Adolescenza difficile. Prescrizioni in aumento
«Antidepressivi ad alto rischio»
di Sara Todaro
«Cure su misura non ce ne sono: per migliaia di minori i trattamenti con antidepressivi e psicofarmaci sono ad alto rischio». Maurizio Bonati (Laboratorio materno-infantile dei Mario Negri di Milano) e gli esperti dell'istituto superiore di Sanità (Iss) hanno rilanciato l'allarme sul rapporto tra bambini e psicofarmaci proprio in occasione dell'entrata in vigore dei nuovo Regolamento Ue sulle cure baby.
«Dal 2000 a oggi spiega Bonati il consumo di questi prodotti tra bambini e adolescenti tra 7 e 14 anni è più che triplicato. E gran parte dei 30mila ragazzi in terapia riceve cure "off label", non testate per questi pazienti, col rischio di veder aumentare effetti collaterali gravi o gravissimi, come i disturbi cardiovascolari e l'induzione al suicidio».
Le statistiche sono allarmanti: in Italia. su 1 milione e 500mila minori tra 0 e 17 anni, assume antidepressivi il 2,2 per mille dei maschi e il 2,6 per mille delle femmine; il consumo aumenta tra gli adolescenti. Secondo un recentissimo studio dell'Oms nel resto del mondo non va meglio: soffrono di disturbi depressivi 48 adolescenti su cento.
Le cure? Restano per adulti. «Solo di recente l'Emea (Agenzia Ue dei medicinali) ha riconosciuto l'indicazione pediatrica di un prodotto usato nella terapia, in corso di registrazione anche in Italia», dice il presidente dell'lss, Enrico G araci.
Ma sugli altri fronti si naviga a vista: «C'è addirittura da far ordine nele schede tecniche dei prodotti in commercio», sottolinea ancora Bonati, convinto che serve « un Registro nazionale e un piano terapeutico per tutti gli psicofarmaci somministrati ai minori». Il primo di questi Registri sarà inaugurato a febbraio, quando l'Agenzia italiana dei farmaci (Aifa) dovrebbe dare il via libera al ritorno in Italia del metilfenidato (Ritalin), farmaco per il trattamento dell'Adhd ( deficit di attenzione e iperattività) che riguarda in Italia tra il 2 e il 4% dei bambini in età scolare. L'annuncio ha fatto subito riesplodere le polemiche sui possibili abusi. «Il registro garantirà accuratezza diagnostica e appropriatezza il farmaco potrà essere prescritto sob nei centri H riferimento indicati dalla Regione», assicura Stefano Vella (dipartimento farmaci dell'Iss). Ma Bonati spezza ancora una lancia a favore di pazienti e famiglie: «Le reazioni emotive derivano anche da carenze organizzative e politiche». «L'adolescente psichiatrico conclude l'esperto è terra di nessuno: i Piani sanitari nazionali e il Piano maternoinfantile non se ne occupano; ii Piano salute mentale vi dedica poca attenzione. E non c'è nessun sostegno alle famiglie che addirittura, da una AsI all'altra, rischiano di essere discriminate ediritrovarsi costrette a sostenere il costo di costosi cicli di cura».
l’Unità 31.1.07
Ecco perché il volto è lo specchio dell’anima
di Eugenio Borgna
FOLLIA E CREATIVITÀ Nel nuovo lavoro di Eugenio Borgna, Come in uno specchio oscuramente, la sofferenza e le sue espressioni: dai ritratti di Francis Bacon ai versi di Sylvia Plath, dalle figurine di Alberto Giacometti alle poesie di Emily Dickinson
Nella mostra, che si è tenuta a Milano (a Palazzo Reale) nel 1998 (L’Anima e il Volto), il tema delle connessioni fra l’anima e il volto, fra gli stati d’animo, le emozioni, e le loro espressioni nel silenzio dei volti, si è venuto splendidamente delineando.
Le emozioni, la schiera infinita delle emozioni, solcano i volti nella vita quotidiana di ciascuno di noi, e nella vita dell’arte; e ne illustrano, o ne oscurano, le espressioni.
Nel catalogo della mostra è possibile cogliere il flusso ininterrotto delle emozioni, della gioia e della tenerezza, della tristezza e dell’angoscia, dello smarrimento e della desolazione, della inquietudine del cuore e del tædium vitæ, della nostalgia e delle intermittenze del cuore: in un inaudito carosello di emozioni forti e di emozioni deboli.
In ogni caso, vorrei ora riflettere sulla fenomenologia dei volti dipinti da Francis Bacon: nei quali si intravedono immediatamente il dolore e la lacerazione dell’anima che rinascono dai lineamenti disfatti e infranti, sfigurati e accecati: nei vortici di un’angoscia che toglie luce agli occhi: bruciati dal deserto della disperazione. Nei volti slabbrati e nei corpi raggrumati di Francis Bacon si riflettono le ombre roventi di un mondo, il mondo in cui viviamo e in cui siamo immersi, divorato dal deserto della speranza e dalla paura; e la paura non ci dà tregua: ci insegue e ci assedia, ci contagia e ci oscura, al di là di ogni conflitto e al di là di ogni libertà esteriore. La materia pittorica si scioglie, e sembra liquefarsi, trascinando con sé la indefinibilità e la indistinzione dei corpi e dei volti che ne risultano deformati e segnati dai bagliori della paura e della angoscia, della angoscia della morte, che accendono torce effimere nella notte delle emozioni. La paura e l’angoscia della morte sono così le sole emozioni che rinascano dai suoi ritratti e dai suoi autoritratti, dai vortici insondabili delle sue figurazioni corporee che nel loro nocciolo segreto e scarlatto si perdono nel disfacimento e nel silenzio. Nei dipinti di Bacon, in questi volti e in questi corpi, non si rispecchiano solo la paura e l’angoscia individuali (personali) ma anche quelle sociali: delle comunità lacerate e sfiorate ogni volta, oggi come allora, dalla aggressività e dalla violenza che Bacon sembra quasi prefigurare e anticipare con le folgorazioni conoscitive e interpretative della sua grande arte.
Sono volti e sguardi, quelli di Bacon, che testimoniano di un dolore e di una solitudine senza fine, di una angoscia lacerante e devastante, e che sono profondamente diversi da quelli ricolmi della luce, anche se umbratile e spezzata, di Giacometti. I volti di Bacon sembrano davvero riflettere in sé le ombre fatali di un secolo schiacciato dalla distruzione e dalla morte, dalla inaudita violenza ideologica che ha falciato le esistenze più deboli e più fragili; e in questo senso sono immagini figurative che non ci faranno dimenticare gli orrori della violenza. I volti e gli sguardi (le figure slanciate e inafferrabili) di Giacometti rinascono, certo, da una comune sorgente di dolore e di tristezza, e anche di angoscia, ma nondimeno sono aperti alle attese e alla speranza: alla attesa di qualcosa che dia un senso alla vita vissuta come solidarietà e partecipazione: come trascendenza. Sono volti e sguardi che ridicono la problematicità e le ambivalenze della vita: senza sprofondare negli abissi della disperazione.
