sabato 3 febbraio 2007

Corriere della Sera 3.2.07
«Rifondazione smetta di inseguire fantasmi»
Fassino: servono regole per il dissenso
Il segretario Ds: temo che il Prc ascolti il richiamo della foresta «La maggioranza va sostenuta. Vale pure per Mastella sui pacs»
di Gian Guido Vecchi


MILANO — Lo diceva D’Alema, prima d’andare in Giappone, «quando torno fatemi almeno ritrovare il governo».
«Ma no, il governo lo ritroverà. Però l’allarme di Massimo è giustificato e io lo condivido... ». Piero Fassino abbozza un sorriso un po’ tirato, «la posizione della Cdl è insensata, è difficile chiedere le dimissioni d’un governo di cui si è condiviso l’operato». È appena arrivato alla Camera del lavoro di Milano, ha incontrato i lavoratori d’un call center, discusso del futuro Partito democratico. Solo che il problema è il presente, l’Unione battuta al Senato sulla base Usa di Vicenza, il segretario dei Ds ha appena chiesto un «chiarimento » nella maggioranza e ora precisa: «Occorre che tutte le forze di governo siano consapevoli che l’unità e la coesione della coalizione sono una responsabilità di tutti e non solo di qualcuno. Questione di buon senso».
Scusi,ma dove sta il buon senso nel votare contro a un testo che sostiene il governo?
«Diciamo subito una cosa: la situazione al Senato è frutto di una pessima legge elettorale pensata dal centrodestra proprio per impedire a chi ha vinto di governare. Non lo dico per cercare scuse, credo sia una esigenza del Paese trovare una nuova legge che dia maggiori certezze di governabilità, chiunque vinca».
Non si tratta solo di questo, però.
«No, chiaro. A rigore, di fonte a un testo dove si approva l’operato del governo si dovrebbe votare sì. Se non lo si è potuto fare è perché l’ordine del giorno della Cdl era chiaramente strumentale, basta rileggersi gli interventi dei senatori della destra e la frequenza di attacchi al governo prima del voto; e poi perché ci siamo fatti carico di non spaccare il centrosinistra, sapendo che alcuni partiti non avrebbero votato l’ordine del giorno».
In sostanza, che cosa chiede?
«Mi pare evidente che non si possa archiviare ciò che è successo come un incidente di percorso. La politica è assunzione di responsabilità, non il gioco delle parti messo in scena dalla destra. Il primo punto da chiarire sono le scelte di politica estera del nostro Paese, a cominciare dal rifinanziamento delle missioni militari di pace: non è possibile che mentre l’Italia siede nel Consiglio di sicurezza dell’Onu ci sia qualcuno che ti chiede di andare via dall’Afghanistan, noi che stiamo lì su mandato dell’Onu!».
Il famoso multilateralismo...
«Appunto. Vorrei evitare che, dopo aver combattuto per anni contro l’unilateralismo di Bush perché decide da solo, prevalesse ora l’unilateralismo contro l’Onu. Sarebbe francamente assurdo».
Lei pensa sul serio che l’alleanza con gli Usa o le unioni di fatto siano «questioni di coscienza» e non politiche?
«Ecco, qui siamo al secondo punto da chiarire: come si sta in una maggioranza, quali sono le regole di base. Proprio perché penso che questa maggioranza non abbia alternative e il senso di responsabilità non possa essere solo mio o di una parte».
Lo dice alla sinistra radicale?
«Lo dico a tutti, perché ad esempio sulle coppie di fatto è l’Udeur ad avere una linea rigida».
E quali sarebbero, queste regole?
«Noi abbiamo chiesto un voto per governare, gli elettori ce l’hanno dato, e ora abbiamo il dovere di farlo. È ovvio che non si possa coartare l’opinione o la coscienza di nessuno. Ma l’impegno con gli elettori obbliga ciascuno a misurare i propri comportamenti e definire un limite al dissenso su questo o quel tema: non ci si può spingere fino al punto di mettere in discussione la maggioranza».
Già, ma come si fa?
«Un parlamentare ha il diritto di avere una posizione difforme e la può esprimere in aula, ma non ne consegue che il dissenso debba ogni volta tradursi in un voto contro. Uno può alzarsi e dire: non condivido per queste ragioni, dopodiché sostengo lealmente la maggioranza e le sue decisioni e voto assieme a tutti gli altri. Diamoci questa regola ».
Il Prc sospetta complotti centristi.
«Nessun complotto. Anche perché così si rovescia la realtà dei fatti. In Senato le forze riformiste si sono fatte carico di non rompere con quelle radicali, e Giordano lo sa benissimo. Né il governo né la maggioranza della coalizione condividono le posizioni di Rifondazione su Vicenza, eppure in nome della coesione abbiamo cercato una soluzione che tenesse uniti tutti. Ma non si può credere che ogni volta ci sia chi si preoccupa di tenere unita la maggioranza e chi invece pone solo condizioni».
Il governo «ha il dovere di durare», dice Bertinotti. A tutti i costi?
«Non si tratta di durare a tutti i costi, ma di essere consapevoli che i cittadini ci hanno chiesto di governare il Paese. Vado in giro e la gente, non solo nostra, mi dice: non litigate ».
Però Rifondazione scalpita.
«Io ho apprezzato in questi mesi lo sforzo vero e sincero che ha fatto Rifondazione per concorrere alle scelte del governo e della maggioranza. Non vorrei che questo sforzo si attenuasse. Che una sorta di richiamo della foresta riportasse quel partito a rigidità che in passato non sono servite a nulla, men che meno a Rifondazione, e hanno fatto pagare al governo Prodi e a tutti costi molto alti ».
Rutelli dice che la misura è colma e si scontra con il Prc e l’intera ala radicale: «Lo dica agli elettori che la coalizione è finita!».
«Non serve a nessuno inseguire fantasmi di complotti. Né alzare la temperatura della polemica. Serve invece che ogni forza della maggioranza si senta responsabile dell’unità della coalizione e sappia che l’Italia ha dei doveri internazionali da onorare».
E se si ripetessero per l’Afghanistan le scene dell’altro giorno?
«Spero proprio di no, sarebbe compromessa l’immagine internazionale che in questi mesi abbiamo fortemente riaccreditato».
Resta il fatto che almeno un terzo della coalizione la pensa in modo diverso...
«No, io qui distinguerei tra forze politiche e singoli. Nel caso dell’Afghanistan mi pare si stia lavorando a un’intesa che consenta a Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani di votare il decreto senza mettere in discussione il nostro impegno di pace a Kabul. E tuttavia sappiamo che singoli parlamentari, nonostante questo, vogliono votare contro»
Cosa dice ai «dissidenti» dell’Unione, da Bordon ad Angius, che si sono rifiutati di votare contro il governo?
«La stessa cosa. Il principio di responsabilità della coesione della maggioranza deve valere per tutti».
Le prospettive del Partito democratico non sembrano rosee, si fa il nome di Veltroni come deus ex machina...
«Anche le vicende di questi giorni dimostrano che una maggioranza guidata da un partito riformista del 35% sarebbe certamente più solida. Per il resto, il centrosinistra è ricco di personalità, tra cui certamente Veltroni. Al momento giusto sceglieremo chi debba guidare il centrosinistra e chi il Partito democratico, coinvolgendo direttamente elettori e aderenti al nuovo partito».
Napolitano è preoccupato.
«Giustamente, è sensibile al rischio che fatti come quello del Senato sconcertino l’opinione pubblica e la allontanino dalla politica, come aveva detto già nel discorso di Capodanno. Bene ha fatto Prodi ad annunciare un vertice che dovrà chiarire i due punti che dicevo: politica estera e criteri di comportamento, per evitare d’ora in poi che eventuali dissensi producano ogni volta una tempesta o una fibrillazione. Quello che è avvenuto è tanto più preoccupante perché rischia di offuscare una fase in cui il governo, dopo la Finanziaria, sta dando segnali chiari di determinazione: le liberalizzazioni, l’accordo coi sindacati sul pubblico impiego, l’avvio dei colloqui con le parti sociali sulla riforma delle pensioni e del mercato del lavoro».

l’Unità 3.2.07
Bertinotti: ci sono le condizioni perché il governo duri cinque anni
In viaggio in Uruguay, scherza: qui hanno trovato l’accordo ex Dc e Tupamaros. Forse perché i leader erano in esilio...
di Natalia Lombardo


«Ecco qual è la chiave: l'esilio. Mandiamo i leader in esilio così cresce il consenso popolare»: il paragone è fulminante, la battuta scappa fuori dalla sorpresa di Fausto Bertinotti. Sotto un sole cocente, nel quartiere "Bella Italia" alla periferia di Montevideo, trova la «chiave» del radicamento popolare che tiene unite le coalizioni nel racconto sulla crescita del Frente Ampio uruguayano. Ben 35 anni di vita che saranno celebrati il 5 febbraio, dai 300mila voti del 1971 all'aumento negli anni della dittatura, tra il 73 e l'85. «Allora i leader erano tutti in esilio sparsi per il mondo, il Frente continuava a lavorare. Poi, quando i dirigenti sono tornati dopo la dittatura, abbiamo conquistato il municipio di Montevideo e poi la guida del paese sempre con Tabaro Vazquez», spiega in spagnolo l'assistente della vicesindaca Hyara Rodriguez, socialista.
Bertinotti fa un salto: «Ecco, certo, una volta che togli i dirigenti si vince tra i poveri. Mandiamoli tutti in esilio e vedrai….». Nella battuta c'è un che di liberatorio, fatta dall’altra parte del litigioso emisfero politico italiano. Insomma, «come fanno ex Dc ed ex Tupamaros a stare insieme?» si chiede il presidente della Camera (e il pensiero vola su oltreoceanici Mastella e Diliberto, Binetti e Grillini), «ci riescono perché c'è un vincolo costruito nel rapporto col territorio. Qui in Uruguay come per il Pt - il partito dei lavoratori - in Brasile, la coesione politica è un processo che nasce dalla base, da un blocco sociale nato indipendentemente dalla politica e poi divenuto coalizione, e non viceversa o un cartello elettorale». Quella «partecipazione» che il giorno prima Bertinotti ha suggerito per «riparare i guasti» nell'Unione. Sulle vicende italiane il Presidente della Camera non parla più di tanto: «La sinistra radicale è adulta, può replicare da sola, senza aiuti»; ma conviene sull’idea di un vertice di maggioranza a tutto campo. Convinto comunque che il governo durerà 5 anni.
«La ricetta è chiara: i dirigenti in esilio, le comunità di base crescono e quando tornano i dirigenti si vincono le elezioni e si governa», tira le somme. E la riscossa qui è partita dalle città, dai sindaci, come forse alcuni sognano in Italia. Insomma, «se qualcuno di vuole trasferire in Uruguay…», scherza Bertinotti lasciando il centro giovanile tra orti e murales. Certo qui altro che virgole e paletti sui Pacs: l'Uruguay, pur cattolico, è il paese più laico dell'America Latina, ferito da una povertà senza rabbia. Ma a questi bimbi di periferia che imparano a scrivere grazie al computer viene insegnata l'educazione alla libertà, anche sessuale: fra forme umane fiorite nei disegni, chiedono «il derecho que te gusta una persona de tu mismo sexo», ma anche il «derecho de martubars». Fino al più tenero «derecho a darse besos».

l’Unità Roma 3.2.07
Carracci morto di «melancholia»
La povertà e la depressione dopo la realizzazione della galleria Farnese
Annibale Carracci, a Roma la prima mostra monografica
di Flavia Matitti


«Annibale Carrazzi non altro ha del suo, che scudi dieci di moneta al mese... e una stanzietta alli tetti, e lavora, e tira la carretta tutto il dì come un cavallo, e fa loggie, camere e sale, quadri, e ancone, e lavori da mille scudi, e stenta e crepa...». Così nel 1599 un contemporaneo descriveva la desolante situazione di Annibale Carracci al servizio del cardinale Odoardo Farnese, che lo aveva chiamato a Roma per decorare alcuni ambienti del palazzo di Campo de' Fiori. Annibale, nella sua città natale, Bologna, aveva conquistato una certa fama, insieme al fratello Agostino (1557 - 1602) e al cugino Ludovico (1555 - 1619). Quando nel 1595 giunge a Roma, 35enne, è già un pittore affermato.
Gli manca quella «visibilità» internazionale, che solo la Città Eterna può dargli. Il compenso addirittura offensivo, che riceverà dal cardinale Farnese per i magnifici affreschi eseguiti nella galleria del palazzo, lo ferirà così profondamente da farlo ammalare di depressione (melancholia), malattia che lo condurrà prima all’inattività e poi, nel 1609, alla morte (sarà seppellito nel Pantheon, accanto a Raffaello).
Annibale si spegne dunque appena un anno prima della scomparsa dell'altro pittore rivoluzionario col quale s'apre il Seicento: Caravaggio. Sono loro, infatti, a ricondurre l'arte ad interessarsi al "vero", lasciandosi alle spalle il Manierismo, che, dopo decenni, ripeteva ormai stancamente astruse formule compositive.
Eppure, nonostante l'indiscussa importanza del più giovane e più dotato dei tre Carracci, fino ad oggi ad Annibale non era mai stata dedicata una mostra monografica. Appare dunque come un doveroso risarcimento l'esposizione curata da Daniele Benati e Eugenio Riccomini, ordinata nei mesi scorsi a Bologna e ora a Roma, nelle sale del Chiostro del Bramante (fino al 6/05; catalogo Electa). Un'ottantina di opere, tra dipinti e disegni, che consentono di ricostruire l'intero percorso dell'artista, dagli esordi bolognesi all'attività romana. Tuttavia, per comprendere la reale grandezza dell'artista, la mostra non è sufficiente. Infatti, alcuni capolavori dell'artista, come il "Mangiafagioli" o il "Paesaggio con la fuga in Egitto", esposti a Bologna, ma conservati a Roma, si potranno ora vedere nella galleria Colonna e Doria Pamphilj. Inoltre, mancano le due versioni della "Macelleria" (Oxford e Forth Worth), per cui a documentare la novità rappresentata dall'opera di Annibale, tutta basata sul confronto col "vivo", vi sono altri dipinti, non altrettanto celebri, ma ugualmente interessanti, come gli intensi autoritratti, alcuni ritratti e il "Ragazzo che beve" (Zurigo) esposti nelle prime sale, o più avanti lungo il percorso, i "Due bambini che giocano con un gatto" (New York, Metropolitan) o il magnifico "Paesaggio fluviale" (Washington) o ancora i due ritratti di donne cieche. Tra i quadri mitologici spicca il dipinto erotico, di gusto tizianesco, con "Venere e Satiro" (Uffizi) e fa sorridere scoprire che per raffigurare la schiena nuda della dea, Annibale abbia fatto posare il cugino Ludovico «ch'era cicciosetto e polputo». La mostra offre inoltre l'occasione di ammirare una selezione di bellissimi disegni provenienti dal Louvre, per lo più studi preparatori per gli affreschi della galleria Farnese.
Numerose sono poi le opere di soggetto sacro, come la bella pala della chiesa di S. Caterina dei Funari - che quando Caravaggio la vide commentò: "Mi rallegro che al mio tempo veggo pure un pittore" - o quella della chiesa di S. Onofrio ma, contrariamente a quanto indicato in catalogo, è assente la pala di S. Maria del Popolo. Evidentemente il prestito non è stato concesso, ed è una scelta anche condivisibile, peccato però che poi, andando a visitare la chiesa, si debba scoprire che "La crocifissione di S. Pietro" di Caravaggio, conservata nella stessa cappella, è sostituita da una riproduzione fotografica, perché l'originale è esposto fino all'8 marzo nella mostra "Petros Eni. Pietro è qui", allestita nella Città del Vaticano, negli spazi del Braccio di Carlo Magno.
Annibale Carracci (fino al 6/05)
Chiostro del Bramante, via della Pace
Info: Tel. 06.68809035
www.chiostrodelbramante.it

venerdì 2 febbraio 2007

l’Unità 2.2.07
Bertinotti: un caso politico ma nessuna crisi
La base di Vicenza? «Non bisogna andare contro la popolazione, ma il governo durerà»
di Natalia Lombardo inviata a Montevideo


