanda ancora. E torna, puntualmente, senza che nessun le abbia fissato un appuntamento, né un programma d’analisi. Tutti insieme, senza pudori né resistenze. Indubbiamente, trovano quel che stavano cercando. Tutti insieme, collettivamente. Siamo dunque lontano dall’analisi individuale. Un po’ come la presa di coscienza nella fabbrica, Per me è la conferma di essere sulla via giusta. Io non uccido il paziente come fa l’analista dall’alto del suo ruolo e del suo diploma, nel chiuso dello studio. Io li affronto, lì, seduto in mezzo a loro che sono centinaia, pronti a rimbeccarmi se dico stupidaggini. Perché la gente conosce l’analisi più di quanto comunemente si creda".
Qual è la differenza tra analisi individuale e analisi collettiva?
"All’analisi individuale si presenta, quasi sempre, un uomo che sta molto male: è confuso, annullante, depresso. In quel caso deve fare quasi tutto l’analista, cogliendo il problema e cerando di risolverlo, direi a dispetto dello stesso analizzando che vuol distruggere l’analista. Questo, in un certo senso si verifica anche al seminario, ma lì la risposta è collettiva. A volte io non faccio che interpretare il sogno di uno per rispondere a quello di un altro. E’ la conferma che l’uomo è un essere sociale. Vedi che Marx torna sempre? Voglio dire che il problema della ragazza la cui madre le dà della puttana perché esce la sera è problema di migliaia di persone, non è il problema personale di quella singola ragazza con quella madre. Questo è il mio lavoro, in poche parole. E allora si capisce perché tutto ciò rappresenta la distruzione di Freud".

IL MESSAGGERO - Mercoledì 9 novembre 1977
Psiche e società
I giovani della Nuova Sinistra scoprono un nuovo pianeta: l'Analisi Collettiva. Un po' dovunque stanno infatti spuntando gruppi e seminari psicoterapeutici. Alcuni di questi "collettivi" hanno raggiunto dimensioni "monstre": fino a 200 partecipanti a seduta! E' un importante sintomo psico/politico. Ma qual è il suo vero senso? La riscoperta dell'anima? Un ritorno agli Esercizi spirituali? L'inizio di una fuga dalla politica?

Tutti insieme intimamente
Ecco la cronaca di una seduta
di Luigi Vaccari

Lei, sui 30, la voce concitata: "Senti Massimo, vorrei dire una cosa ai compagni. Giovedì scorso sono arrivata alle 5 e un quarto, c'era già la fila, ma io non mi ci sono messa, ho rifiutato quest'imposizione, sono entrata e mi sono seduta. Oggi sono arrivata alle 5 meno un quarto, e anche oggi c'era già la fila , e io mi sono opposta, la fila no... Sono stata violentata: " Tu non sai stare coi compagni ", mi hanno urlato. Sono stata violentata per tre quarti d'ora... Ero venuta serena, in questa settimana molte cose mi si erano chiarite, ora ho le idee di nuovo confuse... Perchè succedono queste cose? ... Queste cose non devono succedere, non possono succedere..."
Massimo, sorridente ma fermo: " Quando l'organizzazione la fanno i compagni non c'è più la sensazione di dominio".
Lei, scossa da un tremito, gli occhi di lacrime: " Allora vorrà dire che devo venire alle tre..."
Massimo "E' la stessa difficoltà di tutti" Poi, dopo una pausa, con una smorfia di compiacimento: "...E propone la nascita di un terzo seminario " .
Lei è una dei 150-200 protagonisti dell'incontro confessione che si tiene il giovedì all'Istituto di psichiatria dell'Università, al 47 di viale di Villa Massimo al Nomentano. E altrettanti ne intervengono a quello del martedì, che ha aperto un anno e mezzo fa la strada. Giovani ma anche meno giovani. Ragazzi ma anche tante ragazze. Studenti, forse del liceo forse universitari, ma anche gente che lavora. Massimo è Massimo Fagioli, uno psichiatra approdato dopo esperienze varie alla psicanalisi ufficiale e successivamente allontanatosene. I due seminari a cui si può liberamente partecipare, testimoniano un insolito tentativo di analisi collettiva, la capacità liberatoria di raccontarsi in pubblico cercando il significato di sogni che sono spesso incubi lunghi e sofferti.
L'appuntamento è in una sala al primo piano, di 40-45 metri quadrati. Il portone dell'istituto viene aperto mezz'ora prima dell'inizio di questo straordinario transfert comune. Quando tutti aspettano da tempo, pazienti. In una fila molto ordinata e poco italiana. La corsa esplode sulla breve rampa di scale che porta al luogo della riunione. Per occupare le pochissime sedie che vi si trovano, e anche i braccioli. Alcuni si sistemano su sgabelli pieghevoli, portati da casa e dall'incerto equilibrio. Altri siedono in terra, come coloro che non riescono ad entrare e restano nello stretto e breve corridoio.
L'analisi occupa due ore: dalle 18 alle 20 e dalle 10 alle 12 il martedì. L'attesa è ingannata diversamente. Chi fuma, le ragazze soprattutto. Su un cartello. "Qui è vietato fumare", qualcuno ha aggiunto fra qui ed è un "non" a lapis, e fanno da posacenere anche lattine vuote di noccioline che passano di mano. Chi legge, faticando nei movimenti: Il Manifesto, L'Espresso, Lotta Continua. Chi parla con chi gli sta accanto, e il tono è sommesso. Pochi sono tirati nei tratti del volto. Pochissimi sembrano preoccupati, anche se qualcuno fissa il vuoto.
Quando compare Massimo, molto puntuale, a fatica riesce a raggiungere la sua sedia dirimpetto alle porte della sala, spalle a una finestra che come le altre adesso viene chiusa. E c'è subito fumo . E caldo. Tanti, e tante, si sfilano i pullover. E si comincia, dopo il lamento protesta di colei che aveva rifiutato la fila, con Adele. La quale non sa, dice, se viene per una curiosità intellettuale, lei è una giornalista, o per se stessa. Ad ogni modo, dopo aver partecipato quattro volte ha fatto un sogno.
"Posso raccontarlo?" domanda.
Massimo: "se tu chiedi il permesso non vuoi avere capito niente"
Un giovane: "Io, invece, Massimo...."
Adele: "Ma lo racconto o no?"
Tutti ridono
Massimo: "sarebbe una punizione troppo grossa... Avanti, avanti".
E Adele : "Stavo su un sentierino di una montagna a San Brunello, in Calabria, con dei ragazzi che erano i miei figli e i loro amici..."
Quando ha concluso, Massimo le spiega che nel suo sogno ci sono un sacco di intuizioni ma anche di negazioni. E c'è la sua difficoltà di essere compagna. E non solo non ci sono ruoli sociali, ma neppure quelli familiari né quelli personali. E il rosso che ad un tratto appare significa le donne che ritrovano le loro mestruazioni senza sentirsi castrate.
Una ragazza sui 25, orecchini ad anello, argentina bianca e sopra una maglietta bordò col collo aperto, ricorda le difficoltà per arrivare fino al gruppo, poi, dopo l'ultimo incontro una serie di sogni: "Era morta mia madre, io dovevo verificare questa morte, andavo al cimitero ma volevo che mi accompagnassero, e mi accompagnava un ragazzo", la scena cambia: " Io abbraccio il ragazzo, ma compare mio padre e ci divide" Secondo sogno: Lei si prepara a fare l'amore , ma le vengono le mestruazioni. Terzo sogno: " Io incontro Massimo, mi dice che mi vuole parlare, anch'io gli dico che devo parlargli ma posso perdere il posto in farmacia".
Massimo interpreta così: la separazione dalla madre è possibile solo se si è in compagnia, per fare un'analisi a fondo occorre il rapporto collettivo. Poi il compito del padre: ma il ragazzo lei se lo sceglie da se... Terza proposizione: per venire al seminari o c'è il rischio del licenziamento. La realizzazione analitica, d'altra parte, non è qualcosa che può restare nel chiuso dello studio privato. Ma deve uscire fuori. E allora diventa anche un fatto politico.
Maglione grigio a giro collo, occhiali da vista chiari, folta barba, borsello, un pacchetto di MS e uno di cerini sulle ginocchia, un giovanotto racconta che se ne stava seduto fuori, sulle scale, e non poteva andare al seminario perchè gli mancava l'apparecchio ortopedico, non poteva salire. Arrivavano i compagni, però, e lo portavano su loro. "Finito il seminario se ne vanno e mi lasciano li, e io dico "che stronzi" ... Mi metto carponi, si, ce la faccio. Mi vergogno un pochino ma riesco a farcela..."
E Massimo: Il tutore ortopedico... Ne può fare a meno nel momento in cui si è insieme... Ma che cos'è il tutore ortopedico? È la passività di fronte alla mammina, al papino, alla zietta, fino al governo Andreotti. Che scompare purché ci sia un lavoro collettivo.
Gli interventi si inseguono. Uno dietro l'altro. senza una sosta, una riflessione. Alle risposte di Massimo non c'è replica.
Un'altra ragazza, di cui arriva solo la voce: "Io prima andavo al martedì. Vengo al giovedì da due settimane e mi sono sentita a disagio, mi sembrava di aver abbandonato un buon lavoro... Ho sognato che stavo al seminario, ma non era in una stanza, era in strada, e c'erano alcuni che camminavano, altri che sonnecchiavano. Vedo Silvio che sonnecchia, gli do un bacio, gli dico "su dai", bacio un altro ragazzo, poi ne sveglio un terzo, sempre con un bacio, facciamo l'amore ed è un rapporto molto dolce, molto tenero...
Massimo chiarisce che il modo per non farsi abbandonare è proprio il terzo rapporto, cioè il terzo seminario, cioè aumentare il lavoro, anche in senso qualitativo.
Un altro giovanotto sui 20 dice: "Ho sognato che stavamo aspettando il seminario su una distesa erbosa, arriva un gruppo di persone, ci sono anche il miei genitori i quali vengono con noi. Ma vogliono sapere, soprattutto mia madre assume un ruolo molto interlocutrice..."
E Massimo risponde: se si fa il terzo seminario ci si può occupare anche dei genitori...
Si va avanti su questa chiave di lettura. Su questa relazione molto stretta fra sogno e seminario. Seminario come riferimento costante, fino all'ossessione o all'incubo. Seminario come abbandono ultimo e disperato. Per fuggire una solitudine assoluta e tragica. E Massimo che parla ora della paura ora ha bisogno di una sua ulteriore dilatazione, dopo che c'è già stato lo sdoppiamento. "Qui c'è una precisa richiesta: non fare il terzo seminario, sennò perdo questa possibilità di analisi che ho raggiunta", replica ad una ragazza dalla voce contratta, lo sguardo basso. Che aveva ricordato con queste parole il suo sogno: "C'era come una gara, resistere in una situazione dove l'aria era poca. Poi mi accorgo che la gente ci stava bene e dico 'andiamo più in basso'. Ci vado con un'amica e ci troviamo come in un cunicolo, come nella metropolitana a Londra. Ma io avevo la sensazione di salire, incontro un uomo nero, usciamo fuori ed è Roma..."
Il rapporto col seminario vale anche per una lei sui 28, che la notte precedente ha ripercorso due storie sentimentali, " e con il primo ragazzo parlavo pacatamente, con il secondo soffrendo molto" Per un lui sui 25, che era su una spiaggia con un amico, incontrava una suora con un cesto, nel cesto c'erano tre tartarughe, le tartarughe si infilavano nel mare, un lungo tunnel... Per un'altra lei sui 27, che perdeva un treno per una questione di minuti, ne perdeva un secondo, però riusciva ad arrivare dove doveva arrivare.
Se n'è andata un'ora, Superando braccia, gambe, teste, a mo' di slalom, il cronista guadagna con molto impegno e molto sudore il corridoio. Un ragazzotto che non s'è ancora raccontato, chiede: "quando esce l'articolo sul giornale?" Risposta: la prossima settimana. "Speriamo di non leggere stronzate". Ne hanno dette ? Ed il ragazzo sorride, con un sorriso di meraviglia e di stupore, come dire: " Ma vuoi scherzare? ".
L'Espresso n.4 2007
Quel gioco di ruolo tra eskimo e grisaglia
di Eugenio Scalfari