(Il tema senza fine dei volti e degli sguardi, delle loro espressioni pittoriche e plastiche, aiuta la psichiatria a ripensare alle sue radici fenomenologiche e antropologiche: che sono, almeno in parte, comuni anche alle discipline artistiche nelle quali ci confrontiamo con il nocciolo eidetico delle cose.)
Nel contesto delle interviste, che da David Sylvester sono state fatte a Francis Bacon, vorrei ricordare le cose ardenti e inquietanti che egli ha detto rispondendo ad una domanda sulle ragioni della ossessionante ripetizione dell’angoscia e dell’orrore nelle tante opere dedicate al grido. «Si può dire che un grido sia un’immagine d’orrore, ma io ero in realtà interessato a dipingere il grido più che l’orrore. Penso che, se avessi davvero riflettuto su ciò che induce una persona a gridare, il grido che tentavo di dipingere ne sarebbe risultato molto più efficace. In un senso, avrei dovuto essere più consapevole dell’orrore da cui nasceva il grido. Le mie immagini erano in realtà troppo astratte». Invitato a dire qualcosa sulla continua raffigurazione di Innocenzo X, ridisegnato a partire dal quadro di Velázquez, Bacon dice: «Quando ho dipinto il papa che grida, non era quello che mi ero prefisso di fare»; nel senso che: «quando dipinsi il papa che grida volevo in realtà fare tutt’altro: volevo dipingere una bocca con la bellezza del suo colore e tutto il resto, che fosse come un tramonto di Monet, non intendevo fare solo un papa che grida». Certo, in Bacon il volto e il corpo gridano nel fiume dell’angoscia; ma in modi molto diversi da quelli che riemergono dalle opere di Edvard Munch.
Nel corso dell’intervista Francis Bacon parla anche degli influssi che la poesia ha avuto sulla sua vita artistica. «Penso sempre di essere stato influenzato da Eliot. La terra desolata, soprattutto, e le poesie che l’hanno preceduta mi hanno sempre molto emozionato. Leggo spesso anche i Quattro quartetti, e penso che siano forse poesia ancora più grande della Terra desolata, anche se non mi toccano nello stesso modo. Ma ho raramente creato qualcosa ispirandomi direttamente a particolari versi o poesie. Li ammiro, mi stimolano e mi incitano a tentare e a lavorare molto di più. È questo il modo in cui m’influenzano». Non solo dalla poesia di Thomas Stearns Eliot egli dice di essere stato influenzato ma anche da quella di William Butler Yeats: il grande poeta irlandese. «Sono stato molto toccato anche da numerose poesie di Yeats. Forse una delle cose che più ammiro in Yeats è il modo in cui ha lavorato su se stesso - forse è stato sempre un poeta straordinario, ma mi sembra che abbia lavorato su se stesso in un modo davvero eccezionale».
La poesia e la pittura, allora, che si intrecciano lungo sentieri misteriosi e nondimeno affascinanti, e rivelatori di enigmatiche comuni risonanze emozionali e creative.
Ci sono alcune altre belle considerazioni di Bacon sulla pittura di Rembrandt; e ad esse, che nascono dalle domande di Sylvester, vorrei ora richiamarmi. Nel grande autoritratto di Rembrandt, ad Aix-en-Provence, Bacon dice che gli occhi non hanno orbite: l’immagine è completamente anti-illustrativa. «Penso che il mistero del dato reale sia comunicato da un’immagine creata con segni irrazionali. E questa irrazionalità del segno non dipende dalla volontà. È la ragione per cui il caso deve sempre intervenire in questa attività, perché nel momento in cui sai cosa fare, non produci altro che un’ennesima forma di illustrazione». La svolta conclusiva in questo discorso su Rembrandt è così articolata da Bacon: «Dietro a tutto questo c’è la profonda sensibilità di Rembrandt, che ha saputo applicarsi a un segno irrazionale piuttosto che a un altro. E nei segni di Rembrandt l’espressionismo astratto era già stato inventato. Ma in Rembrandt c’era in aggiunta il tentativo di registrare un fatto: per me la sua pittura è quindi molto più eccitante e molto più profonda. Una delle ragioni per cui non mi piace, o non m’interessa, la pittura astratta, è che ritengo che la pittura sia una dualità, e che quella astratta sia qualcosa di totalmente estetico».
Il maschile e il femminile della malinconia
Nel suo nuovo saggio, Come in uno specchio oscuramente (Feltrinelli, pp. 232, euro 16), del quale pubblichiamo un brano in questa pagina, Eugenio Borgna attraversa gli enigmi della differenza tra maschile e femminile nella sofferenza e nella creatività, nella nevrosi e nella follia. Tratteggia esperienze dissonanti di malinconia, di schizofrenia, di morte volontaria, ma anche esperienze di poesia, pittura, scultura: Emily Dickinson e Georg Trakl, Vincent Van Gogh e Camille Claudel tra gli altri, e le altre. Ne vengono altrettanti ritratti, altrettante riflessioni sul male in ogni sua espressione, sul senso del dialogo, sulla cura e sul prendersi cura in psichiatria come nell’esistenza di ogni giorno. Apre il volume una straordinaria rievocazione autobiografica dei primi anni di lavoro in ospedale psichiatrico. Lo chiude una meditazione rarefatta, essenziale, austera sulla fragilità delle parole, dei gesti, con cui avvicinare la sofferenza, senza cancellarla nel silenzio, senza negarle una luce possibile.
l’Unità 31.1.07
Vescovi contro i Pacs e Napolitano
Betori a nome di Ruini rigetta gli inviti. Ma il Vaticano smorza: apprezziamo parole del presidente
di Roberto Monteforte
NESSUNA MEDIAZIONE, nessun compromesso sarà mai possibile sulla legge per le unioni di fatto. Quella legge non va fatta. La Chiesa tiene ben serrate le porte del dialogo. Nessuna riconoscimento giuridico va dato a quelle unioni: lo ribadisce il segreta-
rio generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori presentando le conclusioni del Consiglio Permanente aperto lo scorso 22 gennaio dal suo presidente, cardinale Camillo Ruini. È un «niet» secco. Che suona come una risposta brusca anche all’agreement del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che da Madrid aveva richiamato tutti a prestare ascolto alle ragioni della Papa, della Chiesa e dei cattolici. Perché sulle questioni eticamente sensibili e dei diritti della persona occorre cercare il dialogo e non spaccare il Paese. Ma per trovare soluzioni che nel rispetto della Costituzione, rispondano alla domanda di diritti di chi ha scelto di convivere al di fuori del matrimonio.
