mercoledì 7 febbraio 2007

l’Unità 7.2.07
Quel giorno con Lama all’Università
di Piero Marietti


Era grigio, coperto e anche freddo quel 17 febbraio 1977, giovedì grasso. Non lo ricorda nessuno, ma non è da trascurare: era vacanza di Carnevale, niente lezioni, pochi studenti, pochi professori, poco di tutto. Poco anche di voglia di andarci, a sentire Lama che viene a parlare a quelli... che invece sono tanti. Da tempo tengono in scacco l’Ateneo, occupano di tutto, picchiano forte solo se passi vicino, ti sputano addosso, non ti lasciano nemmeno dire buongiorno. Li odi? No, ma di sicuro li temi. Noi sessantottini siamo stati sconfitti da piazza Fontana in poi e non siamo più allenati, né a menare le mani, né a scappare se carica la polizia.
Figurarsi se vogliamo essere picchiati «da sinistra».
Non li odi perché capisci che li spinge la disperazione, si sentono poveri quando avevano loro promesso un luccicante consumismo e se uno si sente povero e pieno di «desideri», sta male da fare schifo. Si ribella perché pensa di non avere vie d’uscita: metti un topo all’angolo e diventa un leone. L’austerità di Berlinguer e la svolta dell’Eur di Lama li vivono come una colica renale.
Sacrifici, sacrifici, he he he, Lama, Lama. Lo cantano come si fa allo stadio, per scherno.
È una turba che si autoconnota plebe, esprime una creatività abortita sullo scemo-scemo da stadio, gli indiani metropolitani hanno un nome spiritoso, sembrano i più simpatici ma purtroppo rimandano solo all’idea di riserva. Secondo loro, il Partito li vuole sfatti, i partiti manco a parlarne (con qualche ragione, lo ammetto), il sindacato è visto più o meno come la Confindustria, l’Università e la Scuola riproducono l’establishment e i suoi privilegi. Ascoltano sirene che poi andranno in Canada, a Parigi, anche in Parlamento, scriveranno saggi imperiali, pontificheranno da talk show e giornali, reciteranno punti politici per la Tv di Giuliano Ferrara, faranno gli assessori e i presidenti della Rai, mai un moto di ripensamento, non dico pentimento, mentre loro resteranno a campionario delle indagini sociologiche sui nuovi poveri.
Questo ci passa per la testa mentre andiamo a fare il nostro dovere di iscritti alla Cgil. Ci posizioniamo elevati in piedi sul muretto dello spiazzo di Chimica. Stiamo praticamente sulla linea di demarcazione tra il servizio d’ordine e loro, collettivamente detti Autonomi.
Il servizio d’ordine fa ridere: capitanati dal compagno Carlini (di lì a poco la sua vecchia Nsu sarà data alle fiamme), persona leggermente pingue, di modi gentili e di voce sempre tenuta bassa, una cinquantina di impiegati con la fascia al braccio. Dietro di loro, verso il palco, quelli che vogliono fare numero per Lama. La mattina c’è stato un tentativo della Camera del Lavoro di accordarsi con gli Autonomi secondo una linea di scontro morbida e solo verbale: insultateci pure, non esagerate, evitiamo lo scontro fisico, non ci facciamo male. Sembra funzionare.
Gli Autonomi si presentano con una scala da biblioteca che alla sommità porta un fantoccio (scritta: Lama) impiccato. Non poche aste di legno che sembra duro reggono improvvisate bandiere rosse, senza simboli. Possibile che per quanto loro siano brutti e cattivi, ci si picchierà tra compagni? Possibile che non porteranno rispetto a Lama? Possibile.
Appena Lama comincia a parlare, la scala con l’impiccato comincia a premere contro il servizio d’ordine delle pancette e delle incipienti calvizie, preme e la folla oscilla, uno sciagurato dei nostri sguaina un estintore e punta sugli autonomi il getto antincendio. Botte da orbi, spintoni e sputi.
Sotto di noi, appoggiato a uno dei lecci, un cumulo di detriti con una buona dose di rottami di vetro. Un ragazzo con la coda di cavallo e gli occhialetti tondi afferra un pezzo di lastra e fa per lanciarla a mo’ di disco verso la folla, chi cojo, cojo.
Scendo, lo abbraccio e gli strillo: «Mi devi ammazzare per farlo!» Lo capisce, chiede scusa e molla il vetro, «Hai ragione», mi dice e scompare nella baraonda. I compagni raccolgono gli altri vetri e li fanno sparire. Lama è già andato via, il servizio d’ordine attempato ha, bene o male, retto l’urto che non deve essere stato tanto deciso, nonostante i sassi e le sedie. Una voce dal microfono invita i compagni a raccogliersi sotto il palco. Mai invito/ordine è stato eseguito con più velocità e tecnica.
Gli Autonomi si trovano davanti una cinquantina di metri liberi, esitano un po’, andiamo via? La danno per vinta? Ma due o tre di loro non si contentano e scattano alla carica urlando come Mel Gibson quando fa Wallace, gli altri, esaltati, seguono. Fuggi fuggi grande, il palco rovesciato, partita stravinta.
Lama era venuto a parlare a quel grumo di disperazione, a dire loro che non era vero, che non erano stati mollati, che l’austerità e i sacrifici erano la loro salvezza (poi s’è visto con la Milano da bere), che li aspettavamo dalla parte nostra per provare a mettere su una società più giusta, mica perfetta, solo più giusta. Era un tentativo politicamente rischioso perché il confine fra scontro politico e provocazione era inesistente a quei tempi, ma era un tentativo generoso come generoso era l’uomo che lo faceva con la sua faccia chiedendo aiuto ai suoi iscritti, a noi, senza costruire un servizio d’ordine con le mani nodose e di poche cerimonie degli edili e dei meccanici.
Fu lasciato solo da tutti i maître à penser, à écrire che gli rimproverarono l’errore politico, una politica nella quale la generosità non trova posto, tutto occupato dal calcolo.
Furono lasciati soli, preda delle loro malinconie, quei ragazzi. Sappiamo come è finita.
*Prorettore dell’Università

l’Unità 7.2.07
Scalzone «Andrò a Vicenza, ma se qualcuno brucerà bandiere Usa io spegnerò quei fuochi»


ROMA «La sovversione non è sbagliata in sé. È sbagliata se mossa da risentimento». Oreste Scalzone è tornato e a 60 anni suonati - festeggiati pochi giorni fa a Ventimiglia - si dimostra perfettamente calato nelle vicende italiane: durante la conferenza stampa in cui è stata presentata l'iniziativa del quotidiano Liberazione, «70. Gli anni in cui il futuro incominciò», l'ex di Potere Operaio spazia dalla base di Vicenza ai fatti di Catania. «Io il 17 vado alla manifestazione di Vicenza - dichiara Scalzone - se va a finire a sassate, sono sincero, non mi dispiace, non mi sento in imbarazzo. Però se qualcuno si mette a bruciare una bandiera americana, solo perché americana, io sarò tra quelli che la andranno a spegnere così come contesterò cori idioti del tipo 10-100-1.000 Nassiriya. Sono cose che non hanno niente di rivoluzionario perché sono mosse da risentimento».

l’Unità 7.2.07
SINISTRA DS. Il leader della seconda mozione a testa bassa contro il Partito democratico
Mussi: «Un progetto lacerante»
«Per quello che mi offrono penso non valga la pena di continuare così».


Inizia fra gli applausi di una sala gremita dell'hotel Palatino a Roma l'intervento del ministro dell'Università, Fabio Mussi, che ieri ha presentato ai ds del Lazio la mozione del correntone in vista del prossimo congresso della Quercia. «Raramente- prosegue Mussi- sono stato convinto come ora del «No» al Partito democratico: davanti a questa scelta le uniche alternative sono lasciare o combattere, e io ho deciso di combattere, per proporre una prospettiva diversa da quella del partito democratico».
Una prospettiva «socialista ed europea, che riunifichi la sinistra italiana e la salvi dalla crisi, che è anche la crisi dell'Italia intera».
Le critiche più nette sono rivolte però al nascente Pd: «Si dice che servirà alla stabilizzazione del governo- continua Mussi- ma io dico che dovremo fare i salti mortali per evitare i danni provocati dall'instabilità di questo nuovo partito». Un partito debole, «che non sa dove stare al mondo»: secondo Mussi, infatti, «è evidente che un futuro partito democratico potrà costruirsi solo al di fuori del Pse, altrimenti non avrebbe questo nome». E, prosegue il ministro a mo’ di esempio, «non bisogna dimenticare che sulla questione delle cellule staminali fu la Margherita ad opporsi, così come oggi si oppone ai Pacs».
Di fronte a un progetto che «rischia di dividere ancora la sinistra», allora, secondo Mussi si può e ci si deve opporre per cambiare le cose: come successe nel caso del ritiro delle truppe dall'Iraq, quando «lottando riuscimmo a portare via i nostri soldati, evitando alla sinistra di essere sommersa dal fallimento della politica estera in Iraq».
Fabio Mussi, non risparmia i «compagni» Piero Fassino e Massimo D'Alema. La prima stoccata è per il segretario del suo partito e la mozione che presenterà al congresso: «Fassino- dice Mussi- ha firmato una mozione laica, pacifista, ambientalista, e mai come prima socialista: si tratta però di una truffa, dovuta al fatto che si deve fare il pd», accusa Mussi. E lo stesso Fassino «afferma che quello che ci sarà fra tre mesi sarà non l'ultimo, ma il penultimo congresso dei ds». Anche in questo caso, secondo Mussi, Fassino agisce «per illudere i contrari al pd, nel tentativo di far loro sperare che qualcosa possa ancora cambiare: ma così illude i contrari e delude coloro che al pd realmente credono- conclude Mussi.

l’Unità 7.2.07
SCIENZA Una ricerca dell’Università di Padova ha individuato forti somiglianze tra il patrimonio genetico dei toscani e quello delle popolazioni dell’Asia occidentale
Il Dna svela il mistero: gli Etruschi (e le mucche maremmane) vengono da Oriente
di Nicoletta Manuzzato


