mercoledì 31 gennaio 2007

Il Sole 24Ore 29.1.07
Adolescenza difficile. Prescrizioni in aumento
«Antidepressivi ad alto rischio»
di Sara Todaro


«Cure su misura non ce ne sono: per migliaia di minori i trattamenti con antidepressivi e psicofarmaci sono ad alto rischio». Maurizio Bonati (Laboratorio materno-infantile dei Mario Negri di Milano) e gli esperti dell'istituto superiore di Sanità (Iss) hanno rilanciato l'allarme sul rapporto tra bambini e psicofarmaci proprio in occasione dell'entrata in vigore dei nuovo Regolamento Ue sulle cure baby.
«Dal 2000 a oggi spiega Bonati il consumo di questi prodotti tra bambini e adolescenti tra 7 e 14 anni è più che triplicato. E gran parte dei 30mila ragazzi in terapia riceve cure "off label", non testate per questi pazienti, col rischio di veder aumentare effetti collaterali gravi o gravissimi, come i disturbi cardiovascolari e l'induzione al suicidio».
Le statistiche sono allarmanti: in Italia. su 1 milione e 500mila minori tra 0 e 17 anni, assume antidepressivi il 2,2 per mille dei maschi e il 2,6 per mille delle femmine; il consumo aumenta tra gli adolescenti. Secondo un recentissimo studio dell'Oms nel resto del mondo non va meglio: soffrono di disturbi depressivi 48 adolescenti su cento.
Le cure? Restano per adulti. «Solo di recente l'Emea (Agenzia Ue dei medicinali) ha riconosciuto l'indicazione pediatrica di un prodotto usato nella terapia, in corso di registrazione anche in Italia», dice il presidente dell'lss, Enrico G araci.
Ma sugli altri fronti si naviga a vista: «C'è addirittura da far ordine nele schede tecniche dei prodotti in commercio», sottolinea ancora Bonati, convinto che serve « un Registro nazionale e un piano terapeutico per tutti gli psicofarmaci somministrati ai minori». Il primo di questi Registri sarà inaugurato a febbraio, quando l'Agenzia italiana dei farmaci (Aifa) dovrebbe dare il via libera al ritorno in Italia del metilfenidato (Ritalin), farmaco per il trattamento dell'Adhd ( deficit di attenzione e iperattività) che riguarda in Italia tra il 2 e il 4% dei bambini in età scolare. L'annuncio ha fatto subito riesplodere le polemiche sui possibili abusi. «Il registro garantirà accuratezza diagnostica e appropriatezza il farmaco potrà essere prescritto sob nei centri H riferimento indicati dalla Regione», assicura Stefano Vella (dipartimento farmaci dell'Iss). Ma Bonati spezza ancora una lancia a favore di pazienti e famiglie: «Le reazioni emotive derivano anche da carenze organizzative e politiche». «L'adolescente psichiatrico conclude l'esperto è terra di nessuno: i Piani sanitari nazionali e il Piano maternoinfantile non se ne occupano; ii Piano salute mentale vi dedica poca attenzione. E non c'è nessun sostegno alle famiglie che addirittura, da una AsI all'altra, rischiano di essere discriminate ediritrovarsi costrette a sostenere il costo di costosi cicli di cura».

l’Unità 31.1.07
Ecco perché il volto è lo specchio dell’anima
di Eugenio Borgna


FOLLIA E CREATIVITÀ Nel nuovo lavoro di Eugenio Borgna, Come in uno specchio oscuramente, la sofferenza e le sue espressioni: dai ritratti di Francis Bacon ai versi di Sylvia Plath, dalle figurine di Alberto Giacometti alle poesie di Emily Dickinson

Nella mostra, che si è tenuta a Milano (a Palazzo Reale) nel 1998 (L’Anima e il Volto), il tema delle connessioni fra l’anima e il volto, fra gli stati d’animo, le emozioni, e le loro espressioni nel silenzio dei volti, si è venuto splendidamente delineando.
Le emozioni, la schiera infinita delle emozioni, solcano i volti nella vita quotidiana di ciascuno di noi, e nella vita dell’arte; e ne illustrano, o ne oscurano, le espressioni.
Nel catalogo della mostra è possibile cogliere il flusso ininterrotto delle emozioni, della gioia e della tenerezza, della tristezza e dell’angoscia, dello smarrimento e della desolazione, della inquietudine del cuore e del tædium vitæ, della nostalgia e delle intermittenze del cuore: in un inaudito carosello di emozioni forti e di emozioni deboli.
In ogni caso, vorrei ora riflettere sulla fenomenologia dei volti dipinti da Francis Bacon: nei quali si intravedono immediatamente il dolore e la lacerazione dell’anima che rinascono dai lineamenti disfatti e infranti, sfigurati e accecati: nei vortici di un’angoscia che toglie luce agli occhi: bruciati dal deserto della disperazione. Nei volti slabbrati e nei corpi raggrumati di Francis Bacon si riflettono le ombre roventi di un mondo, il mondo in cui viviamo e in cui siamo immersi, divorato dal deserto della speranza e dalla paura; e la paura non ci dà tregua: ci insegue e ci assedia, ci contagia e ci oscura, al di là di ogni conflitto e al di là di ogni libertà esteriore. La materia pittorica si scioglie, e sembra liquefarsi, trascinando con sé la indefinibilità e la indistinzione dei corpi e dei volti che ne risultano deformati e segnati dai bagliori della paura e della angoscia, della angoscia della morte, che accendono torce effimere nella notte delle emozioni. La paura e l’angoscia della morte sono così le sole emozioni che rinascano dai suoi ritratti e dai suoi autoritratti, dai vortici insondabili delle sue figurazioni corporee che nel loro nocciolo segreto e scarlatto si perdono nel disfacimento e nel silenzio. Nei dipinti di Bacon, in questi volti e in questi corpi, non si rispecchiano solo la paura e l’angoscia individuali (personali) ma anche quelle sociali: delle comunità lacerate e sfiorate ogni volta, oggi come allora, dalla aggressività e dalla violenza che Bacon sembra quasi prefigurare e anticipare con le folgorazioni conoscitive e interpretative della sua grande arte.
Sono volti e sguardi, quelli di Bacon, che testimoniano di un dolore e di una solitudine senza fine, di una angoscia lacerante e devastante, e che sono profondamente diversi da quelli ricolmi della luce, anche se umbratile e spezzata, di Giacometti. I volti di Bacon sembrano davvero riflettere in sé le ombre fatali di un secolo schiacciato dalla distruzione e dalla morte, dalla inaudita violenza ideologica che ha falciato le esistenze più deboli e più fragili; e in questo senso sono immagini figurative che non ci faranno dimenticare gli orrori della violenza. I volti e gli sguardi (le figure slanciate e inafferrabili) di Giacometti rinascono, certo, da una comune sorgente di dolore e di tristezza, e anche di angoscia, ma nondimeno sono aperti alle attese e alla speranza: alla attesa di qualcosa che dia un senso alla vita vissuta come solidarietà e partecipazione: come trascendenza. Sono volti e sguardi che ridicono la problematicità e le ambivalenze della vita: senza sprofondare negli abissi della disperazione.
(Il tema senza fine dei volti e degli sguardi, delle loro espressioni pittoriche e plastiche, aiuta la psichiatria a ripensare alle sue radici fenomenologiche e antropologiche: che sono, almeno in parte, comuni anche alle discipline artistiche nelle quali ci confrontiamo con il nocciolo eidetico delle cose.)
Nel contesto delle interviste, che da David Sylvester sono state fatte a Francis Bacon, vorrei ricordare le cose ardenti e inquietanti che egli ha detto rispondendo ad una domanda sulle ragioni della ossessionante ripetizione dell’angoscia e dell’orrore nelle tante opere dedicate al grido. «Si può dire che un grido sia un’immagine d’orrore, ma io ero in realtà interessato a dipingere il grido più che l’orrore. Penso che, se avessi davvero riflettuto su ciò che induce una persona a gridare, il grido che tentavo di dipingere ne sarebbe risultato molto più efficace. In un senso, avrei dovuto essere più consapevole dell’orrore da cui nasceva il grido. Le mie immagini erano in realtà troppo astratte». Invitato a dire qualcosa sulla continua raffigurazione di Innocenzo X, ridisegnato a partire dal quadro di Velázquez, Bacon dice: «Quando ho dipinto il papa che grida, non era quello che mi ero prefisso di fare»; nel senso che: «quando dipinsi il papa che grida volevo in realtà fare tutt’altro: volevo dipingere una bocca con la bellezza del suo colore e tutto il resto, che fosse come un tramonto di Monet, non intendevo fare solo un papa che grida». Certo, in Bacon il volto e il corpo gridano nel fiume dell’angoscia; ma in modi molto diversi da quelli che riemergono dalle opere di Edvard Munch.
Nel corso dell’intervista Francis Bacon parla anche degli influssi che la poesia ha avuto sulla sua vita artistica. «Penso sempre di essere stato influenzato da Eliot. La terra desolata, soprattutto, e le poesie che l’hanno preceduta mi hanno sempre molto emozionato. Leggo spesso anche i Quattro quartetti, e penso che siano forse poesia ancora più grande della Terra desolata, anche se non mi toccano nello stesso modo. Ma ho raramente creato qualcosa ispirandomi direttamente a particolari versi o poesie. Li ammiro, mi stimolano e mi incitano a tentare e a lavorare molto di più. È questo il modo in cui m’influenzano». Non solo dalla poesia di Thomas Stearns Eliot egli dice di essere stato influenzato ma anche da quella di William Butler Yeats: il grande poeta irlandese. «Sono stato molto toccato anche da numerose poesie di Yeats. Forse una delle cose che più ammiro in Yeats è il modo in cui ha lavorato su se stesso - forse è stato sempre un poeta straordinario, ma mi sembra che abbia lavorato su se stesso in un modo davvero eccezionale».
La poesia e la pittura, allora, che si intrecciano lungo sentieri misteriosi e nondimeno affascinanti, e rivelatori di enigmatiche comuni risonanze emozionali e creative.
Ci sono alcune altre belle considerazioni di Bacon sulla pittura di Rembrandt; e ad esse, che nascono dalle domande di Sylvester, vorrei ora richiamarmi. Nel grande autoritratto di Rembrandt, ad Aix-en-Provence, Bacon dice che gli occhi non hanno orbite: l’immagine è completamente anti-illustrativa. «Penso che il mistero del dato reale sia comunicato da un’immagine creata con segni irrazionali. E questa irrazionalità del segno non dipende dalla volontà. È la ragione per cui il caso deve sempre intervenire in questa attività, perché nel momento in cui sai cosa fare, non produci altro che un’ennesima forma di illustrazione». La svolta conclusiva in questo discorso su Rembrandt è così articolata da Bacon: «Dietro a tutto questo c’è la profonda sensibilità di Rembrandt, che ha saputo applicarsi a un segno irrazionale piuttosto che a un altro. E nei segni di Rembrandt l’espressionismo astratto era già stato inventato. Ma in Rembrandt c’era in aggiunta il tentativo di registrare un fatto: per me la sua pittura è quindi molto più eccitante e molto più profonda. Una delle ragioni per cui non mi piace, o non m’interessa, la pittura astratta, è che ritengo che la pittura sia una dualità, e che quella astratta sia qualcosa di totalmente estetico».