«L’appello di Napolitano di trovare una sintesi con la Chiesa ci fa piacere - commenta il segretario della Cei - perché non parla né di compromesso né di mediazione, ma di sintesi, e questo significa rispetto della identità di ciascuno. Una sintesi non significa rinunciare ai principi di ognuno, ma significa arrivare a un livello più alto e trovare un incontro in cui ciascuno non rinunci ai propri principi». Taglia corto Betori che pure apprezza le parole del Capo dello Stato e ne sottolinea il non nuovo «riconoscimento, in positivo, del ruolo dei cattolici e del loro apporto alla convivenza sociale sia nel passato che nel presente». Ma la Cei alza stendardi. Così si rende fragile quel ponte di dialogo invocato da Napolitano. Per la Chiesa sui valori etici non si tratta. E non per ragioni o verità di fede, ma «antropologiche». «Difendiamo e affermiamo grandi valori che prima di essere cristiani - spiega Betori - sono umani e che come tali danno senso alla vita e ne salvaguardano la dignità». Peccato che questa verità voglia essere imposta a tutti e in ogni caso. Un prendere o lasciare che rischia di tagliare fuori la politica e quindi anche l’azione dei politici «cattolici». Nel documento conclusivo del Consiglio permanente lo si dice chiaramente: «Alla famiglia fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso “non possono essere equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali riconoscimento legale”». L’ordine è stato dato. Fuoco di sbarramento. Poi si vedrà. Intanto la Cei assicura che sul tema non sono in corso «trattative» con governo o maggioranza.
È una chiusura netta che rischia di indebolire l’iniziativa del Quirinale. Lo rimarca anche il leader della Quercia, Fassino che invita tutti «ad abbassare la temperatura»: «Dobbiamo cercare più soluzione che non marcare distinzioni». Così dal Botteghino arriva un invito: «All’apprezzamento che la Cei ha espresso per le parole del presidente Napolitano, segua un’effettiva disponibilità al confronto e alla ricerca di soluzioni condivise».
In soccorso all’iniziativa di Napolitano, è arrivata la Santa Sede sembra anche dopo un chiarimento con il Colle. «L’intervento del presidente Napolitano è certamente molto apprezzabile: dimostra la grande attenzione per le posizioni del Santo Padre da lui già più volte manifestata, e incoraggia ad un atteggiamento di dialogo e di rispetto che non è sempre presente nell’attuale dibattito politico» lo afferma il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi. «Con il suo intervento - commenta - il Presidente invita alla ricerca di una visione ampia sui problemi della società, con grande sensibilità verso le preoccupazioni espresse dalle autorità della Chiesa, riconoscendone la legittimità e il fatto che sono profondamente motivate e mosse dalla ricerca del bene comune della società italiana». «Rimane da vedere - conclude - come possa essere trovata nel dialogo la auspicata sintesi, coinvolgendo le diverse componenti della comunità politica e sociale italiana, e in modo che le posizioni manifestate dalle autorità della Chiesa in Italia siano tenute nel conto dovuto». Così smussa le asprezze della Cei. La via del dialogo deve rimanere aperta. Anche se Betori ha già lanciato il suo annuncio: la Chiesa farà diga nei confronti di una legge che non «soddisfi» le richieste dei vescovi. Le indica: maggiori sostegni alla famiglia, adeguate politiche sociali in grado di «rimuovere quegli ostacoli di ordine pratico, giuridico e fiscale che allontanano i giovani dal matrimonio e dalla generazione di figli». E per le convivenze eterosessuali? Se diritti vanno riconosciuti si modifichi il codice civile. Quello che conta è che «si rimanga sempre ancorati ai diritti e doveri della persona». Quindi nessun riconoscimento giuridico alla coppia che «finirebbe per configurare qualcosa di simile al matrimonio dove però ai diritti non corrisponderebbero uguali doveri». E le coppie gay? Neanche da nominare.
l’Unità 31.1.07
Bertinotti: «Il Cile sui diritti è più avanti di noi»
Il presidente della Camera incontra la Bachelet. «Sui Pacs ci sia una soglia di garanzia per tutti»
di Natalia Lombardo
«Se sappiamo imparare... è meglio», dice con un sorriso il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, da lunedì a Santiago del Cile. Imparare dal “profeta disarmato”, Salvador Allende, la lezione politica del cambiamento raggiunto con la democrazia e la partecipazione di massa. E imparare dai passi compiuti in Cile dalla presidente socialista, Michelle Bachelet, sulla strada per la conquista dei diritti civili: lunedì ha firmato un decreto che permette alle 14enni di prendere la pillola del giorno dopo anche senza il consenso dei genitori. In Italia, invece, infervora anche nel centrosinistra la battaglia per la legge sulle coppie di fatto. «Non posso che essere d’accordo con il presidente Napolitano» sulla necessità di trovare una sintesi, afferma Bertinotti. Che però aggiunge: «Quella sui Pacs è una battaglia di laicità. Ci vuole una soglia minima di garanzia per tutti».
Nel pomeriggio ha incontrato alla Moneda la presidente Michelle Bachelet. A lei, come farà agli altri leader che vedrà in questi dieci giorni, chiederà un sostegno all’iniziativa italiana per una moratoria sulla pena di morte già avanzata all’Onu. Ieri mattina Bertinotti ha ricevuto dal “collega” Antonio Leal la massima onorificenza della Camera dei deputati cilena. All’Accademia diplomatica loda il decreto sulla pillola: «È in linea con tutte le prese di posizione della presidente Bachelet. C’è un impegno molto forte sul terreno dei diritti della persona per dare un’impronta innovativa ed evolutiva al quadro delle leggi cilene». In un Paese in cui su temi come l’aborto o il divorzio «si è avuta per tradizione una legislazione restrittiva». Ma un provvedimento così coraggioso secondo il presidente della Camera è sulla «linea di tendenza» sulla quale è impegnata la presidente, quella della «liberalizzazione e della modernizzazione: la presidente vede un Cile in grado di evolvere rapidamente sulla strada dei diritti civili».
Percorsi difficili, in Italia, anche se Bertinotti riconosce che c’è un segno di discontinuità, non una svolta a sinistra del governo: «Con Prodi c’è stato un cambiamento di passo della politica, con dei segni che dicono di una diversità rispetto al governo precedente. State tranquilli, il governo non cadrà. Non c’è alternativa, le larghe intese sarebbero deflagranti per i Ds, ma anche per Forza Italia». Ma poi aggiunge che «la politica degli ultimatum non è produttiva» con evidente riferimento a Mastella.