Erodoto aveva ragione: l’origine degli Etruschi e della loro raffinata cultura va rintracciata in Medio Oriente. A confermare le affermazioni dello storico greco non è la scoperta di nuovi reperti archeologici, ma uno studio genetico sui toscani moderni uscito su The American Journal of Human Genetics. Lo ha realizzato un’équipe internazionale guidata dal professor Antonio Torroni, dell’Università degli Studi di Pavia. I ricercatori pavesi hanno preso in esame 322 persone di tre diverse località che un tempo appartenevano all’antica Etruria: Murlo (provincia di Siena); Volterra (Pisa) e Valle del Casentino (Arezzo). Il loro Dna mitocondriale è stato posto a confronto con quello di altri 15.000 soggetti di 55 popolazioni europee e dell’Asia occidentale, tra cui sette italiane.
Il Dna mitocondriale costituisce un vero e proprio archivio molecolare. I 37 geni che lo compongono rappresentano solo una piccola frazione del genoma umano, ma hanno una particolarità: vengono trasmessi unicamente per via materna. Poiché sono caratterizzati da mutazioni fino a venti volte più frequenti rispetto ai geni del nucleo (che ereditiamo da entrambi i genitori) e poiché tali mutazioni hanno scandito la nostra colonizzazione del pianeta, i diversi rami dell’albero evolutivo mitocondriale tendono a essere circoscritti a determinate popolazioni e a determinate aree geografiche. Analizzando questa parte del nostro genoma possiamo perciò seguire come su una mappa le migrazioni delle nostre lontane antenate.
Nel caso degli Etruschi il responso è chiaro: «I dati che abbiamo ottenuto evidenziano l’esistenza di un legame genetico diretto e relativamente recente tra i toscani moderni e le popolazioni del Medio Oriente», spiega il professor Torroni. «Oltre il 5% dei toscani presenta sequenze di Dna mitocondriale assenti negli altri gruppi europei e italiani e presenti invece nell’area mediorientale».
«Al tempo di Atys, figlio del re Mane, ci fu in tutta la Lidia una tremenda carestia... Il re, divisi in due gruppi tutti gli abitanti, ne sorteggiò uno per rimanere, l’altro per emigrare dal paese... Quelli di loro che ebbero in sorte di partire scesero a Smirne, costruirono navi e, imbarcati tutti gli oggetti che erano loro utili, si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra finché, oltrepassati molti popoli, giunsero al paese degli Umbri, dove costruirono città e abitano tuttora». Così Erodoto, nel V secolo avanti Cristo, narra l’arrivo in Italia di queste genti provenienti dall’Asia Minore.
Tale ricostruzione venne messa in dubbio fin dall’antichità: nel primo secolo avanti Cristo, Dionigi di Alicarnasso propendeva per un’origine autoctona degli Etruschi. In seguito spuntò una terza ipotesi, che poneva la culla etrusca in Europa centrale. Ora la scienza non solo dà ragione ad Erodoto, ma avvalora anche i dettagli del suo racconto. La migrazione avvenne effettivamente via mare e, oltre a «tutti gli oggetti che erano loro utili», i nuovi venuti portarono con sé anche gli armenti. Lo stabilisce una ricerca sui bovini diretta dal gruppo del professor Paolo Ajmone-Marsan, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, e alla quale ha collaborato anche il gruppo pavese.
Che cosa ci dice il Dna mitocondriale dei bovini? Che le razze chianina e maremmana, tipiche dell’area toscana, sono geneticamente molto più vicine agli esemplari mediorientali che a quelli europei. Ma perché possiamo parlare con certezza di uno spostamento via mare? «La migrazione via terra che avviene con l’espandersi dell’agricoltura - spiega il professor Ajmone-Marsan - è molto lenta e graduale ed è accompagnata dalla perdita della variabilità genetica degli animali. Immaginiamo una cesta piena di palline colorate: se trasferiamo con successive manciate queste palline in altri cesti, ogni passaggio determina la diminuzione dei colori rappresentati. Invece in Toscana troviamo intatta la variabilità presente nell’area mediorientale». Da quelle navi provenienti da oriente sbarcarono dunque non solo gli avi degli odierni toscani, ma anche i capostipiti di quel Bos etruscus che lo scrittore latino Columella ci segnala nel suo trattato sull’agricoltura.

Repubblica 7.2.07
POLEMICHE/ A PROPOSITO DI UN ARTICOLO DI VITTORIO MESSORI
IL VERO MASSACRO DEI CATARI
Assurde enormità su una setta antica
di FRANCESCO ZAMBON


Sul Corriere della Sera di mercoledì 31 gennaio, Vittorio Messori propone la costituzione di una "Lega anticalunnia" in difesa dei cattolici, allo scopo di rettificare - basandosi «sui dati esatti e sui documenti autentici» - alcune verità storiche che sarebbero deformate da "falsi miti". Il "falso mito" che Messori prende di mira nell´articolo è lo sterminio dei catari, con particolare riferimento a un episodio della Crociata scatenata da papa Innocenzo III per debellare l´eresia catara nel Mezzogiorno francese, la presa e il sacco di Béziers (1209). Ma altro che dati esatti e documenti autentici! Gran parte di quelle che ammannisce Messori sono delle vere enormità dal punto di vista storico. Sorvoliamo su pure invenzioni a scopo di calunnia (queste sì!), come il fatto che i catari sarebbero stati seguaci di una «cupa, feroce, sanguinaria setta di origine asiatica». È ben noto da innumerevoli fonti, per lo più cattoliche, che essi praticavano la forma più rigorosa di non violenza, astenendosi dall´uccisione sia degli uomini sia degli animali. Alcuni contadini impiccati a Goslar nel 1051, fra le prime vittime della repressione cattolica, furono accusati di eresia e condannati solo per aver rifiutato di un uccidere un pollo!
Ma veniamo alla strage perpetrata dai crociati a Béziers il 22 luglio 1209, all´inizio della Crociata albigese. Messori afferma che se eccidio ci fu, esso fu giustificato «dall´esasperazione provocata dalla crudeltà dei càtari, che non solo a Béziers da anni perseguitavano i cattolici». Ora, a parte il paradosso di presentare come persecutori coloro che furono perseguitati per oltre un secolo in tutta Europa, proprio il caso di Béziers mostra esattamente il contrario di quanto vorrebbe farci credere Messori: i cattolici erano così poco esasperati dai catari, che la ragione per cui la città fu attaccata e distrutta fu il rifiuto da parte dei suoi abitanti, fedeli alla propria autonomia municipale e ai propri princìpi di tolleranza, di consegnare ai crociati i circa duecento sospetti di eresia (tanti erano) di cui il vescovo Renaud de Montpeyroux aveva provveduto a stilare la lista.
Ma tutta la ricostruzione del sacco di Béziers proposta nell´articolo è pura deformazione storica, costellata di clamorosi errori e falsificazioni. In particolare per quanto riguarda la frase che avrebbe pronunciato il legato pontificio Arnaldo Amalrico, allora alla guida dei crociati, in risposta ai suoi uomini che gli chiedevano che cosa fare della popolazione, in maggioranza cattolica: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», avrebbe risposto. Messori nega l´autenticità di questa frase, che è riportata da un autore tedesco, il monaco cistercense Cesario di Heisterbach, nel suo Dialogus miraculorum. Per svalutarne l´attendibilità, egli afferma che l´opera di Cesario sarebbe stata scritta sessant´anni dopo i fatti. Peccato che a quest´epoca Cesario fosse già morto da quasi trent´anni. In realtà il Dialogus fu scritto fra il 1219 e il 1223, appena una decina d´anni dopo il sacco di Béziers.
Certo, l´autenticità della frase attribuita ad Arnaldo è stata molto discussa dagli storici; ma oggi si tende a ritenerla del tutto plausibile, essendo stata dimostrata la molteplicità e attendibilità delle fonti dirette di cui disponeva Cesario. Comunque, autentica o no, la frase (che in realtà suona così nel testo di Cesario: «Massacrateli tutti, perché il Signore conosce i suoi», con una riconoscibile citazione della Seconda lettera a Timoteo di san Paolo), corrisponde esattamente a ciò che avvenne e, contrariamente a quanto sostiene Messori, trova riscontro in numerose altre fonti contemporanee. La più sconvolgente è proprio la lettera ufficiale che Arnaldo in persona, insieme all´altro legato pontificio Milone, scrisse al papa per riferirgli l´accaduto e che si può leggere nel volume 216 della Patrologia latina: «La città di Béziers fu presa e, poiché i nostri non guardarono a dignità, né a sesso, né a età, quasi ventimila uomini morirono di spada. Fatta così una grandissima strage di uomini, la città fu saccheggiata e bruciata: in questo modo la colpì il mirabile castigo divino».
I nostri, dice Arnaldo: siano stati tutti gli assalitori a compiere la strage o solo i cosiddetti "ribaldi" (ossia i mercenari al seguito dell´esercito crociato), Arnaldo se ne assume pienamente e trionfalmente la responsabilità, parlando di "mirabile castigo divino". Il numero di morti di cui si vanta è sicuramente esagerato, come lo è quello fornito da altri testimoni e cronisti (qualcuno parlò addirittura di centomila): si voleva indicare solo una mattanza straordinaria, che restò a lungo nella memoria della gente. Ciò che avvenne fu proprio quel che lascia intendere la frase attribuita ad Arnaldo: fu compiuto uno sterminio indiscriminato degli abitanti di Béziers, cattolici ed eretici, uomini e donne, vecchi e bambini.
Se gli argomenti della "Lega anticalunnia" che Messori propone di costituire sono quelli addotti nel suo articolo, temo che per essa non si aprano grandi prospettive. E credo che la Chiesa non abbia davvero bisogno di questa nuova e goffa forma di "negazionismo" per difendere i propri valori e propri princìpi.