Il maschile e il femminile della malinconia

Nel suo nuovo saggio, Come in uno specchio oscuramente (Feltrinelli, pp. 232, euro 16), del quale pubblichiamo un brano in questa pagina, Eugenio Borgna attraversa gli enigmi della differenza tra maschile e femminile nella sofferenza e nella creatività, nella nevrosi e nella follia. Tratteggia esperienze dissonanti di malinconia, di schizofrenia, di morte volontaria, ma anche esperienze di poesia, pittura, scultura: Emily Dickinson e Georg Trakl, Vincent Van Gogh e Camille Claudel tra gli altri, e le altre. Ne vengono altrettanti ritratti, altrettante riflessioni sul male in ogni sua espressione, sul senso del dialogo, sulla cura e sul prendersi cura in psichiatria come nell’esistenza di ogni giorno. Apre il volume una straordinaria rievocazione autobiografica dei primi anni di lavoro in ospedale psichiatrico. Lo chiude una meditazione rarefatta, essenziale, austera sulla fragilità delle parole, dei gesti, con cui avvicinare la sofferenza, senza cancellarla nel silenzio, senza negarle una luce possibile.

l’Unità 31.1.07
Vescovi contro i Pacs e Napolitano
Betori a nome di Ruini rigetta gli inviti. Ma il Vaticano smorza: apprezziamo parole del presidente
di Roberto Monteforte


NESSUNA MEDIAZIONE, nessun compromesso sarà mai possibile sulla legge per le unioni di fatto. Quella legge non va fatta. La Chiesa tiene ben serrate le porte del dialogo. Nessuna riconoscimento giuridico va dato a quelle unioni: lo ribadisce il segreta-
rio generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori presentando le conclusioni del Consiglio Permanente aperto lo scorso 22 gennaio dal suo presidente, cardinale Camillo Ruini. È un «niet» secco. Che suona come una risposta brusca anche all’agreement del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che da Madrid aveva richiamato tutti a prestare ascolto alle ragioni della Papa, della Chiesa e dei cattolici. Perché sulle questioni eticamente sensibili e dei diritti della persona occorre cercare il dialogo e non spaccare il Paese. Ma per trovare soluzioni che nel rispetto della Costituzione, rispondano alla domanda di diritti di chi ha scelto di convivere al di fuori del matrimonio.
«L’appello di Napolitano di trovare una sintesi con la Chiesa ci fa piacere - commenta il segretario della Cei - perché non parla né di compromesso né di mediazione, ma di sintesi, e questo significa rispetto della identità di ciascuno. Una sintesi non significa rinunciare ai principi di ognuno, ma significa arrivare a un livello più alto e trovare un incontro in cui ciascuno non rinunci ai propri principi». Taglia corto Betori che pure apprezza le parole del Capo dello Stato e ne sottolinea il non nuovo «riconoscimento, in positivo, del ruolo dei cattolici e del loro apporto alla convivenza sociale sia nel passato che nel presente». Ma la Cei alza stendardi. Così si rende fragile quel ponte di dialogo invocato da Napolitano. Per la Chiesa sui valori etici non si tratta. E non per ragioni o verità di fede, ma «antropologiche». «Difendiamo e affermiamo grandi valori che prima di essere cristiani - spiega Betori - sono umani e che come tali danno senso alla vita e ne salvaguardano la dignità». Peccato che questa verità voglia essere imposta a tutti e in ogni caso. Un prendere o lasciare che rischia di tagliare fuori la politica e quindi anche l’azione dei politici «cattolici». Nel documento conclusivo del Consiglio permanente lo si dice chiaramente: «Alla famiglia fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso “non possono essere equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali riconoscimento legale”». L’ordine è stato dato. Fuoco di sbarramento. Poi si vedrà. Intanto la Cei assicura che sul tema non sono in corso «trattative» con governo o maggioranza.
È una chiusura netta che rischia di indebolire l’iniziativa del Quirinale. Lo rimarca anche il leader della Quercia, Fassino che invita tutti «ad abbassare la temperatura»: «Dobbiamo cercare più soluzione che non marcare distinzioni». Così dal Botteghino arriva un invito: «All’apprezzamento che la Cei ha espresso per le parole del presidente Napolitano, segua un’effettiva disponibilità al confronto e alla ricerca di soluzioni condivise».
In soccorso all’iniziativa di Napolitano, è arrivata la Santa Sede sembra anche dopo un chiarimento con il Colle. «L’intervento del presidente Napolitano è certamente molto apprezzabile: dimostra la grande attenzione per le posizioni del Santo Padre da lui già più volte manifestata, e incoraggia ad un atteggiamento di dialogo e di rispetto che non è sempre presente nell’attuale dibattito politico» lo afferma il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi. «Con il suo intervento - commenta - il Presidente invita alla ricerca di una visione ampia sui problemi della società, con grande sensibilità verso le preoccupazioni espresse dalle autorità della Chiesa, riconoscendone la legittimità e il fatto che sono profondamente motivate e mosse dalla ricerca del bene comune della società italiana». «Rimane da vedere - conclude - come possa essere trovata nel dialogo la auspicata sintesi, coinvolgendo le diverse componenti della comunità politica e sociale italiana, e in modo che le posizioni manifestate dalle autorità della Chiesa in Italia siano tenute nel conto dovuto». Così smussa le asprezze della Cei. La via del dialogo deve rimanere aperta. Anche se Betori ha già lanciato il suo annuncio: la Chiesa farà diga nei confronti di una legge che non «soddisfi» le richieste dei vescovi. Le indica: maggiori sostegni alla famiglia, adeguate politiche sociali in grado di «rimuovere quegli ostacoli di ordine pratico, giuridico e fiscale che allontanano i giovani dal matrimonio e dalla generazione di figli». E per le convivenze eterosessuali? Se diritti vanno riconosciuti si modifichi il codice civile. Quello che conta è che «si rimanga sempre ancorati ai diritti e doveri della persona». Quindi nessun riconoscimento giuridico alla coppia che «finirebbe per configurare qualcosa di simile al matrimonio dove però ai diritti non corrisponderebbero uguali doveri». E le coppie gay? Neanche da nominare.

l’Unità 31.1.07
Bertinotti: «Il Cile sui diritti è più avanti di noi»
Il presidente della Camera incontra la Bachelet. «Sui Pacs ci sia una soglia di garanzia per tutti»
di Natalia Lombardo


«Se sappiamo imparare... è meglio», dice con un sorriso il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, da lunedì a Santiago del Cile. Imparare dal “profeta disarmato”, Salvador Allende, la lezione politica del cambiamento raggiunto con la democrazia e la partecipazione di massa. E imparare dai passi compiuti in Cile dalla presidente socialista, Michelle Bachelet, sulla strada per la conquista dei diritti civili: lunedì ha firmato un decreto che permette alle 14enni di prendere la pillola del giorno dopo anche senza il consenso dei genitori. In Italia, invece, infervora anche nel centrosinistra la battaglia per la legge sulle coppie di fatto. «Non posso che essere d’accordo con il presidente Napolitano» sulla necessità di trovare una sintesi, afferma Bertinotti. Che però aggiunge: «Quella sui Pacs è una battaglia di laicità. Ci vuole una soglia minima di garanzia per tutti».
Nel pomeriggio ha incontrato alla Moneda la presidente Michelle Bachelet. A lei, come farà agli altri leader che vedrà in questi dieci giorni, chiederà un sostegno all’iniziativa italiana per una moratoria sulla pena di morte già avanzata all’Onu. Ieri mattina Bertinotti ha ricevuto dal “collega” Antonio Leal la massima onorificenza della Camera dei deputati cilena. All’Accademia diplomatica loda il decreto sulla pillola: «È in linea con tutte le prese di posizione della presidente Bachelet. C’è un impegno molto forte sul terreno dei diritti della persona per dare un’impronta innovativa ed evolutiva al quadro delle leggi cilene». In un Paese in cui su temi come l’aborto o il divorzio «si è avuta per tradizione una legislazione restrittiva». Ma un provvedimento così coraggioso secondo il presidente della Camera è sulla «linea di tendenza» sulla quale è impegnata la presidente, quella della «liberalizzazione e della modernizzazione: la presidente vede un Cile in grado di evolvere rapidamente sulla strada dei diritti civili».
Percorsi difficili, in Italia, anche se Bertinotti riconosce che c’è un segno di discontinuità, non una svolta a sinistra del governo: «Con Prodi c’è stato un cambiamento di passo della politica, con dei segni che dicono di una diversità rispetto al governo precedente. State tranquilli, il governo non cadrà. Non c’è alternativa, le larghe intese sarebbero deflagranti per i Ds, ma anche per Forza Italia». Ma poi aggiunge che «la politica degli ultimatum non è produttiva» con evidente riferimento a Mastella.
Da Montecitorio a Santiago del Cile, accompagnato dalla moglie Lella. Ed è anche dalla memoria, dalla commozione sulla gelida tomba del presidente cileno eliminato dal golpe di Pinochet, che l’ex segretario di Rifondazione fonda il senso del suo viaggio in America Latina, oggi in piena fioritura delle sinistre: «Lula o Michelle Bachelet non sono i “figli” di Allende, ma il rinascimento politico del Sud America, anche con Chavez e Morales è la grande rivincita di Allende: si può tentare la strada del cambiamento nella democrazia, con il voto e la partecipazione di massa». Prendere atto oggi del «fallimento dei liberismi» (il riferimento è all’Argentina), ma è quel superare la griglia rigida dei partiti con la partecipazione popolare che fu la «grande premonizione» politica del leader di Unidad Popolar, poco compresa dalla sinistra in Italia, commenta Bertinotti ricordando la «grande solidarietà offerta alla vittima di un regime, ma oscurandone la figura politica. L’Italia preferì altri miti», Che Guevara e il Vietnam. Ma la scelta del compromesso storico del Pci di Enrico Berlinguer, nata dopo il golpe in Cile, «sarebbe avvenuta lo stesso», aggiunge. A migliaia di chilometri di distanza, il presidente della Camera inizialmente aveva evitato di parlare di politica italiana. Della quale lamenta «il distacco tra partiti e movimenti», la concentrazione sul governo. Guarda alle sinistre in America Latina come strade utili alla nascita della Sinistra Europea. La prospettiva prende corpo nella visita al Museo della Fondazione Salvatore Allende, curato dall’ex segretaria del presidente cileno, Patricia Espejo Brain e da suo marito pittore. Un «miracolo», commenta Bertinotti emozionato nel vedere come non sia morto «il seme» della democrazia: la raccolta delle opere di artisti di tutto il mondo fu iniziata da Allende nel 1972, poi dopo il golpe i quadri (fra gli altri Mirò, Picasso, il pop americano Frank Stella e l’italiano Carlo Levi) furono occultati dal rettore dell’università, ma gli esuli nel mondo continuarono a raccoglierli. Ora il museo vive, conservando anche il segno del regime delle centraline telefoniche della Dina, la polizia segreta, che controllava gli oppositori (macchinari forniti dalla Cia, precisano). La ferita si riapre davanti all’«agghiacciante» lapide, un’intera parete, che parla dei tremila ejecutados politico: ventenni uccisi dal regime, «È impressionante», commenta Bertinotti colpito dalla tenerezza di un alberello di Natale lasciato da un parente e da un cuore di stoffa con scritto «Adios papi».
L’incontro con Michelle Bachelet, prima “presidenta” del Sudamerica, figlia di un generale ucciso dal regime con perfide torture (delle quali furono vittima lei stessa e la madre) avviene nella Moneda, il palazzo assaltato dai militari l’11 settembre del 1973.

l’Unità 31.1.07
Veltroni e Fini: sul bipolarismo c’è accordo
«Il Parlamento avvii la riforma elettorale»
Chiti: nessuno vuole più la preferenza
di Eduardo Di Blasi


SONO DUE LEADER in pectore, non dei semplici «volenterosi» che rappresentano se stessi, chiarisce di prima mattina Gianni Alemanno, nel presentare il convegno che la «Fondazione nuova Italia» da lui presieduta ha organizzato al Residence di Ripetta
a Roma e che è prossimo ad iniziare. Da anni destinati alla successione nei rispettivi schieramenti, per adesso Gianfranco Fini e Walter Veltroni si attestano su una difesa del bipolarismo e della governabilità del Paese. Guardano al referendum sulla legge elettorale promosso dal professor Giovanni Guzzetta come ad un pungolo necessario: se il Parlamento non riuscirà a trovare un sistema coerente, affermano in coro, è bene che il referendum si faccia. E discutono di legge elettorale e assetti istituzionali, assieme al ministro per le Riforme Vannino Chiti, all’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu (Fi), al vice presidente della Commissione Affari Istituzionali della Camera Domenico Benedetti Valentini (An), ai costituzionalisti Stefano Ceccanti e Francesco Saverio Marini, e al promotore del referendum Guzzetta. Inizia Veltroni: «Dal ‘93 in poi siamo coerentemente schierati a difesa della democrazia dell’alternanza, per un bipolarismo in cui i cittadini possano scegliere chi li governa. Oggi non è così». Parla di un «tripudio dell’autoreferenzialità», di «veti reciproci che paralizzano» l’azione politica, di un premier che, invece di essere a capo del governo «è nominato dai suoi ministri che sono anche segretari di partito», di «partiti con il 2%» che «non possono essere arbitri di un governo votato da milioni di persone». Spiega la sua ricetta. Sono cinque punti che vanno a toccare la Costituzione: «Ridurre il numero dei parlamentari; assegnare al primo ministro la facoltà di poter indicare al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; una corsia preferenziale per i provvedimenti del Governo; più velocità e trasparenza al Senato; la riforma del modo in cui si approva la legge finanziaria, che non può essere emendata in ogni dettaglio». Sulla legge elettorale il modello è quello dei sindaci: maggioritario a doppio turno, con l’indicazione del candidato (premier). Gianfranco Fini parte in difesa: «Abbiamo votato l’attuale legge elettorale perché abbiamo capito che a rischio non c’era il sistema proporzionale o quello maggioritario, ma il bipolarismo». È un attacco a Lega e Udc «attivi oggi, come a fine legislatura» ad arare una terra di mezzo tra i due schieramenti. Anche Fini crede che, assieme alla legge elettorale, si debba mettere mano alla seconda parte della Costituzione. Chiede di sapere se esistano «le condizioni politiche», che non vi siano «vincoli di coalizione». Afferma: se i piccoli partiti non ci stanno, ecco che arriva il referendum. Vorrebbe discutere dell’attribuzione del premio di maggioranza: sembra anche aprire al doppio turno (poi An smentirà). Pisanu crede che mettere mano alla Costituzione sarebbe un errore: meglio, afferma, correggere l’attuale legge elettorale eliminandone le storture (come le candidature multiple). Quello che uscirebbe dal referendum sarebbe, a detta di Pisanu, «ripugnante». Atteso al compito di armonizzare le posizioni dei partiti è il ministro Chiti: «Io, personalmente, sono per il maggioritario a doppio turno», afferma. Poi chiarisce: «La prevalenza dei gruppi è contraria al voto di preferenza», ma favorevole ad un ridimensionamento dei collegi elettorali, di modo da arrivare a liste bloccate che non contino più «38 candidati ma 5 o 6 per collegio». Un modello «simil-spagnolo», in linea, afferma il costituzionalista Ceccanti «con il resto dell’Europa, dove non esiste il voto di preferenza»