Da Montecitorio a Santiago del Cile, accompagnato dalla moglie Lella. Ed è anche dalla memoria, dalla commozione sulla gelida tomba del presidente cileno eliminato dal golpe di Pinochet, che l’ex segretario di Rifondazione fonda il senso del suo viaggio in America Latina, oggi in piena fioritura delle sinistre: «Lula o Michelle Bachelet non sono i “figli” di Allende, ma il rinascimento politico del Sud America, anche con Chavez e Morales è la grande rivincita di Allende: si può tentare la strada del cambiamento nella democrazia, con il voto e la partecipazione di massa». Prendere atto oggi del «fallimento dei liberismi» (il riferimento è all’Argentina), ma è quel superare la griglia rigida dei partiti con la partecipazione popolare che fu la «grande premonizione» politica del leader di Unidad Popolar, poco compresa dalla sinistra in Italia, commenta Bertinotti ricordando la «grande solidarietà offerta alla vittima di un regime, ma oscurandone la figura politica. L’Italia preferì altri miti», Che Guevara e il Vietnam. Ma la scelta del compromesso storico del Pci di Enrico Berlinguer, nata dopo il golpe in Cile, «sarebbe avvenuta lo stesso», aggiunge. A migliaia di chilometri di distanza, il presidente della Camera inizialmente aveva evitato di parlare di politica italiana. Della quale lamenta «il distacco tra partiti e movimenti», la concentrazione sul governo. Guarda alle sinistre in America Latina come strade utili alla nascita della Sinistra Europea. La prospettiva prende corpo nella visita al Museo della Fondazione Salvatore Allende, curato dall’ex segretaria del presidente cileno, Patricia Espejo Brain e da suo marito pittore. Un «miracolo», commenta Bertinotti emozionato nel vedere come non sia morto «il seme» della democrazia: la raccolta delle opere di artisti di tutto il mondo fu iniziata da Allende nel 1972, poi dopo il golpe i quadri (fra gli altri Mirò, Picasso, il pop americano Frank Stella e l’italiano Carlo Levi) furono occultati dal rettore dell’università, ma gli esuli nel mondo continuarono a raccoglierli. Ora il museo vive, conservando anche il segno del regime delle centraline telefoniche della Dina, la polizia segreta, che controllava gli oppositori (macchinari forniti dalla Cia, precisano). La ferita si riapre davanti all’«agghiacciante» lapide, un’intera parete, che parla dei tremila ejecutados politico: ventenni uccisi dal regime, «È impressionante», commenta Bertinotti colpito dalla tenerezza di un alberello di Natale lasciato da un parente e da un cuore di stoffa con scritto «Adios papi».
L’incontro con Michelle Bachelet, prima “presidenta” del Sudamerica, figlia di un generale ucciso dal regime con perfide torture (delle quali furono vittima lei stessa e la madre) avviene nella Moneda, il palazzo assaltato dai militari l’11 settembre del 1973.
l’Unità 31.1.07
Veltroni e Fini: sul bipolarismo c’è accordo
«Il Parlamento avvii la riforma elettorale»
Chiti: nessuno vuole più la preferenza
di Eduardo Di Blasi
SONO DUE LEADER in pectore, non dei semplici «volenterosi» che rappresentano se stessi, chiarisce di prima mattina Gianni Alemanno, nel presentare il convegno che la «Fondazione nuova Italia» da lui presieduta ha organizzato al Residence di Ripetta
a Roma e che è prossimo ad iniziare. Da anni destinati alla successione nei rispettivi schieramenti, per adesso Gianfranco Fini e Walter Veltroni si attestano su una difesa del bipolarismo e della governabilità del Paese. Guardano al referendum sulla legge elettorale promosso dal professor Giovanni Guzzetta come ad un pungolo necessario: se il Parlamento non riuscirà a trovare un sistema coerente, affermano in coro, è bene che il referendum si faccia. E discutono di legge elettorale e assetti istituzionali, assieme al ministro per le Riforme Vannino Chiti, all’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu (Fi), al vice presidente della Commissione Affari Istituzionali della Camera Domenico Benedetti Valentini (An), ai costituzionalisti Stefano Ceccanti e Francesco Saverio Marini, e al promotore del referendum Guzzetta. Inizia Veltroni: «Dal ‘93 in poi siamo coerentemente schierati a difesa della democrazia dell’alternanza, per un bipolarismo in cui i cittadini possano scegliere chi li governa. Oggi non è così». Parla di un «tripudio dell’autoreferenzialità», di «veti reciproci che paralizzano» l’azione politica, di un premier che, invece di essere a capo del governo «è nominato dai suoi ministri che sono anche segretari di partito», di «partiti con il 2%» che «non possono essere arbitri di un governo votato da milioni di persone». Spiega la sua ricetta. Sono cinque punti che vanno a toccare la Costituzione: «Ridurre il numero dei parlamentari; assegnare al primo ministro la facoltà di poter indicare al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; una corsia preferenziale per i provvedimenti del Governo; più velocità e trasparenza al Senato; la riforma del modo in cui si approva la legge finanziaria, che non può essere emendata in ogni dettaglio». Sulla legge elettorale il modello è quello dei sindaci: maggioritario a doppio turno, con l’indicazione del candidato (premier). Gianfranco Fini parte in difesa: «Abbiamo votato l’attuale legge elettorale perché abbiamo capito che a rischio non c’era il sistema proporzionale o quello maggioritario, ma il bipolarismo». È un attacco a Lega e Udc «attivi oggi, come a fine legislatura» ad arare una terra di mezzo tra i due schieramenti. Anche Fini crede che, assieme alla legge elettorale, si debba mettere mano alla seconda parte della Costituzione. Chiede di sapere se esistano «le condizioni politiche», che non vi siano «vincoli di coalizione». Afferma: se i piccoli partiti non ci stanno, ecco che arriva il referendum. Vorrebbe discutere dell’attribuzione del premio di maggioranza: sembra anche aprire al doppio turno (poi An smentirà). Pisanu crede che mettere mano alla Costituzione sarebbe un errore: meglio, afferma, correggere l’attuale legge elettorale eliminandone le storture (come le candidature multiple). Quello che uscirebbe dal referendum sarebbe, a detta di Pisanu, «ripugnante». Atteso al compito di armonizzare le posizioni dei partiti è il ministro Chiti: «Io, personalmente, sono per il maggioritario a doppio turno», afferma. Poi chiarisce: «La prevalenza dei gruppi è contraria al voto di preferenza», ma favorevole ad un ridimensionamento dei collegi elettorali, di modo da arrivare a liste bloccate che non contino più «38 candidati ma 5 o 6 per collegio». Un modello «simil-spagnolo», in linea, afferma il costituzionalista Ceccanti «con il resto dell’Europa, dove non esiste il voto di preferenza»
Repubblica 31.1.07
Cacciari non condivide l'invito di Napolitano al dialogo: "Non ci incartiamo sui Pacs"
"Lo Stato laico faccia le sue scelte dalla Chiesa battaglia di retroguardia"
Il cambiamento del costume ha fatto in modo che i rapporti fra gay non suscitino più scandalo
Credo che l'idea della famiglia tradizionale debba essere non abbandonata ma ripensata
di Roberto Bianchin
MILANO - I Pacs, sbotta il filosofo, «ci vuole proprio una fantasia perversa per incartarsi sui Pacs». Non piace, al sindaco di Venezia Massimo Cacciari, la proposta di cercare una «sintesi» al problema, avanzata dal capo dello Stato, che tenga conto delle posizioni della Chiesa. Non gli piace neanche che questo tema sia all´ordine del giorno: «Il governo dovrebbe interessarsi di ben altro in questa fase, con le tragedie internazionali e i drammi locali che stiamo vivendo».