Repubblica 7.2.07
QUANDO LA PAROLA UCCIDE
Per una nuova traduzione di "Antigone"
di Massimo Cacciari


Il dramma di Sofocle va in scena domani sera a Torino: l´eroina e Creonte sono figure inseparabili e incarnano l´essenza del dialogo tragico che culmina in un conflitto incomponibile
Il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro

TORINO - Anticipiamo parte dell´introduzione di Massimo Cacciari all´Antigone di Sofocle, da lui curata e tradotta, in uscita domani nella Collezione di Teatro Einaudi (pagg. XIV+48, euro 8,50). Sempre domani, alle 20.45, al Teatro Astra di Torino andrà in scena lo spettacolo diretto da Walter Le Moli, che si basa appunto sulla nuova versione.
Altri spettacoli classici sono in programma, voluti dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino (in collaborazione con Teatro di Roma e Fondazione Teatro Due): da La folle giornata o il matrimonio di Figaro, di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, nella traduzione di Valerio Magrelli, a Dossier Ifigenia, da Euripide, in quella di Edoardo Sanguineti.

Il grido acuto di Antigone, «come di uccello angosciato alla vista del nido deserto», deve poter essere udito, ora lontano ora incombente, in ogni momento della tragedia. Esso riempie ogni sua pausa e ne determina il ritmo. La parola articolata non può liberarsene, ma lo porta in sé come sua propria, intima «dissonanza».
La parola assume questo timbro quando essa si fa effettualmente, corporalmente toedtendfactisches, quella parola capace di uccidere, di recare morte, di «divenire» mortale (più che toedlichfaktisches, meramente «assassina»), che è per Hölderlin «das griechischtragische Wort», la parola greco-tragica. Tale tremenda potenza della parola si manifesta nell´Antigone nella sua forma più pura, come archè della parola stessa. È la sua originaria energia che la produce e la muove, è essa che ne spiega l´inesausto agonismo, è per essa che le parole si affrontano nella più pericolosa delle gare, nel dialogo. E mai essa si rivela più potentemente che nella parola ispirata, "entusiasta": se infatti uccide la parola di Creonte, ancor più duramente colpisce quella di Tiresia, e proprio perché fino all´ultimo trattenuta essa si scatena alla fine quasi selvaggiamente. Mortale per Creonte la parola di Emone, il cui ultimo timbro sarà quello sputo, nel talamo-tomba di Antigone, tanto più feroce di ogni punta di spada. Da morte a morte conducono, infine, le parole di Antigone, tutte comprese nel destino comune della stirpe: inseparabili fino a darsi reciproca morte hanno "dialogato" i fratelli; e in diversa forma questo stesso polemos continua ora tra Antigone e Creonte. Poiché Logos è Polemos, e l´unità del divino non può darsi che nel contrapporsi delle parole, non si rivela ai mortali che nell´articolarsi-distinguersi delle sue dimensioni, dei suoi dominî, delle sue timai.
Questo è l´essenziale: comprendere l´inseparabilità dei Due, Antigone e Creonte. E dare alla voce di entrambi tutta la sua potenza "omicida". Assolutamente necessari l´uno all´altro, metafisicamente estranei a ogni odio personale, inarrestabili nel "rendersi morte", essi incarnano così l´essenza del dialogo tragico. Il dialogo è tragico quando le distinte dimensioni della Parola si incontrano e affrontano pervenendo ciascuna all´acme della propria chiarezza, della coscienza di sé, e proprio su questo limite manifestano l´impotenza a comprendersi e accogliersi. Quando due figure si affrontano con l´arma più tremenda, la parola, e scoprono reciprocamente di essere destinalmente impotenti all´ascolto, lì scoppia il conflitto incomponibile - che significa tuttavia, a un tempo, la necessità della loro relazione. Antigone non sarebbe senza Creonte, mentre del tutto contingente è il suo rapporto con Emone. E così per Creonte solo il rapporto con Antigone, l´antagonismo con la figlia di Edipo, lo caratterizza irreversibilmente. Le parole di Creonte ed Emone possono contraddirsi intrecciandosi - e la possibilità, per quanto estrema, del loro accordo è la speranza del Coro. Creonte si fra-intende con il Coro e con tutte le altre personae della tragedia, con Tiresia anzitutto. Soltanto con Antigone il dialogo diviene polemos purissimo, affrontamento di principî che si "conciliano" solo nel darsi reciproca morte.
Certo, l´assoluta "fedeltà" di entrambi al proprio dèmone non li esenta dal dubbio; nell´imminenza del supplizio Antigone si chiede se nella sofferenza non le verrà inflitto di scoprire un suo errore, e a Creonte la maledizione di Tiresia spalanca all´ultimo la vista di un abisso che fin dall´inizio traspariva dalla sua ostinazione. L´eroe tragico incarna il proprio destino e fa ciò che deve nel dubbio e nella interrogazione, mai passivamente. E tuttavia a entrambi non è dato che insistere nella propria parola, anche se essa condanna e si condanna alla morte. Simone Weil sembra accomunare per un momento il dubitare di Antigone (un cenno appena, ma il cui timbro è necessario far sempre udire) con quello di Arjuna nella Gita: è il dubitare che si risolve nell´agire, secondo il senso tragico del dran, spiegato da Snell, nell´agire in quanto decisione irrimediabile corrispondente all´essenza del protagonista. Ma l´eroe dell´epos indiano trova pace alla fine nell´agire secondo il suo dharma, mentre l´autonomia dell´eroe tragico si manifesta sempre nella contraddizione con l´altro da sé. La sua parola non dà morte che ricevendola; anzi, non vive in tutta la sua luce che per questa "dialettica".
E affinché proprio quest´ultima si manifesti nella forma più comprensibile, e possa perciò la partecipazione al dolore "convertirsi" in conoscenza, sarà necessario che le parole autonome dei protagonisti risuonino logicamente coerenti col principio che ne domina il carattere. Nulla in questo dramma costantemente intonato al threnos, al canto luttuoso, viene risparmiato dalla "cura" dell´indagine; nulla si dichiara con semplice im-mediatezza. Creonte esprime certo l´immanente pericolo dell´agire politico, della prassi, ma non è affatto tiranno secondo l´accezione usuale del termine. Creonte ha ben regnato, ha ben meritato per la polis, l´ha salvata dalla catastrofe contro prepotenti schiere nemiche. Lo riconosce il Coro, lo riconosce Tiresia.
Per tradizione, forse, per convenienza, certo senza intima convinzione, ha sempre rispettato anche le arti della divinazione e gli oracoli divini. Si badi, neppure il suo decreto che scatena la tragedia va preso come espressione di un impeto d´ira, di irragionevole, delirante volontà di vendetta. Certo, il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro per chi regna; qui davvero la dimensione del sacro si confonde nel modo più pericoloso con la decisione politica. Fino a che punto si può spingere la damnatio del nemico vinto e ucciso senza diventare offesa degli dèi di sotterra, empietà? Creonte non ignora affatto il problema, non si slancia affatto inconsapevole nell´abisso che il suo comando gli prepara; è evidente, invece, in tutto ciò che dice e che compie, il suo sforzo di trovare a quel problema convincente, responsabile, ragionevole risposta. La stessa pena che infligge ad Antigone viene da lui predisposta senza "sadismo" alcuno, ma proprio per evitare l´accusa di empietà. Anzitutto, appare a lui manifesta l´enormità della colpa di Polinice; non si tratta del semplice nemico, ma del fratello che vuole annichilire i fratelli, la terra che l´ha nutrito, gli dèi stessi che l´hanno protetto. Non dovrebbero proprio i custodi del sacro essere i suoi più convinti alleati nel decretare tale condanna? L´enormità della pena segue all´enormità del peccato, nient´affatto alla prepotenza di chi la commina. Inoltre, Creonte fa intendere bene che nella città altri, più o meno segretamente, parteggiavano per il vinto.
Poteva Polinice non trovare simpatie e sostegno all´interno della stessa Tebe? Colui che regna saldamente (e razionalmente!) sa di non potersi mai limitare al peana vittorioso, come quello che il Coro intona nel Parodo, ma di dover subito colpire «il seguito clandestino dei vinti» (K. Reinhardt). La pena inflitta al cadavere di Polinice deve suonare avvertimento tremendo, tanto più necessario, agli occhi di Creonte, quanto più lo stesso Coro degli anziani e più grandi di Tebe mostra esplicitamente riluttanza a condividere la decisione del sovrano. E che tale decisione non sia affatto espressione di ira violenta lo dimostra ancora, ad abundantiam, il trattamento riservato al servo che annuncia il "crimine" di Antigone, e, poi, la "assoluzione" di Ismene. Semmai è proprio, invece, il suo cedere alla fine un movimento immediato dell´animo, un incondizionato riflesso difronte alla maledizione di Tiresia. Più che una meditata "conversione", un ragionato "pentimento", esso somiglia a una manifestazione di irrefrenabile paura. Egli non "cede" alle parole di Tiresia, ma piuttosto precipita, compie la propria catastrofe.


Repubblica 7.2.07
Se il Dio di Ruini diventa di destra
di Ezio Mauro


C'È UNA domanda cruciale per la politica italiana che nessuno fa a voce alta, assordati come siamo in questo inizio di secolo dal suono delle campane dei vescovi. Eppure è una domanda che, a seconda delle risposte, può cambiare il paesaggio politico del nostro Paese e può ridefinire alleanze e schieramenti. La questione è molto semplice e si può sintetizzare così: è ancora consentito, nell'Italia del 2007, credere in Dio e votare a sinistra?

Nel silenzio della coscienza individuale è senz'altro possibile e anzi è comune, risponderebbero molti dei nostri lettori, che hanno in mano un giornale laico, sono in parte cattolici e votano abitualmente per lo schieramento di sinistra, magari talvolta turandosi il naso. E infatti, non è la libera testimonianza individuale che è in discussione: e ci mancherebbe. Ciò che invece mi sembra sotto attacco è l'organizzazione politica del pensiero cattolico di sinistra, la sua "forma" culturale, l'esperienza storica che ha avuto in questo Paese e infine e soprattutto la traduzione concreta di tutto ciò nella nostra vita di tutti i giorni e nel possibile futuro. Cioè l'alleanza tra i cattolici progressisti e gli ex comunisti che è al centro della storia dell'Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del nuovo partito democratico, risolvendo l'identità incerta della sinistra italiana.