Repubblica 31.1.07
Cacciari non condivide l'invito di Napolitano al dialogo: "Non ci incartiamo sui Pacs"
"Lo Stato laico faccia le sue scelte dalla Chiesa battaglia di retroguardia"
Il cambiamento del costume ha fatto in modo che i rapporti fra gay non suscitino più scandalo
Credo che l'idea della famiglia tradizionale debba essere non abbandonata ma ripensata
di Roberto Bianchin


MILANO - I Pacs, sbotta il filosofo, «ci vuole proprio una fantasia perversa per incartarsi sui Pacs». Non piace, al sindaco di Venezia Massimo Cacciari, la proposta di cercare una «sintesi» al problema, avanzata dal capo dello Stato, che tenga conto delle posizioni della Chiesa. Non gli piace neanche che questo tema sia all´ordine del giorno: «Il governo dovrebbe interessarsi di ben altro in questa fase, con le tragedie internazionali e i drammi locali che stiamo vivendo».
Professor Cacciari, perché non si dovrebbe dialogare con la Chiesa?
«Ma perché mai dovrei trovare un accordo con la Chiesa? No, non condivido l´impostazione di Napolitano. Io devo muovermi come uno Stato laico, non è pensabile sentire cosa pensa la Chiesa per fare una legge. Non devo dipendere dalla Chiesa, altrimenti verrebbe meno la concezione stessa dello Stato. Certo, la Chiesa va ascoltata, come vanno ascoltati tutti, ma non per cercare compromessi o mediazioni. Noi dobbiamo andare avanti per la nostra strada, con cautela invece che con le sparate che fanno alcuni laici, e sapendo che stiamo maneggiando un materiale delicatissimo».
Ma la Chiesa dice no al riconoscimento delle coppie di fatto.
«Prima o poi dovrà riconoscerle. Prenderne atto, come ha fatto con il divorzio. La corrente delle trasformazioni della società è inarrestabile. Perché resistere allora? Non è su questo terreno che la Chiesa deve fare le proprie battaglie: si occupi della mercificazione del lavoro e del sesso, e di quelle porcherie di certe trasmissioni televisive. Per questo il suo atteggiamento proibitivo è sbagliato. Sembra quello di un predicatore sessuofobo che reprime e vieta. Una battaglia di retroguardia».
Cosa dovrebbe fare invece?
«Predicare in positivo. Con messaggi lieti, di apertura, di accoglienza. Avere un atteggiamento meno assoluto, meno dogmatico. Per un cristiano questa non è mica una questione di fede, non stiamo parlando di Gesù, ma di due persone che si amano e vogliono vivere assieme. Come si fa a dire che è un capriccio, che è peccato, che è solo per sesso? Come fa la Chiesa a leggere nel cuore di due omosessuali che si amano? Mi sembra che manchi anche la sensibilità storica necessaria».
In che senso?
«Nel senso che l´idea della famiglia tradizionale debba essere non abbandonata ma ripensata. Non è una categoria dello spirito. La famiglia greca era molto diversa da quella romana, e le famiglie cinesi o indiane sono molto diverse da quelle europee. L´istituto familiare ha sempre avuto modi diversissimi basati su etiche e culture diversissime, e moltissime evoluzioni nel tempo. Lo stesso divorzio lo ha profondamente modificato, e l´idea che aveva San Tommaso della famiglia non è neanche lontanamente paragonabile a quella dell´arcivescovo Lefebvre».
Ma lei è d´accordo che serve una legge? I Pacs vanno bene?
«La famiglia non la trasforma lo Stato con una legge, sarebbe comico. Bisogna invece tenere conto che nella società ci sono delle trasformazioni già avvenute, e che i tempi sono maturi per poter dire che due persone che si amano, anche dello stesso sesso, possano vivere assieme. Cosa c´è di tragico in questo? Quindi i Pacs vanno bene, danno una risposta a una domanda che c´è. Il cambiamento del costume ha fatto in modo che i rapporti fra omosessuali non suscitino più scandalo, ed è un bene che non ci sia più questa fobia. Cosa preferisce la Chiesa, che si scaglino le pietre contro gli omosessuali?».
Lei ha lanciato a Venezia, a colpi di manifesti, una campagna contro l´omofobia. Con quali obiettivi?
«E´ una campagna culturale, per invitare soprattutto i giovani ad accettare quello che appare diverso, straniero, magari anche potenzialmente nemico».

Repubblica 31.1.07
IL CASO
Dietro l'appello del Colle, un fenomeno fatto di pellegrinaggi, messe, professioni bipartisan di fede
Dall'articolo 7 al dialogo sui gay la politica in cerca di benedizioni
Gli industriali non sono da meno: una volta misero i mutandoni all´Uomo Vitruviano in segno di rispetto a Bertone
Rosy Bindi l'ha definita una volta: "La gara a chi è più cattolico". Spesso ci si limita a compiacere le gerarchie religiose
di Filippo Ceccarelli


Ma c´era proprio bisogno di rievocare, a proposito dei pacs, il voto a sorpresa dell´Assemblea Costituente sull´articolo 7?
Il prossimo 25 marzo saranno sessant´anni. Da quel giorno la sovranità dello Stato e quella della Chiesa hanno seguitato a uscire dai rispettivi confini disputandosi, ora più ora meno, quello stesso spazio che coincideva con la vita pubblica italiana. E tuttavia ciò che allora impressionò fu l´impegnativa scelta del Pci togliattiano. Un subitaneo e spregiudicato voltafaccia, ma al tempo stesso anche una lungimirante soluzione improntata alla realpolitik. E comunque: «Quando fu proclamato il risultato (359 favorevoli e 149 contrari) - scrisse Piero Calamandrei - nessuno applaudì, nemmeno i democristiani, che parevano fortemente contrariati da una vittoria raggiunta con quell´aiuto. Neppure i comunisti parevano allegri; e qualcuno notò che uscendo a tarda ora da quella seduta memoranda, camminavano a fronte bassa e senza parlare».
Vero è che la Dc non aveva alcun margine di trattativa. Memorandum minacciosi come fogli d´ordine le intimavano dalla Santa Sede di includere il Concordato fascista nella Costituzione. Fatto sta che al termine di quello che ne «L´avventurosa nascita della Repubblica» (Rizzoli, 1989) Gianni Corbi ha definito «il più dotto e appassionato torneo oratorio che si sia mai tenuto a Montecitorio», furono i comunisti a calare la carta risolutiva sconfessando in extremis le loro precedenti posizioni. Come San Paolo «sulla via di Damasco», a dispetto dell´immagine richiamata da Pajetta per negare qualsiasi possibile conversione, Togliatti decise di votare sì. Lo fece contro Nenni, che parlò di «cinismo»; contro gli azionisti, inferociti; e contro quei laici che a partire da Benedetto Croce giudicavano l´articolo 7 «uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico». A tutti costoro replicò il Migliore, nel suo più acrobatico discorso, che il problema dei problemi era: «Salvare l´unità delle masse e la pace religiosa».
Ora. Anche dando per scontata la vocazione tutta italiana di precipitare le più remote memorie nell´attualità polemica, è singolare come lo spettro dell´articolo 7 abbia scavalcato addirittura il millennio per indicare una possibile via d´uscita di una disputa che più evoluta e sfuggente non si potrebbe. E´ del tutto plausibile che il presidente Napolitano, già ragguardevole esponente del Pci togliattiano, abbia voluto inviare alla Chiesa un messaggio distensivo, un segnale di buona volontà, tanto più dalla Spagna iper-laicista di Zapatero. Ma la durissima risposta della Cei, quel suo respingere anche solo l´idea di una «sintesi» legislativa, non lascia adito a dubbi. Il tempo dei popoli contrapposti e quindi degli inevitabili patteggiamenti, è davvero e per sempre superato.
C´è una vertigine rispetto all´Italia in cui Don Camillo doveva più o meno pacificamente convivere con Peppone. Ma altrettanto lontane sembrano le vittorie laiche del divorzio e dell´aborto - che fino all´ultimo i comunisti disdegnarono. Il Pci e la Dc non ci sono più, né la società italiana potrebbe ancora identificarsi con la Chiesa. Questa semmai si connota come una minoranza viva, agguerrita, intransigente e da anni ormai adusa a comportarsi, su una serie limitata di argomenti, come una specie di lobby cui l´articolo 7 garantisce l´opera e adesso la visibilità.
Non solo. Novità nella novità: si sono esaurite le ideologie, le culture politiche, le appartenenze della Prima Repubblica. E allora l´odierna classe di governo, alla disperata ricerca di senso, sempre più spesso finisce per aggrapparsi alla Chiesa e a quelli che chiama «valori», ma lo fa da par suo, e quindi in modo vistoso e anche un po´ parassitario.
Non mancano certo gli esempi di questa tendenza, ugualmente ripartita nei due schieramenti. Pellegrinaggi, messe, benedizioni e presepi nelle istituzioni; pratiche fino a qualche anno fa impensabili. In periferia assessorati alle missioni, al perdono e perfino alla Salvezza. Un continuo di leader che esprimono la loro fede (o si definiscono «in ricerca») e un perenne scrutinio mediatico sulla loro osservanza ai sacramenti. Indizi, dettagli, coriandoli di un atteggiamento. La Serafini che si commuove in Vaticano all´anteprima dell´ennesima fiction papale; l´onorevole De Gregorio che esibisce il rosario; la signora Lonardo Mastella che ci tiene di informare la pubblica opinione di essere arrivata vergine al matrimonio; gli industriali della Confindustria che in un convegno mettono i mutandoni all´Uomo Vitruviano per rispetto, forse, all´agognatissimo relatore, cardinal Tarcisio Bertone.
Rosy Bindi l´ha definita una volta: «La gara a chi è più cattolico». Ma l´impressione è anche quella di gente che cerca di compiacere le gerarchie ecclesiastiche, e lì si ferma. Nel centrodestra, illuminato dagli exploit dei teo-con, il fenomeno è se possibile ancora più evidente e contraddittorio. Le «radici cristiane» fanno da sfondo, in caratteri cubitali, nelle manifestazioni dell´Udc (in Sicilia, per giunta); Casini rievoca la strage proto-islamistica di Otranto (XV secolo) e Borghezio invoca il Papa a fare la crociata anti-islamica; Baccini se la prende con il supposto «neo-paganesimo» di Veltroni; Buttiglione pretende la fiction edificante dalla Rai; e dimentico del matrimonio celtico, Calderoli indossa la maglietta dell´orgoglio cristiano. Dopo tutto, viene da pensare, fra Togliatti, Croce, PioXII e Calamandrei, l´Italia dell´articolo 7 era molto più aspra, ma anche più seria.