«NON SI ANNUNCIA una crisi, ma c’è un problema politico che la maggioranza deve affrontare coraggiosamente, perché deve abituarsi alle
difficoltà e andare avanti». Senza ricorrere al «soccorso avvelenato» del centrodestra, ma facendosi aiutare da «un sovrappiù di partecipazione politica. Disinteressata»: dall’Uruguay Fausto Bertinotti non drammatizza quanto successo ieri al Senato, convinto che il governo Prodi reggerà, dal momento che «non esiste un’alternativa al centrosinistra». Di larghe intese neppure a parlarne «sono solo astrazioni e non le ha proposte nessuno». Se non proprio un «tiremm’ innanz», il presidente della Camera invita l’Unione a oltrepassare il conflitto senza ignorarlo, ma «riparando il guasto» con il confronto aperto e cercando un «compromesso». Parola non negativa per l’ex segretario di Rifondazione, «non è una minore resistenza, un galleggiare opportunistico, ma la ricerca di una sintesi». Insomma, Bertinotti, che si mantiene nel «recinto» della valutazione politica (parla a Montevideo dopo l’incontro col presidente della Camera uruguayana, Julio Cardozo, e non vuole entrare nel terreno di Palazzo Madama), riconosce che il «guasto» politico è fisiologico in una coalizione così ampia, ma non vede un problema istituzionale: «Non dico di fare spallucce, ma di fare tesoro dell’esperienza e allungare il passo». Se ieri il patatrac è successo sulla base Usa di Vicenza (al cui allargamento si è sempre detto contrario), altri scogli sono in vista: l’Afghanistan, le pensioni. Con una velatissima irritazione, acchiappato il sigaro spento, avverte: «Il problema che oggi è nato da una componente moderata», interna all’Ulivo e alla Margherita, «domani verrà da quella più radicale della coalizione. Spero non si esprima nella stessa forma. E sottolineo spero non nella stessa forma…». Come dire: occhio, la sinistra non faccia agguati in Parlamento. Però insiste sulla partecipazione, «allungare il tempo di decisione per cercare un coinvolgimento maggiore» nel caso di Vicenza, e «darsi una linea di condotta: mai andare contro il parere di una popolazione».
Curioso che l’incidente in Italia sia accaduto quando Bertinotti è in Uruguay, paese ancora ferito dalla dittatura e in cui il 40% della popolazione è italiana: da tre anni è governato da una sorta di Unione di centrosinistra, il Frente Amplio, che ha fatto vincere il presidente socialista Tabare Vazques, e che ha un ministro del Movimiento de participation popular (Mpp) diretto erede dei Tupamaros, i guerriglieri uruguayani degli anni 70. Convivenze difficili, ma «le coalizioni larghe nascono da uno stato di necessità», spiega Bertinotti, il problema è «se resistono e governano bene». Però non ha dubbi: «Preferisco un Parlamento in cui tutti i partiti possano essere rappresentati, piuttosto che una legge punitiva di alcuni». Certo alla «pessima legge elettorale» italiana (la «porcata» di Calderoli) secondo il presidente della Camera «bisognerà mettere mano col concorso di tutti e senza fini impropri».
Senza fare paragoni «improponibili» a trent’anni dall’esperienza di Allende e Unidad Popular, Bertinotti esclude la nascita di altre maggioranze o larghe intese neocentriste, del resto mai uscite alla luce del sole: «Non ce la fa nessuno ad avanzare una proposta alternativa al centrosinistra». E i «protagonisti sulla scena sono quelli di oggi», se poi Veltroni e Fini si sfideranno «si vedrà quando si candideranno», risponde pungolato dai cronisti italiani che azzardano una scesa in campo di Veronica Lario: «Alle viste non c’è, comunque sarà una scelta sua». Prodi reggerà quattro anni? «Penso proprio che ci arriverà - risponde sereno - perché la coalizione ha il dovere di reggere», ha il mandato degli elettori e «deve affrontare i problemi del paese».

giovedì 1 febbraio 2007

l’Unità 1.2.07
1977: Sì, fummo sconfitti ma Berlinguer vide giusto
di Bruno Gravagnuolo


ANNIVERSARI Parla Adalberto Minucci, allora segretario torinese del Pci e direttore di Rinascita: «Con la nostra forza di massa al culmine delle vittorie elettorali sconfiggemmo il terrorismo, ma il quadro internazionale fu più forte»

La mia «Rinascita» fu attentissima culturalmente ai movimenti e tuttavia dovevamo batterci su più fronti

L’ondata del 1977 veniva dai nostri successi e il compromesso storico era l’unico sbocco possibile

Impensabile allora una linea di alternativa alla Dc perché il Psi non ci avrebbe seguito e poi c’era la tenaglia internazionale...

«Inutile negarlo, le difficoltà politiche ci furono, nel gestire l’ondata del 1977. E anche errori di analisi. Ma la linea di Berlinguer era giusta e la sconfitta venne per motivi di ordine internazionale». Parla Adalberto Minucci, maremmano di Magliano, 75 anni, all’epoca segretario della federazione di Torino del Pci, poi segretario regionale piemontese e infine direttore di Rinascita, ma ben dopo la cacciata di Lama dall’Università di Roma (17 febbraio). Osservatori privilegiati i suoi - Torino e Roma - e in più Minucci fu a lungo membro della segreteria nazionale del Pci, voluto da Berlinguer e in lotta contro Amendola e i riformisti, verso cui comunque ancora oggi nutre rispetto e stima («Amendola, dice, temeva “l’operaismo”, di cui mi riteneva un assertore, a motivo della sconfitta del biennio rosso nel 1920»). Bene, ma quali gli errori, e quali le ragioni «esterne» della sconfitta di Berlinguer e del compromesso storico?
Minucci, uscito nel 1990 dal partito contro la svolta Pds, la prende da lontano. Da Torino. «Innanzitutto - racconta - il periodo in questione coincide a Torino con il massimo di espansione del Pci, e ben per questo fronteggiammo con successo gli omicidi terroristici.Volevano intimidire le giurie popolari ai processi, ma riuscimmo a far passare una legge che proteggeva i giurati, e li facemmo celebrare quei processi. Eravamo padroni della città operaia, fortissimi ovunque, al centro, in periferia, in provincia. E ciò a partire dalla riscossa del 1965, dopo le batoste del 1955, quelle subite in fabbrica anche grazie all’azione antioperaia in Fiat di gente come Sogno e Cavallo. Una volta, dopo un’aggressione di Lotta continua contro la Fgci, gli operai scesero persino in sciopero. E creammo comitati operai contro il terrorismo».
D’accordo, a Torino controllavate la situazione, dalla fabbrica alle istituzioni, specie dopo le vittorie elettorali del 1975 e del 1976. E però malgrado Torino, in Italia la situazione vi sfuggì di mano...
«Sì, altrove le cose erano più difficili. Io vado a Roma, convocato da Berlinguer, per andare a dirigere l’Unità. Veto degli amendoliani e mi ritrovo direttore di Rinascita. All’Unità ci va Reichlin, e accetto la soluzione, comunque di prestigio. Alzai la tiratura a 80mila copie, con punte di 150mila, e una redazione splendida: Bruno Schacherl, Paolo Franchi, Angelo Bolaffi, Massimo Loche, Marcella Ferrara, Leonardo Paggi, che chiamai a collaborare, Massimo Boffa, Ottavio Cecchi».
E a Rinascita che fai?
«La apro agli intellettuali, ai movimenti, ai nuovi filoni culturali. Il primo speciale del Contemporaneo che feci fare si chiamava: “la società radicale”. E mandò in bestia tutti». Me lo ricordo, ci scrissi anch’io...«Ecco, cercammo di capire le ragioni di quel continente antagonista e refrattario, il suo immaginario sociale, le sue soggettività. Anche sullo sfondo della crisi di un certo marxismo, dei cosidetti nuovi bisogni...».
Già, Calvino, Cacciari, Rusconi, i discorsi su Weimar e la crisi di rappresentanza. La crisi del marxismo, la grande Vienna... Ma tutto questo non ti esime da una risposta più precisa: giusto il compromesso storico in quel clima? Asor Rosa ha sostenuto che il Pci era chiuso alla «seconda società» degli esclusi. E che la replica a quell’onda non poteva essere l’accordo Dc-Pci, che eccitava la protesta degli «esclusi». Bensì l’alternativa alla Dc. Tu che dici?
«Non c’era alternativa a quella linea, unico sbocco possibile alle aspettative crescenti suscitate dalle nostre vittorie. E la novità stava negli “elementi di socialismo”: il governo politico dell’accumulazione. Sorretto da un forte ruolo pubblico e da una politica keynesiana incentrata su bisogni collettivi. La nostra era una politica radicale e non una tattica compromissoria, al di là del dato emergenziale: inflazione, stagnazione, terrorismo, crisi energetica. Di più, quella politica era l’unica in grado di farci incontrare il terzo e il quarto mondo, Willy Brandt e la sua socialdemocrazia...».
Sta di fatto però che l’estremismo si impenna, la «seconda società» non capisce e alla fine ci si trova fuori dal governo, dopo il rapimento Moro.
«Il partito era diviso, gli errori non mancarono, e Berlinguer si trovò a tratti isolato. Ma soprattutto eravamo stretti in una morsa formidabile da destra e da sinistra. E la morsa più forte era quella internazionale. Ci si impedì di governare! Fu Moro stesso, di ritorno dall’America, a chiedere cautela a Berlinguer, come lui mi disse: gli Usa, con Ford e Kissinger in testa, lo avevano diffidato dal farci entrare».
Tutta colpa degli Usa, e magari dell’Urss?
«Credo proprio di sì. L’uccisione di Moro, la sua fine, ancora ammantata di enigmi, servì a questo: estrometterci, privandoci di un interlocutore chiave. E poi c’è l’Urss, certo. Anche lì dentro c’era una lotta. Da una parte quelli come Gorbaciov che fin dal 1976 stravedevano per Berlinguer (proprio a me chiese di conoscerlo in Italia). E dall’altra i neobrezneviani, che non tolleravano uno scongelamento del quadro geopolitico. Poi ci fu quello strano incidente a Berlinguer in Bulgaria...».
E il caso Lama, la polemica di Bufalini sul «diciannovismo» del 77?
«Errore aver fatto entrare Lama all’Università in quelle condizioni, errore quella polemica. Ma giusta la linea di fondo: un mix di fermezza e di attenzione. Il terrorismo fummo in grado di batterlo, e grazie alla nostra forza di massa. Al resto, Moro in testa, davvero non c’era rimedio».
Sbagliata allora l’idea di un’alternativa, basata sull’accordo col Psi e magari su un’innovazione dell’identità comunista?
«Dopo il 1976, non c’era maggioranza possibile, e uno sbocco politico dovevamo pur indicarlo a chi ci aveva votato. E poi, con Berlinguer all’apice del prestigio, un superamento dell’identità comunista era impossibile. Inoltre l’alternativa alla Dc avrebbe radicalizzato ancor di più tutto il quadro, accrescendo la pressione estremista e il ricatto Usa. Infine: sul Psi non potevamo contare. Craxi fin dall’inizio voleva piegarci. E fin dall’inizio si accordò con la destra Dc per scalzarci dal nostro ruolo e prepare la sua ascesa».
Obiezione: fino al 1979 il Psi parlava di contrasto al capitalismo. Teorizzava l’alternativa alla Dc. E nel 1981 il Psi offrì al Pci un’intesa: appoggio esterno alla premiership di Craxi. In cambio di un’inclusione del Pci al governo su punti programmatici comuni, e addirittura di un fronte comune, se la Dc avesse rifiutato Craxi premier. Non era meglio «andare a vedere»? «Impossibile. Dimentichi le polemiche di allora, gli attacchi a Berlinguer e a me personalmente: “Ucci ucci sento odore di Minucci”, come scrisse sull’Avanti! Una volta lo vidi in un camper - anche io! - e mi chiese di far fuori Berlinguer...».
Però si poteva almeno tentare di tirare il Psi dalla nostra parte. Viceversa, anche dopo la fine della solidarietà nazionale, l’interlocutore del Pci restò sempre la Dc.
«No, Craxi voleva ricacciare indietro il Pci, per questo si accordava con la destra Dc. Ed era un uomo spregiudicato che puntava ad espandersi al centro con tutti i mezzi. Era diventato il padrone del Psi. Inimaginabile un’intesa».
Torniamo allora al 1976-1979. Ebbene Moro parlava di «terza fase», dopo la Costituente e dopo la contrapposizione Dc-Pci. Che voleva dire? E Berlinguer che idea se ne era fatta?
«Per Berlinguer “terza fase” significava una possibile evoluzione della Dc in direzione sinistra-centro. Verso un’alleanza stabile e organica tra Dc democratica e Pci. Con la Dc di destra fuori. Moro stesso diceva: “siamo interessati a un nuovo socialismo”. E Berlinguer lo prendeva in parola».
Tiriamo le fila, Minucci. Niente autocritica sul 1977, se non nei dettagli. E riconferma della strategia del compromesso storico, fallita sugli scogli internazionali. E le critiche agli sprechi? Al corporativismo? Al massimalismo di quel periodo? Le critiche di Amendola, per intenderci?
«Lui era un grande dirigente, segnato dall’esperienza catastrofica degli anni 20 e 30. Temeva la radicalizzazione dello scontro, l’isolamento operaio, come quando vinse il fascismo. E temeva l’inflazione. Avvertenze giuste le sue. Ma la radicalità nel 1977 era nei fatti, e quello di Berlinguer era l’unico modo per affrontarla».
E qual era quel modo, economicamente ad esempio?
«Austerity, obiettivi produttivi concordati con l’impresa, partecipazione del lavoro. Diverso modello di consumo. E dentro tutto questo c’era spazio anche per l’innovazione e la competizione sul mercato globale. Ci fu un momento in cui a Torino, con Volponi, ci incontravamo con Umberto Agnelli, a discutere di tutto questo. Poi, al culmine, fu ucciso Moro, e poi nel 1983 venne la sconfitta alla Fiat. Ma a quel punto la storia si era già rovesciata all’indietro».

Repubblica 1.2.07
LA MUSICA E LE COSE DEL MONDO
UN SAGGIO DI PAOLO CASTALDI SU BACH, DEBUSSY E STRAVINSKIJ
di EUGENIO SCALFARI


I tre compositori, ma soprattutto il primo, rappresentano per l'autore il culmine di una specie di rinuncia all'identità soggettiva, di fuga dell'arte e di rifugio in una forma di anacoresi monacale
Si rinvengono le tracce del pensiero di Rainer Maria Rilke e dei suoi "Sonetti a Orfeo"
È riduttivo il suo giudizio su Mozart e su Beethoven. Inaspettato il suo favore verso l'ultimo Rossini
Nietzsche è onnipresente, sia quando è citato esplicitamente sia come ispiratore
L'autore è uno snob che detesta lo snobismo Vagheggia una società elitaria, ma si scaglia contro le élite
È anche un libro sulla filosofia, la politica e la trascendenza contro la ragione e contro gli Illuministi