Se non fosse così, non si capirebbe tutto ciò che si muove in queste ore sotto il mantello dei vescovi. È come se per la gerarchia fosse iniziata la terza fase, nei rapporti con la politica italiana. Prima, nel Paese "naturalmente cristiano", la Chiesa poteva presumere di essere il tutto, affidando ad un unico soggetto politico - la Democrazia Cristiana - la traduzione nel codice statuale dei suoi precetti e la tutela dei suoi timori, sempre nell'ombra dei corridoi vaticani, perché l'impronta del Papato oscurava comunque in una surroga di potenza l'identità culturale dell'episcopato nazionale.

Poi, a cavallo del giubileo e all'apogeo di un papato universale come quello di Wojtyla, ecco la coscienza per la Chiesa di essere finita in minoranza in un Paese cattolico per battesimo ma scristianizzato nei fatti, improvvisamente "terra di missione" per una riconquista che per compiersi ha bisogno di un disegno forte e autonomo dei vescovi, perché dopo secoli anche in Italia da "tutto" la Chiesa deve diventare "parte".

L'uomo che gestisce il passaggio in minoranza della Chiesa - la seconda fase - e capisce le potenzialità politiche di questa nuova condizione, è il cardinal Ruini, presidente della Cei.

Diventando parte, la Chiesa diventa reattiva, combattiva, entra in concorrenza con le altre grandi agenzie valoriali e le centrali culturali, si "lobbizza" agendo da gruppo di pressione sui centri di decisione della politica e soprattutto della legislazione. Ruini intuisce che la sfida della modernità, in questa fase, è soprattutto culturale, e capisce di trovarsi di fronte - dopo Tangentopoli e la caduta del Muro - partiti senza tradizione, senza bandiere, senza identità storica. Il pensiero debole della politica italiana può dunque essere attraversato facilmente dal pensiero forte del Papa guerriero, e nella breccia possono utilmente infilarsi i vescovi per una politica di scambio che abbia al centro i cinque temi della vita, della solidarietà, della gioventù e soprattutto della famiglia e della scuola.

La terza fase comincia quando Ruini avverte che alla Chiesa è consentito, nei fatti, ciò che nella Repubblica non è permesso alle altre "parti". Ogni componente della società, ogni identità culturale, nella sua autonomia e nella sua libertà deve riconoscere un insieme in cui le parti si ricompongono: lo Stato. Ma è come se la Chiesa, mentre ammette di essere diventata minoranza, non accettasse di vedere in minoranza i suoi valori, faticasse a stare dentro la regola democratica della maggioranza, dubitasse del principio per cui in democrazia le verità sono tutte parziali, perché lo Stato non contempla l'assoluto. La Chiesa oggi in Italia è più debole di ieri nei numeri? Non importa, perché i numeri non contano visto che per Ruini il cristianesimo è avvertito nel nostro Paese come "senso comune", una sorta di substrato antropologico, una specie di natura italiana: alla quale si può trasgredire solo con leggi che diventano automaticamente contro natura, dunque sono contestabili alla radice.

È un discorso che ha in sé l'obiettivo grandioso della terza e ultima fase del lungo regno ruiniano sull'episcopato italiano: la riconquista dell'egemonia, non più attraverso il partito dei cristiani ma direttamente da parte della Chiesa, che con la spada di questa egemonia rifonderà la politica, separando infine il grano dal loglio e costituendo un nuovo protettorato dei valori nell'esercizio di un potere non più temporale, ma culturale. Un progetto che può compiersi solo davanti ad un sistema politico gregario, senza autonomia, incapace di testimoniare un sentimento civile della Repubblica, svuotato di identità al punto da vedere nella Chiesa l'ultima agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie. Fonte ancora di mobilitazione, forse di legittimazione, almeno di benedizione, in un Paese in cui tutti i leader politici - o quasi - si sono convertiti se non altro mediaticamente, o comunque hanno dichiarato di essere pronti a farlo, e altrimenti sono in lista di attesa: o, come si dice, in ricerca.

Siamo davanti ad una sorta di neo-gentilonismo, con la religione che diventa materia di scambio, nella presunzione che sia vera la leggenda del voto cattolico di massa orientato dalla stanza del vescovo. Con l'intercapedine culturale dei partiti debole e fragile, la Chiesa scopre la tentazione di raggiungere direttamente il legislatore, si accorge che la precettistica può influenzare molto da vicino la legge, dimentica la distinzione suprema tra la legge del creatore e la legge delle creature. Se il disegno è egemonico, tutto è potenza. E se un testo legislativo diventa simbolico, qui si deve dare battaglia fino in fondo perché la bandiera trascende la norma e il valore ideologico supera il valore d'uso. Ecco la prima risposta alla domanda intelligente di Giuliano Ferrara ai vescovi: dove volete andare con questa battaglia intransigente, non più negoziale, sui Pacs, visto che si prepara "un risultato che collocherebbe l'Italia in un ambito di cautelosità e di disciplina morbida delle pretese nuove forme di famiglia"? Semplicemente, vogliono andare fino in fondo: non della battaglia sui Pacs, ma della battaglia per l'egemonia culturale, che è appena incominciata.

Come accade in ogni battaglia, anche in questo caso il cardinal Ruini lascerà tra poco in eredità al suo successore non solo le truppe, le mappe e le strategie, ma anche le alleanze. Che sono tutte a destra, perché qui si compie, oggi, la lunga cavalcata di quello "strano cristiano" che avevamo visto muoversi sulla scena italiana per la prima volta sei anni fa. Incapace da più di un decennio di far nascere un nuovo sistema culturale che dia un codice moderno ed europeo a moderati e conservatori, la destra si accontenta della prassi di potere e di consenso berlusconiana e prende a prestito le idee forti, che non ha, nel deposito di tradizione della Chiesa italiana. La destra cerca un pensiero, la Chiesa cerca la forza e nell'incontro inedito il verbo si fa carne: e poco importa che sia carne pagana, con la mistica idolatra del berlusconismo che ha introdotto una nuova religione in politica, rendendo Dio strumento dell'unzione perenne al demiurgo, mentre nasce un nuovo "cristianismo", con la fede svalutata in ideologia.

Se questo disegno si compie, la Chiesa corre il rischio mondano di diventare parte, se non addirittura un soggetto politico diretto, e si amputa a sinistra la cultura politica cattolica, per la prima volta nella storia della Repubblica. Escludendo quei cattolici democratici che hanno preso parte attiva alla nascita della costituzione e delle istituzioni repubblicane, e che soprattutto hanno saputo per decenni coniugare la fede con la laicità dello Stato. Forse per il cardinal vicario vale ancora la condanna di Augusto Del Noce contro i "progressisti cattolici": "Trasformano talmente il cristianesimo per non ledere l'avversario, che bisogna dubitare se effettivamente credano". Certo, per Sua Eminenza vale la profezia di Rocco Buttiglione: "Il cattolicesimo che si era lasciato ridurre nell'inglobante progressista oggi non ha più nulla da dire, torna attuale il pensiero cattolico che aveva rifiutato il progressismo".

La partita ruiniana sembra puntare proprio qui, a far saltare l'alleanza tra i cattolici democratici e la sinistra ex comunista, in un disegno riformista che può diventare un partito. Ecco perché ieri sui Pacs - dove i vescovi intervengono ormai sugli articoli di un disegno di legge, non sui valori - è riecheggiato addirittura il solenne "non possumus" di Pio IX, con un monito preciso contro la sinistra e in particolare contro i cattolici democratici: quanto sta accadendo, ha scritto infatti con chiarezza il giornale dei vescovi con un linguaggio mai usato nei giorni più neri della Repubblica, è "uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana".

Il dado, a questo punto, sembra tratto. È vero che la presenza cristiana nel Paese, come dice Pietro Scoppola, non è riducibile a questo schema di comodo. Ma la Chiesa, con lo spartiacque benedetto di Ruini rischia di aprire per la prima volta un fronte religioso nella battaglia politica italiana, qualcosa che non abbiamo ancora conosciuto, una faglia inedita. In un terreno fragilissimo, dove troppi politici sono pronti a cambiare opinione a ogni rintocco di campana, sensibili nei confronti dei vescovi molto più al comando che ai comandamenti. Ecco perché bisogna chiedersi se è ancora consentito credere in Dio e votare a sinistra.

Anche se bisognerebbe aggiungere un'ultima domanda: in quale Dio? Nella prima fase dell'era Ruini, era un Dio post-democristiano, comodo perché relativo, appagato dalla sua onnipotenza e affaticato dal suo declino. Nella seconda fase, quella della minoranza, è diventato un Dio italiano, in una sorta di via nazionale al cattolicesimo. Oggi, rischiano di farci incontrare un Dio di destra, e già solo dirlo sembra una bestemmia.

(7 febbraio 2007)

il Riformista 7.2.07
SETTANTASETTE 1. LA VIOLENZA ESTREMISTA
Non c’è dubbio, il Pci capì con ritardo. Eppure la linea della fermezza fu giusta
di Federico Fornaro