Professor Cacciari, perché non si dovrebbe dialogare con la Chiesa?
«Ma perché mai dovrei trovare un accordo con la Chiesa? No, non condivido l´impostazione di Napolitano. Io devo muovermi come uno Stato laico, non è pensabile sentire cosa pensa la Chiesa per fare una legge. Non devo dipendere dalla Chiesa, altrimenti verrebbe meno la concezione stessa dello Stato. Certo, la Chiesa va ascoltata, come vanno ascoltati tutti, ma non per cercare compromessi o mediazioni. Noi dobbiamo andare avanti per la nostra strada, con cautela invece che con le sparate che fanno alcuni laici, e sapendo che stiamo maneggiando un materiale delicatissimo».
Ma la Chiesa dice no al riconoscimento delle coppie di fatto.
«Prima o poi dovrà riconoscerle. Prenderne atto, come ha fatto con il divorzio. La corrente delle trasformazioni della società è inarrestabile. Perché resistere allora? Non è su questo terreno che la Chiesa deve fare le proprie battaglie: si occupi della mercificazione del lavoro e del sesso, e di quelle porcherie di certe trasmissioni televisive. Per questo il suo atteggiamento proibitivo è sbagliato. Sembra quello di un predicatore sessuofobo che reprime e vieta. Una battaglia di retroguardia».
Cosa dovrebbe fare invece?
«Predicare in positivo. Con messaggi lieti, di apertura, di accoglienza. Avere un atteggiamento meno assoluto, meno dogmatico. Per un cristiano questa non è mica una questione di fede, non stiamo parlando di Gesù, ma di due persone che si amano e vogliono vivere assieme. Come si fa a dire che è un capriccio, che è peccato, che è solo per sesso? Come fa la Chiesa a leggere nel cuore di due omosessuali che si amano? Mi sembra che manchi anche la sensibilità storica necessaria».
In che senso?
«Nel senso che l´idea della famiglia tradizionale debba essere non abbandonata ma ripensata. Non è una categoria dello spirito. La famiglia greca era molto diversa da quella romana, e le famiglie cinesi o indiane sono molto diverse da quelle europee. L´istituto familiare ha sempre avuto modi diversissimi basati su etiche e culture diversissime, e moltissime evoluzioni nel tempo. Lo stesso divorzio lo ha profondamente modificato, e l´idea che aveva San Tommaso della famiglia non è neanche lontanamente paragonabile a quella dell´arcivescovo Lefebvre».
Ma lei è d´accordo che serve una legge? I Pacs vanno bene?
«La famiglia non la trasforma lo Stato con una legge, sarebbe comico. Bisogna invece tenere conto che nella società ci sono delle trasformazioni già avvenute, e che i tempi sono maturi per poter dire che due persone che si amano, anche dello stesso sesso, possano vivere assieme. Cosa c´è di tragico in questo? Quindi i Pacs vanno bene, danno una risposta a una domanda che c´è. Il cambiamento del costume ha fatto in modo che i rapporti fra omosessuali non suscitino più scandalo, ed è un bene che non ci sia più questa fobia. Cosa preferisce la Chiesa, che si scaglino le pietre contro gli omosessuali?».
Lei ha lanciato a Venezia, a colpi di manifesti, una campagna contro l´omofobia. Con quali obiettivi?
«E´ una campagna culturale, per invitare soprattutto i giovani ad accettare quello che appare diverso, straniero, magari anche potenzialmente nemico».
Repubblica 31.1.07
IL CASO
Dietro l'appello del Colle, un fenomeno fatto di pellegrinaggi, messe, professioni bipartisan di fede
Dall'articolo 7 al dialogo sui gay la politica in cerca di benedizioni
Gli industriali non sono da meno: una volta misero i mutandoni all´Uomo Vitruviano in segno di rispetto a Bertone
Rosy Bindi l'ha definita una volta: "La gara a chi è più cattolico". Spesso ci si limita a compiacere le gerarchie religiose
di Filippo Ceccarelli
Ma c´era proprio bisogno di rievocare, a proposito dei pacs, il voto a sorpresa dell´Assemblea Costituente sull´articolo 7?
Il prossimo 25 marzo saranno sessant´anni. Da quel giorno la sovranità dello Stato e quella della Chiesa hanno seguitato a uscire dai rispettivi confini disputandosi, ora più ora meno, quello stesso spazio che coincideva con la vita pubblica italiana. E tuttavia ciò che allora impressionò fu l´impegnativa scelta del Pci togliattiano. Un subitaneo e spregiudicato voltafaccia, ma al tempo stesso anche una lungimirante soluzione improntata alla realpolitik. E comunque: «Quando fu proclamato il risultato (359 favorevoli e 149 contrari) - scrisse Piero Calamandrei - nessuno applaudì, nemmeno i democristiani, che parevano fortemente contrariati da una vittoria raggiunta con quell´aiuto. Neppure i comunisti parevano allegri; e qualcuno notò che uscendo a tarda ora da quella seduta memoranda, camminavano a fronte bassa e senza parlare».
Vero è che la Dc non aveva alcun margine di trattativa. Memorandum minacciosi come fogli d´ordine le intimavano dalla Santa Sede di includere il Concordato fascista nella Costituzione. Fatto sta che al termine di quello che ne «L´avventurosa nascita della Repubblica» (Rizzoli, 1989) Gianni Corbi ha definito «il più dotto e appassionato torneo oratorio che si sia mai tenuto a Montecitorio», furono i comunisti a calare la carta risolutiva sconfessando in extremis le loro precedenti posizioni. Come San Paolo «sulla via di Damasco», a dispetto dell´immagine richiamata da Pajetta per negare qualsiasi possibile conversione, Togliatti decise di votare sì. Lo fece contro Nenni, che parlò di «cinismo»; contro gli azionisti, inferociti; e contro quei laici che a partire da Benedetto Croce giudicavano l´articolo 7 «uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico». A tutti costoro replicò il Migliore, nel suo più acrobatico discorso, che il problema dei problemi era: «Salvare l´unità delle masse e la pace religiosa».
Ora. Anche dando per scontata la vocazione tutta italiana di precipitare le più remote memorie nell´attualità polemica, è singolare come lo spettro dell´articolo 7 abbia scavalcato addirittura il millennio per indicare una possibile via d´uscita di una disputa che più evoluta e sfuggente non si potrebbe. E´ del tutto plausibile che il presidente Napolitano, già ragguardevole esponente del Pci togliattiano, abbia voluto inviare alla Chiesa un messaggio distensivo, un segnale di buona volontà, tanto più dalla Spagna iper-laicista di Zapatero. Ma la durissima risposta della Cei, quel suo respingere anche solo l´idea di una «sintesi» legislativa, non lascia adito a dubbi. Il tempo dei popoli contrapposti e quindi degli inevitabili patteggiamenti, è davvero e per sempre superato.