Dopo averne letto, quasi per dovere d'ufficio come faccio per tutti i titoli che arrivano sul mio tavolo, le prime quattro pagine, ho deciso che si trattava di un libro scritto male, assai presuntuoso, carico di citazioni inutilmente colte e per di più su un tema - la musica e i musicisti - del quale sono un appassionato dilettante senza però possederne la competenza tecnica necessaria per affrontare un testo di non facile comprensione.
Perciò stavo per chiuderlo e passar oltre. Ma quella frase sulla sinfonia mozartiana Jupiter m'era rimasta a metà, mi sembrava intrigante (e infatti lo era) sicché continuai la lettura. Andando avanti ho superato altri motivi che suscitavano la mia cordiale antipatia.
Li enumero affinché tutto sia chiaro: i lettori hanno infatti il diritto di sapere che tra l'autore e il suo improvvisato critico si è svolta una lotta durata per tutte le 180 pagine del volume. Entravano in contrasto ad ogni riga con le mie più radicate convinzioni. Perché questo non è soltanto un libro sulla musica ma anche sulla filosofia, sulla politica, sullo stile, sulla trascendenza, sul mistero che ci circonda, contro la ragione, contro gli Illuministi. Per di più gremito di paradossi e di ossimori: infatti l'autore (a giudicarlo da queste pagine) è uno snob che detesta lo snobismo, vagheggia una società elitaria ma si scaglia contro le élite, cerca la chiarezza ma privilegia l'ombra e l'oscuro, si batte per un'arte d'avanguardia ma polemizza con tutte le avanguardie.
Infine lo stile. Da un autore così esigente ti aspetteresti una scrittura sorvegliata, sobria, lucida, chirurgica. Mi viene in mente la scrittura di Valéry. Invece niente di simile. Uno stile avviticchiato su se stesso, con due o tre proposizioni subordinate inserite nella principale, una dovizia di punti esclamativi, l'ingenua tentazione di fare prosa poetica accennando addirittura a qualche rima quando la passione del tema pervade tutta una pagina e l'autore pensa di sostenerla meglio ricorrendo a questi mezzucci.
Insomma, insopportabile. Eppure rapinoso. Ti prende nel suo ingranaggio e non riesci più a liberartene. Devi ammettere, magari con rabbia, che alcune delle tue idee cedono alle sue o quantomeno sono penetrate dal dubbio. Forse esagera nella sua radicalità, ma nellìesagerazione trova lo strumento per affievolire le tue resistenze. Lo stile resta approssimativo ma ne scaturisce una sorta di fascinazione esoterica e quasi di ipnosi intellettuale. Resta insopportabile ma è un incontro. Un incontro insopportabile o un insopportabile incontro? I cultori dello stile capiscono subito che la diversa collocazione dell'aggettivo rispetto al sostantivo fa la differenza. Nel caso di questo libro e di questo autore propendo per la seconda dizione, che rafforza il sostantivo e deprime l'aggettivo.
Aggiungo ancora a questa prima rassegna del testo che alcune chiavi hanno giocato in suo favore in questo mio contrastato innamoramento. La prima è l'onnipresenza di Nietzsche, sia quando è citato esplicitamente sia come ispiratore implicito di quasi tutte le pagine. La seconda è nel suo modo di intendere l'avanguardia come rottura delle forme tradizionali operando all'interno e non all'esterno di esse. Ciò che fece diversi, per fare un esempio, Matisse e Picasso.
Nella storia della musica questo libro ci fa comprendere quale carica rivoluzionaria abbiano avuto ai loro tempi Chopin, Schubert e Brahms e perfino il tardo Liszt e certamente Mahler rispetto al falso progressismo di Wagner o dei tardo-romantici. Mi sembra estremamente riduttivo il suo giudizio su Mozart e su Beethoven. Inaspettato il suo favore verso Rossini, specie quello della tarda età quando ha deliberatamente smesso di esprimersi sul pentagramma. Del resto (citazione) «Rossini avrebbe potuto mettere in musica perfino l'elenco delle lavandaie». Ma di ciò parleremo dopo.
Ora è venuto il momento di rivelare che stiamo scrivendo di Paolo Castaldi, il libro si intitola Bach, Debussy, Stravinskij, l'editore è Adelphi (e chi altri poteva invaghirsi d'un così ostico autore e così congeniale con le idee dell'editore?) che io sappia il libro, uscito già da qualche mese, non ha avuto recensioni sui giornali. E ne capisco il perché. L'autore, per quanto ne so, è anche un compositore d'avanguardia in polemica con l'avanguardia. Non conosco le sue composizioni e non ho alcuna propensione a conoscerle. Credo infatti che sciuperebbero il valore del testo.
* * *
Si apre con venti pagine di introduzione, scritte nel marzo 2006, a ridosso della pubblicazione. Seguono tre parti intitolate ai tre musicisti del titolo. La prima su Bach fu scritta nel 1994. La seconda, sotto forma di lettera a Debussy, nel 1987. Infine lo Stravinskij fu pubblicato nel '72 con uno scritto dal titolo In nome del padre.
Riunire queste tre parti, di fatto inedite per i più salvo In nome del padre pubblicato dallo stesso Adelphi nel 2005, è stata un'iniziativa di intelligenza editoriale perché chiariscono i nessi della concezione musicale (e non solo) di Castaldi. Che non a caso pone al culmine della musica Bach e al culmine della sua immensa produzione la sua opera più tarda, l'Arte della Fuga, con la quale si compie quell'opera di de-soggettivizzazione, di rinuncia all'identità soggettiva, di rifugio in una sorta di anacoresi monacale che, secondo Castaldi, attinge l'essenza della musica disancorandola dalle cose del mondo e togliendole di dosso ogni significato e ogni "messaggio" che non sia quello della forma che realizza se stessa e in se stessa si riconosce e si compiace.
Ed ecco perché lo Chopin delle Etudes e dei Preludi; ecco perché lo Schubert dei Lieder e soprattutto della musica cameristica, ecco perché il Brahms delle sonate e - infine - perché tanta sufficienza verso il Beethoven sinfonico ed invece il riconoscimento che viene tributato alle ultime sonate per violino e piano e per piano solo, a finire con la 111 di cui Castaldi cita la splendida interpretazione che ne dà Thomas Mann nel Doctor Faustus.
I nessi sono ora evidenti. L'Arte della Fuga (o La Fuga nell'Arte, come a un certo punto suggerisce l'autore) al vertice della sequenza; con un salto di un secolo e mezzo Debussy che prosegue l'operazione di distacco dall'identità soggettiva e da ogni tipo di messaggio lanciando il solo che sia compatibile con l'Arte della Musica: «Il piacere è la regola». Questa massima debussiana costituisce il ponte necessario per transitare dalla polifonia rinascimentale, anzi addirittura dal canto Gregoriano alla modernità e Castaldi lo imbocca di gran carriera, non so se consapevole delle antimonie che ne possono scaturire in termini di fuoriuscita dalla storia e dalla memoria (che gli sono giustamente carissime) e schiacciamento sul mero presente.
Felice decompressione spirituale, cancellazione del messaggio, desogettivizzazione e distacco, costituiscono certamente i presupposti d'una conoscenza più solidale con le cose, di un'arte che trovi nella forma il suo massimo fondamento e la sua sovrana indipendenza; ma contengono altresì il tarlo della "decadence" e del nichilismo. La presenza del pensiero nietzschiano in queste pagine è, a mio avviso, corroborante e positivamente significativa.
Vorrei aggiungere anche tracce del pensiero e dell'arte di Rilke là dove, specie nei Sonetti a Orfeo e nei Quaderni di Malte Laurids Brigge fa della desogettivizzazione il percorso necessario per identificarsi con l'altro-da-sé. Ma si tratta di interpretare a dovere il pensiero nietzschiano: un'operazione tra le più ardue a causa della quantità di enigmi che Nietzsche ha posto tra sé e i suoi lettori, tra sé e il mondo e, soprattutto, tra sé e se stesso.
Nietzsche non è un nichilista e si è sforzato, esplicitamente, di trovare un'uscita dal nichilismo. E non è neppure il creatore d'un superuomo che abbia come compito quello di calpestare la morale di fronte ad un altare dedicato all'egolatria. Fu probabilmente l'ultimo dei moralisti. Il suo sogno non fu il superuomo di tipo stirneriano ma un oltre-uomo, capace appunto di de-soggettivarsi per conoscere le cose. Delicatamente. Con tenera mitezza. Se volete, con la mitezza della follia melanconica.
Per questo mi permetto di avvertire Castaldi. Vedo bene il positivo che egli legge nella massima di Debussy, «Il piacere è la regola», apparentemente così lontana dal rigore claustrale dell'Arte della Fuga eppure così impregnata dagli stessi insegnamenti decompressivi e da analoghi canoni stilistici. Ma vedo anche il negativo che quella massima contiene, non soltanto per la vita ma anche per l'arte che - una volta che si appiattisca soltanto sul presente - non saprà far altro che balbettare sul pentagramma, sulla tavolozza e nell'immenso vocabolario delle parole. So, perché ho letto il libro con attenzione, che non è questo il segno sotto il quale si muove l'autore, perciò gli segnalo il pericolo.
* * *
Ma torniamo all'Arte della Fuga, perno centrale di tutta la dissertazione castaldiana. Mi sento obbligato verso l'autore per avermi sollecitato a riascoltarla, visto che non capita spesso di farlo nei concerti in programmazione. Il miracolo di questa splendida quanto enigmatica partitura è tutto nei primi quattro movimenti centrati sul contrappunto a voci triple e quadruple che iniziano di solito con un tema affidato al violoncello o al violino e toccano il culmine con l'intervento del basso che entra in scena dopo i primi quaranta o cinquanta secondi e resta dominante fino alla fine. Il tema è unico, ripreso con molteplici e spesso minimali variazioni. Il penultimo movimento si chiude con una sorta di interruzione improvvisa cui segue la fuga finale, una sorta di addio declinato sulle note del si bemolle, la, do, si naturale, che corrispondono al nome dell'autore. La firma d'un uomo stremato dall'aver compiuto uno sforzo creativo colossale, misconosciuto dai contemporanei, quasi cieco e morente come lo fu il Mozart del Requiem e il Beethoven dell'ultima sonata, anch'essa rimasta incompiuta su solo due tempi.
Il senso dell'intera partitura è stato già anticipato nell'Introduzione e sta nel raccordo con la polifonia rinascimentale calata nella complessità strumentale settecentesca, nella ricerca d'una nuova oggettività spersonalizzata dalla quale, dopo di lui, anche attraverso e nonostante la grande esplosione romantica, tutta la musica successiva dovrà tener conto, fino alla più avanzata modernità.
Cito in proposito Milan Kundera: «Bach è stato uno straordinario crocevia delle tendenze e dei problemi storici della musica. Un centinaio d'anni prima di lui un analogo crocevia è costituito dall'opera di Monteverdi che è il luogo in cui si incontrano due estetiche contrapposte: la prima fondata sulla polifonia, la seconda - pragmaticamente espressiva - fondata sulla monodia. Un altro straordinario crocevia delle tendenze storiche è l'opera di Stravinskij: duecento anni dopo la morte di Bach arriva un momento unico in cui la storia della musica è totalmente presente. A me pare che di questo momento la musica di Stravinskij rappresenti il monumento».
Kundera scrive questo suo giudizio nell'ambito di un ampio saggio su Stravinskij (sta nel libro Les Testaments trahis pubblicato nel 1993 e tradotto in italiano da Adelphi con il titolo I testamenti traditi) la cui linea conduttrice coincide direi al novanta per cento con quella di Castaldi. Non so se avesse letto gli scritti di Castaldi, alcuni dei quali cronologicamente lo precedono, altri lo seguono. Probabilmente no, trattandosi di scritti di fatto inediti salvo il In nome del padre che è del 2005. Ma il problema ovviamente non è questo. C´è una stupefacente contiguità di pensieri e di giudizi tra questi due scrittori con una differenza: Kundera è Kundera e maneggia la scrittura da maestro. Del resto è il suo mestiere.
C'è un passo in cui Kundera riferisce d'un colloquio con un giornalista che voleva intervistarlo. Vale la pena di rileggerlo perché è la miglior descrizione dell'autonomia dell'arte che si possa dare. «"Lei è comunista, signor Kundera?" "No, sono un romanziere". "Lei è dissidente?" "No, sono un romanziere" "Lei è di sinistra o di destra?" "Né l'uno né l'altro. Sono un romanziere"». Così avrebbe risposto Bach a chi in un ipotetico aldilà gli avesse chiesto se si sentiva polifonico o classico o romantico o dodecafonico. «Sono un musicista». Avrebbe detto e come se lo era.
Castaldi - per tornare a lui - solleva a proposito dell'Arte della Fuga una questione delicata. Si pone il problema del razionalismo illuministico e dei possibili rapporti con la musica di Bach. Il periodo cronologicamente è il medesimo, a metà del secolo XVIII; la ragione illuminata ha un suo rigore e una sua secchezza, un suo esprits de geometrie che ricorda l'autore dei Brandeburghesi. Per di più la Fuga è coeva della Critica della Ragion Pura. Queste coincidenze e convergenze allarmano molto, a quanto capisco, Castaldi il quale nutre nei confronti degli Enciclopedisti una sorta di singolare idiosincrasia. Il suo Bach non può essere un materialista (e certo non lo era), tantomeno un arido razionalista (non mi pare che vi sia un pensiero bachiano sull'argomento). Ma può ben essere un "numerologo", un "matematico della musica" e questo è probabilmente vero, almeno nei limiti in cui anche le note sono numeri e sembra che Pitagora ne sia stato l'inventore.
Ma il nostro autore ha il culto del trascendente e del mistero e considera Bach come il musicista più rappresentativo di queste visioni. Può darsi e non può darsi. Comunque la musica è la musica. Che cosa pensasse Bach in materia filosofica e teologica non è di alcuna importanza. Noi valutiamo l'opera non è così? Che fa a meno del messaggio, non è questa l'Arte della Fuga e l'insieme dell'immensa produzione del maestro di cappella? E allora! (mi si perdoni l'esclamativo).
Vorrei piuttosto osservare che nelle numerose citazioni che costellano il saggio in questione, ne manca una e mi ha molto stupito: manca la citazione della grande "ciaccona" che chiude la Partita 2 in re minore, per "violino solo senza basso". Dove il contrappunto è presente perfino eseguito da un solo strumento che riesce a dar voce a due e a volte perfino tre temi melodici attraverso accordi arpeggianti, note alte e note basse ed altri accorgimenti tecnici che non sono soltanto esempi di bravura ma di altissima ispirazione musicale che, a mio avviso, non teme il confronto con l'Arte della Fuga se non per le diverse dimensioni delle partiture.
* * *
Dovrei ancora dire del saggio su Debussy e di quello, molto più contenuto perché già ampiamente trattato nel libro dell'anno precedente, su Stravinskij. Ma tralascio, sia per ragioni di spazio e sia perché si è già detto l'essenziale. Nel pensiero dell'autore sia Debussy sia Stravinskij appartengono allo stesso filone bachiano della de-soggettivizzazione musicale, della rinuncia al realismo, al messaggio, al contenuto. Infine, alla restituzione dell'Arte alla sua pura forma, "monotona" e proprio per questo di cosmica altezza. Non si parla nel linguaggio corrente di musica delle sfere?
Resta un punto però e lo affronta anche Kundera nel saggio che ho sopra ricordato. È il punto degli affetti. La musica non dovrebbe suscitare affetti? Non dovrebbe parlare soprattutto al cuore prima ancora che all´intelletto? Non è questa una posizione che sposta l'attenzione - e il valore - sulla musica romantica più che su altri momenti della storia dell'arte?
Castaldi pensa di no e anzi si rifiuta di giudicare la musica per la sua capacità di mobilitare gli affetti. E Kundera è all'unisono. Il loro comune avversario è Adorno, che Castaldi strapazza un po' troppo rudemente mentre Kundera strapazza con qualche riguardo. Il primo arriva al punto di indicare come capolavoro del teatro mozartiano il Così fan tutte che «per fortuna non fu dotato delle lusinghe librettistiche delle Nozze di Figaro e del Don Giovanni e poté così dispiegare la forza del grottesco e la perdita d'ogni contenuto che non sia la simmetria tra i quattro personaggi principali, i due di supporto e il gestore di quel balletto a contrappunto scenico». Quanto a Kundera, egli porta a titolo d'esempio Le sacre du printemps che riesce a dare per la prima volta forma musicale alla bellezza dei riti barbarici.
Concluderò dunque citando ancora Kundera. Me ne scuso con Castaldi, ma dicono con parole diverse la stessa cosa. Con la quale - per il nulla che può valere il dilettante che sono - concordo anch'io con la sola differenza che il "Romantik" è stato un grandioso periodo della storia della musica e in quella storia sta con la pari dignità del polifonico, del barocco, del classico, fino al moderno e poi al jazz. Dopo di che è cominciato l'estatico balbettio del rumore. E sotto al rumore, niente.
Scrive dunque Kundera: «Da sempre detesto profondamente e violentemente quelli che in un'opera d'arte vogliono trovare una posizione (politica, filosofica, religiosa) invece di cercarvi un'intenzione di conoscenza. In realtà il retaggio del romanticismo che ci portiamo dentro si ribella contro la sua più coerente e perfetta negazione. Stravinskij avrebbe dunque mortificato un bisogno essenziale insito in ciascuno di noi, il bisogno di preferire gli occhi umidi agli occhi asciutti, la mano posta sul cuore alla mano in tasca, la fede allo scetticismo, la passione alla serenità, la confessione alla conoscenza. Ma come si fa ad esser così sicuri che il cuore sia eticamente superiore al cervello? Non si commettono forse altrettante turpitudini con la partecipazione del cuore di quante si commettono in assenza di essa? Verrà mai il giorno in cui la faremo finita con questa ottusa inquisizione sentimentale, con questo Terrore del cuore?».
Personalmente mi commuovo perfino quando sento l'inno di Mameli o la Marsigliese, però col cervello sono d'accordo con Kundera e con Castaldi. Purché vengano salvati Mozart e Beethoven. Su tutto il resto sono con voi.

il manifesto 1.2.07
Sepoltura ai feti in Lombardia. Ed è bagarre
La norma contenuta in un regolamento per i cimiteri: obbligo di sepoltura anche al di sotto delle venti settimane. Vota anche la sinistra, poi si accorge della «forzatura». I Ds: solo una questione tecnica. Flamigni: così apriamo la strada a dittatura dell'embrione
di Eleonora Martini