Ripercorrere nel libro di Lucia Annunziata 1977. L’ultima foto di famiglia (Einaudi), quell’anno così dominato dall’odio e dalla violenza provoca l’effetto di un pugno diretto nello stomaco. Di quelli che fanno male. Sono passati trent’anni e a differenza del ’68, il ricordo di quel movimento non provoca alcun fremito e neppure rimpianti. Eppure hanno ragione sia Paolo Franchi sia la Annunziata a invitare a ragionare, a guardare dentro quei cortei, quelle vetrine spaccate, quelle P38 (prima disegnate simbolicamente nell’aria con tre dita della mano e poi divenute drammaticamente vere). Riflettere su quella stagione, infatti, è certamente utile per comprendere sia i limiti della strategia del compromesso storico, con la progressiva dilapidazione da parte del Pci dello straordinario patrimonio elettorale conquistato nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976 sia le radici profonde del fenomeno terroristico del nostro Paese. Se la cifra del movimento di protesta del ’68 era stata la fantasia contrapposta al grigiore burocratico della società dell’epoca, quella del ’77 sarebbe diventata rapidamente quella della violenza contro lo Stato nelle sue molteplici articolazioni, partiti compresi. Il Pci e la stessa Fgci del “questurino” Massimo D’Alema - così era stato ribattezzato dai dirigenti del movimento il segretario dei giovani comunisti - non ebbero dubbi sulla scelta da compiere e si schierarono senza esitazioni dalla parte delle istituzioni. La Annunziata, all’epoca giovane dirigente del Manifesto-Pdup, in tutto il suo racconto cerca di mettere in luce i ritardi nella comprensione delle ragioni del nascente movimento, facendo trasparire a più riprese l’idea che un diverso atteggiamento del più grande partito della sinistra - e del loro alleato Francesco Cossiga, ministro democristiano dell’Interno - avrebbe potuto limitare, se non addirittura evitare la deriva violenta impressa, dopo gli scontri del 12 marzo 1977, dai gruppi dell’Autonomia. Non c’è ovviamente la controprova e rimanendo sullo stesso piano ipotetico, viene naturale domandarsi quali sarebbero state le conseguenze per la democrazia italiana se il Pci e il sindacato non avessero deliberatamente costruito una vera e propria diga contro l’ estremismo e la violenza di piazza. Se è vero che l’assenza di uno sbocco politico all’azione del movimento finì per favorire le tesi di chi vedeva nella lotta armata clandestina l’unica possibilità per cambiare le cose, è altrettanto incontestabile che l’ammiccamento del Pci verso la violenza avrebbe prodotto conseguenze inimmaginabili e soprattutto la lotta al terrorismo sarebbe stata molto più difficile e la vittoria dello Stato contro i brigatisti certamente più lontana. D’altronde - come sintetizza efficacemente Lucia Annunziata - «nel 1977 la famiglia della sinistra uccise suo padre, il Partito comunista italiano. Un delitto a lungo cercato». Un rapporto di odio misto a rispetto - «il suo pessimismo doloroso contro il nostro grintoso ottimismo» scrive l’ex presidente della Rai riferendosi al Pci - che viene da lontano, dal 1968, dalle lotte sociali e per l’allargamento dell’area dei diritti dei primi anni Settanta e affonda le radici in un ribellismo antisistema, assai diffuso tra i militanti della sinistra italiana in tutto il Novecento. Non a caso Enrico Berlinguer, di fronte alle prime avvisaglie della violenza estremistica, rispolvera l’immagine del «diciannovismo». E a guardar bene, pur nella profonda differenza dei contesti storici, qualche analogia con quel periodo della storia italiana c’era davvero: l’occupazione dell’università invece delle fabbriche come luogo simbolo della rivoluzione e gli studenti al posto della classe operaia, come avanguardia della lotta contro l’oppressione dello Stato. In fondo il rivoluzionarismo verbale delle assemblee e delle prime contestazioni assomigliava tristemente al massimalismo parolaio degli anni Venti, quello che annunciava la rivoluzione senza essere in grado di organizzarla: in entrambe le occasioni il drammatico errore di pensare di trovarsi nel pieno della crisi del sistema capitalistico e quindi in una situazione prerivoluzionaria. Invece, nel ’77 all’organizzazione militare ci pensarono le Brigate Rosse. Fu l’escalation delle azioni armate delle cellule clandestine di quegli anni, più delle occupazioni e i cortei del movimento, a cambiare nel profondo la società e la politica italiana. Indubbiamente le ragioni di insofferenza libertaria verso l’ «ortodossia comunista» erano più che giustificate, così come era fondata la denuncia del ritardo del Pci nell’interpretare la domanda di modernizzazione, sintetizzata nella ritrosia dei vertici di Botteghe Oscure a partecipare alla lotta referendaria a difesa della legge sul divorzio nel 1974. Certamente l’ala creativa del movimento, gli indiani metropolitani, riuscì nell’intento di dissacrare molti dei riti delle istituzioni e dei partiti, ma ben presto gli slogan intelligentemente spiritosi del «Lama non l’ama nessuno» lasciarono il posto alle spranghe e alle P38 dell’ala dura dell’Autonomia Operaia, rapidamente impadronitasi della guida delle contestazioni dopo aver relegato in un angolo sia Lotta continua sia gli altri movimenti della sinistra extra- parlamentare. In definitiva il problema non è quello di domandarsi quale sia l’ eredità del ’77. Può essere, invece, più utile interrogarsi quanto gli attuali partiti della sinistra siano disponibili ad ascoltare il disagio giovanile e sociale - che si presenta in forme e con problematiche diverse da quelle del passato - per evitare di ricreare quel fossato di incomunicabilità al fondo del quale c’è nel migliore dei casi l’antipolitica o la fuga dalla realtà per mezzo della droga e dietro cui, come dimostra il 1977, può nascondersi il demone del terrorismo.

il Riformista 7.2.07
SETTANTASETTE 2. LE DIVERSITÀ DAL SESSANTOTTO
Sarà paradossale, ma il rifiuto del lavoro anticipò il popolo delle partite Iva
di Massimo Bordin


Agli anniversari non si sfugge, tanto meno ai trentennali. Dunque il «movimento del ’77» viene riportato alla luce. Il tempo trascorso e la distanza impongono però occhiali adatti, altrimenti si rischia di andare a memoria e di restare prigionieri di quello che si vide con gli occhi di allora. In fondo fu tutto molto rapido. Dall’occupazione dell’ università di Roma alla mattina del giovedì grasso in cui Lama e la Cgil ne furono cacciati, passarono solo due settimane, come ha notato Lucia Annunziata. Tanto poco ci mise il movimento a bruciare i ponti con l’ufficialità della rappresentanza sociale. Non fu così nove anni prima. Il primo maggio del ’68 il movimento studentesco parlò dal palco della triplice a piazza san Giovanni inaugurando un rapporto di conflitto coi vertici sindacali per conquistarne la base e a essa si rivolse il rappresentante degli studenti, mi pare fosse Piperno: «Voi ci avete insegnato la lotta, da voi abbiamo imparato l’uso della violenza». E i vostri capi oggi vi stanno tradendo, era il nemmeno troppo sottinteso. Iniziava una storia che finì la mattina del comizio di Lama all’ università, quando le bandiere del sindacato e del partito non furono strappate per sostituirle con altre più rosse; furono strappate e basta. Qui, e non nell’eccesso di violenza, sta la differenza con quello che era successo nove anni prima. Il ’68, almeno quello europeo, andò a piazzarsi dentro la tradizione del movimento operaio e comunista. Per estremizzarla, a ovest, per democratizzarla, a est. Rimase comunque in quell’alveo, con l’ingenua velleità di acquisire la leadership e in prospettiva il potere. Nel ’77 non andò così ma non è detto che l’immagine del parricidio spieghi tutto. Intanto perché chi aveva vent’anni nel ’77 nove anni prima giocava con le figurine e non con i movimenti di massa. E poi perché la “nuova sinistra” aveva già riposto ogni velleità e si interrogava fra integrazione e scioglimento dopo il deludente voto del ’76, su cui molto aveva puntato. Indimenticabile il manifesto elettorale del Pdup: «Prenderemo solo il 3 per cento, ma sarà decisivo per il 51 che porterà al governo delle sinistre». Presero l’1,5 e le sinistre, rimaste ben sotto il 50, sostennero con l’astensione un governo Andreotti. Inevitabile il disimpegno. O l’integrazione, anche perché ben diversa era la situazione del Pci. Mancato il sorpasso, era comunque arrivato ai suoi massimi storici tornando dopo trent’anni nell’area di governo, e con Pietro Ingrao presidente della Camera. Nell’estate del 1976, col «governo delle astensioni», il «monopartitismo imperfetto» si fa Stato; restano fuori solo Almirante (che sarà abbandonato da un cospicuo pezzo di Msi), i liberali e i nuovi giunti radicali insieme all’estrema sinistra. Ma soprattutto restano tagliati fuori i luoghi e i soggetti del conflitto sociale, che per la prima volta si trovano privi di una sponda istituzionale e di un sostegno nella società che, bene o male, il Pci non aveva mai fatto mancare. Il gramsciano «moderno Principe» si fa esigente e spietato. Il conflitto va sacrificato al modello berlingueriano dell’austerità. Asor Rosa è il più lucido: il partito deve farsi Stato, sia pure nella inedita forma consociativa. A questo obiettivo tutto va sottomesso e peggio per chi è fuori. Naturalmente, nota Asor, c’è un prezzo: le forme tradizionali del conflitto sociale mutano, non si scontrano più lavoro e capitale ma garantiti e non garantiti. Dal conflitto generatore di sviluppo si rischia di passare a un modello conflittuale quasi pre-capitalistico. Due società separate, l’una che racchiude i garantiti dal nuovo patto social-corporativo che tenta di perfezionarsi nella sfera istituzionale, l’altra composta da tutti quelli che si trovano fuori dal recinto, quasi nuovi paria. Infatti la manifestazione che il 12 marzo sfila per Roma con abbondante uso di armi da fuoco corte e lunghe è politicamente più simile al tumulto dei Ciompi che alla moderna lotta di classe. Nemmeno i brigatisti si fanno incantare dalle pallottole che fischiano, e restano diffidenti, saldi nei loro pur avvizziti schemini cominternisti. Nessuno dei manifestanti pensa però di sparare al padre- partito: i più giovani perché non lo ritengono nemmeno parente, gli over 25 perché, chi prima chi dopo, l’hanno già sepolto. Se c’è qualche eccezione è una di quelle cose che capitano quando c’è tanta gente. Ma il ’77 non vive solo di armi e indiani metropolitani. Il movimento ribelle all’emarginazione non disdegna la marginalità. Paradossalmente la richiesta di reddito viene sganciata da quella del “posto” non solo perché comunque negato ma anche perché, al fondo delle cose, poco appetito. Lavori di nicchia, con molto tempo libero, senza rinunciare a una vita di relazioni ricca. Il morettiano «Vedo gente, faccio cose» anticipa caricaturalmente i “Mc jobs”; se si deve lavorare sotto padrone meglio starci il meno possibile. Meglio ancora riuscire a lavorare in proprio, magari facendo piccole cose. È il paradosso più significativo di quel movimento. Il «rifiuto del lavoro» è, anche, la premonizione del fenomeno delle partite Iva. Percorso bizzarro che ancora lascia molto da descrivere.

martedì 6 febbraio 2007

"IL GIORNO" 24 maggio 1964
L'autogoverno li strappa alla fossa dei serpenti






Una clinica psichiatrica senza celle, senza camicie di forza, senza infermieri, dove i malati vivono in libertà, discutono con i sanitari i loro problemi: ecco quanto si è realizzato nella "comunità" di Roma, una iniziativa per certi aspetti unica e che comunque sta tentando una strada nuova in questo campo delicatissimo.

di STELIO MARTINI

«I malati psichiatrici possono governarsi da soli? Sono capaci di vivere in una ordinata comunità, di assolvere a certi compiti sociali, di prendere delle "sagge" decisioni?»