Bertinotti sostiene che questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni.
Ma c'è un limite, se non si vuole creare paura e caos

Fausto Bertinotti ha rilasciato un'intervista al 'Corriere della Sera' che l'ha pubblicata domenica 21 gennaio. È un'intervista politicamente interessante: prende posizione netta contro l'allargamento della base militare Usa a Vicenza, polemizza indirettamente ma abbastanza scopertamente con Prodi su parecchie e rilevanti questioni; al tempo stesso si augura che il suo governo duri per tutta la legislatura, anzi afferma che questa durata, di per sé, è una condizione non sufficiente ma necessaria per cambiare la società italiana, obiettivo da lui ritenuto assolutamente urgente.

Non starò a commentare i tanti aspetti politici di questa intervista, ma ce n'è uno che definirei filosofico, che voglio qui prendere in esame. L'intervistatore gli chiede ad un certo punto se sia possibile indossare al tempo stesso l'eskimo e la grisaglia, intendendo dire un atteggiamento di lotta (l'eskimo) e uno di governo (la grisaglia). La risposta è questa: "L'idea della fissità dei ruoli è una concezione sbagliata. Questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni, non delle separazioni e dell'albagia. Se si vuole cambiare la società c'è bisogno sia dell'eskimo sia della grisaglia".

C'è un'eco sessantottina in quest'immagine, quando i giovani del movimento studentesco sostenevano la necessità di abolire i ruoli e identificavano pubblico e privato. Era la rivolta contro una classe dirigente e una società incartapecorite, dove l'essenza delle persone e spesso la loro stessa dignità venivano soffocate dal ruolo ad esse assegnato: chi comanda e chi deve obbedire, l'uomo e la donna, i docenti e gli studenti, i genitori e i figli, ciascuno al suo posto con inesorabile continuità.

La lotta contro i ruoli fu la questione centrale del sessantottismo, che postulava la massima libertà e la massima eguaglianza come esiti positivi da ottenere, appunto, dall'azzeramento del 'ruolismo'. Di qui la contestazione accanita degli studenti nei confronti dei loro professori, dei figli contro l'autorità genitoriale, dei lavoratori contro i datori di lavoro e in generale contro l'ipocrisia della società borghese e contro il potere, culmine di tutti i ruoli e della loro schiacciante fissità.

La visione era seducente. Metteva in discussione alcune gravi lacune della democrazia rappresentativa, si rifaceva alla partecipazione diretta di tutti i cittadini al governo della società con evidenti riferimenti all'esperienza della Comune di Parigi del 1871 e alle tesi rivoluzionarie di Rosa Luxemburg che infatti fu allora una delle icone di quella rivoluzione giovanile.

Si sa come andò a finire. E non parlo qui della degenerazione violenta che coinvolse alcuni settori del movimento e imboccò la via sanguinosa e terribile degli anni di piombo, laddove l'insorgenza del Sessantotto era stata non violenta e gioiosa. Parlo invece del rapido fallimento della lotta contro i ruoli, della quale rimase come solo esito positivamente acquisito un mutamento reale nel rapporto uomo-donna che ha poi progredito e si è diffuso nella coscienza collettiva anche se resta largamente incompleto.

Dicevo che il movimento fallì nel suo intento principale e non solo: molti dei giovani che erano stati alla testa di quella rivoluzione virtuale rientrarono rapidamente nei ranghi ascoltando il 'rappel à l'ordre' che sempre sopraggiunge a rimettere in riga le avanguardie. Fecero carriera molti di quei giovani, proprio scalando quei ruoli che avevano vagheggiato di abbattere.

Ma torniamo a Bertinotti e alla sua teorizzazione dell'eskimo e della grisaglia.

Dicevo che c'è un'eco sessantottina in quella visione, ma c'è anche un'eco togliattiana nella tesi che fu del Pci considerato come partito di lotta e di governo. Fu definita la duplicità della linea di Togliatti e del gruppo dirigente comunista.

E fin qui siamo nella stretta politica, ma secondo me c'è anche dell'altro nella frase bertinottiana "questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni"; qui si mette in gioco il concetto stesso della coerenza dell'io quando si postula che la contestazione del potere e la sua conquista e il suo esercizio possano coesistere con la stessa intensità e senza ipocrisie all'interno della coscienza individuale e di quella collettiva. Non credo che Bertinotti, nell'esprimere questa sua visione, avesse in mente anche i risvolti di carattere analitico-filosofico, ma se questo è il tempo della mescolanza e della contaminazione (e anche secondo me lo è) bisogna andare oltre il recinto troppo stretto del politichese.

Personalmente sono da tempo arrivato alla conclusione che l'io non sia affatto monolitico e che rappresenti l'usbergo della capacità riflessiva della mente. Del resto, dopo Freud, sarebbe difficile attestarsi ancora sull'icona delle monadi, chiuse e sempre eguali a se stesse.

Tuttavia trasferire la flessibilità dell'io e la sua mobilità alla funzione dei ruoli è un'operazione a perdere, da definire 'impossible mission'. Infatti è sempre fallita. Bisognerebbe chiedersene il perché.

Credo che una prima risposta possa essere questa: il ruolo soddisfa un bisogno insopprimibile di oggettività che la comunità esige come garanzia di propria certezza sulla quale costruire i suoi programmi di futuro. Tutto cambia intorno a noi e intorno a ciascuno di noi, ma non può cambiare il ruolo a capriccio di chi lo riveste senza - ove ciò accadesse - suscitare ondate collettive di insicurezza, paura, caos.

A meno che la tesi bertinottiana non sia affetta da ipocrisia, cosa che non vorrei prendere in considerazione.

Corriere della Sera Interventi e repliche 22.1.07
Rifondazione: speranza di trasformazione
di Francesco Troccoli


Con riferimento all'articolo di Dario di Vico sul Corriere del 16 gennaio ("Perché vince Rifondazione") vorrei tentare, da lettore del giornale ed elettore di partito, di andare oltre alle pur interessanti e condivisibili affermazioni che vi sono esposte. Verissimo tutto, Rifondazione è in viaggio. Un viaggio di riforma. Ma basta riconoscere questo per rispondere alla domanda del titolo? Forse è il caso di approfondire. Di ricordare ad esempio che il viaggio è iniziato sotto la spinta di leader (Bertinotti prima e soprattutto, Giordano poi e in encomiabile crescendo) che non limitano o non hanno limitato il campo della propria sfera di interesse e di azione ai "bisogni" primari e più elementari, pur fondamentali, dell'essere umano, come il salario equo o la pensione minima, ma spingono la loro battaglia politica ad un livello più alto, quello delle esigenze. Mi sia consentita la distinzione di queste ultime dai bisogni puri e semplici. Avere il tempo, come l'on. Giordano disse in un bel dibattito qualche mese fa, di badare ai figli nel tempo libero e di goderseli è un'esigenza che nobilta ed umanizza il semplice bisogno di riposarsi e dormire; affermare che l'assassinio di Saddam in Iraq è "uccidere come annullamento dell'umano" (P. Ingrao su Liberazione del 17 gennaio) non è solo il bisogno illuminista di abolire una pena inutile e crudele, ma l'esigenza dell'essere umano di affermare la propria identità, che è vita, trasformazione e possibilità infinite di cambiamento, e non è bestialità assassina; parlare di "non violenza", vessillo della battaglia teorica bertinottiana, non è solo frutto del bisogno materiale di evitare il comportamento violento in quanto inutile e/o illegale, ma esigenza di ribadire la vera tendenza naturale, spontanea, dell'essere umano sano: la socialità, il rapporto tra diversi, bianco- nero, cittadino italiano-immigrato extracomunitario, occidente-oriente, e magari, dulcis in fundo, uomo-donna. Ecco, Rifondazione vince forse anche e soprattutto perché consapevolmente o inconsciamente, le persone che le danno il voto e alcuni (forse non tutti) suoi leader vi ritrovano e ne alimentano un'identità umana, ben prima di quella sociale o politica. In una parola, la speranza di trasformazione, quel movimento irrazionale che dagli animali, che si muovono per bisogni ma non certo per esigenze, ci differenzia in modo unico.
Francesco Troccoli


Ansa 30.1.07
Dinosauri col pollice opponibile prima dell'uomo


Da sempre si dice che ad aver fatto la differenza nell'evoluzione tra l'uomo e gli altri animali sia stata la sua struttura della mano, dotata di pollice opponibile. A quanto pare però c'é qualcuno che ci ha preceduti; alcuni scienziati in Texas hanno scoperto infatti che il Bambiraptor, dinosauro simile ad un uccello, di oltre 75 milioni di anni fa, aveva il pollice opponibile, ben prima quindi dei nostri antenati.
Come riporta la rivista News Scientist che cita il 'Journal of Vertebrate Paleontology', la scoperta è stata possibile grazie allo scheletro eccezionalmente preservato di questo mini-dinosauro, non più alto delle nostre ginocchia.
Lavorando sui modelli di ossa, Phil Senter ha scoperto che il Bambiraptor era in grado di tenere in mano la preda o di usare le sue lunghe braccia per portarsi alla bocca gli oggetti, "oltre a toccarsi la punta del pollice con quella del medio - spiega Senter - Cosa finora mai vista in nessun altro dinosauro". Molti dinosauri predatori afferravano infatti la preda con la bocca, mentre il Bambiraptor era in grado di farlo con rane o piccoli mammiferi con una mano sola. I suoi artigli affilati sulla punta delle dita servivano a bloccare la preda da entrambi i lati evitando così di farla scappare.
Anche se sul fossile conservato non c'é traccia di piume, questo dromeosauro era un parente vicino degli uccelli, e il più primitivo finora trovato, il Microraptor, aveva lunghe piume su braccia e gambe.