Corriere della Sera 31.1.07
LA PROPOSTA Circolano troppi falsi miti. Un esempio: lo sterminio dei càtari
Una «Lega anticalunnia» in difesa dei cattolici
«Seguiamo l'esempio degli ebrei a tutela della verità storica»
di Vittorio Messori


Sostengo da tempo che i cattolici, ridotti ormai a minoranza (almeno sul piano culturale), dovrebbero seguire l'esempio di un'altra minoranza, quella ebraica. Dovrebbero, cioè, creare anch'essi un'Anti Defamation League, una «Lega anticalunnia», che intervenga sui media a ristabilire le verità storiche deformate, senza peraltro pretendere alcuna censura o privilegio, bensì soltanto la possibilità di rettifiche basate sui dati esatti e sui documenti autentici.
Prendiamo, ad esempio, quei càtari (detti albigesi, in Francia) oggi di moda anche perché hanno gran parte nel Codice da Vinci eche si vorrebbero rivalutare, dimenticando che erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinaria setta di origine asiatica. Paul Sabatier — storico del Medio Evo e insospettabile in quanto pastore calvinista — ha scritto: «Il papato non è stato sempre dalla parte della reazione e dell'oscurantismo: quando sbaragliò i càtari, la sua vittoria fu quella della civiltà e della ragione». E un altro protestante, radicalmente anticattolico e celebre studioso dell'Inquisizione, l'americano Henry C. Lea: «Una vittoria dei càtari avrebbe riportato l'Europa ai tempi selvaggi primitivi».
Della campagna cattolica contro quei settari (appoggiati dai nobili del Midi, il Mezzogiorno francese, non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa) vengono ricordati soprattutto l'assedio e la presa di Béziers, nel luglio del 1209. Vedo ora, sul «Messaggero», che un divulgatore di storia come Roberto Gervaso non esita a dare per buona la replica di dom Arnaldo Amalrico, abate di Citeaux e «assistente spirituale» dei crociati, ai baroni che gli chiedevano che cosa fare della città conquistata. La risposta è stata resa famosa dagli innumerevoli ripetitori: «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi». Ne seguì un massacro che, stando a Gervaso — seguace, anche qui, della vulgata corrente — avrebbe fatto fino a quarantamila morti. Il divulgatore è comunque in sorprendente compagnia: persino uno specialista vero del Medio Evo come Umberto Eco, nel romanzo
Il nome della rosa, accredita la frase terribile dell'abate e il numero spropositato delle vittime.
Ebbene: si dà il caso che possediamo molte cronache contemporanee della caduta di Béziers, ma in nessuna di esse vi è traccia di quell'«uccideteli tutti». La realtà è che più di sessant'anni dopo, un monaco, Cesario di Heisterbach, che viveva in un'abbazia del Nord della Germania da cui mai si era mosso, scrisse un centone fantasioso conosciuto come Dialogus Miracolorum. Tra i «miracoli», pensò di inventare anche questo: mentre i crociati facevano strage a Béziers (che fra' Cesario neppure sapeva dove fosse) Dio aveva «riconosciuto i suoi», permettendo a coloro che non erano càtari di sfuggire alla mattanza.
Insomma, la frase attribuita a dom Arnaldo ha la stessa credibilità dell'«Eppur si muove!» che sarebbe stato pronunciato fieramente da Galileo Galilei davanti ai suoi giudici e che fu invece inventato a Londra, nel 1757, quasi un secolo e mezzo dopo, da uno dei padri del giornalismo, Giuseppe Baretti.
In realtà, a Béziers, in quel 1209 i cattolici volevano così poco una strage che inviarono ambasciatori agli assediati perché si arrendessero, avendo salva la vita e i beni. Del resto, dopo una lunga tolleranza, il papa Innocenzo III si era deciso alla guerra solo quando i càtari, l'anno prima, avevano assassinato il suo legato che proponeva un accordo e una pace. Erano falliti pure i tentativi pacifici di grandi santi come Bernardo e Domenico. Anche a Béziers, i càtari replicarono con la violenza del loro fanatismo all'offerta di negoziare: tentarono, infatti, una sortita improvvisa, ma, per loro sventura, i primi che incontrarono furono
les Ribauds, i Ribaldi, il cui nome ha assunto il significato inquietante che sappiamo. Erano, infatti, compagnie di mercenari e di avventurieri dalla pessima fama. Questa masnada di irregolari, non solo respinse gli assalitori ma li inseguì sin dentro la città. Quando i comandanti cattolici accorsero con le truppe regolari, il massacro era già iniziato e non ci fu modo di fermare quei «ribaldi» inferociti.
Venti, addirittura quarantamila morti? Un eccidio ci fu, inquadrabile nella mentalità di allora e spiegabile con l'esasperazione provocata dalla crudeltà dei càtari, che non solo a Béziers da anni perseguitavano i cattolici. Soltanto un contastorie alla Dan Brown può parlare agli ignari di una «mitezza albigese». Comunque, l'episodio principale ebbe luogo nella chiesa della Maddalena, nella quale non potevano affollarsi più di mille persone. Béziers spopolata e diroccata? Non sembra proprio, visto che la città si organizzò poco dopo per ulteriori resistenze e occorse un nuovo assedio.
Insomma: un episodio, tra mille altri, di manipolazione ideologica. Una «Lega anticalunnia» non gioverebbe solo ai cattolici, ma a un giudizio equo e attendibile sul passato di un'Europa forgiata per tanti secoli anche dalla Chiesa.

Corriere della Sera 31.1.07
Controcanto
Foxman: i cristiani non sono diffamati
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Assurdo, un vero nonsense. Spero solo che si tratti di una boutade passeggera». La proposta di Vittorio Messori non piace affatto ad Abraham Foxman, dall'87 direttore della Anti Defamation League, fondata nel 1913 da Sigmund Livingston allo scopo di «combattere l'antisemitismo, il razzismo ed ogni forma di discriminazione religiosa e delle minoranze».
«È bizzarro che una maggioranza religiosa e culturale voglia difendersi da una minoranza», spiega Foxman. «La maggioranza cristiana continua a dettare legge e non è credibile che all'improvviso possa sentirsi minoranza perseguitata». Un fenomeno simile, mette in guardia Foxman, sta avvenendo in Usa. «Nei sondaggi molti cristiani si dicono minacciati e, come in Italia, persuasi che sia in atto una guerra culturale-religiosa contro di loro.
Quando ha tenuto il discorso sul rispetto reciproco tra religioni, il Papa ha cercato proprio di buttare acqua su questo fuoco», puntualizza. Il suo consiglio alla maggioranza? «Ben vengano organizzazioni, e nel mondo ce ne sono già tante, che cercano di promuovere i valori cristiani. Ma il cristianesimo, oggi come oggi, non ha alcun bisogno di un paladino che lo difenda. Perché non è per niente una vittima».
E se l'idea andasse in porto? «Li invito a non usare il nostro nome: è un trademark protetto da copyright — ribatte — e siamo disposti ad andare in tribunale per difenderlo. Anche in America molti gruppi hanno cercato di saltare sul nostro carrozzone, per sfruttare reputazione, storia e credibilità da noi accumulate. Ma le corti glielo hanno impedito».

Corriere della Sera 31.1.07
Decisione della Regione. «Se non c'è richiesta dei genitori, tocca alle strutture pubbliche»
Varato un regolamento regionale. Formigoni: i genitori potranno fare i funerali
La Lombardia: dare sepoltura a tutti i feti
Nei cimiteri anche quelli che provengono da un aborto sotto i 5 mesi
di Simona Ravizza


MILANO — Il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato ieri un regolamento in base al quale tutti i feti, in caso di interruzione di gravidanza entro le venti settimane, hanno diritto alla sepoltura. Il nuovo regolamento li riconosce come «prodotti del concepimento». Il governatore Roberto Formigoni esulta: «Per la prima volta in Italia si riconosce al feto il rispetto che merita — dice —. I genitori avranno la possibilità di fare i funerali, altrimenti ci penseranno gli ospedali che lo seppelliranno in una fossa comune».
La Regione Lombardia decide di dare sepoltura a tutti i feti. Da oggi
avranno diritto a essere sotterrati anche quelli che provengono da un aborto sotto i cinque mesi, finora equiparati nella pratica ospedaliera ai cosiddetti
rifiuti speciali.
Il nuovo regolamento in materia di attività funebri e cimiteriali adesso riconosce i feti sotto le venti settimane come «prodotti del concepimento» e non più scarti al pari di un'appendicite o di un pezzo di stomaco eliminato chirurgicamente. Il governatore lombardo, Roberto Formigoni, non nasconde la sua soddisfazione: «Per la prima volta in Italia si riconosce al feto il rispetto che merita — dice —. I genitori avranno la possibilità di fare i funerali, altrimenti ci penseranno gli ospedali che lo seppelliranno in una fossa comune».
Ma tra i medici che si occupano di interruzioni volontarie di gravidanze c'è già chi teme ulteriori colpevolizzazioni delle donne che si confrontano con il dramma dell'aborto.
È una norma già definita rivoluzionaria. Il consiglio regionale l'ha approvata ieri all'unanimità. Al momento dell'alzata di mano, tutti i presenti sono stati d'accordo. L'articolo 11 del nuovo regolamento stabilisce: «Anche per i prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle venti settimane, la direzione sanitaria informa i genitori della possibilità di richiedere la sepoltura. (...). In mancanza di richieste si provvede in analogia a quanto disposto per le parti anatomiche riconoscibili (ossia, quelle di cui si conosce la provenienza, ndr) ». Formigoni è consapevole che la normativa si presta a essere strumentalizzata politicamente da chi teme la messa in discussione della legge 194 sull'aborto: «Ma io non ne voglio fare una questione ideologica — precisa subito Formigoni —. È una questione di dignità del feto. Con questa disciplina colmiamo una lacuna legislativa a livello nazionale».
Ma il provvedimento fa già discutere all'interno della Mangiagalli, prima clinica in Italia a praticare l'aborto nel 1978. «Ogni passo che porta a un maggiore scambio di informazioni con le donne è ben accetto — osserva Basilio Tiso, direttore sanitario dell'ospedale da settemila parti l'anno e 1.700 interruzioni volontarie di gravidanza —. Mi è capitato personalmente di confrontarmi con pazienti che anni dopo avere abortito mi hanno chiesto informazioni sulla sorte del feto. La normativa approvata, in questo senso, può essere d'aiuto».
Ma c'è chi è scettico, come Augusto Colombo, responsabile alla Mangiagalli dell'applicazione della 194: «Chi pensa che l'aborto sia un omicidio semplicemente non vi fa ricorso — dice —. Per chi si sottopone all'interruzione di gravidanza, invece, non è rilevante conoscere la sorte dell'embrione».
Arrivano le prime reazioni anche dai politici del centrosinistra che hanno dato via libera al regolamento. Ardemia Oriani, consigliera regionale dei Ds, allarga le braccia: «Già oggi tra la 20ª e la 28ª settimana i feti devono essere sepolti in linea con il decreto del presidente della Repubblica del 10 settembre 1990 numero 285 — spiega —. È sbagliato attribuire un significato ideologico alla norma. Cambierà poco». Il regolamento impone alla direzione sanitaria l'obbligo di informare i genitori della possibilità di chiedere la sepoltura. Il permesso al trasporto dev'essere poi rilasciato dall'Asl. Se i familiari rispondono negativamente all'invito, il compito di inumare il «prodotto del concepimento» spetta all'ospedale stesso. «È un provvedimento anche oneroso dal punto di vista economico — ribadisce Colombo —. Le aziende ospedaliere dovranno farsi carico dei costi nella maggior parte dei casi». Rileva Tiso: «Finora sotto la 20ª settimana il feto veniva trattato come un rifiuto speciale senza obbligo di informare nessuno. È chiaro che adesso dovremo uniformarci alle nuove disposizioni». Con ogni probabilità il dibattito non è destinato a finire qui.
sravizza@corriere.it

Liberazione 31.1.07
Annunziata il '77 come lo racconti male
di Antonella Marrone


Lucia Annunziata ha scritto, nei tempi regolamentari che tutti ci aspettavamo, un libro sul ’77. Si intitola 1977 - l’ultima foto di famiglia (Einaudi, pp. 165, 14,50 euro). E’ un saggio? Un ricordo pubblico-privato? Un’inchiesta storico-giornalistica? Una serie di fatti collegati da intelligenti intuizioni? Chi può dirlo. E’ un po’ tutte queste cose insieme, è un intreccio di pezzi d’epoca, un’analisi non proprio approfondita. Sicuramente un sassolino anti Pci che la giornalista si era tenuta nella scarpa per trent’anni. Scrive, giustamente, che quell’anno è difficile da raccontare. Infatti non riesce bene neanche a lei che, si vede, ce l’ha messa tutta. Ma il fatto è che, volendo parlare degli anni Settanta, e del ’77, solo come una sequenza di polvere e piombo, come una teoria di giorni infuocati, come l’inizio della fine di tutto, si sbaglia.
«Amore è tutto ciò che si può ancora tradire» scriveva Andrea Pazienza. E’ una delle “massime” politiche e personali di quel periodo: dentro c’era l’amore, la relazione donna-uomo, la politica, il movimento, il futuro. Qui e là Annuziata lo scrive: c’era un un fermento intellettuale notevole, in quella fine di decennio. E per tirar fuori il movimento del ’77 dal «cono d’ombra del terrorismo» (per dirla con Carlo Infante, leader storico degli indiani metropolitani di Roma) «in cui è stato relegato sia per ipocrisia sia per ignoranza, è opportuno mettere in luce alcuni aspetti della cosiddetta ala creativa del movimento, in particolare quello sorto dall’occupazione dell’Università di Roma». Nel libro si parla delle riviste, della nascita delle radio (prime fra tutte Radio Città Futura e Radio Alice), ma quello che interessa alla giornalista, sopra ogni altra cosa, è parlare della politica dei partiti e dei gruppi. Lotta continua, Autonomia operaia, Pdup-Manifesto: un rincorrersi di sigle che, per la verità, a chi andava alle assemblee e non era con Autonomia, né col Pci, dicevano ben poco. Ha ragione, però, Annunziata, quando parla del rapporto con il ’68. Quei leader che dopo un decennio arrivavano a “pontificare” nelle aule universitarie, non avevano gran seguito. Annunziata non lo dice in maniera così violenta come fa per il Pci, ma risultavano piuttosto “bolliti”, nonostante non fossero anagraficamente vecchi. E ricorda Carlo Rivolta (cronista che per “La Repubblica” seguiva il movimento), i suoi pezzi, che erano i “nostri”: ricorda, generosamente e onestamente, la differenza abissale che c’era tra quei resoconti e quelli degli altri giornali. Scrive Annunziata: «Carlo non voleva fare la predica a nessuno». Che liberazione!! Tra una sequenza di ritagli di giornali d’epoca, questa “foto di famiglia” coglie nel segno sicuramente su un punto: quello che riguarda il rapporto con i media. Un rapporto ironico, furbesco, probabilmente un po’ narcisista (perché nel ’77 si era, a volte nella disperazione di non saper cosa fare, o nella consapevolezza di avere una carica straordinaria, si era, dicevamo un po’ narcisisti) che non delegava, che non chiedeva mediazioni. Le radio furono questo, lo fu la rubrica di Lettere su Lotta Continua. Ed ha ragione l’autrice quando intravede in questo flusso di comunicazione incontinente, l’anticipo di Internet e dei blog.
Il libro parte da Lama, da quella mattina del 17 febbraio quando fu cacciato dall’Università di Roma, e si chiude con l’intervista di Pecchioli, sull’allarme terrorismo. In qualche momento si vorrebbe lasciare il libro a metà, alzarsi e uscire dalla stanza. Quando Annunziata parla di “noi”: noi chi? «Noi odiavamo i comunisti». Non tutti. La maggior parte odiava il Pci è vero, quello delle spoglie e sonnolente sezioni, quello che “radiava” i ragazzi che si facevano le canne. Ma per molti, il Pci, non era un problema. Non era niente. O forse solamente il lato “oscuro” della politica (proprio quell’anno uscì al cinema Guerre stellari), quello dei bisogni sociali e basta. Il settantasette, in piazza, chiama i ”desideri”. E fa una bella differenza. Non c’erano solo i sampietrini da accarezzare (lo fa con una punta di infantilismo birichino Annunziata, di nascosto, dopo il comizio di Lama, in redazione), non c’erano solo le beghe tra leader di gruppi extraparlamentari. Non tutti avevano alle spalle un super-Io chiamato Rossana Rossanda. C’erano da fare giornali, inventare stili di vita, creare comunicazione. C’era molta musica da fare, nascevano le scuole popolari, c’era il nuovo teatro d’avanguardia. Nessuno contesta che ci fosse anche molto spaesamento, ma di quel periodo è Michele Serra a centrare il tema “sensibile” del ’77: le più visibili, le più tipiche e anche le più apprezzabili tracce di quell’anno «sono impresse nella memoria artistica e culturale e non in quella politica. Restando nella sola Bologna: la stagione del rock demenziale, il cabaret surreale del Gran Pavese, un fiorire notevole di scrittura e scrittori, il fumetto d’avanguardia e soprattutto il geniale lavoro di Andrea Pazienza - morto per droga poco più che trentenne - che seppe raccontare con furore quasi céliniano (ma allegro! diamine!) i giorni e soprattutto le notti di quei gruppi di studenti famelici di vita, allucinati dalle droghe, disperatamente amorosi».