L'hanno votato tutti, Ds e Prc compresi. Ma il giorno dopo, mentre la destra esulta e i movimenti pro-vita benedicono il governatore lombardo Roberto Formigoni, i futuri componenti del Partito democratico minimizzano e Rifondazione promette iniziative in Consiglio regionale per correggere la «forzatura» di cui sono stati inconsapevolmente veicolo. Stiamo parlando del nuovo regolamento varato martedì dalla regione Lombardia sulle attività funebri e cimiteriali che introduce l'obbligo della sepoltura per gli embrioni e i feti provenienti dagli aborti. Tutti gli aborti, fin dalla prima settimana di gravidanza. Per Formigoni gli embrioni, anche sotto la ventesima settimana, come prevede invece la legge vigente, devono essere sepolti nei cimiteri - sia pure in fosse comuni - e non trattati come «rifiuti ospedalieri speciali».
Sarà compito della direzione sanitaria ospedaliera «informare i genitori (non la donna, ndr) della possibilità di richiedere la sepoltura», recita il nuovo regolamento regionale. Ma nel caso di rifiuto da parte degli interessati a godere di tale opportunità - già prevista dalle norme nazionali - sarà l'ospedale stesso a provvedere al trasferimento in un'area cimiteriale «in analogia a quanto disposto per le parti anatomiche riconoscibili». Il «prodotto del concepimento», come lo chiama il provvedimento lombardo, anche quello proveniente dall'interruzione di gravidanza entro i termini previsti dalla legge 194, sarà quindi non più trattato al pari di un'appendice asportata o del sangue perso durante un'operazione, ma come un arto amputato o come un feto proveniente da aborto terapeutico praticato tra la 20a e la 28a settimana (termine entro il quale non c'è il dovere di registrazione all'anagrafe).
Obbligo di sepoltura - sepoltura di stato - a carico della pubblica amministrazione. Anche per donne non consenzienti. «Un altro passo verso la dittatura dell'embrione», lo definisce il professore bolognese di ostetricia e ginecologia Carlo Flamigni componente del Comitato nazionale di bioetica. «Sbaglia questa sinistra che pensa siano solo delle sciocchezze - continua Flamigni - perché il provvedimento risponde alla linea scelta dalla Chiesa di dare forza all'etica della verità anziché quella della compassione. Un'etica molto difficile da sostenere perché cozza con le verità degli altri». Eppure Flamigni ricorda che fino al 1600 la dottrina ecclesiastica dell'ilomorfismo non riconosceva l'anima ai feti che non avevano ancora acquisito sembianze umane. E, non essendo pari agli uomini, non potevano ricevere i sacramenti. «Inoltre l'aborto scelto o subito dalla donna - conclude Flamigni - è diventato, con le nuove tecnologie in grado di far sentire il battito cardiaco e di fotografare l'embrione, un problema psicologico molto più grave di quello di 20 anni fa. Non capisco perché aumentarne il grado di sofferenza». E se la radicale Donatella Poretti chiede l'intervento del governo e della magistratura su quello che definisce «una misera imitazione dei fondamentalismi cristiani», la consigliera regionale Ardemia Oriano (Ds) minimizza il suo voto favorevole e assicura che «la legge 194 non viene messa in discussione». D'accordo con lei anche Alessandra Kustermann, responsabile del reparto patologia fetale del policlinico milanese Mangiagalli: «Non vedo il problema. Le donne che hanno abortito volontariamente non saranno certo preoccupate che il loro grumo di sangue e placenta vada a finire in una fossa biologica. Mi sembra più grave invece il cimitero degli embrioni, scartati dalle fecondazioni artificiali e che non potranno essere mai più utilizzati, creato in applicazione della legge 40». Eppure il problema c'è se il Movimento per la Vita Ambrosiano esulta insieme a tutta la destra: «Un regolamento atteso da anni che restituisce al feto la dignità di persona». «Etica di regime» la definisce il ginecologo del Sant'Anna di Torino ed esponente radicale Silvio Viale: «Un tentativo di ridurre la libertà di scelta e l'anonimato della donna garantiti dalla legge 194, e di introdurre surrettiziamente lo stato giuridico dell'embrione». Ma, conclude Viale, da Milano viene anche una buona notizia: «La richiesta di archiviazione del caso del professor Nicolini accusato per aver fornito in 53 casi un farmaco abortivo sostitutivo della Ru486. L'aborto farmacologico è legale in Italia, e sarà difficile rintracciare qualcosa da seppellire».

il manifesto 1.2.07
Tutti pensano in termini di transizione ma è ora di ridefinire sia il concetto di capitalismo, che quelli di socialismo e di democrazia
Un potere machiavellico dietro la Grande Muraglia
Incontro a Pechino con il teorico della politica Cui Zhiyuan, esponente della «nuova sinistra». L'ideologia socialista - dice - è un fattore importante, soprattutto per la sua valenza simbolica: serve alle forze sociali per nutrire di ideali le loro richieste e agisce come deterrente agli abusi di potere del partito Difficile che possa ripetersi un'altra Tian Anmen, dice Cui Zhiyuan: i molti uomini d'affari che allora erano a fianco degli studenti oggi non sosterrebbero le
di Angela Pascucci


Cos'è oggi la «nuova sinistra»? Compito arduo rispondere, persino nell'emisfero occidentale. Figuriamoci in Cina, dove la storia si è incaricata di dare al termine «sinistra» una connotazione tutta sua e, tra gli strati più popolari, fortemente di destra. Destino inevitabile, del resto, quando a dettare le regole è un partito che si dice comunista.
Sta di fatto che la «nuova sinistra» cinese ha alla fine accettato con riluttanza tale etichetta, anche perché quella di «intellettuali critici», di gran lunga preferita per gli echi profondi suscitati nell'immaginario, poco diceva al mondo, sulla cui scena l'intellighenzia cinese ha oggi voglia di intervenire.
Cui Zhiyuan, professore di Politica pubblica e Management alla Università Tsinghua di Pechino ci racconta la sua entrata nella New Left. Accadde nel 1994, quando gli capitò di invitare Robin Blackburn, l'allora direttore della «New Left Review», storica rivista della sinistra inglese, a una conferenza internazionale a Pechino. Le complicanze della burocrazia impedirono a Blackburn di partecipare ai lavori ufficiali e la sua presenza si limitò agli incontri informali a latere. Ma ciò bastò perché un giornalista del Quotidiano della Gioventù di Pechino, organo ufficiale assai influente, afferrasse il termine «New Left» e lo estendesse a tutti, annunciando l'emergere di una «nuova sinistra» cinese, avvenimento al quale il giornale della gioventù dedicò persino un editoriale.
Un termine soggetto a confusione
In realtà, non era sfuggito agli occhiuti osservatori dell'establishment politico che già all'inizio di quell'anno Cui aveva pubblicato su una rivista di Hong Kong, «Ventunesimo Secolo», un articolo dove affermava la necessità di procedere a una «seconda liberazione del pensiero», perché la prima, avviata nel 1978 con la politica di riforme economiche e di apertura al mondo, pur essendo stata cosa buona, era diventata a sua volta dogmatica e poco feconda. Quello fu l'inizio, anche se il segnale che una nuova formazione intellettuale era nata arrivò più tardi, nel 1997, con la pubblicazione sulla rivista «Tianya» del saggio di Wang Hui sul «pensiero cinese contemporaneo e la questione della modernità» (contenuto nel libro di Wang Hui Il nuovo ordine cinese edito da Manifestolibri).
Che alcuni giovani comunisti parlassero di «nuova sinistra» era, già nel 1994, di per sé un po' malizioso, fa capire Cui Zhiyuan. Nel contesto cinese di oggi, la «sinistra», quando non agita tra gli intellettuali l'inquietante e aborrito fantasma del «radicalismo», viene associata a una posizione conservatrice, nostalgica dei vecchi tempi e dunque contraria alle riforme. Naturalmente, l'intento di Cui era esattamente l'opposto. Cercò di dissipare la confusione cui diede adito il termine «sinistra» spiegando, a chi lo interrogava, che poteva essere per lui accettabile il significato originario coniato dall'Occidente durante la Rivoluzione francese, quando i rappresentanti del popolo sedevano alla sinistra del re mentre aristocrazia e clero si ponevano alla destra.
Profilo di un giovane intellettuale
Poco più che quarantenne, folti capelli sale e pepe che cadono sistematicamente sugli occhi per essere rimossi con un gesto da nervoso adolescente, il professore della Tsinghua anche fisicamente fa parte di una nuova generazione di intellettuali cinesi che non è forzato definire «globali» e che smentiscono lo stereotipo di un mondo asfittico e prigioniero. Quando lo abbiamo incontrato, a Pechino, Cui era appena rientrato dalla Corea del sud dove era stato chiamato per partecipare a un seminario internazionale sulle tensioni nella penisola coreana e stava preparando il suo nuovo viaggio negli Stati Uniti dove in primavera, alla Cornell Law School, terrà lezioni e seminari sul sistema legale cinese. Cui, collega, sodale e amico di Wang Hui con cui ha lavorato «sul campo» aiutando gli operai di Yangzhou (città natale di Hui) a organizzare la resistenza contro la privatizzazione della loro fabbrica, ha riferimenti teorici molto vasti e una formazione maturata soprattutto negli Stati Uniti, dove per sei anni, dal 1995 al 2001, è stato Assistant Professor di Scienze politiche al Massachusetts Institute of Technology. Si sente dunque parte di un universo culturale più esteso di quello cinese, anche se l'ancoraggio alle radici è fortissimo ed è in questo ambito che Cui muove la sua elaborazione più originale, incardinata nel bisogno di inventiva istituzionale e teorica. Con il suo articolo su «Ventunesimo Secolo» - spiega - intendeva proprio questo: andare verso una fase di innovazione istituzionale che ricrei dalle fondamenta il sistema. In Cina, certo, ma anche in Occidente. Tutti - dice - pensano in termini di transizione da un sistema all'altro, prefissando già l'obiettivo. Ma sia esso il capitalismo, il socialismo o la democrazia, l'obiettivo viene pensato come corrispondente a un concetto già dato, mentre sarebbe tempo di ridefinirlo, perché solo così si potrà rinnovare in modo radicale il sistema istituzionale: un lavoro che deve essere «open ended», aperto a sbocchi diversi.
È evidente come solo a occhi esterni appaia paradossale il fatto che Cui Zhiyuan abbia preferito misurarsi con le sfide imposte dalla transizione cinese, un buon campo d'azione per la sua visionarietà, quando avrebbe potuto restare forse per sempre negli Stati Uniti. Non a caso, dunque, richiesto di un giudizio sul presente, stretto tra lotta alla corruzione e leggi per ridistribuire il reddito in favore dei contadini e delle fasce più sfavorite, si proclama «cautamente ottimista»; perché - dice - «la situazione è molto fluida. È come sparare a un bersaglio mobile, dunque non ha senso generalizzare. Tutto può accadere: il peggio e il meglio.
Per spiegare le dinamiche in corso fra i diversi attori della transizione cinese, partito, governo, gruppi di interesse, società, Cui Zhiyuan fa ricorso a Machiavelli e al sistema fluido di alleanze del Principe che, a seconda delle convenienze e delle necessità, si allea ora con l'aristocrazia ora con il popolo.
In Cina oggi il Principe è costituito dal governo centrale, dal Politburo del partito, dalla leadership di Hu Jintao e Wen Jiabao. L'aristocrazia è rappresentata dai governi locali e dai forti gruppi di interesse economico. E poi c'è il popolo. Meglio ancora della dialettica società-stato (e Cui Zhiyuan cita come riferimento teorico Norberto Bobbio) è questa complessa triangolazione che può dare conto di quanto accade oggi in Cina, aggiunge ancora il professore della Tsinghua. I vertici politici, indicando la «società armoniosa» come loro obiettivo - spiega Cui - dichiarano la loro alleanza con il popolo contro i pochi. L'equilibrio è molto difficile da ottenere, dato il contrasto tra i diversi interessi in campo, e occorre che il Principe sia illuminato, che agisca accortamente e che abbia forza e inventiva - precisa Cui Zhiyuan. A proposito delle rivolte rurali, dice: «Molti mi chiedono se queste proteste faranno cadere il governo centrale. La mia risposta è no, perché di fatto quasi tutti quelli che protestano fanno riferimento alle leggi emanate dal governo centrale che le autorità locali non applicano o violano». Questa, per Cui, è la parte buona che tuttavia potrebbe volgere al peggio se, al di là delle alleanze, la politica non sarà efficace e innovatrice e non manterrà le promesse di beneficiare davvero la maggioranza dei cinesi. Le proteste potrebbero allora moltiplicarsi e i vertici potrebbero, per paura, allearsi di nuovo con l'oligarchia.
La Cina, oggi, è in balia di questi flussi, occorre dunque osservare attentamente quel che accade, le dinamiche tra decisioni concrete e movimenti di base, che pure cominciano ad esistere. Un momento come quello attuale ha un precedente nella storia cinese del '900: la Rivoluzione culturale, che vide Mao tentare di allearsi con la base contro la burocrazia del partito. Non andò come si era sperato. Per questo, dice Cui, non possiamo ancora dare giudizi precisi, dobbiamo restare in osservazione: guardare, per esempio, a quanto è accaduto quando sono state abolite le tasse agricole. Uno dei primi effetti è stato che molti contadini, migrati in altre parti del paese perché non ce la facevano a vivere del lavoro della terra, sono tornati ai luoghi d'origine. Nel Guangdong o nel Fujian, aree di massimo sviluppo, dove i salari erano molto bassi e non conoscevano aumenti da dieci anni, molti si sono chiesti perché continuare a vivere in condizioni miserabili; così hanno deciso di tornare a casa e con i loro magri risparmi hanno avviato nuove attività nei villaggi. Di conseguenza le imprese si sono ritrovate per la prima volta di fronte a una diminuzione della manodopera disponibile a buon mercato: hanno perciò dovuto aumentare i salari, alzare il livello della tecnologia, oppure muoversi verso zone meno sviluppate. Nessuno, nemmeno il governo, aveva previsto tutto ciò, ma è quello che è accaduto, sostiene Cui. Qualcuno però ci ha rimesso. I governi locali, con l'abolizione delle tasse, hanno visto diminuire drammaticamente le loro entrate. Alcuni balzelli erano davvero vessatori, tuttavia la loro cancellazione ha prosciugato le casse, con immaginabili problemi, anche di corruzione.
Cui fa ancora un esempio, parlando della dinamica avviata dall'equiparazione fiscale fra imprese cinesi e imprese straniere, che sin dall'inizio della politica delle riforme hanno goduto di agevolazioni e di notevoli sgravi fiscali. Ma il tentativo di riportare in equilibrio la situazione ha provocato un putiferio e un'intensa opera di lobbying politica delle multinazionali, che l'anno scorso sono riuscite a bloccare il passaggio della legge all'Assemblea del popolo. Solo temporaneamente, però. La legge entrerà in vigore, anche perché lo richiedono le norme del Wto.
Tra azioni, reazioni e difficili equilibri, alcuni in Occidente vedono però profilarsi un'altra Tian Anmen: Cui Zhiyuan lo ritiene molto difficile. Tanta acqua è passata sotto i ponti della storia, sia pure in un tempo relativamente breve, e le dinamiche sociali sono profondamente cambiate. Allora molti uomini d'affari erano a fianco degli studenti, mentre oggi sostengono di più il partito e non appoggerebbero mai simili proteste. Quanto agli studenti, sono troppo impegnati a trovare un lavoro e molto presi da preoccupazioni individuali. Vedere nel futuro cinese è dunque impossibile, e configurare lo scenario delle prossime evoluzioni è una sfida alla quale il giovane teorico della politica si sottrae, perché non accetta che si possa presupporre una realtà già definita. Molti chiedono a Cui Zhiyuan: cosa dovrebbe diventare il Pc cinese? Un partito socialdemocratico? Magari cambiando nome come il Pc italiano? Questioni poco utili, secondo lui, perché presuppongono concetti nei quali resteremmo intrappolati. In Cina a un certo punto si è posta la questione del «nome S» (dove S sta per socialismo) e del «nome C» (dove C sta per «capitalismo»). L'inventiva istituzionale di Cui però ne prescinde: per lui la Cina è un terreno ideale, fertile, per ripartire verso il mondo nuovo. Anche se ha una struttura fatta di società private molto attive, il paese ha mantenuto nei settori strategici una notevole ossatura di imprese industriali statali (centosessantuno sono oggi quelle amministrate centralmente: ma secondo un annuncio arrivato dopo il colloquio con Cui entro il 2010 saranno consolidate con un processo di ristrutturazione che le ridurrà a un centinaio). La maggior parte delle imprese pubbliche, poi, incassa profitti enormi. Anche la terra e le risorse naturali sono ancora di proprietà pubblica, la più grande del mondo; ma essa - sostiene con decisione Cui - non va intesa come un fardello, bensì come una enorme potenzialità.
Nelle vesti dell'avvocato del diavolo, facciamo presente a Cui Zhiyuan che uno dei grandi problemi della contemporaneità cinese sta proprio nella gestione dei monopoli, che si considerano potentati autonomi e ridistribuiscono le risorse accumulate al proprio interno con lauti stipendi, ignorando il «bene comune». Cui lo riconosce ma risponde che, anche in questo caso, il governo centrale sta cercando di mettere le corporazioni statali sotto controllo, imponendo ristrutturazioni, tetti agli stipendi e versamenti alle casse del Tesoro centrale. Quindi si può benissimo andare oltre. Lo fa l'Alaska, dice, dove le risorse sono di proprietà pubblica e le royalties versate dalle compagnie petrolifere per sfruttare i giacimenti vanno in un fondo permanente del popolo, il quale investe e ridistribuisce i profitti sotto forma di dividendi sociali. La Cina potrebbe fare anche meglio. Il professore non ha dubbi.
Un'ideologia foriera di doveri
In tutto questo, che ne è stato della mitica classe operaia? La risposta di Cui Zhiyuan riflette, ancora una volta, tutta la complicazione del presente cinese: «i lavoratori urbani, dice, protestano per i loro interessi materiali, ma la rivendicazione economica non conduce automaticamente alla protesta politica». In questo senso, argomenta, è importante che il Pcc preservi la sua ideologia perché costituisce un'autocostrizione e lo obbliga a rappresentare i lavoratori in quanto «avanguardia della classe operaia». Sembra un'enormità anche a lui, tanto che ride mentre lo dice; ma prosegue ragionando sul fatto che nel Pcc sono presenti molti fattori contraddittori, di cui bisogna osservare l'evoluzione. Cui non ritiene l'ideologia socialista professata dal partito una barzelletta o un enunciato di pura facciata, a prescindere persino da quel che ne pensano molti suoi membri o dirigenti. Può sembrare singolare, dice, ma anche se nessuno la prendesse sul serio avrebbe comunque un valore simbolico, dunque un potere costrittivo. Paradossale, ammette, ma vero. L'elemento simbolico, insiste, è importante. Le forze sociali ci credono e lo usano per promuovere i propri interessi sostanziali. Così gli operai protestano e dicono: noi siamo i padroni del paese perché il Pc è il partito della classe operaia, è il nostro Partito, e noi non gli andremo contro. E dall'altra parte, il più delle volte si è costretti a elargire qualche concessione; talvolta ci sono episodi di repressione violenta, ma diventano difficili da sostenere.