l’Unità 30.1.07
Boselli: «I ministri si diano una calmata»
«Il Guardasigilli sega l’albero dove è seduto
Dopo le defezioni su Kabul è davvero troppo»
di Andrea Carugati


«Mastella stia attento, perché sta segando il ramo su cui è seduto. Non so a che gioco stia giocando, ma certamente è un gioco pericoloso». Enrico Boselli, segretario dello Sdi, è preoccupato per la piega che ha preso il dibattito sulle unioni civili, subito dopo l’astensione di tre ministri della sinistra radicale sull’Afghanistan: «Qualcuno vuole aprire una pagina di maggioranze variabili, sulla politica estera, sui diritti civili e magari anche sulle liberalizzazioni? Attenzione, perché in questo modo non si dura a lungo».
Il ministro Mastella dice che questa volta ci sono in gioco i valori.
«Rifiuto l’idea che quella delle unioni di fatto sia una questione etica: l’etica c’entra se parliamo di embrioni, o di eutanasia. Qui si tratta solo di garantire il diritto di successione nell’affitto, la reversibilità della pensione, o di poter esprimere un’opinione quando il proprio convivente è ricoverato in ospedale. Non riesco proprio a capire dove stia l’etica. Io avrei voluto una vera legge sui Pacs, come ne esistono in gran parte d’Europa. Si è scelto un compromesso per garantire alcuni diritti e su questo abbiamo un dovere perché l’abbiamo promesso agli elettori come coalizione, non come singoli partiti».
Mastella dice che se tre ministri si astengono sulla politica estera lui ha tutto il diritto di farlo sulla famiglia.
«E infatti mi stupisce molto che i ministri si comportino in questo modo. Se non si condivide un passaggio importante della politica di un governo la prima cosa da fare è dimettersi, non giocare con le parole. Quando 4 ministri, nel giro di una settimana, votano contro il proprio governo ne stanno minando la credibilità davanti all’opinione pubblica, lo stanno indebolendo. Se Mastella persiste in questa posizione, autorizza la sinistra radicale a fare lo stesso sull’Afghanistan. Ma, ripeto, non si può andare avanti con le maggioranze variabili».
Vede prove di Grande centro sulle coppie di fatto?
«Vedo al centro un grande movimento. Il tentativo di immaginare la nascita di un nuovo governo non è più solo nel campo delle fantasie, ma sotto gli occhi di tutti. Ne parla da settimane l’onorevole Casini, una parte dei cosiddetti poteri forti. E il comportamento della sinistra radicale non fa altro che portare acqua al mulino di chi dice che con loro è impossibile governare. Che ci si metta anche Mastella è una cosa che mi sorprende davvero. Se si continua così il rischio di un governo istituzionale si avvicina...».
Eppure i teodem della Margherita sembrano non seguire l’Udeur e si apprestano a votare alla Camera la mozione dell’Ulivo.
«Bisognerà vedere bene. Quelle che ho sentito finora non sono buone parole. Resta l’idea inaccettabile che il Parlamento non possa legiferare su questa materia perché così si mette in crisi l’istituto della famiglia. Questa è pura propaganda e lo dimostrano i fatti: nei grandi paesi europei dove c’è una legge sulle coppie di fatto la famiglia non ne è stata scossa. In Spagna poi una legge è stata proposta e approvata dai popolari di Aznar, non da Zapatero. C’è poi un dato: del milione e mezzo di conviventi italiani l’80% sono cattolici. La Chiesa, che rispetto, dovrebbe interrogarsi sulla crisi dell’istituto matrimoniale e non limitarsi a negare la comunione ai conviventi. Serve qualcosa di più di un anatema».
Insomma, non vede aperture significative da parte dei teodem?
«Questa parte della Margherita sta seguendo la strada di influenzare il merito del ddl del governo. L’obiettivo è quello di svuotare, o comunque di rendere meno incisivo il provvedimento. Bisognerà vigilare affinché esca un testo giusto, per il momento sono molto cauto».
Teme che alla fine venga partorito un topolino?
«Non faccio processi alle intenzioni: Prodi si è impegnato con sincerità e coraggio e con lui i due ministri direttamente coinvolti.Prima di esprimere un giudizio voglio vedere il testo del ddl».
Dunque il rischio è che alla fine i delusi siano i laici?
«Intanto vorrei dire agli italiani che convivono che non devono sentirsi colpevoli, che per lo Stato non sono peccatori. E poi vorrei ricordare ai parlamentari cattolici che quando si è rappresentanti del popolo l’unica Bibbia che dobbiamo avere in tasca è la Costituzione: il Parlamento non fa le leggi per difendere la morale religiosa, ma per garantire dei diritti, o magari per indicare dei reati: tra ciò che è peccato e ciò che è reato c’è una distinzione. È questo che ci differenzia dal fondamentalismo».

l’Unità 30.1.07
Napolitano: dialogo sui Pacs
«Si deve trovare una sintesi anche tenendo conto della Chiesa». E sull’Afghanistan: accentuare la dimensione civile
di Vincenzo Vasile


SCELTA CORAGGIOSA Da Madrid Giorgio Napolitano, a proposito delle unioni civili e delle coppie di fatto auspica la coraggiosa scelta di «una combinazione di diverse sensibilità»: si dichiara certo che si possa trovare «una sintesi nel dialogo», anche «tenen-
do conto delle preoccupazioni espresse dal Papa e dalle alte gerarchie» ecclesiastiche. Occorrono oggi, insomma, lo stesso coraggio e la stessa saggezza che il capo dello Stato rinviene sfogliando la più classica pagina di conciliazione nazionale tra estrema sinistra e mondo cattolico della nostra storia recente: quell'articolo 7 della nostra Costituzione che Togliatti votò alla Costituente il 25 marzo 1947, in rottura con il Psi di Pietro Nenni ferreamente aggrappato invece a posizioni laiciste, giusto poco prima della rottura dei governi di unità nazionale, recependo nella carta fondamentale i Patti Lateranensi, ma ottenendo di sancire nero su bianco che "lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani".
È questo l'episodio clou della breve conferenza stampa del capo dello Stato che praticamente ha concluso ieri sera una fitta agenda di incontri e cerimonie in Spagna. Siamo nel Paese in cui la destra con Aznar ha introdotto i Pacs, e la sinistra di Zapatero le unioni omosessuali: una soluzione è dunque possibile anche da noi? chiedono i giornalisti. La risposta di Napolitano evita diplomatismi: nella realtà italiana c'è una traccia obbligata, che del resto il presidente non manca di indicare sin dal discorso di insediamento davanti alle Camere riunite. Questo solco obbligato è la Costituzione, anche altrove spesso richiamata sull'argomento da Napolitano, prima ancora che riguardo all'articolo 7, per le cospicue parti che richiamano i diritti dei cittadini e per quegli articoli, anch'essi condivisi dai Costituenti che si riferiscono alla famiglia, "società naturale fondata sul matrimonio" (articoli 29, 30 e 31). In altre parole, l'esternazione di Napolitano si può facilmente interpretare come una sollecitazione e un sostegno alla mediazione che personalmente Romano Prodi sta conducendo tra le due ipotesi avanzate dai ministri della Famiglia e delle Pari opportunità, Bindi e Pollastrini: riconoscimento di un forte pacchetto di diritti, senza equiparare le unioni di fatto a matrimoni, sia pure di serie B. Fare sintesi con le preoccupazioni della Chiesa significa, dunque, riallacciarsi a quella temperie da cui scaturì la Costituzione, quando per non far scoppiare una guerra di religione, minacciata nel 1947 da attacchi violenti dell'Osservatore romano ai governi di unità, il leader comunista decise per senso di responsabilità nazionale di schierare i voti dei costituenti del Pci, assieme a democristiani liberali e qualunquisti: l'articolo 7 sarebbe passato egualmente seppur con una maggioranza risicata di cinque voti, ma i primi passi della Repubblica sarebbero avvenuti nel fuoco di un conflitto religioso.
Il caso spagnolo può offrire materiale di riflessione anche sull'Afghanistan: nel colloquio a porte chiuse con Josè Luis Zapatero Napolitano ne ha a lungo parlato. Il governo spagnolo proprio in queste ore sta rinnovando e rafforzando la sua presenza nella missione afghana. Ma Napolitano ha trovato una particolare sintonia con le scelte che prospetta in Italia: "Siamo egualmente molto impegnati ad accentuare la dimensione civile della nostra presenza in quel paese". Dove " la situazione è molto preoccupante e richiede molteplici iniziative che possono essere sostenute dai militari", ma - precisa - "non possono ridursi alla presenza militare". Pur ricordando che "le scelte di governo" non gli competono, il presidente spinge perché il compromesso che si sta cercando all'interno della maggioranza con la sinistra radicale sia trovato in una direzione, molto simile agli intendimenti delle autorità spagnole: nell'accentuare il carattere umanitario e di sostegno alle popolazioni.
La cornice del ragionamento è offerta da un'impegnativa "lectio magistralis" che Napolitano in mattinata ha pronunciato nel ricevere una laurea ad honorem dell'antica Università computense. Le radici dell'Europa contemporanea sono nella ricerca della pace, l'Europa unita non è solo mercato, è uno strumento di pace. E la Costituzione europea non è da considerarsi un lusso, sarebbe ben grave se fosse accantonata. E oggi ancor più che nel passato l'Europa unita e rinnovata nelle istituzioni si rivela uno strumento importante per agire come protagonista per incidere sulle crisi internazionali ''senza mettere in forse la sua storica alleanza con gli Stati Uniti d'America e i suoi legami transatlantici, ma dandosi un più netto profilo e acquistando un suo distinto spazio di movimento''. Tanto più gravi, dunque, sono le esitazioni euroscettiche di fronte alle nuove responsabilità internazionali dell'Europa. Sta qui il punto cruciale: nella necessità di combattere quei "sostanziali scetticismi sulle possibilità di un'effettiva funzione e azione dell'Unione europea come attore globale" capace di contribuire a un più pacifico ordine mondiale. E tutto si tiene: le "residue illusioni di protagonismo dei singoli Stati; la riluttanza a maggiori poteri e risorse all'Unione", sono facce della stessa medaglia. Forti sono le radici, e "non meno forti" le "nuove ragioni" del progetto europeo.