martedì 30 gennaio 2007

IL MESSAGGERO - Mercoledì 9 novembre 1977
Chi è il Padrone del Discorso ?
di Ruggero Guarini


Questi gruppi di "analisi collettiva", e i molti altri analoghi spuntati un po’ dappertutto in Italia, sono un grosso fenomeno psico-politico un "sintomo collettivo" che bisognerebbe decifrare. Ma chi può farlo?
Il sociologo? Costui può offrirci soltanto degli strumenti empirici, utili per misurare le dimensione esterne del fenomeno (diffusione di queste pratiche, composizione sociale dei gruppi, età media dei partecipanti, loro identità politica e così via) ma insufficienti a definire il senso.
Il politico? il suo sguardo è troppo interessato. Nel migliore dei casi, in questo fenomeno che lo prende di contropiede, egli si sforzerà di cogliere quegli elementi che gli sembreranno funzionali al suo "discorso ": se esprimerà consenso, vi avrà scorto la possibilità di riassorbirlo o di annetterselo; se emetterà un giudizio di condanna, vi avrà visto un segno per lui minaccioso, di fuga dalla politica.
Lo psicoanalista? I suoi strumenti teorici sono essenziali ma essendo egli stesso un frammento della "formazione sintomatica" che occorre decifrare, sarà troppo coinvolto nella cosa per poterne parlare col necessario distacco.
Limitiamoci dunque a porre tre elementari quesiti:
1) Un mucchio di circa duecento persone è ancora un gruppo psicoterapeutico? E se non è più questo che cosa è? Un circolo culturale? Un’associazione di mutuo soccorso? Un collettivo dedito a una nuova specie di "esercizi spirituali"?
2) Un individuo che a centinaia di pazienti riuniti intorno a lui distribuisce come noccioline manciate di interpretazioni di sogni lapsus deliri e fobie è davvero un analista? E se non lo è, che diavolo sarà? Un pedagogo? Un confessore? Un leader?
3) Qual è il rapporto fra l’identità politica dei partecipanti (quasi tutti giovani della nuova sinistra) e questo loro "bisogno" di una pratica metapolitica? Le due attività sono complementari (nel senso che l’analisi di gruppo, omogenea al "personale" e al "privato" compensa le lacune e colma i buchi lasciati aperti o prodotti dall’attività politica), o sono invece contraddittori, al punto che alla lunga una delle due pratiche sia destinata a prevalere sull’altra, magari fini a liquidarla? Detto con altre parole: questa dicotomia dello Psichico e del Politico si configura come una convivenza pacifica di domini separati o come un conflitto di dimensioni antitetiche?
Infine enunciamo qualcosa che è meno e più di un’ipotesi (è un'ovvia constatazione): oggi c’è in giro una grande domanda di Anima. Il risultato è certamente qualcosa di meno noioso della consueta Grande Chiacchiera politica, ma sarebbe ancora meglio se nelle pratiche generate da questa massiccia domanda non si riproducesse la solita dialettica dello Schiavo e del Padrone…
Insomma questi ragazzi dovrebbero un po’ interrogarsi su quelle nuove forme di "potere" che in questi loro gruppi si vanno articolando intorno a una figura che non cessa di porsi - in quanto interpretante e analizzante - come un nuovo Padrone del discorso.
Chi è questo nuovo Padrone? Un maestro di coscienza? Un genitore morale? Un altro padre politico?
Questo sarebbe il caso più derisorio: il Politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!

IL MESSAGGERO - Mercoledì 9 novembre 1977
Un analista che rifiuta Freud
di Fulvio Stinchelli

Quarantasei anni, faccia scavata e sguardo ardente dietro le lenti fumé un passato di rissoso eretico freudiano alle spalle, Massimo Fagioli è oggi lo psicoanalista italiano di gran lunga più seguito e ascoltato. Da due anni, nello spazio universitario concessogli dall’illuminato pluralismo del professor Reda per l’intercessione del suo amico e collega Nicola Lalli, tiene seminari bisettimanali sempre più affollati. Terapia di gruppo? Psicodramma? L’autore di "Istinto di morte e conoscenza" respinge seccamente queste definizioni etichetta che "lo soffocano", dice, "senza appartenergli".
Mezzo scienziato e mezzo profeta, rinnega paternità, filosofie e ideologie: Freud? Un pasticcione. Lacan? Un altro che non ha capito niente. La psicoanalisi? Si, purché sia quella che passa per l’ "inconscio mare calmo", la "fantasia di sparizione" e l’"istinto di annullamento". Sono questi i tre cardini della "scoperta" su cui ruotano ossessivamente la dottrina e la "predicazione" di Fagioli.
Lo incontriamo nel suo quieto studio di Via Nomentana, in una cornice rigorosamente freudiana: pochi libri, quadri anonimi, scrittoio modesto, poltrone comode e il sacro divanetto. Osserviamo. "Qual cosa di Herr Professor comunque rimane". Risponde: "Restano le analisi individuali che continuo a fare, perché i seminari sono gratuiti, ma il mio vero campo d’azione è l’analisi collettiva, una cosa che Freud non ha mai fatto".
Prima di arrivare all’analisi collettiva, che è il successo del giorno, vogliamo soffermarci un attimo sul punto di partenza?
"Per me tutto cominciò al liceo, quando, vivendo in ambiente medico, feci la prima osservazione: Le malattie psichiche distruggono più di quelle fisiche. Una gamba rotta o una broncopolmonite trovavano soluzione mentre i pazienti depressi venivano liquidati col manicomio. Decisi allora di fare medicina e specializzarmi in psichiatria. Dopo la laurea, la pratica presso l’ospedale psichiatrico di Venezia. Per un anno e mezzo mi attenni al ruolo e alle disposizioni: non dovevo far altro che girare la chiavetta e zac: elettroshock. Allora mi chiesi: ma cosa sto facendo? Sto alla catena di montaggio? Avvito le teste? Me ne andai e cominciò un periodo duro per me. Prima Verona, dove mi cacciarono perché ero "rosso", poi approdai a Padova, dove un minimo di ricerca si faceva. E lì mi venne la prima ispirazione. Dissi: l’istinto di morte è l’istinto di morte, d’accordo, ma questi, i malati, non muovono un dito. Dov’è tutta questa aggressività? Un esempio? Reparto agitati: trenta ricoverati, due infermieri. Mai accaduto un incidente. Allora, quest’istinto di morte non è distruzione. Incominciai così a studiare questo istinto passando e andando sempre più a fondo nel rapporto con l’inconscio. Mi trasferii in Svizzera, dove ebbi modo di superare la sindrome del malato per vedere cosa ci fosse dietro. Nel ’64 feci la mia analisi personale, la svolta fondamentale".
C’è un episodio cui puoi legare questo momento del passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi?
"Si, ed è connesso a un paziente il quale, un giorno, mi rimproverò di non averlo assistito in una determinata circostanza e di avergli, quindi, 'fatto del male'. Ma se quel giorno, mi dissi, io ero in ospedale, come posso avergli fatto del male? Fu un’illuminazione: è l’assenza che fa del male. Cos’è l’assenza? E’ una pulsione attiva di annullamento".
Qui spunta Lacan….
"No. Lacan dice che è una mancanza. La mia, ripeto, è pulsione attiva di annullamento. La si può verificare nel "Non visto" e nel gioco infantile del "Bubù settete", dove il bambino appare e sparisce. Di qui mille passaggi, verifiche e confronti. Una storia lunga, che comincia, però, qui: dalla scoperta dell’annullamento".
Arrivando a questa scoperta e nel lavoro successivo, l'insegnamento di Freud l’hai tenuto presente?
"L’ho rifiutato e lo rifiuto totalmente".
Anche tu, però, in questa ricerca , pratichi "l’arte del sospetto"?
"Ma nemmeno per idea. Il sospetto parte da una verità precostituita e accertata: Io mi metto in sospetto se temo che tu mi dia un pugno. La mia ricerca non ha condizionamenti di questo tipo".
E’ importante, secondo te, che Freud sia nato?
"Io, sulla nascita delle persone, evito di intervenire. Giusto che sia nato, lo sbaglio è che si è messo a fare lo psicoanalista. Se avesse fatto il medico generico sarebbe stato molto meglio. Diciamo le cose come stanno: esiste una bibliografia enorme, opera di predecessori di Freud, che sta a dimostrare che Freud non ha scoperto niente. Se una certa società e una certa cultura oggi lo idealizzano tanto ciò è dovuto al fatto che con Freud l’analisi non si fa e questa società ha paura che la gente faccia l’analisi, perché fare l’analisi sul serio significa vederci chiaro, rendersi conto dei 'mucchi di sabbia' di tanta cultura, significa imparare a dire di no. E chi sa dire di no rimette tutto in discussione: affare scomodo. Freud, invece, è comodo perché finge di fare l’analisi. Infatti, non ha metodo, si limita a codificare la non trasformazione umana. La sua è un’analisi interminabile, perché parte dal punto di vista che non c’è niente da fare e allora si ricade nella vecchia psicoterapia di sostegno. Roba dei tempi di Ippocrate. Non c’è trasformazione…..".
Invece, nella tua c’è, a quanto lasci capire. Ma prima di te?
"C’è Marx. Ecco uno che aveva intuito la psicoanalisi, parlando di trasformazione. Mi riferisco al giovane Marx, quello dei 'Manoscritti' e dell’'Ideologia tedesca'".
Meno male che anche tu hai un padre, ma veniamo ai tempi nostri: quando ti sei deciso a rompere con la Società di Psicoanalisi Italiana?
"E’ una storia risaputa. Comunque, fu nel ’68. Sentii che i tempi erano maturi per tirar fuori quel che avevo scoperto e già praticavo. Pubblicai il mio primo libro e fu l’innesco della reazione a catena che mi ha portato agli attuali seminari basati sull’analisi collettiva".
Anche qui c’entra Marx?
"Eh, sì. Perché tutta quella gente raccolta intorno a me parla, racconta, domanda, ascolta e domanda ancora. E torna, puntualmente, senza che nessun le abbia fissato un appuntamento, né un programma d’analisi. Tutti insieme, senza pudori né resistenze. Indubbiamente, trovano quel che stavano cercando. Tutti insieme, collettivamente. Siamo dunque lontano dall’analisi individuale. Un po’ come la presa di coscienza nella fabbrica, Per me è la conferma di essere sulla via giusta. Io non uccido il paziente come fa l’analista dall’alto del suo ruolo e del suo diploma, nel chiuso dello studio. Io li affronto, lì, seduto in mezzo a loro che sono centinaia, pronti a rimbeccarmi se dico stupidaggini. Perché la gente conosce l’analisi più di quanto comunemente si creda".
Qual è la differenza tra analisi individuale e analisi collettiva?
"All’analisi individuale si presenta, quasi sempre, un uomo che sta molto male: è confuso, annullante, depresso. In quel caso deve fare quasi tutto l’analista, cogliendo il problema e cerando di risolverlo, direi a dispetto dello stesso analizzando che vuol distruggere l’analista. Questo, in un certo senso si verifica anche al seminario, ma lì la risposta è collettiva. A volte io non faccio che interpretare il sogno di uno per rispondere a quello di un altro. E’ la conferma che l’uomo è un essere sociale. Vedi che Marx torna sempre? Voglio dire che il problema della ragazza la cui madre le dà della puttana perché esce la sera è problema di migliaia di persone, non è il problema personale di quella singola ragazza con quella madre. Questo è il mio lavoro, in poche parole. E allora si capisce perché tutto ciò rappresenta la distruzione di Freud".