Mi sembravano ipotesi assurde, e non senza scetticismo suonai alla porta della Comunità. Il cancello si aprì quasi subito e, mentre attraversavo il breve giardino che divide la villa dalla strada, mi investì il suono di un disco di Celentano.

Le note rimbalzavano anacronisticamente sulla facciata 1930, anacronisticamente per lo stile, ma ancora di più per il suo contenuto. In fin dei conti non si trattava di una clinica per malati psichiatrici? Nessuno mi venne incontro, e perciò entrai direttamente nella stanza a pianterreno, che era piena di gente. C'erano uomini e donne: chi leggeva chi ascoltava la musica chi chiacchierava, e alcuni risposero al mio saluto. La loro disinvoltura favorì la mia.

Ma mi sentivo ugualmente a disagio. Di fronte ad un malato, anche la disinvoltura è una forma di ipocrisia, e io temevo che incontrando qualcuno di «loro» il mio comportamento avrebbe tradito il mio stato d'animo, di timore e istintiva pietà. Ma si trattava di una preoccupazione ormai inutile. Quasi tutte le persone che avevo incontrato fino a quel momento erano membri della Comunità, cioè malati. Me lo rivelò il dottor Fagioli, Il giovane direttore, ricevendomi nel suo ufficio.

Da tre anni egli abita, mangia, dorme e lavora, insieme alla moglie che sta per avere un figlio e «senza nessuna precauzione psichiatrica » (un eufemismo per dire: senza celle infermieri, camicie di forza), in mezzo ai pazienti, e queste cose non gli fanno più effetto. Si, era un malato quel tale che usciva mentre io entravo . E anche quello che mi aveva accompagnato in ascensore. E anche quello, aggiunse, che all'ora di pranzo ritira le medicine in infermeria e le distribuisce si suoi compagni, osservando la nota consegnatagli dal medico. « Certo…» sorrise lo psichiatra all'espressione della mia incredulità. Del resto, se mi fossi trattenuto avrei potuto constatarlo di persona. «E le dirò, in tre anni non è mai successo che un paziente incaricato di questo compito sbagliasse una dose. Come un infermiere, anzi meglio di un infermiere…»

Giovane ed entusiasta del metodo di cura applicato e perfezionato dal dottor Fabrizio Napolitani, Massimo Fagioli era assistente presso l'ospedale psichiatrico di Padova quando seppe dell'esperimento che il suo collega stava conducendo in Svizzera, in un padiglione a sé del sanatorio di Kreuzlingen. Immediatamente abbandonò il posto e lo raggiunse. I suoi colleghi dissero che era matto; oggi egli può vantarsi di aver partecipato ad un'iniziativa per certi lati unica, e che comunque tenta una strada nuova in un campo molto difficile.

Alla parola «malato di mente» la gente reagisce ancora con la paura. Senza far distinzioni, questo tipo di malato è considerato un'irresponsabile per eccellenza , dal quale bisogna difendersi. La legge riflette ed esaspera questa concezione, demandando il ricovero dei malati all'autorità giudiziaria. In tal modo ci si cautela contro le possibili conseguenze, ma si sottrae alla medicina la possibilità di vagliare, distinguere ed intervenire in condizioni ideali. E se è vero che in alcuni ospedali psichiatrici si sono fatti dei passi avanti, la codificata diffidenza contro la malattia è ancora molto grande. Uno dei pregi dell'esperimento tentato con la Comunità è quello di opporsi a questa diffidenza. E proprio certe parole che sembrano le più assurde sono, almeno per il profano, le più stimolanti. Autogoverno dei malati psichiatrici. Consiglio normativo della Comunità formato da medici e pazienti. Comitato di infermi e assistenti sociali. E così via.

Una casa come le altre
Esponente della moderna psichiatria, che sta abbandonando i tradizionali sistemi per le nuove tecniche psicoterapiche ispirate alla psicoanalisi, Fabrizio Napolitani ha creato in sostanza una specie di famiglia, dove malati e medici collaborano alla cura, si fa vita di gruppo e dove tutti (salvo il veto dei medici) accettano le decisioni della maggioranza. Egli ha lavorato diversi anni a questa iniziativa. Per la prima volta ne parlò al Congresso internazionale di Montreal nel '61; ora, dopo tre anni di rodaggio in Svizzera, ha trasferito a Roma la sua «democratica» Comunità, suscitando molto interesse negli ambienti medici.
Di fuori la clinica (situata in una via quasi centrale), è una casa come le altre, in mezzo alle altre. Far sì che il malato non si senta isolato, messo al bando dalla società, è infatti uno degli scopi di questo metodo che si propone prima di tutto di socializzare il paziente. « Socializzare e motivare…», precisò il dottor Napolitani, «sono gli scopi pregiudiziali della cura...».. Bruno tarchiato, le sopracciglia folte, quasi unite, il «padre» (anche in senso affettivo) della comunità ha lo sguardo di chi è abituato a scrutare le sofferenze dell'animo umano; ma spira dalla sua persona anche la rassicurante fiducia della persona che crede nelle inesauribili risorse dell'uomo.

Il punto di partenza delle nuove tecniche cui si è ispirato è infatti quello di considerare il malato non oggetto ma soggetto di cura. Cioè capace di collaborare alla sua guarigione. Tutto sta che esista in lui una parte sana, un nucleo anche piccolo, sulla quale far leva. «Se esiste è possibile spezzare il muro dietro il quale, per paura dell'ambiente, si è chiuso, fargli riprovare il piacere di comunicare e quindi far sorgere in lui il desiderio di guarire. Se si riesce a tanto, il più è fatto. Da quel momento infatti si può iniziare con il malato, divenuto consapevole della sua malattia, un colloquio che un po' alla volta lo riporta verso la normalità…» Questo colloquio non si svolge soltanto tra il medico e paziente, ma anche tra malato e malato. Come intuì John Maxwell, i malati di mente hanno un effetto terapeutico gli uni sugli altri, e su questo principio sono basate le cosiddette «psicoterapie di gruppo», nelle quali si inquadra anche la Comunità fondata dal dottor. Napolitani.

Ma insieme al dottor. Fagioli egli ha fatto un passo di più, organizzando qualcosa che fa venire in mente la «Città dei Ragazzi». Il caso del paziente che sostituisce l'infermiere, non è un'eccezione. Qui dentro ognuno è incaricato di una certa funzione, e fa parte quindi di un certo comitato. I comitati sono quattro: di Assistenza Vitto e Alloggio, Sociale, Culturale. E se dietro questi nomi importanti (un po' i « ministeri» della comunità) si nascondono solo compiti di carattere pratico, « è sorprendente che un maniaco depressivo si occupi di tenere la corrispondenza con i pazienti dimesso, o un malato bilaureato, sia pure in via di guarigione, di stabilire le coppie di cucina, o di servire il pranzo in tavola, o la mattina di mettere fuori della porta il secchio dell'immondizia »

Sempre vicino ai suoi malati
Oltre ai comitati vi sono 3 consigli, che corrispondono idealmente ai 3 poteri dello stato democratico. Legislativo, d'azione e di riabilitazione. Ciò significa che i malati, eletti ogni 2 mesi, sono investiti anche del potere di fare e disfare le leggi della comunità? E' proprio così, anche se ai medici spetta l'ultima parola. Ma il parere dei pazienti è sempre sollecitato e ogni argomento affrontato con loro. Nelle bisettimanali riunioni di gruppo, si discute di tutto. Dei problemi comuni e di quelli individuali, in una sorta di confessione collettiva nella quale ciascuno porta i suoi casi di fronte al gruppo, racconta tutto di sé, e ci fu uno che una volta raccontò persino che si era innamorato di una paziente, e lei lo seppe solo in questa occasione.

«Con i malati», disse il dottor. Fagioli, «si discute perfino se accettare o dimettere un paziente, anche se la decisione finale è riservata a noi. La cosa importante però è abituarli a discutere, farli sentire partecipi di una comune famiglia». Di questa famiglia, mentre il dottor Napolitani che l'ha fondata è il «padre ideale», Il dottor Fagioli, accondiscendente benevolo, sempre vicino ai malati e disposto ad ascoltarli, impersona un po' la figura «materna». Dal punto di vista scientifico si potranno muovere obiezioni all'esperimento della comunità ma questo medico che vive sempre in mezzo ai malati è una prova a favore del metodo e un indubbio esempio d'abnegazione. E siccome si era fatta l'ora di pranzo, e il dottor Fagioli doveva mettersi a tavola con i suoi « pensionanti» lasciammo l'ufficio ed entrammo nella Comunità.

Nell'interno questa assomiglia ad una comune pensione, con le camere a due o tre letti, la sala da pranzo con il tavolo comune, fatto a elle, il soggiorno con la TV, le riviste, il giradischi. Le camere erano tutte aperte. In una c'era una piccola libreria, tra i cui volumi c'era anche un libro di Freud. In un'altra una ragazza si stava ravviando i capelli davanti allo specchio. In cucina mi presentarono, col suo nome e cognome, una signora che stava preparando i piatti. Alcuni pazienti erano già a tavola. C'era, malgrado tutto un'aria di famiglia. E infatti la funzione essenziale della Comunità è proprio di costituire per ciascun paziente una famiglia ideale, in sostituzione della loro che spesso è stata la causa prima della malattia.