l’Unità 30.1.07
La crisi della politica e l’aggettivo socialista
di Valdo Spini


In molti si affannano - e giustamente - ad analizzare la crisi della politica, o meglio la crisi dei suoi strumenti principali, i partiti, il distacco tra l'opinione pubblica e le istituzioni, i pericoli che da tutto ciò derivano o possono derivare. Qualcuno giunge fino ad evocare il pericolo di una soluzione populista dei problemi italiani.
Fa senso allora che in questo clima non si colga quanto a ciò contribuisca la disinvoltura con cui si esce e si entra da una all'altra delle grandi parole della politica: democrazia, socialismo, comunismo, e dai relativi aggettivi, democratico, socialista, comunista. Come si può pensare che i partiti, le forze politiche, siano rispettate, quando sono gli stessi gruppi dirigenti che si propongono di gestire fasi politiche che sono state contrassegnate da obiettivi così diversi, come quelli simboleggiati dalle parole comunista, socialista, democratico. Con quale credibilità si pensa di andare allo stesso appuntamento del partito democratico senza aver dipanato nemmeno i motivi per cui si era aderito al socialismo europeo ed ora non lo si considera più come un importante punto di riferimento di principi e di valori.
C'è chi, come Alfredo Reichlin, declina una spiegazione storicistica di questo processo che parte dalla funzione nazionale esercitata a suo tempo dal Pci per postulare un grande partito democratico che un questa funzione nazionale possa succedere al Pci stesso. Ma già con questa affermazione si entra nel campo di un discorso rivolto alla tradizione del Pci e non all'intera sinistra italiana, e anche rispetto al Pci non si coglie la profonda diversità tra questa e quella funzione nazionale. Oggi questa funzione nazionale si esplica con la capacità di rinnovare la sinistra, non fuoriuscire da essa. Si contrasta la crisi della politica e dei partiti, non rimuovendo i principi ed i valori cui questi si ispirano, ma verificandoli e rinnovandoli alla luce delle trasformazioni intercorse. E questo vale oggi per il socialismo europeo.
Si vorrebbe quasi descrivere la fuoriuscita o quantomeno l'affievolimento dei legami dei Ds con il socialismo europeo quasi come un progresso. C'è un grande campo mondiale delle forze progressiste, nota Massimo D'Alema, di cui il socialismo (ma anche la stessa sinistra) sono solo una componente. Si cerca così di dire ai nostri militanti: «Ma sì, tranquillizzati! Anche se non sei più l'alfiere del socialismo europeo in Italia, sei in realtà qualcosa di più. Sei uscito da quegli angusti steccati per collocarti a tutto tondo accanto ai democratici americani, al partito del congresso indiano», e così via.
Sembra quasi che si sia sul punto di dar vita a quell'Ulivo mondiale su cui si era tanto a suo tempo ironizzato. Poi si va a guardare come stanno le cose e si vede che tutto questo dovrebbe sboccare in un'associazione a Strasburgo tra i parlamentari europeo dei ds aderenti al PSE e quelli della Margherita aderenti al Partito democratico europeo e al gruppo parlamentare dell’Alde (Alleanza del liberali e democratici europei). Romano Prodi, presidente onorario e Francesco Rutelli, copresidente con François Bayrou, candidato centrista alla Presidenza della Repubblica francese del Partito Democratico Europeo, potrebbero dire di vedere i Ds arrivare sul loro nome, mentre i Ds dovrebbero rinunciare al nome e al simbolo socialista. Viene quasi da chiudere gli occhi e domandarsi se non si stia sognando, se veramente tutto ciò possa accadere.
Infatti, aldilà delle aspettative di molti, il dibattito sul partito democratico ha visto rinascere proprio il dibattito sul socialismo. In tanto avvertono che tra Prodi e Rifondazione c'è uno spazio che oggi non è sufficientemente coperto da nessuno, e che anche le liberalizzazioni di per sé, o almeno quelle liberalizzazioni, come ha detto molto bene Giorgio Ruffolo in un recente articolo non sono sufficienti a definire un riformismo. Allora la capacità dei partiti di essere coerenti tra i loro valori e i loro ideali e le necessità del rinnovamento, è un fattore che tiene attaccati e non distaccati i cittadini alla politica.
Infatti, il socialismo democratico, dato tante volte per spacciato ogni volta che subiva una sconfitta, ha altrettante volte deluso le sue dichiarazioni di morte presunta. Ha saputo adeguare i contenuti della sua azione politica, ma non ha sentito il bisogno di cambiare nome, e cioè l'identità valoriale, ai propri partiti. Ecco allora che il socialismo come fatto politico concreto è tuttora presente in Europa, celebra ad Oporto un congresso di tutto rispetto, riceve il presidente del Comitato Nazionale dei Democratici americani, Howard Dean, si rinnova nei metodi e negli obiettivi, da quello dei diritti civili, a quello della parità di genere a quello della grande sfida ambientale.
Si può pensare con un tratto di penna di cancellare tutto ciò anche in Italia? Non è possibile. A questo si ribellano quei socialisti che non credono che il loro schieramento politico debba meccanicamente morire perché è crollato il muro di Berlino. Si ribellano quegli ex Pci - Pds che prendono sul serio la possibilità di rinnovare, approfondire e procedere sulla strada del socialismo. Si ribellano quei laici che temono nel veto al socialismo europeo una rivalsa neoconfessionale italiana. Ma non si ribellano in nome di un no, bensì in nome di un sì.
Due anni fa il congresso Ds all’unanimità decise di inserire nel simbolo la dizione partito del socialismo europeo. Prendiamo sul serio questa decisione e facciamo davvero un partito del socialismo europeo in Italia. E non ci si venga a dire che ci si è già provato. Non è vero. Non si è voluto pagare nessun prezzo, anche di modesto rinnovamento, al perseguimento di questo obiettivo. La riprova migliore di ciò è in quanto ha affermato lo stesso Massimo D'Alema con rude ma franca sincerità, e cioè che non si può chiedere agli ex-democristiani della Margherita di diventare socialisti perché in fondo non lo siamo mai stati nemmeno noi!
La ragione per cui stiamo insieme nell'area «A sinistra per il socialismo europeo», tra Mussi, Salvi, Bandoli e molti compagni che, come chi scrive, vengono dall'esperienza socialista e laburista (sperando di incontrare presto anche il compagno Giuseppe Caldarola), si fonda su questa intenzione, su questa volontà politica. Non è perché si sia formato un «supercorrentone» della sinistra interna, ma perché si è formata un'area pluralistica nelle provenienze e elle esperienze che ritiene che all'insegna dei principi del socialismo democratico e liberale (socialismo liberale nel senso rosselliano), si può trovare quella sintesi tra riformismo senza socialismo e radicalismo senza riformismo che condannerebbe alla palude la stessa esperienza dell'Unione.
La parola socialismo, lo vogliamo nuovamente ribadire, è ancora attuale, perché in essa è insita l'esigenza di una politica programmaticamente rivolta ad includere e a socializzare nel progresso economico, civile sociale e culturale anche chi ne è rimasto escluso; e questo in modo laico, e cioè con le armi della politica stessa. La parola democratico (usata come sostantivo, perché come aggettivo dovremmo condividerla tutti) è una parola nobilissima, ma rappresenta più una scelta sulle regole che devono improntare la dinamica politica e sociale che un ideale e un obiettivo di fondo. Nella parola socialista c'è qualcosa di più. Veramente pensiamo che si possa con un atto di volontà politica spengerla?

lunedì 29 gennaio 2007

l’Unità 29.1.07
«Left» è edito da Mondadori. Se nascesse «Right» l’editore sarebbe Feltrinelli?

Cara Unità,
nell’editoriale della domenica intitolato «Politca e crimine» il buon Furio Colombo dice che durante questi 10 anni di doppio governo (affari e politica) Silvio B. ha raddoppiato la sua ricchezza diventando la 14ª più grande del Mondo. Colombo è preoccupato perché da sinistra non è che si faccia molto per arginare questo attacco alla democrazia. Aggiungo: passi che i vari Augias, Cugia ecc. preferiscano pubblicare i propri libri con Mondadori; ma è cosa assai grottesca che pure un settimanale che si chiama “LEFT” venga distribuito dalla stessa Mondadori. Ora mi chiedo: ma se domani nascesse un nuovo settimanale chiamato “RIGHT” con articoli scritti da Cuffaro, Borghezio, Previti e Romagnoli, lo darebbero da distribuire alla Feltrinelli? Svegliamoci prima che qualcuno si compri pure Murdock!
Davide

l’Unità 29.1.07
CLASSICI La nuova edizione di «Operai e capitale», libro di culto dell’operaismo extraparlamentare. Filiazione innegabile anche se il maestro non si riconobbe negli allievi
C’era una volta «Potere operaio», ma prima ci furono Mario Tronti e la sua «Bibbia»
di Giuseppe Cantarano