IL MESSAGGERO - Mercoledì 9 novembre 1977
Psiche e società
I giovani della Nuova Sinistra scoprono un nuovo pianeta: l'Analisi Collettiva. Un po' dovunque stanno infatti spuntando gruppi e seminari psicoterapeutici. Alcuni di questi "collettivi" hanno raggiunto dimensioni "monstre": fino a 200 partecipanti a seduta! E' un importante sintomo psico/politico. Ma qual è il suo vero senso? La riscoperta dell'anima? Un ritorno agli Esercizi spirituali? L'inizio di una fuga dalla politica?

Tutti insieme intimamente
Ecco la cronaca di una seduta
di Luigi Vaccari

Lei, sui 30, la voce concitata: "Senti Massimo, vorrei dire una cosa ai compagni. Giovedì scorso sono arrivata alle 5 e un quarto, c'era già la fila, ma io non mi ci sono messa, ho rifiutato quest'imposizione, sono entrata e mi sono seduta. Oggi sono arrivata alle 5 meno un quarto, e anche oggi c'era già la fila , e io mi sono opposta, la fila no... Sono stata violentata: " Tu non sai stare coi compagni ", mi hanno urlato. Sono stata violentata per tre quarti d'ora... Ero venuta serena, in questa settimana molte cose mi si erano chiarite, ora ho le idee di nuovo confuse... Perchè succedono queste cose? ... Queste cose non devono succedere, non possono succedere..."
Massimo, sorridente ma fermo: " Quando l'organizzazione la fanno i compagni non c'è più la sensazione di dominio".
Lei, scossa da un tremito, gli occhi di lacrime: " Allora vorrà dire che devo venire alle tre..."
Massimo "E' la stessa difficoltà di tutti" Poi, dopo una pausa, con una smorfia di compiacimento: "...E propone la nascita di un terzo seminario " .
Lei è una dei 150-200 protagonisti dell'incontro confessione che si tiene il giovedì all'Istituto di psichiatria dell'Università, al 47 di viale di Villa Massimo al Nomentano. E altrettanti ne intervengono a quello del martedì, che ha aperto un anno e mezzo fa la strada. Giovani ma anche meno giovani. Ragazzi ma anche tante ragazze. Studenti, forse del liceo forse universitari, ma anche gente che lavora. Massimo è Massimo Fagioli, uno psichiatra approdato dopo esperienze varie alla psicanalisi ufficiale e successivamente allontanatosene. I due seminari a cui si può liberamente partecipare, testimoniano un insolito tentativo di analisi collettiva, la capacità liberatoria di raccontarsi in pubblico cercando il significato di sogni che sono spesso incubi lunghi e sofferti.
L'appuntamento è in una sala al primo piano, di 40-45 metri quadrati. Il portone dell'istituto viene aperto mezz'ora prima dell'inizio di questo straordinario transfert comune. Quando tutti aspettano da tempo, pazienti. In una fila molto ordinata e poco italiana. La corsa esplode sulla breve rampa di scale che porta al luogo della riunione. Per occupare le pochissime sedie che vi si trovano, e anche i braccioli. Alcuni si sistemano su sgabelli pieghevoli, portati da casa e dall'incerto equilibrio. Altri siedono in terra, come coloro che non riescono ad entrare e restano nello stretto e breve corridoio.
L'analisi occupa due ore: dalle 18 alle 20 e dalle 10 alle 12 il martedì. L'attesa è ingannata diversamente. Chi fuma, le ragazze soprattutto. Su un cartello. "Qui è vietato fumare", qualcuno ha aggiunto fra qui ed è un "non" a lapis, e fanno da posacenere anche lattine vuote di noccioline che passano di mano. Chi legge, faticando nei movimenti: Il Manifesto, L'Espresso, Lotta Continua. Chi parla con chi gli sta accanto, e il tono è sommesso. Pochi sono tirati nei tratti del volto. Pochissimi sembrano preoccupati, anche se qualcuno fissa il vuoto.
Quando compare Massimo, molto puntuale, a fatica riesce a raggiungere la sua sedia dirimpetto alle porte della sala, spalle a una finestra che come le altre adesso viene chiusa. E c'è subito fumo . E caldo. Tanti, e tante, si sfilano i pullover. E si comincia, dopo il lamento protesta di colei che aveva rifiutato la fila, con Adele. La quale non sa, dice, se viene per una curiosità intellettuale, lei è una giornalista, o per se stessa. Ad ogni modo, dopo aver partecipato quattro volte ha fatto un sogno.
"Posso raccontarlo?" domanda.
Massimo: "se tu chiedi il permesso non vuoi avere capito niente"
Un giovane: "Io, invece, Massimo...."
Adele: "Ma lo racconto o no?"
Tutti ridono
Massimo: "sarebbe una punizione troppo grossa... Avanti, avanti".
E Adele : "Stavo su un sentierino di una montagna a San Brunello, in Calabria, con dei ragazzi che erano i miei figli e i loro amici..."
Quando ha concluso, Massimo le spiega che nel suo sogno ci sono un sacco di intuizioni ma anche di negazioni. E c'è la sua difficoltà di essere compagna. E non solo non ci sono ruoli sociali, ma neppure quelli familiari né quelli personali. E il rosso che ad un tratto appare significa le donne che ritrovano le loro mestruazioni senza sentirsi castrate.
Una ragazza sui 25, orecchini ad anello, argentina bianca e sopra una maglietta bordò col collo aperto, ricorda le difficoltà per arrivare fino al gruppo, poi, dopo l'ultimo incontro una serie di sogni: "Era morta mia madre, io dovevo verificare questa morte, andavo al cimitero ma volevo che mi accompagnassero, e mi accompagnava un ragazzo", la scena cambia: " Io abbraccio il ragazzo, ma compare mio padre e ci divide" Secondo sogno: Lei si prepara a fare l'amore , ma le vengono le mestruazioni. Terzo sogno: " Io incontro Massimo, mi dice che mi vuole parlare, anch'io gli dico che devo parlargli ma posso perdere il posto in farmacia".
Massimo interpreta così: la separazione dalla madre è possibile solo se si è in compagnia, per fare un'analisi a fondo occorre il rapporto collettivo. Poi il compito del padre: ma il ragazzo lei se lo sceglie da se... Terza proposizione: per venire al seminari o c'è il rischio del licenziamento. La realizzazione analitica, d'altra parte, non è qualcosa che può restare nel chiuso dello studio privato. Ma deve uscire fuori. E allora diventa anche un fatto politico.
Maglione grigio a giro collo, occhiali da vista chiari, folta barba, borsello, un pacchetto di MS e uno di cerini sulle ginocchia, un giovanotto racconta che se ne stava seduto fuori, sulle scale, e non poteva andare al seminario perchè gli mancava l'apparecchio ortopedico, non poteva salire. Arrivavano i compagni, però, e lo portavano su loro. "Finito il seminario se ne vanno e mi lasciano li, e io dico "che stronzi" ... Mi metto carponi, si, ce la faccio. Mi vergogno un pochino ma riesco a farcela..."
E Massimo: Il tutore ortopedico... Ne può fare a meno nel momento in cui si è insieme... Ma che cos'è il tutore ortopedico? È la passività di fronte alla mammina, al papino, alla zietta, fino al governo Andreotti. Che scompare purché ci sia un lavoro collettivo.
Gli interventi si inseguono. Uno dietro l'altro. senza una sosta, una riflessione. Alle risposte di Massimo non c'è replica.
Un'altra ragazza, di cui arriva solo la voce: "Io prima andavo al martedì. Vengo al giovedì da due settimane e mi sono sentita a disagio, mi sembrava di aver abbandonato un buon lavoro... Ho sognato che stavo al seminario, ma non era in una stanza, era in strada, e c'erano alcuni che camminavano, altri che sonnecchiavano. Vedo Silvio che sonnecchia, gli do un bacio, gli dico "su dai", bacio un altro ragazzo, poi ne sveglio un terzo, sempre con un bacio, facciamo l'amore ed è un rapporto molto dolce, molto tenero...
Massimo chiarisce che il modo per non farsi abbandonare è proprio il terzo rapporto, cioè il terzo seminario, cioè aumentare il lavoro, anche in senso qualitativo.
Un altro giovanotto sui 20 dice: "Ho sognato che stavamo aspettando il seminario su una distesa erbosa, arriva un gruppo di persone, ci sono anche il miei genitori i quali vengono con noi. Ma vogliono sapere, soprattutto mia madre assume un ruolo molto interlocutrice..."
E Massimo risponde: se si fa il terzo seminario ci si può occupare anche dei genitori...
Si va avanti su questa chiave di lettura. Su questa relazione molto stretta fra sogno e seminario. Seminario come riferimento costante, fino all'ossessione o all'incubo. Seminario come abbandono ultimo e disperato. Per fuggire una solitudine assoluta e tragica. E Massimo che parla ora della paura ora ha bisogno di una sua ulteriore dilatazione, dopo che c'è già stato lo sdoppiamento. "Qui c'è una precisa richiesta: non fare il terzo seminario, sennò perdo questa possibilità di analisi che ho raggiunta", replica ad una ragazza dalla voce contratta, lo sguardo basso. Che aveva ricordato con queste parole il suo sogno: "C'era come una gara, resistere in una situazione dove l'aria era poca. Poi mi accorgo che la gente ci stava bene e dico 'andiamo più in basso'. Ci vado con un'amica e ci troviamo come in un cunicolo, come nella metropolitana a Londra. Ma io avevo la sensazione di salire, incontro un uomo nero, usciamo fuori ed è Roma..."
Il rapporto col seminario vale anche per una lei sui 28, che la notte precedente ha ripercorso due storie sentimentali, " e con il primo ragazzo parlavo pacatamente, con il secondo soffrendo molto" Per un lui sui 25, che era su una spiaggia con un amico, incontrava una suora con un cesto, nel cesto c'erano tre tartarughe, le tartarughe si infilavano nel mare, un lungo tunnel... Per un'altra lei sui 27, che perdeva un treno per una questione di minuti, ne perdeva un secondo, però riusciva ad arrivare dove doveva arrivare.
Se n'è andata un'ora, Superando braccia, gambe, teste, a mo' di slalom, il cronista guadagna con molto impegno e molto sudore il corridoio. Un ragazzotto che non s'è ancora raccontato, chiede: "quando esce l'articolo sul giornale?" Risposta: la prossima settimana. "Speriamo di non leggere stronzate". Ne hanno dette ? Ed il ragazzo sorride, con un sorriso di meraviglia e di stupore, come dire: " Ma vuoi scherzare? ".
L'Espresso n.4 2007
Quel gioco di ruolo tra eskimo e grisaglia
di Eugenio Scalfari


Bertinotti sostiene che questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni.
Ma c'è un limite, se non si vuole creare paura e caos

Fausto Bertinotti ha rilasciato un'intervista al 'Corriere della Sera' che l'ha pubblicata domenica 21 gennaio. È un'intervista politicamente interessante: prende posizione netta contro l'allargamento della base militare Usa a Vicenza, polemizza indirettamente ma abbastanza scopertamente con Prodi su parecchie e rilevanti questioni; al tempo stesso si augura che il suo governo duri per tutta la legislatura, anzi afferma che questa durata, di per sé, è una condizione non sufficiente ma necessaria per cambiare la società italiana, obiettivo da lui ritenuto assolutamente urgente.

Non starò a commentare i tanti aspetti politici di questa intervista, ma ce n'è uno che definirei filosofico, che voglio qui prendere in esame. L'intervistatore gli chiede ad un certo punto se sia possibile indossare al tempo stesso l'eskimo e la grisaglia, intendendo dire un atteggiamento di lotta (l'eskimo) e uno di governo (la grisaglia). La risposta è questa: "L'idea della fissità dei ruoli è una concezione sbagliata. Questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni, non delle separazioni e dell'albagia. Se si vuole cambiare la società c'è bisogno sia dell'eskimo sia della grisaglia".