Ogni anno il professore ritorna
Così si spiega come alcuni riescano a svolgere durante il giorno una normale attività e rientrino «a casa» la sera. E perché quelli che lasciano restino sempre legati ai loro «fratelli» da vincoli affettivi. «C'è un professore di università» diceva il dottor Fagioli « che ritorna a trovarci ogni anno», ma già sfrecciava verso i suoi pazienti e collaboratori, quasi assurdo nella sua dedizione e nella sua fiducia nelle loro risorse. Ma un po' di fiducia è necessaria; altrimenti si resta sempre fermi alle celle, agli infermieri, e alle camicie di forza.

il Riformista 6.2.07
Oh, ma che soddisfazione stare «nell’ambito»
di Emanuele Macaluso


Ho letto il documento congressuale presentato dal segretario Ds e quel che mi colpisce è la separazione totale tra gli obiettivi che con il cosiddetto Partito democratico si vogliono perseguire e la realtà che stanno vivendo il Paese e il suo partito.
Scrive Fassino: «Ci sono momenti nella vita delle nazioni in cui un Paese è chiamato a interrogarsi sul suo destino e a ridefinire la propria identità. È accaduto agli Stati Uniti dopo la depressione del ’29; è accaduto alla Germania dopo la tragedia del nazismo, dell’Olocausto e della seconda guerra mondiale; è accaduto alla Francia nella crisi della quarta Repubblica e nella perdita, con la decolonizzazione, del suo carattere imperiale; è accaduto alla Spagna nel passaggio dal franchismo alla democrazia. Accadde con la costruzione dell’Italia repubblicana dopo il crollo del fascismo». Mi chiedo: oggi il nostro Paese è a un passaggio che possa richiamare quegli eventi? E il gruppo dirigente del Partito democratico è paragonabile a quello che espresse l’Italia nel ’45? Non scherziamo. E tra l’altro nel documento non c’è un minimo di analisi per dimostrarlo. C’è solo l’affermazione apodittica che il Partito democratico serve a dare all’Italia una «nuova stagione della democrazia... e un riformismo alto e nuovo».
Nelle 33 pagine del documento si spiega cosa occorrerebbe per sviluppare la democrazia, l’economia e la società, ma non c’è una sola parola su cosa sono oggi Ds e Margherita, e da quali analisi si deduce che i loro dirigenti siano in grado di scalare l’Everest, rinnovando la politica italiana e la società. Insomma Fassino mi sembra l’allenatore di una squadra che parte per le Olimpiadi e dichiara che le vincerà mentre i suoi giocatori sono seduti in comode poltrone, grassi e senza fiato. Scrive Fassino: «È anzitutto attraverso l’azione di governo che dobbiamo mettere alla prova la nostra funzione di classe dirigente nazionale, la nostra capacità di restituire alla politica l’intelligenza e l’autorevolezza necessaria per capire il Paese e sostenerlo nel cambiamento. E si è cominciato a farlo». Veramente? E chissà per quale ministero la gente (si vedano i sondaggi fatti da società amiche e non da Berlusconi) non capisce. Chissà perché Ds e Margherita al governo sono in concorrenza o in contraddizione praticamente su tutto.
Caro Fassino, la gente vede, legge e pensa; non tutti applaudono acriticamente come nelle assemblee dei segretari di sezione. Infine, scrivere che la «questione socialista» troverà soluzione nel Partito democratico, nel momento in cui i Ds si uniscono alla Margherita di Rutelli è una provocazione. Anche perché nelle stesse pagine con un giro di parole penose si scrive che il Partito democratico dovrà operare «nell’ambito del Pse» e quindi non esserne parte. Insomma i socialisti (anche i Ds che del Pse sono cofondatori) che sono già nel Pse si aggireranno nell’«ambito». Ma veramente pensate che problemi così rilevanti possano essere aggirati con qualche parolina?
Faccio queste osservazioni non perché mi illuda che i Ds possano ripensare a quel che chiamano il «percorso» ma perché la discussione, il confronto, i consensi e i dissensi possano misurarsi su testi che dicono pane al pane e vino al vino. Non dovrebbe essere questa la prima regola di chi, nientemeno, vuole «iniziare una nuova storia e una nuova stagione della democrazia»?

Il Riformista 6.2.07
EUTANASIA 2. DELICATA E CONTROVERSA SENTENZA DEI GIUDICI
Suicidio assistito anche per i malati mentali
Un tribunale svizzero: ai medici la decisione


Nella Svizzera dove tutto è possibile, anche il diritto a suicidarsi, una sentenza del tribunale federale (la massima autorità giudiziaria elvetica) apre una porta finora mai aperta nel dibattito sull’ eutanasia: quella della malattia mentale. Il tribunale ha infatti ammesso, in linea di principio, che «le persone sofferenti di problemi psichici o psichiatrici possono ugualmente beneficiare dell’assistenza medica al suicidio». Una sentenza, su una materia delicatissima, che rischia di confondere non poco le acque di una materia che, in terra elvetica, è sì parzialmente liberalizzata, ma la cui normativa affonda le fondamenta in un principio basilare: la manifestazione della volontà (e la relativa capacità d’intendere e dunque volere) del paziente. Chiara, dunque, la contraddizione che viene a crearsi tra il diritto del malato psichico o psichiatrico a non essere discriminato e la sua incapacità che lo esclude a priori da un percorso basato proprio sulla capacità dell’individuo di esprimere la propria volontà di morire. Non a caso, nella stessa sentenza, il tribunale federale svizzero ha adottato un’ altra misura che «rifiuta in maniera categorica» la possibilità che pazienti individuali o le organizzazioni Exit e Dignitas (composte da volontari che praticano il suicidio assistito) possano ottenere senza ricetta medica il pentobarbital di sodio, la sostanza maggiormente utilizzata nelle procedure di assistenza al suicidio. La pronuncia del tribunale federale segue un’intricata vicenda che ha per protagonista un malato con manie depressive che, dopo due tentativi di suicidio falliti, aveva chiesto all’associazione Dignitas di essere aiutato a morire. In quel caso, però, nessun medico interpellato accordò la ricetta per acquistare il veleno, tanto che il maniacodepressivo, per suicidarsi, adì le vie legali. Prima si rivolse alle autorità del Canton Zurigo, chiedendo che l’ associazione potesse ottenere la sostanza letale senza ricetta medica. Di fronte alla prima risposta negativa, l’uomo ha presentato un regolare ricorso al tribunale federale che, pur respingendo fondamentalmente la sua richiesta, si è ritrovato a riconoscere un diritto più generale: riferendosi alla convenzione europea per i diritti umani, i giudici federali hanno sentenziato che il diritto a darsi la morte debba essere garantito a qualsiasi cittadino. Malati psichici o psichiatrici compresi. E che a decidere, alla fin fine, debbano essere i medici che rilasciano la ricetta per il veleno. Ma come stabilire la reale volontà di un paziente che, in molti casi, è afflitto da una patologia che attiene proprio al suo raziocinio? Nella pratica, dunque, la patata bollente passa ai sanitari. E i giudici elvetici hanno sottolineato l’importanza dell’autonomia nell’ espressione della volontà di morire del paziente. Che per essere certa, in caso di malato di mente, dovrà essere quantomeno avallata da una perizia psichiatrica. Perché da un recente studio, citato proprio dalla corte federale, finora nel suicidio assistito i fattori sociali o psichiatrici sarebbero stati sottovalutati.
(s. o.)

lunedì 5 febbraio 2007

Repubblica Almanacco dei libri 3.1.07
Karl Kerenij su Virgilio


Era il 1929 quando l'illustre studioso di miti affrontò la figura di Virgilio. Ecco come restituì la grandezza di un poeta liberandola dalla retorica del fascismo.
Un'analisi che mette in luce l'importanza della religione

Publio Virgilio Marone (Publius Vergilius Maro), poeta romano, nacque il 15 ottobre del 70 a. C. ad Andes, presso Mantova. Era di umili origini, ma i genitori gli permisero di studiare retorica a Cremona, poi a Milano e a Roma. Dopo la battaglia di Filippi (42 a. C.), i territori del Cremonese e del Mantovano, tra i quali v´era anche la piccola proprietà terriera della famiglia di Virgilio, furono spartiti tra i veterani. Il poeta, in difficoltà, si rivolse a Ottaviano, che gli concesse la restituzione del possedimento. Le Bucoliche, scritte tra il 42 e il 39, lo resero famoso, ed egli trovò numerosi amici e benefattori, tra cui il Console Asinio Pollione, Cornelio Gallo e Mecenate, che lo aiutarono affinché potesse ritirarsi in un podere nei pressi di Napoli per dedicarsi all´otium creativo. Fra il 39 e il 29, Virgilio scrisse le Georgiche, un poema didascalico sull´agricoltura, dopo il 29, fino alla morte, lavorò all´Eneide: il poema epico, storico e mitologico, secondo il modello omerico, nel quale, riallacciandosi all´Iliade, Virgilio illustra il mutevole destino del troiano Enea, che diviene il progenitore della stirpe romana, e rappresenta con forza visionaria la missione storica di Roma, che egli vide realizzata nell´ordine augusteo del proprio tempo. Sebbene l´opera fosse stata portata a termine, Virgilio avrebbe voluto ancora rimaneggiarla. Sulla via del ritorno dal suo viaggio in Grecia, il poeta morì il 21 settembre del 19 a. C., a Brindisi. Augusto non rispettò la sua ultima volontà di farne distruggere il manoscritto, e ne affidò la pubblicazione a Vario Rufo. Così si è conservata un´opera della letteratura mondiale, che ha caratterizzato in maniera persistente l´immagine dell´era augustea, e ha influenzato la poesia occidentale come nessun altro testo della letteratura latina.