In una piovosa sera d’inverno del 1969, stipati su una scassata Fiat 600 e su una smarmittata Citroen Dyane, un gruppo di giovani del movimento studentesco romano si reca a Ferentillo. Un paesino umbro vicino Terni. Hanno in cantiere una rivista e vanno a chiedere lumi a Mario Tronti. La rivista si chiamerà Classe operaia. Sarà la rivista di Potere Operaio, il gruppo della sinistra extraparlamentare che si pone su un terreno di rottura con la tradizione del movimento operaio. E che trae la sua ispirazione dall’operaismo di Tronti e dalle analisi sulla trasformazione dell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche di Raniero Panzieri.
Ma è soprattutto nella reinterpretazione leninista del Capitale di Marx, fornita da Tronti, che Potere Operaio individua gli strumenti teorici per conferire alla politica rivoluzionaria del movimento operaio quella potenza dirompente in grado di abolire il dominio del capitale. Dentro e fuori le fabbriche. Tuttavia, nonostante fosse il punto di riferimento teorico principale, Tronti non diventerà mai il leader di Potere Operaio. Anzi, ne prenderà subito le distanze. Come le prenderà, qualche anno dopo, dal suo operaismo. Perché era consapevole che al di fuori della tradizione del movimento operaio, non avrebbe mai potuto darsi una mobilitazione di massa. Infatti, a differenza degli esponenti di Potere Operaio, Tronti riteneva che la rottura del sistema capitalistico - operata dalla nuova classe operaia, quella delle fabbriche neocapitalistiche dell’ «operaio massa», cresciuta alla scuola del «Marx delle macchine» e di un Lenin antiromantico - dovesse essere guidata dal Pci. Al quale in quegli anni Tronti rimaneva iscritto.
In particolare, erano tre i saggi di Tronti a suscitare l’interesse di quei ragazzi: Lenin in Inghilterra e 1905 in Italia, apparsi nel 1964 e Marx, forza-lavoro, classe operaia, del 1965. Nel 1966 i tre saggi, arricchiti con altre analisi, verranno pubblicati da Einaudi in un libro che diventerà un classico della storia del movimento operaio e del marxismo italiano: Operai e capitale. Che rinnovò non solo il vocabolario della classe operaia, ma indicò le strategie teoriche per la lotta del sessantotto e dell’autunno caldo.
Ora quel libro di culto è stato ripubblicato da Derive Approdi (pp. 315, euro 20,00 ). Un libro «inattuale». Ma, come abbiamo appreso da Nietzsche, sono spesso le idee, i pensieri inattuali ad afferrare meglio l’epoca alla gola. La sua tesi è che la rottura dello sviluppo capitalistico si produce non nel punto in cui il capitale risulta più debole, ma dove sembra esser più forte la classe operaia. In quella fase è proprio l’Italia a offrire le condizioni più favorevoli per realizzare l’alternativa operaia al capitale. La sola alternativa che le contraddizioni del capitale possono realmente prefigurare. Dal punto di vista operaio - sostiene Tronti - le contraddizioni del capitale non vanno né rifiutate né risolte, ma utilizzate. E per utilizzarle, bisogna esasperarle. Anche quando si presentano come ideali del socialismo: «Ricostruire la catena delle contraddizioni, riunificarla, e col pensiero collettivo della classe possederla di nuovo come un processo unico di sviluppo del proprio avversario: questo è il compito della teoria, questa la necessità di una rinascita strategica del movimento operaio internazionale».
Spezzare la catena in un punto critico dove massime appaiono le contraddizioni vuol dire - secondo Tronti - far convergere su quel punto tutte quelle forze che intendono reciderla in blocco. Si rivela del tutto inutile l’appello che chiama a raccolta le forze del capitale in un blocco monolitico, poiché questa azione presuppone un inevitabile processo di ricomposizione della classe operaia. Dunque, una nuova forma di organizzazione politica. È insomma attorno al partito, alla forma dell’organizzazione politica, che l’operaismo si divide.
Mentre Tronti - e Cacciari, Asor Rosa e altri - cercherà anche in ulteriori esperienze politico-culturali di individuare altri linguaggi del politico dentro la crisi del pensiero borghese e operaio, così da rendere espressive le masse, gli esponenti di Potere Operaio - Negri, Piperno - si illudono di poter fuoriuscire dalla crisi sostituendo la ragione borghese con la ragione operaia. La ragione del capitale - che dopo il rovesciamento diventa irrazionale - con quella di Marx, Lenin e Mao. Che prima del rovesciamento era considerata irrazionale dalla ragione classica e borghese.
Per l’operaismo di Tronti resta invece decisiva la questione della forma dell’organizzazione. Dunque del partito. Che rappresenta l’ultimo residuo in cui sopravvive l’appartenenza alla tradizione classica del marxismo. Il partito diventa l’ultimo strumento appartenente alla tattica del passato con cui si cerca di pensare strategicamente il futuro. Poiché solo attraverso il partito è possibile stare dentro la crisi e scomporla nelle sue fasi transitorie. Solo il partito consente di comprendere le singole fasi della crisi e afferrarle una per una.
Bisogna scoprire - scrive Tronti - «le necessità di sviluppo del capitale e ribaltarle in possibilità di sovversione della classe operaia: sono questi due i compiti elementari della teoria e della pratica, della scienza e della politica, della strategia e della tattica». Si tratta, pertanto, nella prassi politica, di tenere nettamente distinta la tattica dalla strategia senza mai sovrapporre l’una all’altra, né tantomeno identificarle, pena l’impossibilità ad agire. All’opposto, bisogna pensarle unite nella teoria, non separarle mai, in quanto una volta distinte «distruggono gli uomini, li dimezzano, ne fanno quest’ombra grigia a cui è ridotto oggi il dirigente politico».
Poi, nell’elaborazione di Tronti, ci sarà l’«autonomia del politico». Dal Marx antigramsciano al decisionismo apocalittico di Carl Schmitt, dalla sovversione operaia al disincanto anti-idolatrico. Per approdare, più recentemente, ad un «pensiero destinale» dai toni malinconici e pessimistici. Nel cui cupo orizzonte tramonta la grande politica del Novecento. Ma questa è un’altra storia. O forse è il solo epilogo «realistico» della storia di quell’operaismo.

l’Unità 29.1.07
Giappone non crede a Platone
di Giuseppe Montesano
I fiori del vuoto, di Giuseppe Jiso Forzani pp. 134, euro 14,00 Bollati Boringhieri
Platone politico di Giorgio Colli a cura di Enrico Colli, pp.161, euro 12,00 Adelphi


La filosofia nasce in Giappone nel 1874, con lo choc dell'arrivo in massa dell'Occidente sotto forma di corazzate e cannoni. E in Giappone il nome della filosofia sarà tetsugaku. In realtà tetsugaku è formato da due ideogrammi, dove tetsu sta per «vivacità intellettuale, prontezza di ingegno, chiarezza mentale», mentre gaku sta per «insegnamento, studio, sapere»: il giapponese non traduce in modo linguisticamente esatto il termine filosofia, e quindi non ne traduce nemmeno il contenuto. È quello che si può leggere in I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, un bel libro di Giuseppe Jiso Forzani, studioso di filosofia e monaco buddista zen. Forzani scrive: «L'Oriente non ha mai creduto sul serio all'equazione essere=pensiero=parola, anzi non l'ha mai presa fin dall'inizio in considerazione come valido metodo di indagine», e poi cita l'inizio del Daodejing che dice: «Il Dao che si può dire non è il Dao costante». Da questo nasce l'indagine di Forzani intorno al significato di non-dire, di vuoto, di bellezza e di vita nel pensiero giapponese. In sintesi in giapponese il pensare è piuttosto un'azione e un'emozione portata a chiarezza che una logica o un pensiero sull'Essere. Ma se il libro di Forzani è meritorio, è anche vero che paradossalmente soffre di un eccesso di occidentalismo: troppi termini classici della filosofia, troppo Heidegger e troppo «Essere». Perché non mandare tutto questo a picco e ricostruire un «sentimento» del pensiero giapponese a partire dalla sua letteratura e dalla sua poesia? È lì che giace probabilmente il cuore di quella sapienza, nell’essenza ambigua dell'ideogramma: pittorico, vocale e mentale. È forse nel divagante dire intorno al vuoto di Kenko o dei diari delle grandi scrittrici del tempo del Genji Monogatari, nella sospesa fluidità che abolisce il «concetto» negli haiku di Basho e degli altri maestri, che si ritrova quell'estraneità illuminante che la cultura giapponese ci ha comunicato, quel tentare di dire il mondo calandosi dentro di esso. Come scrive Dogen citato da Forzani « ”la compiutezza è indefinibile”: va rifatta come le case di legno del Giappone ogni volta e da ognuno originalmente, non è eterna come le Idee e si fa con e non contro la natura.
All’opposto di questo pensiero ci sarebbe allora Platone: ma a leggere il piccolo e bellissimo Platone politico uno scritto giovanile di Giorgio Colli che verte soprattutto sulla Repubblica, si direbbe che non è affatto così: anche il possente autore del Parmenide non aveva affatto la logica o l'essere come fine supremo, ma il vivere: il vivere in comune degli uomini in una società giusta. E così in questo Platone politico troviamo scritte cose come questa a proposito del cosiddetto comunismo platonico: «Si noti ancora come questo comunismo, che sembra apparentemente tendere a stroncare completamente l’individualismo, non sia altro per Platone che il necessario processo di purificazione e di formazione del vero individuo, poiché, allontanando dall'uomo gli elementi che, come la proprietà e la famiglia, alimentano la sua parte empirica e contingente, a torto secondo lui ricevente il nome di individualità, si viene a liberare la vera essenza individuale dell'anima…" Sorprendente? Discutibile? Certo. Ma ancora più certo è che questo libretto, accompagnato da qualche dialogo ben scelto, andrebbe regalato a molti di quei post-popperiani che continuano a parlare di Platone come se fosse un minus habens filosofico, e discettano a casaccio di totalitarismo platonico e altro: salvo poi, come il maestro liberal Popper che voleva fare un corso di rieducazione per assegnare la patente ai conduttori televisivi, sognare corsi di rieducazione in lode della "famiglia" e della "proprietà" per chiunque la pensi diversamente, trovandosi, per colmo di ironia storica, praticamente d'accordo con il Platone sconfitto e degenerato delle Leggi.

l’Unità 29.1.07
CLASSICI La «Metafisica dei costumi» del filosofo Kant
La ragion pura diventa politica
di Salvo Fallica


La ragione come luce della dimensione umana, la ragione come sistema critico di conoscenza e comprensione del mondo. È una triade concettuale complessa ma utile per addentrarsi nella filosofia kantiana. Kant, come Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Hegel, rappresenta l’incarnazione medesima della filosofia. La sua rivoluzione copernicana ha aperto le porte alla modernità. Il suo capolavoro è lo studio delle condizioni di possibilità della conoscenza, dell’agire e dell’attività di giudicare in generale. Il sistema critico non ha avuto un vero continuatore, ma non si potrebbe comprendere l’idealismo senza il sistema trascendentale kantiano, né il positivismo o il neopositivismo senza lo studio delle categorie del filosofo tedesco. La stessa fenomenologia husserliana, risente della riflessione teoretica della Critica della Ragion Pura. La filosofia della scienza popperiana o post-popperiana risente dell’influsso kantiano. Ecco perché, al di là delle mode, Kant è ancora attuale. In questa ottica la pubblicazione della Metafisica dei Costumi, a cura di Giuseppe Landolfi Petrone, nella collana Il pensiero Occidentale della casa editrice Bompiani, è una operazione culturale di alto livello. Anche perché recupera un’opera che dai contemporanei di Kant fu giudicata duramente, senza venir ben compresa, dagli studiosi in genere non ha avuto l’attenzione che merita. L’obiettivo kantiano potrebbe apparire molto tecnico, ovvero conciliare l’istanza della fondazione del diritto e dell’educazione alla morale. Ma in realtà l’idea kantiana trascendeva la dimensione del diritto e della pedagogia, con una intenzione puramente filosofica. Dare un senso compiuto al primato della ragione pratica su quella speculativa, puntando su una impostazione «essenzialmente antropologica dell'autonomia morale». Al centro della sua riflessione vi è l’uomo, in una concezione classica della filosofia, recuperata in chiave illuministica e critica. Come spiega Landolfi Petrone nel saggio introduttivo, l’opera consente «di gettare uno sguardo panoramico su tutta la filosofia critica, e allo stesso tempo, di inquadrare in un’ottica più organica l’impegno di Kant intorno alle tematiche etico-civili e antropologiche che caratterizzano l’ultima fase della sua vita».