C'è un'eco sessantottina in quest'immagine, quando i giovani del movimento studentesco sostenevano la necessità di abolire i ruoli e identificavano pubblico e privato. Era la rivolta contro una classe dirigente e una società incartapecorite, dove l'essenza delle persone e spesso la loro stessa dignità venivano soffocate dal ruolo ad esse assegnato: chi comanda e chi deve obbedire, l'uomo e la donna, i docenti e gli studenti, i genitori e i figli, ciascuno al suo posto con inesorabile continuità.

La lotta contro i ruoli fu la questione centrale del sessantottismo, che postulava la massima libertà e la massima eguaglianza come esiti positivi da ottenere, appunto, dall'azzeramento del 'ruolismo'. Di qui la contestazione accanita degli studenti nei confronti dei loro professori, dei figli contro l'autorità genitoriale, dei lavoratori contro i datori di lavoro e in generale contro l'ipocrisia della società borghese e contro il potere, culmine di tutti i ruoli e della loro schiacciante fissità.

La visione era seducente. Metteva in discussione alcune gravi lacune della democrazia rappresentativa, si rifaceva alla partecipazione diretta di tutti i cittadini al governo della società con evidenti riferimenti all'esperienza della Comune di Parigi del 1871 e alle tesi rivoluzionarie di Rosa Luxemburg che infatti fu allora una delle icone di quella rivoluzione giovanile.

Si sa come andò a finire. E non parlo qui della degenerazione violenta che coinvolse alcuni settori del movimento e imboccò la via sanguinosa e terribile degli anni di piombo, laddove l'insorgenza del Sessantotto era stata non violenta e gioiosa. Parlo invece del rapido fallimento della lotta contro i ruoli, della quale rimase come solo esito positivamente acquisito un mutamento reale nel rapporto uomo-donna che ha poi progredito e si è diffuso nella coscienza collettiva anche se resta largamente incompleto.

Dicevo che il movimento fallì nel suo intento principale e non solo: molti dei giovani che erano stati alla testa di quella rivoluzione virtuale rientrarono rapidamente nei ranghi ascoltando il 'rappel à l'ordre' che sempre sopraggiunge a rimettere in riga le avanguardie. Fecero carriera molti di quei giovani, proprio scalando quei ruoli che avevano vagheggiato di abbattere.

Ma torniamo a Bertinotti e alla sua teorizzazione dell'eskimo e della grisaglia.

Dicevo che c'è un'eco sessantottina in quella visione, ma c'è anche un'eco togliattiana nella tesi che fu del Pci considerato come partito di lotta e di governo. Fu definita la duplicità della linea di Togliatti e del gruppo dirigente comunista.

E fin qui siamo nella stretta politica, ma secondo me c'è anche dell'altro nella frase bertinottiana "questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni"; qui si mette in gioco il concetto stesso della coerenza dell'io quando si postula che la contestazione del potere e la sua conquista e il suo esercizio possano coesistere con la stessa intensità e senza ipocrisie all'interno della coscienza individuale e di quella collettiva. Non credo che Bertinotti, nell'esprimere questa sua visione, avesse in mente anche i risvolti di carattere analitico-filosofico, ma se questo è il tempo della mescolanza e della contaminazione (e anche secondo me lo è) bisogna andare oltre il recinto troppo stretto del politichese.

Personalmente sono da tempo arrivato alla conclusione che l'io non sia affatto monolitico e che rappresenti l'usbergo della capacità riflessiva della mente. Del resto, dopo Freud, sarebbe difficile attestarsi ancora sull'icona delle monadi, chiuse e sempre eguali a se stesse.

Tuttavia trasferire la flessibilità dell'io e la sua mobilità alla funzione dei ruoli è un'operazione a perdere, da definire 'impossible mission'. Infatti è sempre fallita. Bisognerebbe chiedersene il perché.

Credo che una prima risposta possa essere questa: il ruolo soddisfa un bisogno insopprimibile di oggettività che la comunità esige come garanzia di propria certezza sulla quale costruire i suoi programmi di futuro. Tutto cambia intorno a noi e intorno a ciascuno di noi, ma non può cambiare il ruolo a capriccio di chi lo riveste senza - ove ciò accadesse - suscitare ondate collettive di insicurezza, paura, caos.

A meno che la tesi bertinottiana non sia affetta da ipocrisia, cosa che non vorrei prendere in considerazione.

Corriere della Sera Interventi e repliche 22.1.07
Rifondazione: speranza di trasformazione
di Francesco Troccoli


Con riferimento all'articolo di Dario di Vico sul Corriere del 16 gennaio ("Perché vince Rifondazione") vorrei tentare, da lettore del giornale ed elettore di partito, di andare oltre alle pur interessanti e condivisibili affermazioni che vi sono esposte. Verissimo tutto, Rifondazione è in viaggio. Un viaggio di riforma. Ma basta riconoscere questo per rispondere alla domanda del titolo? Forse è il caso di approfondire. Di ricordare ad esempio che il viaggio è iniziato sotto la spinta di leader (Bertinotti prima e soprattutto, Giordano poi e in encomiabile crescendo) che non limitano o non hanno limitato il campo della propria sfera di interesse e di azione ai "bisogni" primari e più elementari, pur fondamentali, dell'essere umano, come il salario equo o la pensione minima, ma spingono la loro battaglia politica ad un livello più alto, quello delle esigenze. Mi sia consentita la distinzione di queste ultime dai bisogni puri e semplici. Avere il tempo, come l'on. Giordano disse in un bel dibattito qualche mese fa, di badare ai figli nel tempo libero e di goderseli è un'esigenza che nobilta ed umanizza il semplice bisogno di riposarsi e dormire; affermare che l'assassinio di Saddam in Iraq è "uccidere come annullamento dell'umano" (P. Ingrao su Liberazione del 17 gennaio) non è solo il bisogno illuminista di abolire una pena inutile e crudele, ma l'esigenza dell'essere umano di affermare la propria identità, che è vita, trasformazione e possibilità infinite di cambiamento, e non è bestialità assassina; parlare di "non violenza", vessillo della battaglia teorica bertinottiana, non è solo frutto del bisogno materiale di evitare il comportamento violento in quanto inutile e/o illegale, ma esigenza di ribadire la vera tendenza naturale, spontanea, dell'essere umano sano: la socialità, il rapporto tra diversi, bianco- nero, cittadino italiano-immigrato extracomunitario, occidente-oriente, e magari, dulcis in fundo, uomo-donna. Ecco, Rifondazione vince forse anche e soprattutto perché consapevolmente o inconsciamente, le persone che le danno il voto e alcuni (forse non tutti) suoi leader vi ritrovano e ne alimentano un'identità umana, ben prima di quella sociale o politica. In una parola, la speranza di trasformazione, quel movimento irrazionale che dagli animali, che si muovono per bisogni ma non certo per esigenze, ci differenzia in modo unico.
Francesco Troccoli


Ansa 30.1.07
Dinosauri col pollice opponibile prima dell'uomo


Da sempre si dice che ad aver fatto la differenza nell'evoluzione tra l'uomo e gli altri animali sia stata la sua struttura della mano, dotata di pollice opponibile. A quanto pare però c'é qualcuno che ci ha preceduti; alcuni scienziati in Texas hanno scoperto infatti che il Bambiraptor, dinosauro simile ad un uccello, di oltre 75 milioni di anni fa, aveva il pollice opponibile, ben prima quindi dei nostri antenati.
Come riporta la rivista News Scientist che cita il 'Journal of Vertebrate Paleontology', la scoperta è stata possibile grazie allo scheletro eccezionalmente preservato di questo mini-dinosauro, non più alto delle nostre ginocchia.
Lavorando sui modelli di ossa, Phil Senter ha scoperto che il Bambiraptor era in grado di tenere in mano la preda o di usare le sue lunghe braccia per portarsi alla bocca gli oggetti, "oltre a toccarsi la punta del pollice con quella del medio - spiega Senter - Cosa finora mai vista in nessun altro dinosauro". Molti dinosauri predatori afferravano infatti la preda con la bocca, mentre il Bambiraptor era in grado di farlo con rane o piccoli mammiferi con una mano sola. I suoi artigli affilati sulla punta delle dita servivano a bloccare la preda da entrambi i lati evitando così di farla scappare.
Anche se sul fossile conservato non c'é traccia di piume, questo dromeosauro era un parente vicino degli uccelli, e il più primitivo finora trovato, il Microraptor, aveva lunghe piume su braccia e gambe.

l’Unità 30.1.07
Boselli: «I ministri si diano una calmata»
«Il Guardasigilli sega l’albero dove è seduto
Dopo le defezioni su Kabul è davvero troppo»
di Andrea Carugati


«Mastella stia attento, perché sta segando il ramo su cui è seduto. Non so a che gioco stia giocando, ma certamente è un gioco pericoloso». Enrico Boselli, segretario dello Sdi, è preoccupato per la piega che ha preso il dibattito sulle unioni civili, subito dopo l’astensione di tre ministri della sinistra radicale sull’Afghanistan: «Qualcuno vuole aprire una pagina di maggioranze variabili, sulla politica estera, sui diritti civili e magari anche sulle liberalizzazioni? Attenzione, perché in questo modo non si dura a lungo».
Il ministro Mastella dice che questa volta ci sono in gioco i valori.
«Rifiuto l’idea che quella delle unioni di fatto sia una questione etica: l’etica c’entra se parliamo di embrioni, o di eutanasia. Qui si tratta solo di garantire il diritto di successione nell’affitto, la reversibilità della pensione, o di poter esprimere un’opinione quando il proprio convivente è ricoverato in ospedale. Non riesco proprio a capire dove stia l’etica. Io avrei voluto una vera legge sui Pacs, come ne esistono in gran parte d’Europa. Si è scelto un compromesso per garantire alcuni diritti e su questo abbiamo un dovere perché l’abbiamo promesso agli elettori come coalizione, non come singoli partiti».
Mastella dice che se tre ministri si astengono sulla politica estera lui ha tutto il diritto di farlo sulla famiglia.
«E infatti mi stupisce molto che i ministri si comportino in questo modo. Se non si condivide un passaggio importante della politica di un governo la prima cosa da fare è dimettersi, non giocare con le parole. Quando 4 ministri, nel giro di una settimana, votano contro il proprio governo ne stanno minando la credibilità davanti all’opinione pubblica, lo stanno indebolendo. Se Mastella persiste in questa posizione, autorizza la sinistra radicale a fare lo stesso sull’Afghanistan. Ma, ripeto, non si può andare avanti con le maggioranze variabili».
Vede prove di Grande centro sulle coppie di fatto?
«Vedo al centro un grande movimento. Il tentativo di immaginare la nascita di un nuovo governo non è più solo nel campo delle fantasie, ma sotto gli occhi di tutti. Ne parla da settimane l’onorevole Casini, una parte dei cosiddetti poteri forti. E il comportamento della sinistra radicale non fa altro che portare acqua al mulino di chi dice che con loro è impossibile governare. Che ci si metta anche Mastella è una cosa che mi sorprende davvero. Se si continua così il rischio di un governo istituzionale si avvicina...».
Eppure i teodem della Margherita sembrano non seguire l’Udeur e si apprestano a votare alla Camera la mozione dell’Ulivo.
«Bisognerà vedere bene. Quelle che ho sentito finora non sono buone parole. Resta l’idea inaccettabile che il Parlamento non possa legiferare su questa materia perché così si mette in crisi l’istituto della famiglia. Questa è pura propaganda e lo dimostrano i fatti: nei grandi paesi europei dove c’è una legge sulle coppie di fatto la famiglia non ne è stata scossa. In Spagna poi una legge è stata proposta e approvata dai popolari di Aznar, non da Zapatero. C’è poi un dato: del milione e mezzo di conviventi italiani l’80% sono cattolici. La Chiesa, che rispetto, dovrebbe interrogarsi sulla crisi dell’istituto matrimoniale e non limitarsi a negare la comunione ai conviventi. Serve qualcosa di più di un anatema».
Insomma, non vede aperture significative da parte dei teodem?
«Questa parte della Margherita sta seguendo la strada di influenzare il merito del ddl del governo. L’obiettivo è quello di svuotare, o comunque di rendere meno incisivo il provvedimento. Bisognerà vigilare affinché esca un testo giusto, per il momento sono molto cauto».
Teme che alla fine venga partorito un topolino?
«Non faccio processi alle intenzioni: Prodi si è impegnato con sincerità e coraggio e con lui i due ministri direttamente coinvolti.Prima di esprimere un giudizio voglio vedere il testo del ddl».
Dunque il rischio è che alla fine i delusi siano i laici?
«Intanto vorrei dire agli italiani che convivono che non devono sentirsi colpevoli, che per lo Stato non sono peccatori. E poi vorrei ricordare ai parlamentari cattolici che quando si è rappresentanti del popolo l’unica Bibbia che dobbiamo avere in tasca è la Costituzione: il Parlamento non fa le leggi per difendere la morale religiosa, ma per garantire dei diritti, o magari per indicare dei reati: tra ciò che è peccato e ciò che è reato c’è una distinzione. È questo che ci differenzia dal fondamentalismo».