il Riformista 1.2.07
Così il quotidiano di De Benedetti ha finito col servire un assist perfetto all'odiato cavaliere
Cara Repubblica, te lo meriti tutto Berlusconi
L'enfasi data alla lettera evidenzia una sconcertante sublaternità culturale del giornale che vuole cambiare il Paese


C'è un caso Lario-Berlusconi. Ma, almeno ai nostri occhi, c'è anche, enorme, un caso Repubblica. E cioè il caso di un giornale che ha pubblicato la lettera della signora Lario così come la ha pubblicata ieri Repubblica. Titolo e alcune righe in apertura di prima, e poi un'intera pagina, la quarta, a caratteri grossi grossi, tipo quelli di una pubblicità a pagamento di un formaggino o della Toyota Corolla, sotto una grande foto dell'autrice. Con tutto il rispetto per l'Emmenthal e la Toyota, non è bello. Non si fa. Tant'è vero che non si era mai fatto, almeno sui giornali italiani, pure ricchissimi di imbarazzanti precedenti in fatto di servilismo verso i potenti di turno e corrività nei confronti di quanto si muove nel ventre dell'opinione.
Una caduta di stile? Peggio. È una patetica dichiarazione di resa a quel certo spirito pubblico e a quel modo di intendere la politica della lotta contro i quali il quotidiano che fu di Eugenio Scalfari e ora è di Ezio Mauro ama farsi paladino. Di più. È un esempio sconcertante di subalternità non solo culturale ma anche, per paradossale che possa sembrare la cosa, politica. Basta guardare alla cronaca. La lettera di pubbliche scuse di Silvio Berlusconi è arrivata, puntuale, nel giro di poche ore. Non sappiamo se oggi Repubblica le darà lo stesso rilievo offerto ieri alla missiva della signora Lario. Ci è già chiarissimo, però, che l'opinione pubblica (probabilmente non solo quella di centrodestra) la ha accolta con un atteggiamento di benevola curiosità. Berlusconi ha fatto gol, Repubblica gli ha servito l'assist.
Intendiamoci. La lettera, che evoca temi prossimi a quelli solitamente sollevati nelle procedure di divorzio, era di per sé una notizia, e anche clamorosa. Il quotidiano della tessera numero 1 del Partito democratico aveva il diritto e il dovere di pubblicarla, anche con grande rilievo. Ma il modo in cui ha scelto di farlo, l'inappropriatissima enfasi con cui ha colorato il suo farsi cassetta di opinioni, sensibilità e magari operazioni altrui getta un'ombra scura sui dichiarati buoni propositi del giornale che si fa voce del partito che dovrebbe rinnovare l'Italia e la sua vita pubblica, e che non ha fatto passare un giorno senza tuonare contro il berlusconismo e i danni che questo ha diffuso nel corpo della nostra società.

il Riformista 1.2.07
Il Vaticano e la bioetica del professor Ratzinger
di Paolo Rodari


Procedono in Vaticano, negli uffici della Congregazione per la dottrina della fede, i lavori preparatori di un documento dedicato alla bioetica, alla biogenetica e, in particolare, alla protezione dell’embrione. Le pagine del documento, via via che vengono ultimate, sono sottoposte all’attenzione del pontefice, ma quanto alla data di pubblicazione ancora nessuno si sbilancia.
La conferma della notizia, che circolava già da qualche mese, è stata data quattro giorni fa dal segretario della stessa Congregazione: monsignor Angelo Amato, il presule salesiano 69enne che ha mantenuto il ruolo di segretario dell’ex Sant’Uffizio anche dopo che Ratzinger è salito il 19 aprile 2005 al terzo piano del palazzo apostolico. Un ruolo delicato il suo, soprattutto perché è toccato a lui aiutare - non senza difficoltà - lo statunitense cardinale William Levada (il successore di Ratzinger alla dottrina della fede) a entrare nei meccanismi della curia romana e nel merito dei lavori di una tra le congregazioni più prestigiose di Santa Romana Chiesa.
Con il documento in uscita, l’intento del Vaticano è quello di attualizzare e integrare l’istruzione Donum Vitae firmata da Ratzinger il 22 febbraio del 1987 e dedicata al rispetto della vita umana nascente e alla dignità della procreazione. E, di più, l’auspicio è di offrire una parola sicura - e in qualche modo definitiva - su una materia vasta e che negli ultimi tempi ha portato varie personalità della Chiesa a uscire con dichiarazioni non del tutto gradite nelle alte stanze della Santa Sede. Anche perché - è questo il pensiero di Amato - se c’è una congregazione indicata a riportare il punto di vista della Chiesa su questi argomenti, è proprio l’ex Sant’Uffizio.
Lo ha anche detto esplicitamente lo stesso Amato quattro giorni fa, intervenendo con parole dure su Avvenire: «Lo studio di argomenti così delicati è di competenza della nostra congregazione che poi sottopone i suoi lavori al papa». «E, quindi, le opinioni su questi temi provenienti da altre pur rispettabili istituzioni o personalità ecclesiastiche non possono avere quella autorevolezza che a volte i mass media sembrano voler riconoscere».
Tra gli ultimi interventi significativi di esponenti ecclesiastici, è senz’altro da segnalare l’uscita del cardinale Martini di nove mesi fa sull’Espresso - più ampia, per contenuti, dell’articolo apparso a sua firma il 21 gennaio scorso sulla pagina domenicale de Il Sole 24 Ore - in cui l’ex arcivescovo di Milano spiegò come molte questioni che riguardano la nascita e la fine della vita sono «zone di frontiera o zone grigie dove non è subito evidente quale sia il vero bene». Quindi - disse - «è buona regola astenersi anzitutto dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenità, così da non creare inutili divisioni». Martini, aveva parlato anche dell’uso del preservativo quale «male minore» se esso impedisce il contagio mortale dell’Hiv.
Dello stesso argomento, lo scorso novembre, aveva parlato il cardinale Havier Lozano Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la salute. Quest’ultimo aveva sbandierato l’uscita di un dossier, realizzato a suo dire su indicazione di Benedetto XVI e redatto con l’ausilio sia di scienziati che di teologi, relativo ad alcune indicazioni circa l’uso del preservativo.
Monsignor Amato, nell’annunciare l’uscita del documento ufficiale del Vaticano dedicato alla bioetica, non ha citato esplicitamente i nomi di quelle «pur rispettabili istituzioni o personalità ecclesiastiche» che non avrebbero l’autorevolezza per parlare su tali tematiche. Tuttavia, quattro giorni fa, intervenendo sempre sul quotidiano dei vescovi italiani, i riferimenti sono apparsi tutt’altro che oscuri: «La Donum Vitae - ha spiegato Amato parlando dell’istruzione, firmata da Ratzinger, che il nuovo documento in uscita andrebbe a implementare - conserva tutto il suo valore e per certi versi è profetica. Il problema è che nonostante abbia vent’anni è ancora scarsamente conosciuta». Quindi - ed è qui il passaggio più significativo - la questione non è, ad esempio, una revisione della dottrina morale riguardo la liceità del profilattico, che non mi sembra all’ordine del giorno, quanto invece nuove sfide per certi versi ben più gravi e disgregatrici dell’identità della persona umana, come quella del concepito che viene considerato come prodotto biologico e non come essere umano».

Repubblica.it 1.2.07
Ordine unanime sul caso del medico che staccò il respiratore
Il verdetto nella notte dopo l'audizione del dottor Mario Riccio
Welby, archiviazione per l'anestesista
"Non violò il codice deontologico"
Il medico: "I pazienti possono sospendere una terapia anche salvavita"
La moglie di Piergiorgio: "Ha aiutato mio marito ad avere una morte serena"


CREMONA - L'Ordine dei medici di Cremona ha deciso l'archiviazione del procedimento disciplinare a carico di Mario Riccio, l'anestesista che il 20 dicembre scorso aiutò Piergiorgio Welby a morire staccandogli il respiratore che lo teneva in vita. Nella lunga riunione di stanotte, i colleghi di Riccio hanno stabilito che non c'è stata violazione del codice deontologico. "Oggi si apre il caso Welby", ha commentato l'anestesista. "Dal punto di vista deontologico c'è stata la conferma che i pazienti possono sospendere una terapia, anche quelle salvavita". "Contenta" del verdetto si dice anche Mina, la moglie di Piergiorgio Welby: "Me l'aspettavo. So che imedici sono rigorosi in quello che fanno e tra di loro: sono contenta che sia finita così. Il dottor Riccio - ha aggiunto - ha aiutato Piergiorgio ad avere una morte serena".
Il verdetto dell'Ordine dei medici è stato raggiunto all'unanimità nella nottata dalla commissione disciplinare alla quale Riccio era stato rinviato lo scorso 27 dicembre dopo un primo lungo colloquio con il presidente dell'Ordine Andrea Bianchi. In quel faccia a faccia, Bianchi aveva potuto ascoltare la ricostruzione fornita dall'anestesista che per avallare le sue azioni aveva consegnato al presidente alcuni documenti e un diario (una sorta di cartella clinica di tre pagine) sul caso Welby.
Al termine dell'incontro Bianchi però non si era sentito di prendere una decisione "in quanto il rinvio alla commissione su un caso delicato e complesso è un atto dovuto". La commissione si è riunita due volte: la prima il 26 gennaio, la seconda ieri alle 21. Attorno a mezzanotte i 15 membri sono arrivati alla decisione unanime di archiviare il caso.

Corriere.it 1.2.07
Caso Welby. Nessuna misura contro l'anestesista

L'ordine dei medici di Cremona ha deciso l'archiviazione del procedimento disciplinare a carico di Mario Riccio, l'anestesista che il 20 dicembre scorso aiutò Piergiorgio Welby a morire staccandogli il respiratore che lo teneva in vita; nella lunga riunione di mercoledì notte, i colleghi di Riccio hanno infatti stabilito che non c'è stata violazione del codice deontologico.
Il verdetto è stato raggiunto all'unanimità nella nottata dalla commissione disciplinare alla quale Riccio era stato rinviato lo scorso 27 dicembre dopo un primo lungo colloquio con il presidente dell'Ordine, il dottor Andrea Bianchi.
In quel faccia a faccia Bianchi aveva potuto ascoltare la ricostruzione fornita dall'anestesista che per avallare le sue azioni aveva consegnato al presidente alcuni documenti e un diario (una sorta di cartella clinica di tre pagine) sul caso Welby. Al termine dell'incontro Bianchi però non si era sentito di prendere una decisione 'in quanto il rinvio alla commissione su un caso delicato e complesso è un atto dovutò.
La commissione si è riunita due volte: la prima il 26 gennaio, la seconda ieri alle 21. Attorno a mezzanotte i 15 membri dopo avere preso in cosiderazione diversi punti, tra cui la volontà del paziente, sono arrivati alla decisone unanime di archiviare il caso.

mercoledì 31 gennaio 2007

Il Sole 24Ore 29.1.07
Adolescenza difficile. Prescrizioni in aumento
«Antidepressivi ad alto rischio»
di Sara Todaro


«Cure su misura non ce ne sono: per migliaia di minori i trattamenti con antidepressivi e psicofarmaci sono ad alto rischio». Maurizio Bonati (Laboratorio materno-infantile dei Mario Negri di Milano) e gli esperti dell'istituto superiore di Sanità (Iss) hanno rilanciato l'allarme sul rapporto tra bambini e psicofarmaci proprio in occasione dell'entrata in vigore dei nuovo Regolamento Ue sulle cure baby.
«Dal 2000 a oggi spiega Bonati il consumo di questi prodotti tra bambini e adolescenti tra 7 e 14 anni è più che triplicato. E gran parte dei 30mila ragazzi in terapia riceve cure "off label", non testate per questi pazienti, col rischio di veder aumentare effetti collaterali gravi o gravissimi, come i disturbi cardiovascolari e l'induzione al suicidio».
Le statistiche sono allarmanti: in Italia. su 1 milione e 500mila minori tra 0 e 17 anni, assume antidepressivi il 2,2 per mille dei maschi e il 2,6 per mille delle femmine; il consumo aumenta tra gli adolescenti. Secondo un recentissimo studio dell'Oms nel resto del mondo non va meglio: soffrono di disturbi depressivi 48 adolescenti su cento.
Le cure? Restano per adulti. «Solo di recente l'Emea (Agenzia Ue dei medicinali) ha riconosciuto l'indicazione pediatrica di un prodotto usato nella terapia, in corso di registrazione anche in Italia», dice il presidente dell'lss, Enrico G araci.
Ma sugli altri fronti si naviga a vista: «C'è addirittura da far ordine nele schede tecniche dei prodotti in commercio», sottolinea ancora Bonati, convinto che serve « un Registro nazionale e un piano terapeutico per tutti gli psicofarmaci somministrati ai minori». Il primo di questi Registri sarà inaugurato a febbraio, quando l'Agenzia italiana dei farmaci (Aifa) dovrebbe dare il via libera al ritorno in Italia del metilfenidato (Ritalin), farmaco per il trattamento dell'Adhd ( deficit di attenzione e iperattività) che riguarda in Italia tra il 2 e il 4% dei bambini in età scolare. L'annuncio ha fatto subito riesplodere le polemiche sui possibili abusi. «Il registro garantirà accuratezza diagnostica e appropriatezza il farmaco potrà essere prescritto sob nei centri H riferimento indicati dalla Regione», assicura Stefano Vella (dipartimento farmaci dell'Iss). Ma Bonati spezza ancora una lancia a favore di pazienti e famiglie: «Le reazioni emotive derivano anche da carenze organizzative e politiche». «L'adolescente psichiatrico conclude l'esperto è terra di nessuno: i Piani sanitari nazionali e il Piano maternoinfantile non se ne occupano; ii Piano salute mentale vi dedica poca attenzione. E non c'è nessun sostegno alle famiglie che addirittura, da una AsI all'altra, rischiano di essere discriminate ediritrovarsi costrette a sostenere il costo di costosi cicli di cura».

l’Unità 31.1.07
Ecco perché il volto è lo specchio dell’anima
di Eugenio Borgna


FOLLIA E CREATIVITÀ Nel nuovo lavoro di Eugenio Borgna, Come in uno specchio oscuramente, la sofferenza e le sue espressioni: dai ritratti di Francis Bacon ai versi di Sylvia Plath, dalle figurine di Alberto Giacometti alle poesie di Emily Dickinson