C´è una vertigine rispetto all´Italia in cui Don Camillo doveva più o meno pacificamente convivere con Peppone. Ma altrettanto lontane sembrano le vittorie laiche del divorzio e dell´aborto - che fino all´ultimo i comunisti disdegnarono. Il Pci e la Dc non ci sono più, né la società italiana potrebbe ancora identificarsi con la Chiesa. Questa semmai si connota come una minoranza viva, agguerrita, intransigente e da anni ormai adusa a comportarsi, su una serie limitata di argomenti, come una specie di lobby cui l´articolo 7 garantisce l´opera e adesso la visibilità.
Non solo. Novità nella novità: si sono esaurite le ideologie, le culture politiche, le appartenenze della Prima Repubblica. E allora l´odierna classe di governo, alla disperata ricerca di senso, sempre più spesso finisce per aggrapparsi alla Chiesa e a quelli che chiama «valori», ma lo fa da par suo, e quindi in modo vistoso e anche un po´ parassitario.
Non mancano certo gli esempi di questa tendenza, ugualmente ripartita nei due schieramenti. Pellegrinaggi, messe, benedizioni e presepi nelle istituzioni; pratiche fino a qualche anno fa impensabili. In periferia assessorati alle missioni, al perdono e perfino alla Salvezza. Un continuo di leader che esprimono la loro fede (o si definiscono «in ricerca») e un perenne scrutinio mediatico sulla loro osservanza ai sacramenti. Indizi, dettagli, coriandoli di un atteggiamento. La Serafini che si commuove in Vaticano all´anteprima dell´ennesima fiction papale; l´onorevole De Gregorio che esibisce il rosario; la signora Lonardo Mastella che ci tiene di informare la pubblica opinione di essere arrivata vergine al matrimonio; gli industriali della Confindustria che in un convegno mettono i mutandoni all´Uomo Vitruviano per rispetto, forse, all´agognatissimo relatore, cardinal Tarcisio Bertone.
Rosy Bindi l´ha definita una volta: «La gara a chi è più cattolico». Ma l´impressione è anche quella di gente che cerca di compiacere le gerarchie ecclesiastiche, e lì si ferma. Nel centrodestra, illuminato dagli exploit dei teo-con, il fenomeno è se possibile ancora più evidente e contraddittorio. Le «radici cristiane» fanno da sfondo, in caratteri cubitali, nelle manifestazioni dell´Udc (in Sicilia, per giunta); Casini rievoca la strage proto-islamistica di Otranto (XV secolo) e Borghezio invoca il Papa a fare la crociata anti-islamica; Baccini se la prende con il supposto «neo-paganesimo» di Veltroni; Buttiglione pretende la fiction edificante dalla Rai; e dimentico del matrimonio celtico, Calderoli indossa la maglietta dell´orgoglio cristiano. Dopo tutto, viene da pensare, fra Togliatti, Croce, PioXII e Calamandrei, l´Italia dell´articolo 7 era molto più aspra, ma anche più seria.
Corriere della Sera 31.1.07
LA PROPOSTA Circolano troppi falsi miti. Un esempio: lo sterminio dei càtari
Una «Lega anticalunnia» in difesa dei cattolici
«Seguiamo l'esempio degli ebrei a tutela della verità storica»
di Vittorio Messori
Sostengo da tempo che i cattolici, ridotti ormai a minoranza (almeno sul piano culturale), dovrebbero seguire l'esempio di un'altra minoranza, quella ebraica. Dovrebbero, cioè, creare anch'essi un'Anti Defamation League, una «Lega anticalunnia», che intervenga sui media a ristabilire le verità storiche deformate, senza peraltro pretendere alcuna censura o privilegio, bensì soltanto la possibilità di rettifiche basate sui dati esatti e sui documenti autentici.
Prendiamo, ad esempio, quei càtari (detti albigesi, in Francia) oggi di moda anche perché hanno gran parte nel Codice da Vinci eche si vorrebbero rivalutare, dimenticando che erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinaria setta di origine asiatica. Paul Sabatier — storico del Medio Evo e insospettabile in quanto pastore calvinista — ha scritto: «Il papato non è stato sempre dalla parte della reazione e dell'oscurantismo: quando sbaragliò i càtari, la sua vittoria fu quella della civiltà e della ragione». E un altro protestante, radicalmente anticattolico e celebre studioso dell'Inquisizione, l'americano Henry C. Lea: «Una vittoria dei càtari avrebbe riportato l'Europa ai tempi selvaggi primitivi».
Della campagna cattolica contro quei settari (appoggiati dai nobili del Midi, il Mezzogiorno francese, non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa) vengono ricordati soprattutto l'assedio e la presa di Béziers, nel luglio del 1209. Vedo ora, sul «Messaggero», che un divulgatore di storia come Roberto Gervaso non esita a dare per buona la replica di dom Arnaldo Amalrico, abate di Citeaux e «assistente spirituale» dei crociati, ai baroni che gli chiedevano che cosa fare della città conquistata. La risposta è stata resa famosa dagli innumerevoli ripetitori: «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi». Ne seguì un massacro che, stando a Gervaso — seguace, anche qui, della vulgata corrente — avrebbe fatto fino a quarantamila morti. Il divulgatore è comunque in sorprendente compagnia: persino uno specialista vero del Medio Evo come Umberto Eco, nel romanzo
Il nome della rosa, accredita la frase terribile dell'abate e il numero spropositato delle vittime.
Ebbene: si dà il caso che possediamo molte cronache contemporanee della caduta di Béziers, ma in nessuna di esse vi è traccia di quell'«uccideteli tutti». La realtà è che più di sessant'anni dopo, un monaco, Cesario di Heisterbach, che viveva in un'abbazia del Nord della Germania da cui mai si era mosso, scrisse un centone fantasioso conosciuto come Dialogus Miracolorum. Tra i «miracoli», pensò di inventare anche questo: mentre i crociati facevano strage a Béziers (che fra' Cesario neppure sapeva dove fosse) Dio aveva «riconosciuto i suoi», permettendo a coloro che non erano càtari di sfuggire alla mattanza.
Insomma, la frase attribuita a dom Arnaldo ha la stessa credibilità dell'«Eppur si muove!» che sarebbe stato pronunciato fieramente da Galileo Galilei davanti ai suoi giudici e che fu invece inventato a Londra, nel 1757, quasi un secolo e mezzo dopo, da uno dei padri del giornalismo, Giuseppe Baretti.