l’Unità 30.1.07
Napolitano: dialogo sui Pacs
«Si deve trovare una sintesi anche tenendo conto della Chiesa». E sull’Afghanistan: accentuare la dimensione civile
di Vincenzo Vasile


SCELTA CORAGGIOSA Da Madrid Giorgio Napolitano, a proposito delle unioni civili e delle coppie di fatto auspica la coraggiosa scelta di «una combinazione di diverse sensibilità»: si dichiara certo che si possa trovare «una sintesi nel dialogo», anche «tenen-
do conto delle preoccupazioni espresse dal Papa e dalle alte gerarchie» ecclesiastiche. Occorrono oggi, insomma, lo stesso coraggio e la stessa saggezza che il capo dello Stato rinviene sfogliando la più classica pagina di conciliazione nazionale tra estrema sinistra e mondo cattolico della nostra storia recente: quell'articolo 7 della nostra Costituzione che Togliatti votò alla Costituente il 25 marzo 1947, in rottura con il Psi di Pietro Nenni ferreamente aggrappato invece a posizioni laiciste, giusto poco prima della rottura dei governi di unità nazionale, recependo nella carta fondamentale i Patti Lateranensi, ma ottenendo di sancire nero su bianco che "lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani".
È questo l'episodio clou della breve conferenza stampa del capo dello Stato che praticamente ha concluso ieri sera una fitta agenda di incontri e cerimonie in Spagna. Siamo nel Paese in cui la destra con Aznar ha introdotto i Pacs, e la sinistra di Zapatero le unioni omosessuali: una soluzione è dunque possibile anche da noi? chiedono i giornalisti. La risposta di Napolitano evita diplomatismi: nella realtà italiana c'è una traccia obbligata, che del resto il presidente non manca di indicare sin dal discorso di insediamento davanti alle Camere riunite. Questo solco obbligato è la Costituzione, anche altrove spesso richiamata sull'argomento da Napolitano, prima ancora che riguardo all'articolo 7, per le cospicue parti che richiamano i diritti dei cittadini e per quegli articoli, anch'essi condivisi dai Costituenti che si riferiscono alla famiglia, "società naturale fondata sul matrimonio" (articoli 29, 30 e 31). In altre parole, l'esternazione di Napolitano si può facilmente interpretare come una sollecitazione e un sostegno alla mediazione che personalmente Romano Prodi sta conducendo tra le due ipotesi avanzate dai ministri della Famiglia e delle Pari opportunità, Bindi e Pollastrini: riconoscimento di un forte pacchetto di diritti, senza equiparare le unioni di fatto a matrimoni, sia pure di serie B. Fare sintesi con le preoccupazioni della Chiesa significa, dunque, riallacciarsi a quella temperie da cui scaturì la Costituzione, quando per non far scoppiare una guerra di religione, minacciata nel 1947 da attacchi violenti dell'Osservatore romano ai governi di unità, il leader comunista decise per senso di responsabilità nazionale di schierare i voti dei costituenti del Pci, assieme a democristiani liberali e qualunquisti: l'articolo 7 sarebbe passato egualmente seppur con una maggioranza risicata di cinque voti, ma i primi passi della Repubblica sarebbero avvenuti nel fuoco di un conflitto religioso.
Il caso spagnolo può offrire materiale di riflessione anche sull'Afghanistan: nel colloquio a porte chiuse con Josè Luis Zapatero Napolitano ne ha a lungo parlato. Il governo spagnolo proprio in queste ore sta rinnovando e rafforzando la sua presenza nella missione afghana. Ma Napolitano ha trovato una particolare sintonia con le scelte che prospetta in Italia: "Siamo egualmente molto impegnati ad accentuare la dimensione civile della nostra presenza in quel paese". Dove " la situazione è molto preoccupante e richiede molteplici iniziative che possono essere sostenute dai militari", ma - precisa - "non possono ridursi alla presenza militare". Pur ricordando che "le scelte di governo" non gli competono, il presidente spinge perché il compromesso che si sta cercando all'interno della maggioranza con la sinistra radicale sia trovato in una direzione, molto simile agli intendimenti delle autorità spagnole: nell'accentuare il carattere umanitario e di sostegno alle popolazioni.
La cornice del ragionamento è offerta da un'impegnativa "lectio magistralis" che Napolitano in mattinata ha pronunciato nel ricevere una laurea ad honorem dell'antica Università computense. Le radici dell'Europa contemporanea sono nella ricerca della pace, l'Europa unita non è solo mercato, è uno strumento di pace. E la Costituzione europea non è da considerarsi un lusso, sarebbe ben grave se fosse accantonata. E oggi ancor più che nel passato l'Europa unita e rinnovata nelle istituzioni si rivela uno strumento importante per agire come protagonista per incidere sulle crisi internazionali ''senza mettere in forse la sua storica alleanza con gli Stati Uniti d'America e i suoi legami transatlantici, ma dandosi un più netto profilo e acquistando un suo distinto spazio di movimento''. Tanto più gravi, dunque, sono le esitazioni euroscettiche di fronte alle nuove responsabilità internazionali dell'Europa. Sta qui il punto cruciale: nella necessità di combattere quei "sostanziali scetticismi sulle possibilità di un'effettiva funzione e azione dell'Unione europea come attore globale" capace di contribuire a un più pacifico ordine mondiale. E tutto si tiene: le "residue illusioni di protagonismo dei singoli Stati; la riluttanza a maggiori poteri e risorse all'Unione", sono facce della stessa medaglia. Forti sono le radici, e "non meno forti" le "nuove ragioni" del progetto europeo.

l’Unità 30.1.07
La crisi della politica e l’aggettivo socialista
di Valdo Spini


In molti si affannano - e giustamente - ad analizzare la crisi della politica, o meglio la crisi dei suoi strumenti principali, i partiti, il distacco tra l'opinione pubblica e le istituzioni, i pericoli che da tutto ciò derivano o possono derivare. Qualcuno giunge fino ad evocare il pericolo di una soluzione populista dei problemi italiani.
Fa senso allora che in questo clima non si colga quanto a ciò contribuisca la disinvoltura con cui si esce e si entra da una all'altra delle grandi parole della politica: democrazia, socialismo, comunismo, e dai relativi aggettivi, democratico, socialista, comunista. Come si può pensare che i partiti, le forze politiche, siano rispettate, quando sono gli stessi gruppi dirigenti che si propongono di gestire fasi politiche che sono state contrassegnate da obiettivi così diversi, come quelli simboleggiati dalle parole comunista, socialista, democratico. Con quale credibilità si pensa di andare allo stesso appuntamento del partito democratico senza aver dipanato nemmeno i motivi per cui si era aderito al socialismo europeo ed ora non lo si considera più come un importante punto di riferimento di principi e di valori.
C'è chi, come Alfredo Reichlin, declina una spiegazione storicistica di questo processo che parte dalla funzione nazionale esercitata a suo tempo dal Pci per postulare un grande partito democratico che un questa funzione nazionale possa succedere al Pci stesso. Ma già con questa affermazione si entra nel campo di un discorso rivolto alla tradizione del Pci e non all'intera sinistra italiana, e anche rispetto al Pci non si coglie la profonda diversità tra questa e quella funzione nazionale. Oggi questa funzione nazionale si esplica con la capacità di rinnovare la sinistra, non fuoriuscire da essa. Si contrasta la crisi della politica e dei partiti, non rimuovendo i principi ed i valori cui questi si ispirano, ma verificandoli e rinnovandoli alla luce delle trasformazioni intercorse. E questo vale oggi per il socialismo europeo.
Si vorrebbe quasi descrivere la fuoriuscita o quantomeno l'affievolimento dei legami dei Ds con il socialismo europeo quasi come un progresso. C'è un grande campo mondiale delle forze progressiste, nota Massimo D'Alema, di cui il socialismo (ma anche la stessa sinistra) sono solo una componente. Si cerca così di dire ai nostri militanti: «Ma sì, tranquillizzati! Anche se non sei più l'alfiere del socialismo europeo in Italia, sei in realtà qualcosa di più. Sei uscito da quegli angusti steccati per collocarti a tutto tondo accanto ai democratici americani, al partito del congresso indiano», e così via.
Sembra quasi che si sia sul punto di dar vita a quell'Ulivo mondiale su cui si era tanto a suo tempo ironizzato. Poi si va a guardare come stanno le cose e si vede che tutto questo dovrebbe sboccare in un'associazione a Strasburgo tra i parlamentari europeo dei ds aderenti al PSE e quelli della Margherita aderenti al Partito democratico europeo e al gruppo parlamentare dell’Alde (Alleanza del liberali e democratici europei). Romano Prodi, presidente onorario e Francesco Rutelli, copresidente con François Bayrou, candidato centrista alla Presidenza della Repubblica francese del Partito Democratico Europeo, potrebbero dire di vedere i Ds arrivare sul loro nome, mentre i Ds dovrebbero rinunciare al nome e al simbolo socialista. Viene quasi da chiudere gli occhi e domandarsi se non si stia sognando, se veramente tutto ciò possa accadere.
Infatti, aldilà delle aspettative di molti, il dibattito sul partito democratico ha visto rinascere proprio il dibattito sul socialismo. In tanto avvertono che tra Prodi e Rifondazione c'è uno spazio che oggi non è sufficientemente coperto da nessuno, e che anche le liberalizzazioni di per sé, o almeno quelle liberalizzazioni, come ha detto molto bene Giorgio Ruffolo in un recente articolo non sono sufficienti a definire un riformismo. Allora la capacità dei partiti di essere coerenti tra i loro valori e i loro ideali e le necessità del rinnovamento, è un fattore che tiene attaccati e non distaccati i cittadini alla politica.
Infatti, il socialismo democratico, dato tante volte per spacciato ogni volta che subiva una sconfitta, ha altrettante volte deluso le sue dichiarazioni di morte presunta. Ha saputo adeguare i contenuti della sua azione politica, ma non ha sentito il bisogno di cambiare nome, e cioè l'identità valoriale, ai propri partiti. Ecco allora che il socialismo come fatto politico concreto è tuttora presente in Europa, celebra ad Oporto un congresso di tutto rispetto, riceve il presidente del Comitato Nazionale dei Democratici americani, Howard Dean, si rinnova nei metodi e negli obiettivi, da quello dei diritti civili, a quello della parità di genere a quello della grande sfida ambientale.
Si può pensare con un tratto di penna di cancellare tutto ciò anche in Italia? Non è possibile. A questo si ribellano quei socialisti che non credono che il loro schieramento politico debba meccanicamente morire perché è crollato il muro di Berlino. Si ribellano quegli ex Pci - Pds che prendono sul serio la possibilità di rinnovare, approfondire e procedere sulla strada del socialismo. Si ribellano quei laici che temono nel veto al socialismo europeo una rivalsa neoconfessionale italiana. Ma non si ribellano in nome di un no, bensì in nome di un sì.
Due anni fa il congresso Ds all’unanimità decise di inserire nel simbolo la dizione partito del socialismo europeo. Prendiamo sul serio questa decisione e facciamo davvero un partito del socialismo europeo in Italia. E non ci si venga a dire che ci si è già provato. Non è vero. Non si è voluto pagare nessun prezzo, anche di modesto rinnovamento, al perseguimento di questo obiettivo. La riprova migliore di ciò è in quanto ha affermato lo stesso Massimo D'Alema con rude ma franca sincerità, e cioè che non si può chiedere agli ex-democristiani della Margherita di diventare socialisti perché in fondo non lo siamo mai stati nemmeno noi!
La ragione per cui stiamo insieme nell'area «A sinistra per il socialismo europeo», tra Mussi, Salvi, Bandoli e molti compagni che, come chi scrive, vengono dall'esperienza socialista e laburista (sperando di incontrare presto anche il compagno Giuseppe Caldarola), si fonda su questa intenzione, su questa volontà politica. Non è perché si sia formato un «supercorrentone» della sinistra interna, ma perché si è formata un'area pluralistica nelle provenienze e elle esperienze che ritiene che all'insegna dei principi del socialismo democratico e liberale (socialismo liberale nel senso rosselliano), si può trovare quella sintesi tra riformismo senza socialismo e radicalismo senza riformismo che condannerebbe alla palude la stessa esperienza dell'Unione.
La parola socialismo, lo vogliamo nuovamente ribadire, è ancora attuale, perché in essa è insita l'esigenza di una politica programmaticamente rivolta ad includere e a socializzare nel progresso economico, civile sociale e culturale anche chi ne è rimasto escluso; e questo in modo laico, e cioè con le armi della politica stessa. La parola democratico (usata come sostantivo, perché come aggettivo dovremmo condividerla tutti) è una parola nobilissima, ma rappresenta più una scelta sulle regole che devono improntare la dinamica politica e sociale che un ideale e un obiettivo di fondo. Nella parola socialista c'è qualcosa di più. Veramente pensiamo che si possa con un atto di volontà politica spengerla?