Nella mostra, che si è tenuta a Milano (a Palazzo Reale) nel 1998 (L’Anima e il Volto), il tema delle connessioni fra l’anima e il volto, fra gli stati d’animo, le emozioni, e le loro espressioni nel silenzio dei volti, si è venuto splendidamente delineando.
Le emozioni, la schiera infinita delle emozioni, solcano i volti nella vita quotidiana di ciascuno di noi, e nella vita dell’arte; e ne illustrano, o ne oscurano, le espressioni.
Nel catalogo della mostra è possibile cogliere il flusso ininterrotto delle emozioni, della gioia e della tenerezza, della tristezza e dell’angoscia, dello smarrimento e della desolazione, della inquietudine del cuore e del tædium vitæ, della nostalgia e delle intermittenze del cuore: in un inaudito carosello di emozioni forti e di emozioni deboli.
In ogni caso, vorrei ora riflettere sulla fenomenologia dei volti dipinti da Francis Bacon: nei quali si intravedono immediatamente il dolore e la lacerazione dell’anima che rinascono dai lineamenti disfatti e infranti, sfigurati e accecati: nei vortici di un’angoscia che toglie luce agli occhi: bruciati dal deserto della disperazione. Nei volti slabbrati e nei corpi raggrumati di Francis Bacon si riflettono le ombre roventi di un mondo, il mondo in cui viviamo e in cui siamo immersi, divorato dal deserto della speranza e dalla paura; e la paura non ci dà tregua: ci insegue e ci assedia, ci contagia e ci oscura, al di là di ogni conflitto e al di là di ogni libertà esteriore. La materia pittorica si scioglie, e sembra liquefarsi, trascinando con sé la indefinibilità e la indistinzione dei corpi e dei volti che ne risultano deformati e segnati dai bagliori della paura e della angoscia, della angoscia della morte, che accendono torce effimere nella notte delle emozioni. La paura e l’angoscia della morte sono così le sole emozioni che rinascano dai suoi ritratti e dai suoi autoritratti, dai vortici insondabili delle sue figurazioni corporee che nel loro nocciolo segreto e scarlatto si perdono nel disfacimento e nel silenzio. Nei dipinti di Bacon, in questi volti e in questi corpi, non si rispecchiano solo la paura e l’angoscia individuali (personali) ma anche quelle sociali: delle comunità lacerate e sfiorate ogni volta, oggi come allora, dalla aggressività e dalla violenza che Bacon sembra quasi prefigurare e anticipare con le folgorazioni conoscitive e interpretative della sua grande arte.
Sono volti e sguardi, quelli di Bacon, che testimoniano di un dolore e di una solitudine senza fine, di una angoscia lacerante e devastante, e che sono profondamente diversi da quelli ricolmi della luce, anche se umbratile e spezzata, di Giacometti. I volti di Bacon sembrano davvero riflettere in sé le ombre fatali di un secolo schiacciato dalla distruzione e dalla morte, dalla inaudita violenza ideologica che ha falciato le esistenze più deboli e più fragili; e in questo senso sono immagini figurative che non ci faranno dimenticare gli orrori della violenza. I volti e gli sguardi (le figure slanciate e inafferrabili) di Giacometti rinascono, certo, da una comune sorgente di dolore e di tristezza, e anche di angoscia, ma nondimeno sono aperti alle attese e alla speranza: alla attesa di qualcosa che dia un senso alla vita vissuta come solidarietà e partecipazione: come trascendenza. Sono volti e sguardi che ridicono la problematicità e le ambivalenze della vita: senza sprofondare negli abissi della disperazione.
(Il tema senza fine dei volti e degli sguardi, delle loro espressioni pittoriche e plastiche, aiuta la psichiatria a ripensare alle sue radici fenomenologiche e antropologiche: che sono, almeno in parte, comuni anche alle discipline artistiche nelle quali ci confrontiamo con il nocciolo eidetico delle cose.)
Nel contesto delle interviste, che da David Sylvester sono state fatte a Francis Bacon, vorrei ricordare le cose ardenti e inquietanti che egli ha detto rispondendo ad una domanda sulle ragioni della ossessionante ripetizione dell’angoscia e dell’orrore nelle tante opere dedicate al grido. «Si può dire che un grido sia un’immagine d’orrore, ma io ero in realtà interessato a dipingere il grido più che l’orrore. Penso che, se avessi davvero riflettuto su ciò che induce una persona a gridare, il grido che tentavo di dipingere ne sarebbe risultato molto più efficace. In un senso, avrei dovuto essere più consapevole dell’orrore da cui nasceva il grido. Le mie immagini erano in realtà troppo astratte». Invitato a dire qualcosa sulla continua raffigurazione di Innocenzo X, ridisegnato a partire dal quadro di Velázquez, Bacon dice: «Quando ho dipinto il papa che grida, non era quello che mi ero prefisso di fare»; nel senso che: «quando dipinsi il papa che grida volevo in realtà fare tutt’altro: volevo dipingere una bocca con la bellezza del suo colore e tutto il resto, che fosse come un tramonto di Monet, non intendevo fare solo un papa che grida». Certo, in Bacon il volto e il corpo gridano nel fiume dell’angoscia; ma in modi molto diversi da quelli che riemergono dalle opere di Edvard Munch.
Nel corso dell’intervista Francis Bacon parla anche degli influssi che la poesia ha avuto sulla sua vita artistica. «Penso sempre di essere stato influenzato da Eliot. La terra desolata, soprattutto, e le poesie che l’hanno preceduta mi hanno sempre molto emozionato. Leggo spesso anche i Quattro quartetti, e penso che siano forse poesia ancora più grande della Terra desolata, anche se non mi toccano nello stesso modo. Ma ho raramente creato qualcosa ispirandomi direttamente a particolari versi o poesie. Li ammiro, mi stimolano e mi incitano a tentare e a lavorare molto di più. È questo il modo in cui m’influenzano». Non solo dalla poesia di Thomas Stearns Eliot egli dice di essere stato influenzato ma anche da quella di William Butler Yeats: il grande poeta irlandese. «Sono stato molto toccato anche da numerose poesie di Yeats. Forse una delle cose che più ammiro in Yeats è il modo in cui ha lavorato su se stesso - forse è stato sempre un poeta straordinario, ma mi sembra che abbia lavorato su se stesso in un modo davvero eccezionale».
La poesia e la pittura, allora, che si intrecciano lungo sentieri misteriosi e nondimeno affascinanti, e rivelatori di enigmatiche comuni risonanze emozionali e creative.
Ci sono alcune altre belle considerazioni di Bacon sulla pittura di Rembrandt; e ad esse, che nascono dalle domande di Sylvester, vorrei ora richiamarmi. Nel grande autoritratto di Rembrandt, ad Aix-en-Provence, Bacon dice che gli occhi non hanno orbite: l’immagine è completamente anti-illustrativa. «Penso che il mistero del dato reale sia comunicato da un’immagine creata con segni irrazionali. E questa irrazionalità del segno non dipende dalla volontà. È la ragione per cui il caso deve sempre intervenire in questa attività, perché nel momento in cui sai cosa fare, non produci altro che un’ennesima forma di illustrazione». La svolta conclusiva in questo discorso su Rembrandt è così articolata da Bacon: «Dietro a tutto questo c’è la profonda sensibilità di Rembrandt, che ha saputo applicarsi a un segno irrazionale piuttosto che a un altro. E nei segni di Rembrandt l’espressionismo astratto era già stato inventato. Ma in Rembrandt c’era in aggiunta il tentativo di registrare un fatto: per me la sua pittura è quindi molto più eccitante e molto più profonda. Una delle ragioni per cui non mi piace, o non m’interessa, la pittura astratta, è che ritengo che la pittura sia una dualità, e che quella astratta sia qualcosa di totalmente estetico».

Il maschile e il femminile della malinconia

Nel suo nuovo saggio, Come in uno specchio oscuramente (Feltrinelli, pp. 232, euro 16), del quale pubblichiamo un brano in questa pagina, Eugenio Borgna attraversa gli enigmi della differenza tra maschile e femminile nella sofferenza e nella creatività, nella nevrosi e nella follia. Tratteggia esperienze dissonanti di malinconia, di schizofrenia, di morte volontaria, ma anche esperienze di poesia, pittura, scultura: Emily Dickinson e Georg Trakl, Vincent Van Gogh e Camille Claudel tra gli altri, e le altre. Ne vengono altrettanti ritratti, altrettante riflessioni sul male in ogni sua espressione, sul senso del dialogo, sulla cura e sul prendersi cura in psichiatria come nell’esistenza di ogni giorno. Apre il volume una straordinaria rievocazione autobiografica dei primi anni di lavoro in ospedale psichiatrico. Lo chiude una meditazione rarefatta, essenziale, austera sulla fragilità delle parole, dei gesti, con cui avvicinare la sofferenza, senza cancellarla nel silenzio, senza negarle una luce possibile.

l’Unità 31.1.07
Vescovi contro i Pacs e Napolitano
Betori a nome di Ruini rigetta gli inviti. Ma il Vaticano smorza: apprezziamo parole del presidente
di Roberto Monteforte


NESSUNA MEDIAZIONE, nessun compromesso sarà mai possibile sulla legge per le unioni di fatto. Quella legge non va fatta. La Chiesa tiene ben serrate le porte del dialogo. Nessuna riconoscimento giuridico va dato a quelle unioni: lo ribadisce il segreta-
rio generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori presentando le conclusioni del Consiglio Permanente aperto lo scorso 22 gennaio dal suo presidente, cardinale Camillo Ruini. È un «niet» secco. Che suona come una risposta brusca anche all’agreement del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che da Madrid aveva richiamato tutti a prestare ascolto alle ragioni della Papa, della Chiesa e dei cattolici. Perché sulle questioni eticamente sensibili e dei diritti della persona occorre cercare il dialogo e non spaccare il Paese. Ma per trovare soluzioni che nel rispetto della Costituzione, rispondano alla domanda di diritti di chi ha scelto di convivere al di fuori del matrimonio.
«L’appello di Napolitano di trovare una sintesi con la Chiesa ci fa piacere - commenta il segretario della Cei - perché non parla né di compromesso né di mediazione, ma di sintesi, e questo significa rispetto della identità di ciascuno. Una sintesi non significa rinunciare ai principi di ognuno, ma significa arrivare a un livello più alto e trovare un incontro in cui ciascuno non rinunci ai propri principi». Taglia corto Betori che pure apprezza le parole del Capo dello Stato e ne sottolinea il non nuovo «riconoscimento, in positivo, del ruolo dei cattolici e del loro apporto alla convivenza sociale sia nel passato che nel presente». Ma la Cei alza stendardi. Così si rende fragile quel ponte di dialogo invocato da Napolitano. Per la Chiesa sui valori etici non si tratta. E non per ragioni o verità di fede, ma «antropologiche». «Difendiamo e affermiamo grandi valori che prima di essere cristiani - spiega Betori - sono umani e che come tali danno senso alla vita e ne salvaguardano la dignità». Peccato che questa verità voglia essere imposta a tutti e in ogni caso. Un prendere o lasciare che rischia di tagliare fuori la politica e quindi anche l’azione dei politici «cattolici». Nel documento conclusivo del Consiglio permanente lo si dice chiaramente: «Alla famiglia fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso “non possono essere equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali riconoscimento legale”». L’ordine è stato dato. Fuoco di sbarramento. Poi si vedrà. Intanto la Cei assicura che sul tema non sono in corso «trattative» con governo o maggioranza.
È una chiusura netta che rischia di indebolire l’iniziativa del Quirinale. Lo rimarca anche il leader della Quercia, Fassino che invita tutti «ad abbassare la temperatura»: «Dobbiamo cercare più soluzione che non marcare distinzioni». Così dal Botteghino arriva un invito: «All’apprezzamento che la Cei ha espresso per le parole del presidente Napolitano, segua un’effettiva disponibilità al confronto e alla ricerca di soluzioni condivise».
In soccorso all’iniziativa di Napolitano, è arrivata la Santa Sede sembra anche dopo un chiarimento con il Colle. «L’intervento del presidente Napolitano è certamente molto apprezzabile: dimostra la grande attenzione per le posizioni del Santo Padre da lui già più volte manifestata, e incoraggia ad un atteggiamento di dialogo e di rispetto che non è sempre presente nell’attuale dibattito politico» lo afferma il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi. «Con il suo intervento - commenta - il Presidente invita alla ricerca di una visione ampia sui problemi della società, con grande sensibilità verso le preoccupazioni espresse dalle autorità della Chiesa, riconoscendone la legittimità e il fatto che sono profondamente motivate e mosse dalla ricerca del bene comune della società italiana». «Rimane da vedere - conclude - come possa essere trovata nel dialogo la auspicata sintesi, coinvolgendo le diverse componenti della comunità politica e sociale italiana, e in modo che le posizioni manifestate dalle autorità della Chiesa in Italia siano tenute nel conto dovuto». Così smussa le asprezze della Cei. La via del dialogo deve rimanere aperta. Anche se Betori ha già lanciato il suo annuncio: la Chiesa farà diga nei confronti di una legge che non «soddisfi» le richieste dei vescovi. Le indica: maggiori sostegni alla famiglia, adeguate politiche sociali in grado di «rimuovere quegli ostacoli di ordine pratico, giuridico e fiscale che allontanano i giovani dal matrimonio e dalla generazione di figli». E per le convivenze eterosessuali? Se diritti vanno riconosciuti si modifichi il codice civile. Quello che conta è che «si rimanga sempre ancorati ai diritti e doveri della persona». Quindi nessun riconoscimento giuridico alla coppia che «finirebbe per configurare qualcosa di simile al matrimonio dove però ai diritti non corrisponderebbero uguali doveri». E le coppie gay? Neanche da nominare.

l’Unità 31.1.07
Bertinotti: «Il Cile sui diritti è più avanti di noi»
Il presidente della Camera incontra la Bachelet. «Sui Pacs ci sia una soglia di garanzia per tutti»
di Natalia Lombardo


«Se sappiamo imparare... è meglio», dice con un sorriso il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, da lunedì a Santiago del Cile. Imparare dal “profeta disarmato”, Salvador Allende, la lezione politica del cambiamento raggiunto con la democrazia e la partecipazione di massa. E imparare dai passi compiuti in Cile dalla presidente socialista, Michelle Bachelet, sulla strada per la conquista dei diritti civili: lunedì ha firmato un decreto che permette alle 14enni di prendere la pillola del giorno dopo anche senza il consenso dei genitori. In Italia, invece, infervora anche nel centrosinistra la battaglia per la legge sulle coppie di fatto. «Non posso che essere d’accordo con il presidente Napolitano» sulla necessità di trovare una sintesi, afferma Bertinotti. Che però aggiunge: «Quella sui Pacs è una battaglia di laicità. Ci vuole una soglia minima di garanzia per tutti».
Nel pomeriggio ha incontrato alla Moneda la presidente Michelle Bachelet. A lei, come farà agli altri leader che vedrà in questi dieci giorni, chiederà un sostegno all’iniziativa italiana per una moratoria sulla pena di morte già avanzata all’Onu. Ieri mattina Bertinotti ha ricevuto dal “collega” Antonio Leal la massima onorificenza della Camera dei deputati cilena. All’Accademia diplomatica loda il decreto sulla pillola: «È in linea con tutte le prese di posizione della presidente Bachelet. C’è un impegno molto forte sul terreno dei diritti della persona per dare un’impronta innovativa ed evolutiva al quadro delle leggi cilene». In un Paese in cui su temi come l’aborto o il divorzio «si è avuta per tradizione una legislazione restrittiva». Ma un provvedimento così coraggioso secondo il presidente della Camera è sulla «linea di tendenza» sulla quale è impegnata la presidente, quella della «liberalizzazione e della modernizzazione: la presidente vede un Cile in grado di evolvere rapidamente sulla strada dei diritti civili».
Percorsi difficili, in Italia, anche se Bertinotti riconosce che c’è un segno di discontinuità, non una svolta a sinistra del governo: «Con Prodi c’è stato un cambiamento di passo della politica, con dei segni che dicono di una diversità rispetto al governo precedente. State tranquilli, il governo non cadrà. Non c’è alternativa, le larghe intese sarebbero deflagranti per i Ds, ma anche per Forza Italia». Ma poi aggiunge che «la politica degli ultimatum non è produttiva» con evidente riferimento a Mastella.
Da Montecitorio a Santiago del Cile, accompagnato dalla moglie Lella. Ed è anche dalla memoria, dalla commozione sulla gelida tomba del presidente cileno eliminato dal golpe di Pinochet, che l’ex segretario di Rifondazione fonda il senso del suo viaggio in America Latina, oggi in piena fioritura delle sinistre: «Lula o Michelle Bachelet non sono i “figli” di Allende, ma il rinascimento politico del Sud America, anche con Chavez e Morales è la grande rivincita di Allende: si può tentare la strada del cambiamento nella democrazia, con il voto e la partecipazione di massa». Prendere atto oggi del «fallimento dei liberismi» (il riferimento è all’Argentina), ma è quel superare la griglia rigida dei partiti con la partecipazione popolare che fu la «grande premonizione» politica del leader di Unidad Popolar, poco compresa dalla sinistra in Italia, commenta Bertinotti ricordando la «grande solidarietà offerta alla vittima di un regime, ma oscurandone la figura politica. L’Italia preferì altri miti», Che Guevara e il Vietnam. Ma la scelta del compromesso storico del Pci di Enrico Berlinguer, nata dopo il golpe in Cile, «sarebbe avvenuta lo stesso», aggiunge. A migliaia di chilometri di distanza, il presidente della Camera inizialmente aveva evitato di parlare di politica italiana. Della quale lamenta «il distacco tra partiti e movimenti», la concentrazione sul governo. Guarda alle sinistre in America Latina come strade utili alla nascita della Sinistra Europea. La prospettiva prende corpo nella visita al Museo della Fondazione Salvatore Allende, curato dall’ex segretaria del presidente cileno, Patricia Espejo Brain e da suo marito pittore. Un «miracolo», commenta Bertinotti emozionato nel vedere come non sia morto «il seme» della democrazia: la raccolta delle opere di artisti di tutto il mondo fu iniziata da Allende nel 1972, poi dopo il golpe i quadri (fra gli altri Mirò, Picasso, il pop americano Frank Stella e l’italiano Carlo Levi) furono occultati dal rettore dell’università, ma gli esuli nel mondo continuarono a raccoglierli. Ora il museo vive, conservando anche il segno del regime delle centraline telefoniche della Dina, la polizia segreta, che controllava gli oppositori (macchinari forniti dalla Cia, precisano). La ferita si riapre davanti all’«agghiacciante» lapide, un’intera parete, che parla dei tremila ejecutados politico: ventenni uccisi dal regime, «È impressionante», commenta Bertinotti colpito dalla tenerezza di un alberello di Natale lasciato da un parente e da un cuore di stoffa con scritto «Adios papi».
L’incontro con Michelle Bachelet, prima “presidenta” del Sudamerica, figlia di un generale ucciso dal regime con perfide torture (delle quali furono vittima lei stessa e la madre) avviene nella Moneda, il palazzo assaltato dai militari l’11 settembre del 1973.