Repubblica 29.1.07
Nella Quercia tre partiti in cerca della post-sinistra
I Ds sono una convenzione permanente con culture differenti
di Edmondo Berselli


Sullo sfondo si staglia l'appuntamento con il Partito democratico
Il progetto fusionista ha raggiunto ormai un punto di non ritorno
Il passato socialista, il presente riformista, il futuro mobilitante

Il fatto è che ci sono almeno tre partiti, all´ombra della Quercia. E non è detto che essi rispecchino esattamente le tre mozioni che si misureranno al congresso. I partiti reali sono più informali, trasversali, senza confini, come parti di una galassia in espansione. Perché non si dovrebbe dimenticare che il vecchio Pci era un mondo a sé, e come tutti i mondi comprendeva radicali e moderati, ortodossi ed eccentrici, sinistri e destri. Il centralismo democratico consentiva di tagliare le ali, Amendola e Ingrao, e di riportare le differenze ideologiche dentro il mainstream comunista.
Dopo il Big bang del 1989, una volta saltate le regole e le procedure che presidiavano la linea ufficiale delle Botteghe oscure, le diverse anime si sono liberate, e l´unità del partito si è rivelata all´improvviso una costruzione fragilissima.
Se i Ds fossero ancora un partito racchiuso nel canone della socialdemocrazia europea, l´appuntamento congressuale di metà aprile non sarebbe che un normale evento della sua vita organizzata. Ma adesso che sullo sfondo si staglia l´appuntamento con il partito democratico, orientarsi è più difficile. Suggestioni indotte dall´identità si uniscono a calcoli elettorali; alla spinta "oltre" il socialismo si affiancano nostalgie per le certezze passate; e una non dichiarata ma già evidente battaglia per la leadership del partito e del centrosinistra complica tutti i calcoli strategici sul futuro dei Ds e della sinistra italiana.
Va messo in conto che oggi, quasi due decenni dopo la Bolognina di Occhetto, i Ds sono una formazione politica culturalmente complessa, in cui allignano miglioristi, riformatori, vetero e neosocialisti, cattolici e zapateristi, statalisti, liberali e ultraliberali. Più che un partito, una convenzione permanente, un plebiscito litigioso, una imprecisata "nazione progressista" che raduna sensibilità e culture differenti, in attesa di una sintesi ulteriore che consenta di armonizzare le diversità in un contenitore nuovo.
Basta aggiungere il deludente dato elettorale della primavera scorsa, quel 17 per cento delle politiche, per avere la sensazione che il partito è troppo piccolo per contenere tutte le sue anime, pur essendo la maggiore forza politica del centrosinistra. Proprio questa sua complessità, insieme ai numeri ridotti, potrebbe diagnosticarlo come «l´homme malade della politica italiana», a sentire Lanfranco Turci, uno degli esponenti di prima fila del Pci-Pds-Ds emiliano (la cui fuoruscita dal partito prima delle elezioni politiche del 2006, con la candidatura per la Rosa nel pugno, è stata accolta con il silenzio attonito e imbarazzato che saluta gli scismi irrimediabili).
Le tre entità principali che si agitano dentro i Ds sono facilmente descrivibili. Il primo partito è guidato da Cesare Salvi e Fabio Mussi, e rappresenta la componente neosocialista, avversa alla confluenza nell´ "indistinto" del partito democratico. Incarna una cultura dotata di consistenza storica, che prova a resistere alla "necessità" della transizione verso la "meteora" del partito democratico. E nello stesso tempo capitalizza la possibilità di proporsi come opposizione interna, svincolata dal peso della responsabilità verso scelte e obiettivi comune. Verrebbe quindi facile definire i neosocialisti diessini come una forza reazionaria, o come i sostenitori di una soluzione che prescinde dal contesto politico e dalla storia recente, ma ciò non serve a ridurne la portata implicitamente scissionista, e dunque la sfida politica e ideologica che essi conducono verso il centro del partito. Per Mussi infatti il partito «evapora», e i suoi leader propongono un riformismo talmente compromissorio da risultare politicamente irrilevante.
Quanto ai citati leader, ossia Massimo D´Alema e Piero Fassino, il loro orientamento politico è quello di chi ha una sola carta da giocare, e l´ha già giocata: si tratta naturalmente del passaggio al partito democratico, cioè della fusione con la Margherita e qualche formazione politica minore. Il processo fusionista ha raggiunto il punto di non ritorno; benché il gruppo dirigente ancora non chiarisca se il congresso decreterà lo scioglimento dei Ds, tutta la prima linea diessina lascia intendere che indietro non si torna. Non foss´altro che per inerzia, per automatismo, il partito democratico non può essere rinnegato. A costo di «perdere pezzi», come hanno chiarito il il sindaco ultrariformista di Torino, Sergio Chiamparino, e il dalemiano Nicola Latorre. C´è una scommessa politica essenziale, in cui i vertici del partito stanno riversando tutto il loro impegno, giocando l´unica partita per loro possibile, con uno sforzo in cui hanno accettato di mettere all´opera tutta la loro credibilità. Se la politica è anche lavoro oscuro e ingrato, i vertici diessini stanno facendo la loro parte.
Ma è qui che si può individuare la prima vera sfasatura, il primo possibile imprevisto, l´incognita, lo scarto nei calcoli della leadership ds. Perché, ognuna a suo modo, le due diverse posizioni assunte dall´interno dei Ds rispetto al partito democratico appartengono alla tradizione e alla storia della politica. A un´idea convenzionale e riconoscibile. Mussi e Salvi, così come con sfumature diverse Angius, Brutti, Zani, Pasquino e altri refrattari, restano legati a una concezione capace di legare le riforme economiche a un disegno socialdemocratico.
A loro volta, Fassino e D´Alema puntano su un accorpamento fra soggetti esistenti, per rendere credibile e politicamente attraente su un piano di massa e nel nome del riformismo «quella cultura liberal-solidarista-socialista che finora è stata appannaggio di sparute élite» (come ha scritto Michele Salvati in uno dei suoi molti manifesti per il partito democratico).
La sfasatura invece si apre non appena si mette a fuoco l´iniziativa di Walter Veltroni. Un fautore indiscusso del partito democratico. Ma nello stesso tempo il possibile portatore di un´ipotesi politica alternativa, anche se ancora indefinibile. Di un oltre che è più oltre. Con le sue "lezioni" nei teatri, a Roma e a Napoli (prossimamente a Milano, Torino e in altre città) e con la sua capacità di riversare emozioni politiche nel pubblico, il sindaco di Roma ha fatto intravedere la possibilità di sparigliare tutto. Le immagini di Gandhi, Chaplin, Kennedy, Martin Luther King, Mandela ma anche Alcide De Gasperi, Helmut Kohl e infine Barack Obama che accompagnano l´exploit teatrale di Veltroni (intitolato «Che cos´è la politica»), configurano un immaginario avulso dalla storicità dell´esperienza politica italiana, e anche europea. Mentre Fassino e D´Alema, così come Salvi e Mussi, lavorano politicamente secondo un´idea identificabile di partito e di società, Veltroni sembra dare per scontato l´azzeramento dei partiti italiani, e insieme a loro dei blocchi storici, delle egemonie culturali, degli stessi interessi organizzati.
Per lui il partito democratico appare semmai come una via lattea, struttura galattica dai legami deboli, priva di nessi economici fondanti, e proprio per questo capace di sovrapporsi senza scarti a una società destrutturata. Pensiero debole che si rivolge a una società debole. Lui stesso, Walter, non è un leader, è piuttosto una polarità che irradia sentimenti: l´esserci insieme, l´utopia che induce a camminare verso l´utopia, il partecipare al momento di un´emozione. La vaghezza culturale di questa concezione della politica è mitigata dal fatto che mentre D´Alema e Fassino sono inevitabilmente pesanti, ovvero concreti e novecenteschi, Veltroni è leggero, alla moda, capace di miscelare sul piano tecnico Baricco e Berlusconi.
Detto ancora più esplicitamente: D´Alema e Fassino, come anche quelli del vecchio Correntone, lavorano dentro il sistema politico cambiandone faticosamente i pezzi oppure resistendo al cambiamento; l´outsider Veltroni, invece, leggero come l´aria, agisce per cambiare i partiti ma anche l´intero formato e stile della politica: e almeno per il momento sembra quindi più in sintonia con i sentimenti diffusi, con le sensibilità e le frustrazioni dell´elettorato di sinistra.
Così sotto la Quercia sembra di contemplare nello stesso istante il passato socialista, il presente riformista e il futuro mobilitante. Tre partiti. Due che implicano lacrime identitarie ed evocano scissioni, nuove metamorfosi e rinunce, l´eterno rivolgimento interno della sinistra; mentre il terzo implica un sorriso consapevole e carico di nostalgia sulla fine dei partiti stessi, il richiamo a storie di varia e bella umanità, in attesa dell´avvento, così suggestivo, ma anche così inafferrabile, della post-sinistra.

domenica 28 gennaio 2007

il manifesto 28.1.07
Kossiga ci covava
di Alessandro Robecchi


La Storia non si fa con i se e con i ma, lo sappiamo tutti, quindi figuriamoci se si fa con Cossiga. Pure, in tempi in cui si dibatte di revisionismo storico, fa piacere che anche il vecchio umorale presidente si dia una bella revisionata alle valvole e dica cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. E siccome si festeggia (?) il trentennale del '77, ecco nuovi entusiasmanti capitoli di quella storia, per quel che vale oggi che persino Silvio ci sembra un film in costume del lontano passato, figuriamoci il Cossiga con la k, puro modernariato. Ma, così, tanto per riassumere, ecco qualche perla: «Quando ci accorgemmo che i sovversivi facevano presa sugli operai cominciammo a chiamarli criminali». Bella pensata, trucchetto non nuovo, probabilmente in voga dai tempi delle piramidi, ma sempre efficace. Cossiga la chiama soavemente «manipolazione del linguaggio» e se ne dichiara responsabile (insieme a Pecchioli) con una certa fierezza: sappiamo peraltro che il linguaggio si fece manipolare volentieri. Sull'anniversario del '77 piove la saggezza cossighiana: «La disposizione che avevo dato alla polizia era: se sono operai giratevi dall'altra parte; se sono studenti picchiate forte e giusto». Niente male come rivelazione, anche per uno che ci ha abituato ai suoi gargarismi storici: dire per non dire, dire a metà, non dire per dire, il tuttismo, e in conseguenza di ciò l'assoluto nullismo, delle rivelazioni di Cossiga. E non mancano scrupoli e caricature di ripensamenti: criminalizzare un'intera area politica (lui lo chiama «sfogatoio») ha spinto parecchi verso la lotta armata. Cosa che i criminalizzati dicevano già in diretta, e non in differita di trent'anni. In più, sempre a sentir lui, Cossiga sa chi sparò a Giorgiana Masi, e precisa che insieme a lui lo sanno altre quattro persone ma che noi - noi tutti - non lo sapremo mai, e questo nonostante l'omicidio non vada in prescrizione. Insomma, alla fine, da consumatori, da utenti, saremmo già pronti all'abbonamento, maturi per un Cossiga-channel che venda come strabilianti cose note e stranote? Oppure lo beccheremo nottetempo, travisato, a scrivere sui muri: «Kossiga ci covava». Sai che scoop.