In realtà, a Béziers, in quel 1209 i cattolici volevano così poco una strage che inviarono ambasciatori agli assediati perché si arrendessero, avendo salva la vita e i beni. Del resto, dopo una lunga tolleranza, il papa Innocenzo III si era deciso alla guerra solo quando i càtari, l'anno prima, avevano assassinato il suo legato che proponeva un accordo e una pace. Erano falliti pure i tentativi pacifici di grandi santi come Bernardo e Domenico. Anche a Béziers, i càtari replicarono con la violenza del loro fanatismo all'offerta di negoziare: tentarono, infatti, una sortita improvvisa, ma, per loro sventura, i primi che incontrarono furono
les Ribauds, i Ribaldi, il cui nome ha assunto il significato inquietante che sappiamo. Erano, infatti, compagnie di mercenari e di avventurieri dalla pessima fama. Questa masnada di irregolari, non solo respinse gli assalitori ma li inseguì sin dentro la città. Quando i comandanti cattolici accorsero con le truppe regolari, il massacro era già iniziato e non ci fu modo di fermare quei «ribaldi» inferociti.
Venti, addirittura quarantamila morti? Un eccidio ci fu, inquadrabile nella mentalità di allora e spiegabile con l'esasperazione provocata dalla crudeltà dei càtari, che non solo a Béziers da anni perseguitavano i cattolici. Soltanto un contastorie alla Dan Brown può parlare agli ignari di una «mitezza albigese». Comunque, l'episodio principale ebbe luogo nella chiesa della Maddalena, nella quale non potevano affollarsi più di mille persone. Béziers spopolata e diroccata? Non sembra proprio, visto che la città si organizzò poco dopo per ulteriori resistenze e occorse un nuovo assedio.
Insomma: un episodio, tra mille altri, di manipolazione ideologica. Una «Lega anticalunnia» non gioverebbe solo ai cattolici, ma a un giudizio equo e attendibile sul passato di un'Europa forgiata per tanti secoli anche dalla Chiesa.
Corriere della Sera 31.1.07
Controcanto
Foxman: i cristiani non sono diffamati
di Alessandra Farkas
NEW YORK — «Assurdo, un vero nonsense. Spero solo che si tratti di una boutade passeggera». La proposta di Vittorio Messori non piace affatto ad Abraham Foxman, dall'87 direttore della Anti Defamation League, fondata nel 1913 da Sigmund Livingston allo scopo di «combattere l'antisemitismo, il razzismo ed ogni forma di discriminazione religiosa e delle minoranze».
«È bizzarro che una maggioranza religiosa e culturale voglia difendersi da una minoranza», spiega Foxman. «La maggioranza cristiana continua a dettare legge e non è credibile che all'improvviso possa sentirsi minoranza perseguitata». Un fenomeno simile, mette in guardia Foxman, sta avvenendo in Usa. «Nei sondaggi molti cristiani si dicono minacciati e, come in Italia, persuasi che sia in atto una guerra culturale-religiosa contro di loro.
Quando ha tenuto il discorso sul rispetto reciproco tra religioni, il Papa ha cercato proprio di buttare acqua su questo fuoco», puntualizza. Il suo consiglio alla maggioranza? «Ben vengano organizzazioni, e nel mondo ce ne sono già tante, che cercano di promuovere i valori cristiani. Ma il cristianesimo, oggi come oggi, non ha alcun bisogno di un paladino che lo difenda. Perché non è per niente una vittima».
E se l'idea andasse in porto? «Li invito a non usare il nostro nome: è un trademark protetto da copyright — ribatte — e siamo disposti ad andare in tribunale per difenderlo. Anche in America molti gruppi hanno cercato di saltare sul nostro carrozzone, per sfruttare reputazione, storia e credibilità da noi accumulate. Ma le corti glielo hanno impedito».
Corriere della Sera 31.1.07
Decisione della Regione. «Se non c'è richiesta dei genitori, tocca alle strutture pubbliche»
Varato un regolamento regionale. Formigoni: i genitori potranno fare i funerali
La Lombardia: dare sepoltura a tutti i feti
Nei cimiteri anche quelli che provengono da un aborto sotto i 5 mesi
di Simona Ravizza
MILANO — Il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato ieri un regolamento in base al quale tutti i feti, in caso di interruzione di gravidanza entro le venti settimane, hanno diritto alla sepoltura. Il nuovo regolamento li riconosce come «prodotti del concepimento». Il governatore Roberto Formigoni esulta: «Per la prima volta in Italia si riconosce al feto il rispetto che merita — dice —. I genitori avranno la possibilità di fare i funerali, altrimenti ci penseranno gli ospedali che lo seppelliranno in una fossa comune».
La Regione Lombardia decide di dare sepoltura a tutti i feti. Da oggi
avranno diritto a essere sotterrati anche quelli che provengono da un aborto sotto i cinque mesi, finora equiparati nella pratica ospedaliera ai cosiddetti
rifiuti speciali.
Il nuovo regolamento in materia di attività funebri e cimiteriali adesso riconosce i feti sotto le venti settimane come «prodotti del concepimento» e non più scarti al pari di un'appendicite o di un pezzo di stomaco eliminato chirurgicamente. Il governatore lombardo, Roberto Formigoni, non nasconde la sua soddisfazione: «Per la prima volta in Italia si riconosce al feto il rispetto che merita — dice —. I genitori avranno la possibilità di fare i funerali, altrimenti ci penseranno gli ospedali che lo seppelliranno in una fossa comune».
Ma tra i medici che si occupano di interruzioni volontarie di gravidanze c'è già chi teme ulteriori colpevolizzazioni delle donne che si confrontano con il dramma dell'aborto.
È una norma già definita rivoluzionaria. Il consiglio regionale l'ha approvata ieri all'unanimità. Al momento dell'alzata di mano, tutti i presenti sono stati d'accordo. L'articolo 11 del nuovo regolamento stabilisce: «Anche per i prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle venti settimane, la direzione sanitaria informa i genitori della possibilità di richiedere la sepoltura. (...). In mancanza di richieste si provvede in analogia a quanto disposto per le parti anatomiche riconoscibili (ossia, quelle di cui si conosce la provenienza, ndr) ». Formigoni è consapevole che la normativa si presta a essere strumentalizzata politicamente da chi teme la messa in discussione della legge 194 sull'aborto: «Ma io non ne voglio fare una questione ideologica — precisa subito Formigoni —. È una questione di dignità del feto. Con questa disciplina colmiamo una lacuna legislativa a livello nazionale».
Ma il provvedimento fa già discutere all'interno della Mangiagalli, prima clinica in Italia a praticare l'aborto nel 1978. «Ogni passo che porta a un maggiore scambio di informazioni con le donne è ben accetto — osserva Basilio Tiso, direttore sanitario dell'ospedale da settemila parti l'anno e 1.700 interruzioni volontarie di gravidanza —. Mi è capitato personalmente di confrontarmi con pazienti che anni dopo avere abortito mi hanno chiesto informazioni sulla sorte del feto. La normativa approvata, in questo senso, può essere d'aiuto».
Ma c'è chi è scettico, come Augusto Colombo, responsabile alla Mangiagalli dell'applicazione della 194: «Chi pensa che l'aborto sia un omicidio semplicemente non vi fa ricorso — dice —. Per chi si sottopone all'interruzione di gravidanza, invece, non è rilevante conoscere la sorte dell'embrione».