l’Unità 31.1.07
Veltroni e Fini: sul bipolarismo c’è accordo
«Il Parlamento avvii la riforma elettorale»
Chiti: nessuno vuole più la preferenza
di Eduardo Di Blasi


SONO DUE LEADER in pectore, non dei semplici «volenterosi» che rappresentano se stessi, chiarisce di prima mattina Gianni Alemanno, nel presentare il convegno che la «Fondazione nuova Italia» da lui presieduta ha organizzato al Residence di Ripetta
a Roma e che è prossimo ad iniziare. Da anni destinati alla successione nei rispettivi schieramenti, per adesso Gianfranco Fini e Walter Veltroni si attestano su una difesa del bipolarismo e della governabilità del Paese. Guardano al referendum sulla legge elettorale promosso dal professor Giovanni Guzzetta come ad un pungolo necessario: se il Parlamento non riuscirà a trovare un sistema coerente, affermano in coro, è bene che il referendum si faccia. E discutono di legge elettorale e assetti istituzionali, assieme al ministro per le Riforme Vannino Chiti, all’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu (Fi), al vice presidente della Commissione Affari Istituzionali della Camera Domenico Benedetti Valentini (An), ai costituzionalisti Stefano Ceccanti e Francesco Saverio Marini, e al promotore del referendum Guzzetta. Inizia Veltroni: «Dal ‘93 in poi siamo coerentemente schierati a difesa della democrazia dell’alternanza, per un bipolarismo in cui i cittadini possano scegliere chi li governa. Oggi non è così». Parla di un «tripudio dell’autoreferenzialità», di «veti reciproci che paralizzano» l’azione politica, di un premier che, invece di essere a capo del governo «è nominato dai suoi ministri che sono anche segretari di partito», di «partiti con il 2%» che «non possono essere arbitri di un governo votato da milioni di persone». Spiega la sua ricetta. Sono cinque punti che vanno a toccare la Costituzione: «Ridurre il numero dei parlamentari; assegnare al primo ministro la facoltà di poter indicare al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; una corsia preferenziale per i provvedimenti del Governo; più velocità e trasparenza al Senato; la riforma del modo in cui si approva la legge finanziaria, che non può essere emendata in ogni dettaglio». Sulla legge elettorale il modello è quello dei sindaci: maggioritario a doppio turno, con l’indicazione del candidato (premier). Gianfranco Fini parte in difesa: «Abbiamo votato l’attuale legge elettorale perché abbiamo capito che a rischio non c’era il sistema proporzionale o quello maggioritario, ma il bipolarismo». È un attacco a Lega e Udc «attivi oggi, come a fine legislatura» ad arare una terra di mezzo tra i due schieramenti. Anche Fini crede che, assieme alla legge elettorale, si debba mettere mano alla seconda parte della Costituzione. Chiede di sapere se esistano «le condizioni politiche», che non vi siano «vincoli di coalizione». Afferma: se i piccoli partiti non ci stanno, ecco che arriva il referendum. Vorrebbe discutere dell’attribuzione del premio di maggioranza: sembra anche aprire al doppio turno (poi An smentirà). Pisanu crede che mettere mano alla Costituzione sarebbe un errore: meglio, afferma, correggere l’attuale legge elettorale eliminandone le storture (come le candidature multiple). Quello che uscirebbe dal referendum sarebbe, a detta di Pisanu, «ripugnante». Atteso al compito di armonizzare le posizioni dei partiti è il ministro Chiti: «Io, personalmente, sono per il maggioritario a doppio turno», afferma. Poi chiarisce: «La prevalenza dei gruppi è contraria al voto di preferenza», ma favorevole ad un ridimensionamento dei collegi elettorali, di modo da arrivare a liste bloccate che non contino più «38 candidati ma 5 o 6 per collegio». Un modello «simil-spagnolo», in linea, afferma il costituzionalista Ceccanti «con il resto dell’Europa, dove non esiste il voto di preferenza»

Repubblica 31.1.07
Cacciari non condivide l'invito di Napolitano al dialogo: "Non ci incartiamo sui Pacs"
"Lo Stato laico faccia le sue scelte dalla Chiesa battaglia di retroguardia"
Il cambiamento del costume ha fatto in modo che i rapporti fra gay non suscitino più scandalo
Credo che l'idea della famiglia tradizionale debba essere non abbandonata ma ripensata
di Roberto Bianchin


MILANO - I Pacs, sbotta il filosofo, «ci vuole proprio una fantasia perversa per incartarsi sui Pacs». Non piace, al sindaco di Venezia Massimo Cacciari, la proposta di cercare una «sintesi» al problema, avanzata dal capo dello Stato, che tenga conto delle posizioni della Chiesa. Non gli piace neanche che questo tema sia all´ordine del giorno: «Il governo dovrebbe interessarsi di ben altro in questa fase, con le tragedie internazionali e i drammi locali che stiamo vivendo».
Professor Cacciari, perché non si dovrebbe dialogare con la Chiesa?
«Ma perché mai dovrei trovare un accordo con la Chiesa? No, non condivido l´impostazione di Napolitano. Io devo muovermi come uno Stato laico, non è pensabile sentire cosa pensa la Chiesa per fare una legge. Non devo dipendere dalla Chiesa, altrimenti verrebbe meno la concezione stessa dello Stato. Certo, la Chiesa va ascoltata, come vanno ascoltati tutti, ma non per cercare compromessi o mediazioni. Noi dobbiamo andare avanti per la nostra strada, con cautela invece che con le sparate che fanno alcuni laici, e sapendo che stiamo maneggiando un materiale delicatissimo».
Ma la Chiesa dice no al riconoscimento delle coppie di fatto.
«Prima o poi dovrà riconoscerle. Prenderne atto, come ha fatto con il divorzio. La corrente delle trasformazioni della società è inarrestabile. Perché resistere allora? Non è su questo terreno che la Chiesa deve fare le proprie battaglie: si occupi della mercificazione del lavoro e del sesso, e di quelle porcherie di certe trasmissioni televisive. Per questo il suo atteggiamento proibitivo è sbagliato. Sembra quello di un predicatore sessuofobo che reprime e vieta. Una battaglia di retroguardia».
Cosa dovrebbe fare invece?
«Predicare in positivo. Con messaggi lieti, di apertura, di accoglienza. Avere un atteggiamento meno assoluto, meno dogmatico. Per un cristiano questa non è mica una questione di fede, non stiamo parlando di Gesù, ma di due persone che si amano e vogliono vivere assieme. Come si fa a dire che è un capriccio, che è peccato, che è solo per sesso? Come fa la Chiesa a leggere nel cuore di due omosessuali che si amano? Mi sembra che manchi anche la sensibilità storica necessaria».
In che senso?
«Nel senso che l´idea della famiglia tradizionale debba essere non abbandonata ma ripensata. Non è una categoria dello spirito. La famiglia greca era molto diversa da quella romana, e le famiglie cinesi o indiane sono molto diverse da quelle europee. L´istituto familiare ha sempre avuto modi diversissimi basati su etiche e culture diversissime, e moltissime evoluzioni nel tempo. Lo stesso divorzio lo ha profondamente modificato, e l´idea che aveva San Tommaso della famiglia non è neanche lontanamente paragonabile a quella dell´arcivescovo Lefebvre».
Ma lei è d´accordo che serve una legge? I Pacs vanno bene?
«La famiglia non la trasforma lo Stato con una legge, sarebbe comico. Bisogna invece tenere conto che nella società ci sono delle trasformazioni già avvenute, e che i tempi sono maturi per poter dire che due persone che si amano, anche dello stesso sesso, possano vivere assieme. Cosa c´è di tragico in questo? Quindi i Pacs vanno bene, danno una risposta a una domanda che c´è. Il cambiamento del costume ha fatto in modo che i rapporti fra omosessuali non suscitino più scandalo, ed è un bene che non ci sia più questa fobia. Cosa preferisce la Chiesa, che si scaglino le pietre contro gli omosessuali?».
Lei ha lanciato a Venezia, a colpi di manifesti, una campagna contro l´omofobia. Con quali obiettivi?
«E´ una campagna culturale, per invitare soprattutto i giovani ad accettare quello che appare diverso, straniero, magari anche potenzialmente nemico».

Repubblica 31.1.07
IL CASO
Dietro l'appello del Colle, un fenomeno fatto di pellegrinaggi, messe, professioni bipartisan di fede
Dall'articolo 7 al dialogo sui gay la politica in cerca di benedizioni
Gli industriali non sono da meno: una volta misero i mutandoni all´Uomo Vitruviano in segno di rispetto a Bertone
Rosy Bindi l'ha definita una volta: "La gara a chi è più cattolico". Spesso ci si limita a compiacere le gerarchie religiose
di Filippo Ceccarelli


Ma c´era proprio bisogno di rievocare, a proposito dei pacs, il voto a sorpresa dell´Assemblea Costituente sull´articolo 7?
Il prossimo 25 marzo saranno sessant´anni. Da quel giorno la sovranità dello Stato e quella della Chiesa hanno seguitato a uscire dai rispettivi confini disputandosi, ora più ora meno, quello stesso spazio che coincideva con la vita pubblica italiana. E tuttavia ciò che allora impressionò fu l´impegnativa scelta del Pci togliattiano. Un subitaneo e spregiudicato voltafaccia, ma al tempo stesso anche una lungimirante soluzione improntata alla realpolitik. E comunque: «Quando fu proclamato il risultato (359 favorevoli e 149 contrari) - scrisse Piero Calamandrei - nessuno applaudì, nemmeno i democristiani, che parevano fortemente contrariati da una vittoria raggiunta con quell´aiuto. Neppure i comunisti parevano allegri; e qualcuno notò che uscendo a tarda ora da quella seduta memoranda, camminavano a fronte bassa e senza parlare».
Vero è che la Dc non aveva alcun margine di trattativa. Memorandum minacciosi come fogli d´ordine le intimavano dalla Santa Sede di includere il Concordato fascista nella Costituzione. Fatto sta che al termine di quello che ne «L´avventurosa nascita della Repubblica» (Rizzoli, 1989) Gianni Corbi ha definito «il più dotto e appassionato torneo oratorio che si sia mai tenuto a Montecitorio», furono i comunisti a calare la carta risolutiva sconfessando in extremis le loro precedenti posizioni. Come San Paolo «sulla via di Damasco», a dispetto dell´immagine richiamata da Pajetta per negare qualsiasi possibile conversione, Togliatti decise di votare sì. Lo fece contro Nenni, che parlò di «cinismo»; contro gli azionisti, inferociti; e contro quei laici che a partire da Benedetto Croce giudicavano l´articolo 7 «uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico». A tutti costoro replicò il Migliore, nel suo più acrobatico discorso, che il problema dei problemi era: «Salvare l´unità delle masse e la pace religiosa».
Ora. Anche dando per scontata la vocazione tutta italiana di precipitare le più remote memorie nell´attualità polemica, è singolare come lo spettro dell´articolo 7 abbia scavalcato addirittura il millennio per indicare una possibile via d´uscita di una disputa che più evoluta e sfuggente non si potrebbe. E´ del tutto plausibile che il presidente Napolitano, già ragguardevole esponente del Pci togliattiano, abbia voluto inviare alla Chiesa un messaggio distensivo, un segnale di buona volontà, tanto più dalla Spagna iper-laicista di Zapatero. Ma la durissima risposta della Cei, quel suo respingere anche solo l´idea di una «sintesi» legislativa, non lascia adito a dubbi. Il tempo dei popoli contrapposti e quindi degli inevitabili patteggiamenti, è davvero e per sempre superato.
C´è una vertigine rispetto all´Italia in cui Don Camillo doveva più o meno pacificamente convivere con Peppone. Ma altrettanto lontane sembrano le vittorie laiche del divorzio e dell´aborto - che fino all´ultimo i comunisti disdegnarono. Il Pci e la Dc non ci sono più, né la società italiana potrebbe ancora identificarsi con la Chiesa. Questa semmai si connota come una minoranza viva, agguerrita, intransigente e da anni ormai adusa a comportarsi, su una serie limitata di argomenti, come una specie di lobby cui l´articolo 7 garantisce l´opera e adesso la visibilità.
Non solo. Novità nella novità: si sono esaurite le ideologie, le culture politiche, le appartenenze della Prima Repubblica. E allora l´odierna classe di governo, alla disperata ricerca di senso, sempre più spesso finisce per aggrapparsi alla Chiesa e a quelli che chiama «valori», ma lo fa da par suo, e quindi in modo vistoso e anche un po´ parassitario.
Non mancano certo gli esempi di questa tendenza, ugualmente ripartita nei due schieramenti. Pellegrinaggi, messe, benedizioni e presepi nelle istituzioni; pratiche fino a qualche anno fa impensabili. In periferia assessorati alle missioni, al perdono e perfino alla Salvezza. Un continuo di leader che esprimono la loro fede (o si definiscono «in ricerca») e un perenne scrutinio mediatico sulla loro osservanza ai sacramenti. Indizi, dettagli, coriandoli di un atteggiamento. La Serafini che si commuove in Vaticano all´anteprima dell´ennesima fiction papale; l´onorevole De Gregorio che esibisce il rosario; la signora Lonardo Mastella che ci tiene di informare la pubblica opinione di essere arrivata vergine al matrimonio; gli industriali della Confindustria che in un convegno mettono i mutandoni all´Uomo Vitruviano per rispetto, forse, all´agognatissimo relatore, cardinal Tarcisio Bertone.
Rosy Bindi l´ha definita una volta: «La gara a chi è più cattolico». Ma l´impressione è anche quella di gente che cerca di compiacere le gerarchie ecclesiastiche, e lì si ferma. Nel centrodestra, illuminato dagli exploit dei teo-con, il fenomeno è se possibile ancora più evidente e contraddittorio. Le «radici cristiane» fanno da sfondo, in caratteri cubitali, nelle manifestazioni dell´Udc (in Sicilia, per giunta); Casini rievoca la strage proto-islamistica di Otranto (XV secolo) e Borghezio invoca il Papa a fare la crociata anti-islamica; Baccini se la prende con il supposto «neo-paganesimo» di Veltroni; Buttiglione pretende la fiction edificante dalla Rai; e dimentico del matrimonio celtico, Calderoli indossa la maglietta dell´orgoglio cristiano. Dopo tutto, viene da pensare, fra Togliatti, Croce, PioXII e Calamandrei, l´Italia dell´articolo 7 era molto più aspra, ma anche più seria.