il manifesto 28.1.07
Piero Fassino: «Fecondazione, referendum non ha chiuso la partita»


«Non possiamo ritenere esaurito dal referendum il tema della fecondazione assistita». Così il segretario dei Ds Piero Fassino, intervenuto ieri a Bologna alla conferenza nazionale delle democratiche di sinistra. «Non mi sfugge che c'è stato un referendum che ha dato una certa indicazione - ha spiegato Fassino alla platea femminile - però penso che abbiamo una responsabilità, quella di non considerare la partita chiusa». Riferendosi sempre alla legge sulla fecondazione assistita, ha poi spiegato che ogni giorno crea gravi danni sulla pelle delle donne; per questo motivo, ha detto ancora Fassino, occorrono «soluzioni condivise tra chi oggi governa e chi governava ieri» per correggere questa legge almeno negli aspetti più deleteri. Fassino ha spiegato che le soluzioni condivise «vanno ricercate per la delicatezza estrema della materia, che entra nel vivo della vita delle persone», aggiungendo che c'è bisogno di un consenso largo per non creare lacerazioni. Avere fatto questa legge a colpi di maggioranza, ha poi concluso Fassino, ha creato una lacerazione drammatica che ancora dura. Soluzioni condivise non significa negoziazione dei principi, ma costruire delle soluzioni condivise e condivisibili».

il Riformista 28.1,07
CONVERSIONI. QUANDO IL MAHATMA DISCONOBBE IL FIGLIO HARIRAL
Il Gandhi musulmano che non piaceva a papà
di Anna Momigliano


«Io sono un musulmano, io sono un induista, io sono un cristiano e io sono un ebreo, così come tutti gli altri uomini… Però quello scapestrato di mio figlio Harilal farà bene a rimanere un indù, altrimenti lo disconosco». Con una buona dose di licenza poetica, si potrebbe completare così la celebre frase sull’universalità delle religioni pronunciato dal Mahatma Gandhi, pochi mesi prima che un fanatico musulmano lo uccidesse. A quasi sessant’anni dalla sua morte (martedì si celebra il 59° anniversario), non tutti sanno che il padre della nazione indiana aveva un figlio ribelle, il primogenito Hariral, che si convertì all’Islam nel 1938 cambiando il nome in Abdullah, pare proprio per ripicca nei confronti del padre. Era il periodo della nascita del movimento indipendentista, quando le tensioni tra induisti e musulmani si facevano più forti: divide et impera, si sa, era il motto degli inglesi.
Al tempo però indù e musulmani dedicavano tutte le energie a darsele di santa ragione e, soprattutto, ad affermare gli uni la propria superiorità sugli altri. E in un comizio pubblico di militanti islamici doveva fare un certo effetto presentare al pubblico un convertito illustre: «Il mio nome è Gandhi, Abdullah Gandhi». Dopo la conversione, avvenuta in pompa magna alla moschea Juma di Bombay il 29 maggio, il padre disconobbe pubblicamente il figlio in un articolo pubblicato sulla stampa nazionale. L’articolo, intitolato «Ai miei numerosi amici musulmani», è tuttora rintracciabile nella raccolta Journalist Gandhi, Selected Writings, pubblicata dal Gandhi Book Center. Anche prima, i rapporti tra padre e figlio non erano dei migliori.
Gran bevitore, amante delle feste, della bella vita e celebre donnaiolo, Hariral era da sempre la pecora nera della famiglia Gandhi. «Quando Hariral fu concepito ero completamente schiavo delle mie passioni», avrebbe un giorno confessato il Mahatma, che al momento della nascita del suo primogenito aveva appena 17 anni. Prima di fare voto di castità, il Mahatma ebbe altri tre figli, tutti induisti osservanti impegnati nella causa della disobbedienza pacifica. Con il primogenito, le cose furono sempre diverse: i contatti tra padre e figlio si interruppero quando Hariral aveva poco più di 20 anni, nel 1911.
Quando il Mahatma apprese «dai giornali» della pubblica conversione del figlio, non riuscì a trattenere la rabbia e pubblicò una vera e propria invettiva contro il primogenito degenere, accusandolo di essersi convertito non per amore dell’Islam, bensì a causa del disprezzo che nutriva verso i fratelli indù e sperando di trarre benefici personali. «Se la sua conversione fosse venuta dal cuore, non avrei nulla da ribattere, perché credo che l’Islam sia una religione della Verità, tanto quanto la mia», scriveva Gandhi padre, «Ma ho dei seri dubbi. Tutti quelli che conoscono mio figlio Hariral sanno che frequenta case di dubbia fama, che è indebitato fino al midollo e che per anni è vissuto grazie della carità di alcuni amici».

Corriere della Sera 28.1.07
DIALOGHI Giulio Giorello e Umberto Veronesi si interrogano su eutanasia e clonazione
Se la vita è illimitata si tradisce la specie
La libertà di scelta è individuale, ma non deve compromettere l'Evoluzione
di Pierluigi Panza


La vita di una persona deve rispondere a «signorie» diverse da quelle della coscienza individuale? È questo il grande tema del XXI secolo, che investe l'inizio della vita umana (clonazione, fecondazione assistita), il suo svolgersi (dissoluzione della famiglia, poligamia) e la sua stessa fine (eutanasia, testamento biologico, accanimento terapeutico). Quando saranno del tutto esaurite le scorie del secolo della società di massa e dei totalitarismi, l'avvento di una società globale degli individui si troverà a dover disciplinare, in sostanziale assenza di fondamenti filosofici, questi aspetti di impatto determinante sulle vite (la nostra e l'altrui).
Un contributo laico a questo dibattito è offerto dal dialogo tra Giulio Giorello e Umberto Veronesi in La libertà della vita, a cura di Chiara Tonelli (Raffaello Cortina Editore, pp.116 e 9). Dalla scelta del genere dialogico già si comprende l'assenza di assertività di questo pamphlet, nato dagli incontri preparatori delle conferenze «The Future of Science», che si svolgono ogni anno a Venezia.
La storia della filosofia risponde al tema sopra esposto con tesi contrapposte; si va da quella di John Locke che affidava a Dio la «signoria» della vita individuale a quella di David Hume secondo il quale ciascuno è signore di se stesso. Ma anche volendo sposare quest'ultimo orientamento, dopo gli studi di Michel Foucault si sa che ogni signoria individuale è una sostanziale illusione, poiché s'iscrive in una microfisica di epistemi e norme non scritte che dominano inconsapevolmente l'individuo privandolo del «libero arbitrio» che crede di esercitare. Alla fine, un dibattito razionale sul tema proposto si riduce a un orizzonte politico, ovvero a come un complesso di norme giuridiche possa relazionarsi a questi temi per disciplinarli.
Su ciò, la posizione di Giorello e Veronesi sembra fondare le proprie radici sulla visione di Thomas Hobbes. Partendo da una concezione meccanicistica e deterministica della realtà, nella quale possiamo conoscere unicamente corpi fisici, per Hobbes lo specifico umano si caratterizza per le sue capacità congetturali e per lo sforzo di garantire sicurezza e soddisfacimenti individuali attraverso un sistema regolativo fondato sulla contemporanea rinuncia da parte di tutti ad alcuni diritti naturali, stringendo un patto con cui si trasferiscono dei diritti allo Stato e alle sue leggi. Questo trasferimento può riguardare i temi in esame? Per Giorello sostanzialmente no, poiché la vita è un processo individuale che dialettizza conservazione e innovazione. Veronesi scorge degli scogli per una lettura individualistica e deterministica. «L'istinto di sopravvivenza — nota infatti Veronesi — dovrebbe venir meno dopo un ciclo riproduttivo». Invece continua, «persiste imperterrito» nell'individuo il conatus spinoziano di voler sopravvivere e vedere la morte come ostacolo anche dopo la riproduzione. E ciò mette in difficoltà una visione materialistica, perché non c'è solo un diritto alla morte, ma anche un «dovere» di morire per lasciare spazio ad altri. In tal senso, l'accanimento terapeutico, la conservazione di alcuni embrioni, le ricerche per prolungare illimitatamente la vita individuale si possono configurare come un tradimento verso le nuove generazioni, «delle quali rallentano l'emergere»: in questi casi, la scienza e la medicina non sono più «farmaci», ma una trasgressione all'ordine naturale.
La lotta per l'immortalità contravviene alla rinuncia da parte di tutti ad alcuni diritti naturali in favore delle generazioni successive, cioè è un patto solo tra viventi. La «signoria» della libertà individuale può risultare lecita nel rispetto della norma tra vivi, ma non non risponde alla rinuncia di diritti naturali nei confronti delle future generazioni.

sabato 27 gennaio 2007

La Provincia di Cremona e Crema 27.1.07
Caso Welby. Ieri sera dalle 21 oltre due ore di seduta. La prossima settimana il verdetto
La commissione «studia» la decisione per Mario Riccio
di Francesca Morandi


Fumata nera ieri sera nella sede dell’Ordine dei medici in via Palestro. Bisognerà attendere una settimana per conoscere il verdetto dei 14 della commissione disciplinare, presieduta da Andrea Bianchi, nei confronti dell’anestesista cremonese Mario Riccio, vuoi per alcuni il «medico coraggioso» che ha guidato Piergiorgio Welby verso la morte dolce, sedato prima che venisse staccata la spina, vuoi per altri «il medico che ha violato le norme del codice deontologico». «La seduta della commissione è ancora in corso con un dibattito molto approfondito e serio. La riaggiorneremo nel giro di una settimana», ha detto il presidente Bianchi alle 22.45 di ieri ai cronisti. Dunque la commissione disciplinare si è presa tempo. La lunga serata dei 14 membri, 13 uomini e una sola collega, è cominciata alle 21, quando nella sede al numero 66 di via Palestro, uno alla volta sono arrivati i medici che dovranno decidere se archiviare la posizione del collega Riccio o se aprire un procedimento disciplinare. Il presidente Bianchi, che auspica di arrivare a una decisione unanime, prima di cominciare i lavori nella stanza al primo piano, ai cronisti aveva anticipato il programma della seduta, che si è aperta con la presentazione del verbale dell’audizione resa da Riccio esattamente un mese fa, mercoledì 27 dicembre, una settimana dopo la morte di Welby, deceduto la sera del 20 dicembre. «I membri potranno poi chiedere tutti gli approfondimenti e può essere disposto un supplemento di istruttoria», ha aggiunto Bianchi. Quanto alla riunione del consiglio dell’Ordine di giovedì sera, il presidente ha spiegato che si è trattato di «una normale seduta con una lettura approfondita del codice deontologico che è stato aggiornato il 16 dicembre scorso». «Non ho le competenze per entrare nel merito della giurisprudenza. Ritengo che in Italia riuscire ad affrontare il tema del testamento biologico sia opportuno», così, infine, il presidente dell’Ordine ha commentato l’intervento del presidente di sezione più anziano della Cassazione, Gaetano Nicastro, giurista di formazione cattolica, che ieri a Roma, alla solennne cerimona di apertura dell’anno giudiziario, non ha mai pronunciato la parola eutanasia e per «rispetto» ai «drammi umani» non ha fatto riferimento al caso Welby. Ma a quello ha pensato quando ha detto che è «indispensabile un intervento del legislatore che affronti i gravi problemi che sempre più si presentano» in seguito al «progresso della farmacologia e dell’ingegneria medica». Progresso di fronte al quale «rimane ambiguo il concetto stesso di accanimento terapeutico». Riccio si è detto soddisfatto dell’intervento del presidente Nicastro «in una occasione così solenne. Vuol dire che il sacrificio di Welby non è stato vano».