Arrivano le prime reazioni anche dai politici del centrosinistra che hanno dato via libera al regolamento. Ardemia Oriani, consigliera regionale dei Ds, allarga le braccia: «Già oggi tra la 20ª e la 28ª settimana i feti devono essere sepolti in linea con il decreto del presidente della Repubblica del 10 settembre 1990 numero 285 — spiega —. È sbagliato attribuire un significato ideologico alla norma. Cambierà poco». Il regolamento impone alla direzione sanitaria l'obbligo di informare i genitori della possibilità di chiedere la sepoltura. Il permesso al trasporto dev'essere poi rilasciato dall'Asl. Se i familiari rispondono negativamente all'invito, il compito di inumare il «prodotto del concepimento» spetta all'ospedale stesso. «È un provvedimento anche oneroso dal punto di vista economico — ribadisce Colombo —. Le aziende ospedaliere dovranno farsi carico dei costi nella maggior parte dei casi». Rileva Tiso: «Finora sotto la 20ª settimana il feto veniva trattato come un rifiuto speciale senza obbligo di informare nessuno. È chiaro che adesso dovremo uniformarci alle nuove disposizioni». Con ogni probabilità il dibattito non è destinato a finire qui.
sravizza@corriere.it
Liberazione 31.1.07
Annunziata il '77 come lo racconti male
di Antonella Marrone
Lucia Annunziata ha scritto, nei tempi regolamentari che tutti ci aspettavamo, un libro sul ’77. Si intitola 1977 - l’ultima foto di famiglia (Einaudi, pp. 165, 14,50 euro). E’ un saggio? Un ricordo pubblico-privato? Un’inchiesta storico-giornalistica? Una serie di fatti collegati da intelligenti intuizioni? Chi può dirlo. E’ un po’ tutte queste cose insieme, è un intreccio di pezzi d’epoca, un’analisi non proprio approfondita. Sicuramente un sassolino anti Pci che la giornalista si era tenuta nella scarpa per trent’anni. Scrive, giustamente, che quell’anno è difficile da raccontare. Infatti non riesce bene neanche a lei che, si vede, ce l’ha messa tutta. Ma il fatto è che, volendo parlare degli anni Settanta, e del ’77, solo come una sequenza di polvere e piombo, come una teoria di giorni infuocati, come l’inizio della fine di tutto, si sbaglia.
«Amore è tutto ciò che si può ancora tradire» scriveva Andrea Pazienza. E’ una delle “massime” politiche e personali di quel periodo: dentro c’era l’amore, la relazione donna-uomo, la politica, il movimento, il futuro. Qui e là Annuziata lo scrive: c’era un un fermento intellettuale notevole, in quella fine di decennio. E per tirar fuori il movimento del ’77 dal «cono d’ombra del terrorismo» (per dirla con Carlo Infante, leader storico degli indiani metropolitani di Roma) «in cui è stato relegato sia per ipocrisia sia per ignoranza, è opportuno mettere in luce alcuni aspetti della cosiddetta ala creativa del movimento, in particolare quello sorto dall’occupazione dell’Università di Roma». Nel libro si parla delle riviste, della nascita delle radio (prime fra tutte Radio Città Futura e Radio Alice), ma quello che interessa alla giornalista, sopra ogni altra cosa, è parlare della politica dei partiti e dei gruppi. Lotta continua, Autonomia operaia, Pdup-Manifesto: un rincorrersi di sigle che, per la verità, a chi andava alle assemblee e non era con Autonomia, né col Pci, dicevano ben poco. Ha ragione, però, Annunziata, quando parla del rapporto con il ’68. Quei leader che dopo un decennio arrivavano a “pontificare” nelle aule universitarie, non avevano gran seguito. Annunziata non lo dice in maniera così violenta come fa per il Pci, ma risultavano piuttosto “bolliti”, nonostante non fossero anagraficamente vecchi. E ricorda Carlo Rivolta (cronista che per “La Repubblica” seguiva il movimento), i suoi pezzi, che erano i “nostri”: ricorda, generosamente e onestamente, la differenza abissale che c’era tra quei resoconti e quelli degli altri giornali. Scrive Annunziata: «Carlo non voleva fare la predica a nessuno». Che liberazione!! Tra una sequenza di ritagli di giornali d’epoca, questa “foto di famiglia” coglie nel segno sicuramente su un punto: quello che riguarda il rapporto con i media. Un rapporto ironico, furbesco, probabilmente un po’ narcisista (perché nel ’77 si era, a volte nella disperazione di non saper cosa fare, o nella consapevolezza di avere una carica straordinaria, si era, dicevamo un po’ narcisisti) che non delegava, che non chiedeva mediazioni. Le radio furono questo, lo fu la rubrica di Lettere su Lotta Continua. Ed ha ragione l’autrice quando intravede in questo flusso di comunicazione incontinente, l’anticipo di Internet e dei blog.
Il libro parte da Lama, da quella mattina del 17 febbraio quando fu cacciato dall’Università di Roma, e si chiude con l’intervista di Pecchioli, sull’allarme terrorismo. In qualche momento si vorrebbe lasciare il libro a metà, alzarsi e uscire dalla stanza. Quando Annunziata parla di “noi”: noi chi? «Noi odiavamo i comunisti». Non tutti. La maggior parte odiava il Pci è vero, quello delle spoglie e sonnolente sezioni, quello che “radiava” i ragazzi che si facevano le canne. Ma per molti, il Pci, non era un problema. Non era niente. O forse solamente il lato “oscuro” della politica (proprio quell’anno uscì al cinema Guerre stellari), quello dei bisogni sociali e basta. Il settantasette, in piazza, chiama i ”desideri”. E fa una bella differenza. Non c’erano solo i sampietrini da accarezzare (lo fa con una punta di infantilismo birichino Annunziata, di nascosto, dopo il comizio di Lama, in redazione), non c’erano solo le beghe tra leader di gruppi extraparlamentari. Non tutti avevano alle spalle un super-Io chiamato Rossana Rossanda. C’erano da fare giornali, inventare stili di vita, creare comunicazione. C’era molta musica da fare, nascevano le scuole popolari, c’era il nuovo teatro d’avanguardia. Nessuno contesta che ci fosse anche molto spaesamento, ma di quel periodo è Michele Serra a centrare il tema “sensibile” del ’77: le più visibili, le più tipiche e anche le più apprezzabili tracce di quell’anno «sono impresse nella memoria artistica e culturale e non in quella politica. Restando nella sola Bologna: la stagione del rock demenziale, il cabaret surreale del Gran Pavese, un fiorire notevole di scrittura e scrittori, il fumetto d’avanguardia e soprattutto il geniale lavoro di Andrea Pazienza - morto per droga poco più che trentenne - che seppe raccontare con furore quasi céliniano (ma allegro! diamine!) i giorni e soprattutto le notti di quei gruppi di studenti famelici di vita, allucinati dalle droghe, disperatamente amorosi».