Corriere della Sera 31.1.07
LA PROPOSTA Circolano troppi falsi miti. Un esempio: lo sterminio dei càtari
Una «Lega anticalunnia» in difesa dei cattolici
«Seguiamo l'esempio degli ebrei a tutela della verità storica»
di Vittorio Messori


Sostengo da tempo che i cattolici, ridotti ormai a minoranza (almeno sul piano culturale), dovrebbero seguire l'esempio di un'altra minoranza, quella ebraica. Dovrebbero, cioè, creare anch'essi un'Anti Defamation League, una «Lega anticalunnia», che intervenga sui media a ristabilire le verità storiche deformate, senza peraltro pretendere alcuna censura o privilegio, bensì soltanto la possibilità di rettifiche basate sui dati esatti e sui documenti autentici.
Prendiamo, ad esempio, quei càtari (detti albigesi, in Francia) oggi di moda anche perché hanno gran parte nel Codice da Vinci eche si vorrebbero rivalutare, dimenticando che erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinaria setta di origine asiatica. Paul Sabatier — storico del Medio Evo e insospettabile in quanto pastore calvinista — ha scritto: «Il papato non è stato sempre dalla parte della reazione e dell'oscurantismo: quando sbaragliò i càtari, la sua vittoria fu quella della civiltà e della ragione». E un altro protestante, radicalmente anticattolico e celebre studioso dell'Inquisizione, l'americano Henry C. Lea: «Una vittoria dei càtari avrebbe riportato l'Europa ai tempi selvaggi primitivi».
Della campagna cattolica contro quei settari (appoggiati dai nobili del Midi, il Mezzogiorno francese, non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa) vengono ricordati soprattutto l'assedio e la presa di Béziers, nel luglio del 1209. Vedo ora, sul «Messaggero», che un divulgatore di storia come Roberto Gervaso non esita a dare per buona la replica di dom Arnaldo Amalrico, abate di Citeaux e «assistente spirituale» dei crociati, ai baroni che gli chiedevano che cosa fare della città conquistata. La risposta è stata resa famosa dagli innumerevoli ripetitori: «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi». Ne seguì un massacro che, stando a Gervaso — seguace, anche qui, della vulgata corrente — avrebbe fatto fino a quarantamila morti. Il divulgatore è comunque in sorprendente compagnia: persino uno specialista vero del Medio Evo come Umberto Eco, nel romanzo
Il nome della rosa, accredita la frase terribile dell'abate e il numero spropositato delle vittime.
Ebbene: si dà il caso che possediamo molte cronache contemporanee della caduta di Béziers, ma in nessuna di esse vi è traccia di quell'«uccideteli tutti». La realtà è che più di sessant'anni dopo, un monaco, Cesario di Heisterbach, che viveva in un'abbazia del Nord della Germania da cui mai si era mosso, scrisse un centone fantasioso conosciuto come Dialogus Miracolorum. Tra i «miracoli», pensò di inventare anche questo: mentre i crociati facevano strage a Béziers (che fra' Cesario neppure sapeva dove fosse) Dio aveva «riconosciuto i suoi», permettendo a coloro che non erano càtari di sfuggire alla mattanza.
Insomma, la frase attribuita a dom Arnaldo ha la stessa credibilità dell'«Eppur si muove!» che sarebbe stato pronunciato fieramente da Galileo Galilei davanti ai suoi giudici e che fu invece inventato a Londra, nel 1757, quasi un secolo e mezzo dopo, da uno dei padri del giornalismo, Giuseppe Baretti.
In realtà, a Béziers, in quel 1209 i cattolici volevano così poco una strage che inviarono ambasciatori agli assediati perché si arrendessero, avendo salva la vita e i beni. Del resto, dopo una lunga tolleranza, il papa Innocenzo III si era deciso alla guerra solo quando i càtari, l'anno prima, avevano assassinato il suo legato che proponeva un accordo e una pace. Erano falliti pure i tentativi pacifici di grandi santi come Bernardo e Domenico. Anche a Béziers, i càtari replicarono con la violenza del loro fanatismo all'offerta di negoziare: tentarono, infatti, una sortita improvvisa, ma, per loro sventura, i primi che incontrarono furono
les Ribauds, i Ribaldi, il cui nome ha assunto il significato inquietante che sappiamo. Erano, infatti, compagnie di mercenari e di avventurieri dalla pessima fama. Questa masnada di irregolari, non solo respinse gli assalitori ma li inseguì sin dentro la città. Quando i comandanti cattolici accorsero con le truppe regolari, il massacro era già iniziato e non ci fu modo di fermare quei «ribaldi» inferociti.
Venti, addirittura quarantamila morti? Un eccidio ci fu, inquadrabile nella mentalità di allora e spiegabile con l'esasperazione provocata dalla crudeltà dei càtari, che non solo a Béziers da anni perseguitavano i cattolici. Soltanto un contastorie alla Dan Brown può parlare agli ignari di una «mitezza albigese». Comunque, l'episodio principale ebbe luogo nella chiesa della Maddalena, nella quale non potevano affollarsi più di mille persone. Béziers spopolata e diroccata? Non sembra proprio, visto che la città si organizzò poco dopo per ulteriori resistenze e occorse un nuovo assedio.
Insomma: un episodio, tra mille altri, di manipolazione ideologica. Una «Lega anticalunnia» non gioverebbe solo ai cattolici, ma a un giudizio equo e attendibile sul passato di un'Europa forgiata per tanti secoli anche dalla Chiesa.

Corriere della Sera 31.1.07
Controcanto
Foxman: i cristiani non sono diffamati
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Assurdo, un vero nonsense. Spero solo che si tratti di una boutade passeggera». La proposta di Vittorio Messori non piace affatto ad Abraham Foxman, dall'87 direttore della Anti Defamation League, fondata nel 1913 da Sigmund Livingston allo scopo di «combattere l'antisemitismo, il razzismo ed ogni forma di discriminazione religiosa e delle minoranze».
«È bizzarro che una maggioranza religiosa e culturale voglia difendersi da una minoranza», spiega Foxman. «La maggioranza cristiana continua a dettare legge e non è credibile che all'improvviso possa sentirsi minoranza perseguitata». Un fenomeno simile, mette in guardia Foxman, sta avvenendo in Usa. «Nei sondaggi molti cristiani si dicono minacciati e, come in Italia, persuasi che sia in atto una guerra culturale-religiosa contro di loro.
Quando ha tenuto il discorso sul rispetto reciproco tra religioni, il Papa ha cercato proprio di buttare acqua su questo fuoco», puntualizza. Il suo consiglio alla maggioranza? «Ben vengano organizzazioni, e nel mondo ce ne sono già tante, che cercano di promuovere i valori cristiani. Ma il cristianesimo, oggi come oggi, non ha alcun bisogno di un paladino che lo difenda. Perché non è per niente una vittima».
E se l'idea andasse in porto? «Li invito a non usare il nostro nome: è un trademark protetto da copyright — ribatte — e siamo disposti ad andare in tribunale per difenderlo. Anche in America molti gruppi hanno cercato di saltare sul nostro carrozzone, per sfruttare reputazione, storia e credibilità da noi accumulate. Ma le corti glielo hanno impedito».

Corriere della Sera 31.1.07
Decisione della Regione. «Se non c'è richiesta dei genitori, tocca alle strutture pubbliche»
Varato un regolamento regionale. Formigoni: i genitori potranno fare i funerali
La Lombardia: dare sepoltura a tutti i feti
Nei cimiteri anche quelli che provengono da un aborto sotto i 5 mesi
di Simona Ravizza


MILANO — Il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato ieri un regolamento in base al quale tutti i feti, in caso di interruzione di gravidanza entro le venti settimane, hanno diritto alla sepoltura. Il nuovo regolamento li riconosce come «prodotti del concepimento». Il governatore Roberto Formigoni esulta: «Per la prima volta in Italia si riconosce al feto il rispetto che merita — dice —. I genitori avranno la possibilità di fare i funerali, altrimenti ci penseranno gli ospedali che lo seppelliranno in una fossa comune».
La Regione Lombardia decide di dare sepoltura a tutti i feti. Da oggi
avranno diritto a essere sotterrati anche quelli che provengono da un aborto sotto i cinque mesi, finora equiparati nella pratica ospedaliera ai cosiddetti
rifiuti speciali.
Il nuovo regolamento in materia di attività funebri e cimiteriali adesso riconosce i feti sotto le venti settimane come «prodotti del concepimento» e non più scarti al pari di un'appendicite o di un pezzo di stomaco eliminato chirurgicamente. Il governatore lombardo, Roberto Formigoni, non nasconde la sua soddisfazione: «Per la prima volta in Italia si riconosce al feto il rispetto che merita — dice —. I genitori avranno la possibilità di fare i funerali, altrimenti ci penseranno gli ospedali che lo seppelliranno in una fossa comune».
Ma tra i medici che si occupano di interruzioni volontarie di gravidanze c'è già chi teme ulteriori colpevolizzazioni delle donne che si confrontano con il dramma dell'aborto.
È una norma già definita rivoluzionaria. Il consiglio regionale l'ha approvata ieri all'unanimità. Al momento dell'alzata di mano, tutti i presenti sono stati d'accordo. L'articolo 11 del nuovo regolamento stabilisce: «Anche per i prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle venti settimane, la direzione sanitaria informa i genitori della possibilità di richiedere la sepoltura. (...). In mancanza di richieste si provvede in analogia a quanto disposto per le parti anatomiche riconoscibili (ossia, quelle di cui si conosce la provenienza, ndr) ». Formigoni è consapevole che la normativa si presta a essere strumentalizzata politicamente da chi teme la messa in discussione della legge 194 sull'aborto: «Ma io non ne voglio fare una questione ideologica — precisa subito Formigoni —. È una questione di dignità del feto. Con questa disciplina colmiamo una lacuna legislativa a livello nazionale».
Ma il provvedimento fa già discutere all'interno della Mangiagalli, prima clinica in Italia a praticare l'aborto nel 1978. «Ogni passo che porta a un maggiore scambio di informazioni con le donne è ben accetto — osserva Basilio Tiso, direttore sanitario dell'ospedale da settemila parti l'anno e 1.700 interruzioni volontarie di gravidanza —. Mi è capitato personalmente di confrontarmi con pazienti che anni dopo avere abortito mi hanno chiesto informazioni sulla sorte del feto. La normativa approvata, in questo senso, può essere d'aiuto».
Ma c'è chi è scettico, come Augusto Colombo, responsabile alla Mangiagalli dell'applicazione della 194: «Chi pensa che l'aborto sia un omicidio semplicemente non vi fa ricorso — dice —. Per chi si sottopone all'interruzione di gravidanza, invece, non è rilevante conoscere la sorte dell'embrione».
Arrivano le prime reazioni anche dai politici del centrosinistra che hanno dato via libera al regolamento. Ardemia Oriani, consigliera regionale dei Ds, allarga le braccia: «Già oggi tra la 20ª e la 28ª settimana i feti devono essere sepolti in linea con il decreto del presidente della Repubblica del 10 settembre 1990 numero 285 — spiega —. È sbagliato attribuire un significato ideologico alla norma. Cambierà poco». Il regolamento impone alla direzione sanitaria l'obbligo di informare i genitori della possibilità di chiedere la sepoltura. Il permesso al trasporto dev'essere poi rilasciato dall'Asl. Se i familiari rispondono negativamente all'invito, il compito di inumare il «prodotto del concepimento» spetta all'ospedale stesso. «È un provvedimento anche oneroso dal punto di vista economico — ribadisce Colombo —. Le aziende ospedaliere dovranno farsi carico dei costi nella maggior parte dei casi». Rileva Tiso: «Finora sotto la 20ª settimana il feto veniva trattato come un rifiuto speciale senza obbligo di informare nessuno. È chiaro che adesso dovremo uniformarci alle nuove disposizioni». Con ogni probabilità il dibattito non è destinato a finire qui.
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Liberazione 31.1.07
Annunziata il '77 come lo racconti male
di Antonella Marrone


Lucia Annunziata ha scritto, nei tempi regolamentari che tutti ci aspettavamo, un libro sul ’77. Si intitola 1977 - l’ultima foto di famiglia (Einaudi, pp. 165, 14,50 euro). E’ un saggio? Un ricordo pubblico-privato? Un’inchiesta storico-giornalistica? Una serie di fatti collegati da intelligenti intuizioni? Chi può dirlo. E’ un po’ tutte queste cose insieme, è un intreccio di pezzi d’epoca, un’analisi non proprio approfondita. Sicuramente un sassolino anti Pci che la giornalista si era tenuta nella scarpa per trent’anni. Scrive, giustamente, che quell’anno è difficile da raccontare. Infatti non riesce bene neanche a lei che, si vede, ce l’ha messa tutta. Ma il fatto è che, volendo parlare degli anni Settanta, e del ’77, solo come una sequenza di polvere e piombo, come una teoria di giorni infuocati, come l’inizio della fine di tutto, si sbaglia.
«Amore è tutto ciò che si può ancora tradire» scriveva Andrea Pazienza. E’ una delle “massime” politiche e personali di quel periodo: dentro c’era l’amore, la relazione donna-uomo, la politica, il movimento, il futuro. Qui e là Annuziata lo scrive: c’era un un fermento intellettuale notevole, in quella fine di decennio. E per tirar fuori il movimento del ’77 dal «cono d’ombra del terrorismo» (per dirla con Carlo Infante, leader storico degli indiani metropolitani di Roma) «in cui è stato relegato sia per ipocrisia sia per ignoranza, è opportuno mettere in luce alcuni aspetti della cosiddetta ala creativa del movimento, in particolare quello sorto dall’occupazione dell’Università di Roma». Nel libro si parla delle riviste, della nascita delle radio (prime fra tutte Radio Città Futura e Radio Alice), ma quello che interessa alla giornalista, sopra ogni altra cosa, è parlare della politica dei partiti e dei gruppi. Lotta continua, Autonomia operaia, Pdup-Manifesto: un rincorrersi di sigle che, per la verità, a chi andava alle assemblee e non era con Autonomia, né col Pci, dicevano ben poco. Ha ragione, però, Annunziata, quando parla del rapporto con il ’68. Quei leader che dopo un decennio arrivavano a “pontificare” nelle aule universitarie, non avevano gran seguito. Annunziata non lo dice in maniera così violenta come fa per il Pci, ma risultavano piuttosto “bolliti”, nonostante non fossero anagraficamente vecchi. E ricorda Carlo Rivolta (cronista che per “La Repubblica” seguiva il movimento), i suoi pezzi, che erano i “nostri”: ricorda, generosamente e onestamente, la differenza abissale che c’era tra quei resoconti e quelli degli altri giornali. Scrive Annunziata: «Carlo non voleva fare la predica a nessuno». Che liberazione!! Tra una sequenza di ritagli di giornali d’epoca, questa “foto di famiglia” coglie nel segno sicuramente su un punto: quello che riguarda il rapporto con i media. Un rapporto ironico, furbesco, probabilmente un po’ narcisista (perché nel ’77 si era, a volte nella disperazione di non saper cosa fare, o nella consapevolezza di avere una carica straordinaria, si era, dicevamo un po’ narcisisti) che non delegava, che non chiedeva mediazioni. Le radio furono questo, lo fu la rubrica di Lettere su Lotta Continua. Ed ha ragione l’autrice quando intravede in questo flusso di comunicazione incontinente, l’anticipo di Internet e dei blog.
Il libro parte da Lama, da quella mattina del 17 febbraio quando fu cacciato dall’Università di Roma, e si chiude con l’intervista di Pecchioli, sull’allarme terrorismo. In qualche momento si vorrebbe lasciare il libro a metà, alzarsi e uscire dalla stanza. Quando Annunziata parla di “noi”: noi chi? «Noi odiavamo i comunisti». Non tutti. La maggior parte odiava il Pci è vero, quello delle spoglie e sonnolente sezioni, quello che “radiava” i ragazzi che si facevano le canne. Ma per molti, il Pci, non era un problema. Non era niente. O forse solamente il lato “oscuro” della politica (proprio quell’anno uscì al cinema Guerre stellari), quello dei bisogni sociali e basta. Il settantasette, in piazza, chiama i ”desideri”. E fa una bella differenza. Non c’erano solo i sampietrini da accarezzare (lo fa con una punta di infantilismo birichino Annunziata, di nascosto, dopo il comizio di Lama, in redazione), non c’erano solo le beghe tra leader di gruppi extraparlamentari. Non tutti avevano alle spalle un super-Io chiamato Rossana Rossanda. C’erano da fare giornali, inventare stili di vita, creare comunicazione. C’era molta musica da fare, nascevano le scuole popolari, c’era il nuovo teatro d’avanguardia. Nessuno contesta che ci fosse anche molto spaesamento, ma di quel periodo è Michele Serra a centrare il tema “sensibile” del ’77: le più visibili, le più tipiche e anche le più apprezzabili tracce di quell’anno «sono impresse nella memoria artistica e culturale e non in quella politica. Restando nella sola Bologna: la stagione del rock demenziale, il cabaret surreale del Gran Pavese, un fiorire notevole di scrittura e scrittori, il fumetto d’avanguardia e soprattutto il geniale lavoro di Andrea Pazienza - morto per droga poco più che trentenne - che seppe raccontare con furore quasi céliniano (ma allegro! diamine!) i giorni e soprattutto le notti di quei gruppi di studenti famelici di vita, allucinati dalle droghe, disperatamente amorosi».