venerdì 26 gennaio 2007

il manifesto 26.1.07
L'irriducibile mistero dell'immaginazione
«Kant e la verità dell'apparenza»: per Ananke una raccolta di scritti di Gianni Carchia, nel sessantenario della nascita
di Bruno Accarino


Il tema dell'immaginazione ha una lunga e frastagliata tradizione filosofica, anche in settori insospettabili (come quelli teologici). Pur in un percorso di lettura ricco di forzature, lo Heidegger di Kant e la metafisica (1929) vide bene infatti che l'immaginazione era un nucleo già appartenente, anzi immanente, alla teoria della conoscenza, e in modo piuttosto tormentato. Gli fece eco, molti anni dopo, la sua allieva Hannah Arendt, secondo la quale senza l'immaginazione non avremmo avuto il Kant politico dell'ultima fase. E all'immaginazione è dedicato il saggio che apre una raccolta di scritti di Gianni Carchia (Kant e la verità dell'apparenza, a cura di Gianluca Garelli, Ananke 2006, pp. 159, euro 13), studioso di estetica prematuramente scomparso e di cui ricorre quest'anno il sessantesimo anniversario della nascita.
Carchia, con cui ebbi occasione di collaborare a proposito di Hans Blumenberg, analista accanito dell'immaginazione, lavorò molto anche su Walter Benjamin, di cui si avverte la presenza in momenti non secondari. Qui in particolare mette conto accennare ai due sondaggi che si occupano della funzione e del destino dell'apparenza e che danno il titolo al volume. L'autore non si tira indietro quando deve riconoscere il debito che tutti abbiamo nei confronti dell'idealismo tedesco, nel quale irrompe - movimentando e dinamizzando ciò che prima era statico e inerte - il tempo storico borghese. Il giudizio, attorno al quale è organizzata quella che appunto è la Critica del giudizio di Kant, acquisisce in Hegel i caratteri del processo e recupera così la sua matrice giuridico-forense, incamerando per strada lo spessore della mediazione storica. Su questa posizione, giova ricordarlo, si allineò anche l'Adorno della Dialettica negativa.
Carchia però mostra che quanto solitamente si dà per acquisito - che cioè Hegel abbia visto meglio e più lontano di Kant - qui non ha riscontri. Il residuo che non può essere sciolto nemmeno dalla processualità storica è infatti proprio quello dell'immaginazione, un che di extra-logico e di naturale che corrisponde più a un sentiment (come si diceva in area inglese e scozzese ) che a una dispiegata razionalità valutativa. Ciò che in Hegel viene prima o poi, dal punto di vista dell'esito finale, sottoposto a una pressione ricompositiva, esercita in Kant un tenace diritto di resistenza, rivendicando il diritto a sopravvivere e a non essere riassorbito. E lo fa proprio appellandosi all'immaginazione come a un che di originario, non destinato a scomparire nel rullo compressore della mediazione. Per Hegel ogni «residua immediatezza, ogni non risolta naturalità» (Carchia) si scioglie nel momento stesso in cui si dispiega lo spirito, per Kant lo iato rimane tale: per lui, infatti, il giudizio recepisce un fondo non estirpabile di (nel senso filosoficamente più ambizioso) irrazionalità.
L'elogio dell'apparenza si rivela essere, su scala più ampia, una presa d'atto della finitudine. È quanto risulta evidente a proposito della figura dell'ammirazione. Kant è noto fin dal liceo come il filosofo della sobrietà contro la Schwärmerei, che è una sorta di ubriacatura da eccessivo entusiasmo. Di essa rimane forse vittima anche Platone che, quando deve spiegare i fenomeni dello stupore e dell'ammirazione, si spinge fino all'idea di una comunione intellettuale con l'origine di tutti gli esseri e sposa una linea, diciamo così, «fusionale». Per Kant, invece, il sentimento dell'ammirazione custodisce un mistero e un che di inesplicabile (è infatti vicino al sentimento del sublime): esso, propone Carchia, non è la celebrazione diretta di un'armonia, ma di un'armonia entro il disaccordo. L'ammirazione nasce da uno scossone, anzi da un urto, come scrive letteralmente Kant, ed è l'effetto di uno stupore che si approfondisce e si intensifica accettando la sfida e non ripiegando su soluzioni più comode. A quel punto però il nucleo di mistero viene preservato e non violato, come si conviene a un protagonista della - oggi accerchiata - laicità moderna.

l'Unità 26.1.07
«Giorgiana Masi uccisa da fuoco amico? Orrendo che qualcuno voglia brindarci su»

Il fotografo Tano D’Amico risponde a Cossiga sui fatti del 1977: «Una parte di questo Paese non vuole la verità»
di Marco Bucciantini


«Mi volle incontrare un poliziotto, qualche anno dopo i fatti. Un ufficiale, venne in divisa al bar. Si fece vicino, s’informò degli sviluppi sulla morte di Giorgiana Masi. Gli dissi che l’inchiesta per omicidio era stata archiviata. Il giudice prendeva atto che il proiettile che aveva ucciso Giorgiana era di un calibro piccolo, non in dotazione alle questure, diverso dalle armi in uso quel giorno. La risposta dell’ufficiale mi gelò: è vero - mi disse - i poliziotti non usano quel calibro nelle operazioni di ordine pubblico. Ma nel poligono di Nettuno, i tiratori scelti si allenano proprio con quel calibro. Dopo la “soffiata”, girò i tacchi e non l’ho più visto né sentito».
Tano D’Amico ha ormai 64 anni ed è ancora “in giro”. Bazzica i posti degli ultimi, fotografa i volti che nessuno vede, cerca l’umanità dov’è più disperata e vera. Ama i giovani. Nel 1977 i giovani erano per strada, come Giorgiana, uccisa il 12 maggio durante i disordini in un sit dei radicali. Sul Corriere della Sera in edicola ieri, in un’intervista ad Aldo Cazzullo, il senatore a vita Francesco Cossiga ha raccontato la sua storia, il ’77 visto dal Viminale, il contenimento dei movimenti, i rimpianti, i vanti. Ha parlato di Giorgiana, senza tatto: «Avevo supplicato Pannella in ginocchio: non fate la manifestazione in Piazza Navona... non siete in grado di proteggervi dagli infiltrati». Chi fu a sparare, chiede Cazzullo. «In cinque sappiamo la verità. Non la dirò in pubblico. Ma il capo della mobile mi confidò di aver messo in frigo lo champagne, da bere quando sarebbe emersa la verità», ricorda il senatore, inducendo a pensare che Giorgiana sia stata uccisa dal “fuoco amico”.
Non dirà la verità in pubblico, e non ha più senso che lo faccia in privato. Perché i genitori di Giorgiana sono sotto terra, morti di crepacuore, consumati da quel giorno infinito, il 12 maggio del 1977. Quando torna sui giornali la storia della Masi, si vede quella foto, il poliziotto in borghese con la rivoltella in mano.
È il suo scatto, la foto di Tano D’Amico
«È morta Giorgiana, sono morti i suoi, sono morti i giovani. Quel pomeriggio l’ordine era di farla finita coi contestatori, con chi metteva in discussione il ruolo di chi comandava».
Qualcuno non contestava e basta: sparava, uccideva.
«Ho letto il rimpianto di Cossiga per aver “perso” - a causa dell’intervento dei blindati - molti ragazzi, passati alla lotta armata. Sembra uno di quei film americani quando fanno vedere le malefatte dei pellerossa cattivi. Certo, esistevano. Ma erano una goccia rispetto alla verità storica, al genocidio dei bianchi contro gli indiani d’America. Cossiga conferma una cosa nota: una parte di questo Paese non è interessato alla verità, subordina il valore della verità ad altre ragioni».
Dove sono finiti i giovani?
«Sono stati assenti dalla vita pubblica per vent’anni. Sono ricomparsi contestando la globalizzazione. A Genova c’erano in piazza le monache e i punk, non solo operai e studenti. Era una cosa enorme. E anche lì c’è scappato il morto... Oggi i giovani emergono sono acquiescenti, a testa bassa, hanno già sposato modi e pensieri dominanti. E spesso sono raccomandati».
Quello scatto le piace?
«Sì, quella foto è riuscita a vivere di vita propria. Al di là della denuncia vive perché è l’immagine dell’agguato. Dello Stato che tende trappole ai cittadini, che governa con l’inganno, con i morti....è lo Stato di quegli anni. Lo stesso Cossiga - sulla vicenda Masi - mentì ai cittadini e al Parlamento».
Sono le foto di quegli anni.
«Il mio lavoro era in quel fermento. Come i ragazzi in strada: una voce diversa, forte, non lineare. Occupavamo un posto vuoto. Fra la fine degli anni sessanta e il 1977 nacquero movimenti, giornali, riviste. Perché quello che esisteva non bastava, e con le foto cercavo di riempire uno spazio».
Cosa accade, quel giorno, a Roma?
«Non si può sapere con esattezza. Ma l’idea che qualcuno conservi lo champagne in ghiaccio per festeggiare, è terribile, agghiacciante. Anche si scoprisse che l’assassino è il più impensabile, che festa è? Così si calpesta la memoria di una ragazza che non può più difendere nessuno. E se c’è qualcuno che vuole brindare a quegli anni, provo pena. Il giorno dei funerali, le compagne di scuola di Giorgiana volevano partecipare, chiesero di lasciare per mezza giornata la scuola, dalle parti di Roma Nord. Furono ricacciate in classe minacciate con colpi di arma da fuoco esplosi per aria».
Che fa lei oggi?
«Il fotografo. Vado nei cantieri dove muoiono i lavoratori. Vado fra gli immigrati, fra i precari. Non ho un contratto di lavoro, non ho mai avuto il posto fisso, campare è complicato, ma i miei sono ancora scatti liberi».