A cosa servono mai i poeti, se i loro testi non vengono letti? Solo a leggere testi su di loro? In tal caso essi son persi. I poeti antichi non hanno bisogno tanto di una introduzione, quanto, piuttosto, d´una guida: di un´istruzione per l´uso, che richiami l´attenzione su quanto di insostituibile ci è rimasto di loro. Cosa se ne fa il lettore della frase: «Virgilio, ci commuove come preghiera e poesia, esattamente come ciò che l´animo predisposto al misticismo percepisce in entrambe come comune ed identico, Catullo come passione e poesia... »?
Questa seconda affermazione è già più comprensibile rispetto alla prima. Per «animo predisposto al misticismo» alludevo all´abate Bremond, che scrisse una storia del sentimento religioso in Francia e pubblicò un libro sulla poesia pura. Non esiste altro poeta romano che si sia tanto avvicinato alla poesia pura quanto Virgilio, e ciò in virtù d´una religio nel senso originario, romano, del termine, di un´attenzione rispettosa che di per sé non poteva dare alla poesia alcun ricco contenuto, ma piuttosto conferirle un carattere che richiedesse l´attenzione, la religio anche da parte dei lettori. Attenzione a che cosa? All´uomo e alla sua lingua, la quale, in Virgilio, è inscindibilmente connessa con la sua poesia a tal punto che, quando parliamo di lui, i termini «opera» e «poesia» sono intercambiabili: «opera» può stare per «poesia» e viceversa. Soffermiamoci quindi sull´uomo, prima di apprezzarne la lirica.
Publio Virgilio Marone è il suo nome completo. I nomi autenticamente romani, come questo, testimoniano la ben riuscita fusione di elementi di varie popolazioni, che costituirono la romanità. La loro analisi non è indispensabile per conoscere meglio il personaggio che porta un determinato nome. A volte però accade altrimenti, e forse anche nel caso di Virgilio. Egli era un romano dell´Italia del Nord, come Catullo, poeta, questi, che apparteneva alla gens Valeria, una gloriosa genia, il cui capostipite era giunto a Roma dalla terra dei Sabini; Virgilio, però, la annoverava tra i casati etruschi. Le sue origini non erano molto illustri, egli apparteneva al popolo minuto, ma a giudicare dal nome, "Virgilius", e dal cognomen, "Maro", esse erano probabilmente etrusche.
"Vergilius" è nome noto anche in luoghi propriamente etruschi (Volterra, Sutri, Veio), "Maro" - maru - era originariamente un titolo dei funzionari dell´antica Etruria. Un nome etrusco lo portava anche Magio, il viator (il messo dei tribunali), la cui figlia Magia Polla sposò il padre di Virgilio, il quale aveva esercitato il mestiere di vasaio prima di impiegarsi presso il futuro suocero, ma che poi aveva saputo anche accrescere il proprio piccolo patrimonio con l´apicoltura e con l´acquisto di boschi.
Entrambe le famiglie, quella di Virgilio e quella di sua madre, cui la tradizione etrusca assegnava un ruolo centrale, abitavano in un villaggio popolato da Galli che s´erano insediati piuttosto tardi in Italia: il nome del villaggio, Andes, era gallico. Virgilio nacque ad Andes.
Mantova, il centro più vicino, venne ritenuto la sua vera città natale. Un esametro, tramandato come proverbio, diceva: Mantua Tuscorum trans Padum sola reliqua (Mantova è quanto resta degli Etruschi al di là del Po). Come altre città dell´Etruria, Mantova era sacra alle divinità degli Inferi e mantenne la sua denominazione etrusca - mantu.
Agli Etruschi succedettero altre due popolazioni di diverse origini. Virgilio, nell´Eneide, parla così di una Mantova «ricca d´avi» e di una stirpe (gens) tripartita, che comprendeva quattro popolazioni, evidenziando però che la forza della città era data dal sangue etrusco:

Mantova ricca d´avi: né tutti son d´una stirpe: /tre son le tue genti, quattro sotto ciascuna son popoli /tu capo dei popoli, il nerbo è di sangue tirreno.

Un quadro, in piccolo, dell´Italia unificata dai Romani. Il mantovano Virgilio, per il quale Roma era caput mundi, che però si trasferì a Napoli, e che possedeva anche una casa in Sicilia, non era tanto lontano dall´essere il primo poeta italiano! Sì, egli fu il fondatore proprio di quell´arte poetica dotata d´una intrinseca sonorità estremamente colta, che pertiene alla poesia italiana a quella a essa linguisticamente affine. Solo chi decide di immergersi nei contenuti musicali della lingua melodiosa di Virgilio, solo chi non si accontenta di alcuna traduzione, o di una semplice indicazione di contenuto, si impossesserà di ciò con cui Virgilio arricchì immediatamente il mondo - indirettamente lo arricchì attraverso la poesia italiana, e attraverso tutta la lirica romanza che trasse ispirazione dalla sua opera, grazie a quei poeti che avvertirono un´affinità spirituale con lui.
* * *
Esaminiamo adesso l´uomo. Un uomo dalla pelle scura, alto, con i tratti di un contadino e dalla salute cagionevole - così ci viene descritto.
Un mosaico a Tunisi ne fissa il ritratto con un´aura di estrema semplicità e di un´innegabile valentia, accanto alla musa della storiografia e della tragedia. Ci è dato anche sapere di che disturbi soffriva: dolori al ventre, mal di testa e di gola lo tormentavano spesso, e poteva anche accadere che rimettesse sangue. Giacché morì a soli cinquantuno anni, v´è da supporre che questo stato, come anche le sue note abitudini, caratterizzassero la sua vita già sui trent´anni. Mangiava e beveva molto poco ed era particolarmente sensibile all´amore dei bei fanciulli. Uno dei suoi amici e benefattori lo volle far sedurre da una nota etera romana; questa ammise che, nonostante la sua esperienza, era fallita nell´impresa. Alla svolta che intervenne poco prima dei trent´anni, non tanto nel carattere, quanto nella sua vita pubblica e privata, si riferisce probabilmente una breve poesia - un Catalepton - alla maniera di Catullo, come alcune di quelle tramandateci dall´Appendix Vergiliana, l´appendice all´opera del poeta.
Nel quinto Catalepton Virgilio si congeda dalla retorica e dai modi ampollosi degli oratori e degli insegnanti di retorica, alcuni dei quali vengono anche chiamati per nome.
Con un´espressione, che stranamente coincide con quella a noi nota da altre fonti, definisce queste persone un «vuoto cembalo della gioventù». Egli prende altresì congedo dal fanciullo amato e da tutti i bei giovani. Vuol veleggiare verso quel porto della beatitudine, indicatogli dalle massime del grande Sirone.
Scelse quell´epicureismo ascetico, per il quale il fine non era rappresentato dal piacere, ma dalla soppressione del dolore. Allontana da sé persino le dolci muse - egli riconobbe che esse erano dolci e permette loro di rivisitare le sue carte solo di rado:

Dirigiamo le nostre vele verso beati porti, /guidati dalle dotte massime del grande Sirone /liberando la vita da ogni pena. /Andate via di qui anche voi, o Muse, andate pure ora /o dolci Muse, /poiché riconosciamo il vero, /siete state dolci, /e tuttavia le mie carte /venite a visitare, ma con discrezione e raramente.
* * *
La poesia avrebbe occupato i restanti ventuno anni della sua vita, e certamente non lasciò tempo ad alcun punto morto, come era accaduto quando il quasi trentenne Virgilio aveva voluto tener lontana dalle sue carte, oltre alla retorica, possibilmente anche la stessa poesia. Non s´ebbe una svolta definitiva verso la filosofia - quando Virgilio, così pare, dopo la morte di Sirone, si trasferì nel podere di quest´ultimo - ma un lampo di genio deve aver illuminato il poeta. Così, improvvisamente egli fece ciò che sino ad allora non aveva fatto, con un atto creativo, che segnò l´inizio dell´arte poetica virgiliana e di quella ispirata a Virgilio: una creazione poetica contraddistinta da una perfetta musicalità linguistica e soprattutto da quella musicalità linguistica che, da quest´esatto momento in poi, sarebbe stata coltivata come la vera poesia.
Virgilio manifestò metaforicamente quel che sino ad allora era stato per lui il poetare - e certamente di rado egli aveva esercitato quest´arte in maniera personale, poiché non aveva ancora trovato una sua propria forma espressiva - , lo manifestò in maniera istintiva attraverso quelle chartae che le Muse avevano il permesso di visitare di quando in quando. I testi dell´Appendix Vergiliana - a parte i brevi componimenti secondo la maniera catulliana - ammesso che realmente ve ne siano di Virgilio, o non si tratti piuttosto di esperimenti e imitazioni di anonimo: tutti erano rigorosamente vergati su chartae, frutto dell´erudizione e non del suono che sgorga, dominato dal poeta, che però nel contempo canta se stesso, è co-autore.
L´esordio dell´idillio che inaugura le Bucoliche, la raccolta di poesie pastorali, che nacque probabilmente dopo una «buona» nuova ricevuta «da casa», può essere caratterizzato nel modo seguente - ma non perché si voglia, con tale caratterizzazione, cogliere un aspetto accessorio della vera poesia di Virgilio! Poiché la poesia è quella che Virgilio trovò improvvisamente per sé e che creò per la sua gloria futura:

«I versi iniziali formano una strofa dai lineamenti purissimi e semplici. Nel loro equilibrio armonioso sono un esempio dell´arte classica del comporre. La melodia delle parole iniziali deriva dall´alternanza di vocali chiare e scure»:

Tityre, tu patulae recubans...

«Nella successione delle vocali avvertiamo le modulazioni della fistola. La lingua latina raggiunge una dolcezza, un´armonia musicale, una pienezza sensuale, come mai era accaduto prima di allora».
I cinque versi vanno letti ad alta voce - come tutto Virgilio:

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena: nos patriae finis et dulcia linquimus arva, nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas.

Titiro, tu disteso all´ombra di un faggio frondoso /provi una canzone silvestre sul semplice flauto; /noi lasciamo le terre della patria e le soavi campagne, /noi fuggiamo dalla patria; tu, Titiro, all´ombra tranquillo /insegni alle selve a far risuonare la bella Amarilli.

Era, questa, una creazione che attingeva alla musicalità della lingua e soprattutto era espressione di tale sonorità - una creazione di versi intraducibili! La lingua come luogo della rappresentazione del mondo attraverso il suono e null´altro non fu Virgilio a inventarla per primo, egli la trovò, grazie alla sua erudizione, nella letteratura greca, presso il siracusano Teocrito. Prima del verso:

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi

c´era il verso con cui comincia il primo idillio di Teocrito:

Had ti to psith risma kai ha pit s aipole tena -
Dolce è, capraio, il sussurro di questo pino che canta...

Fu così che risuonò la lingua musicale che tanto catturò Virgilio.
La ripetizione di hadü («dolce» nel dialetto dorico) nei primi versi dell´idillio non crea soltanto una nuova tonalità ma, più in generale, anche nuove possibilità sonore che l´esametro deve a Teocrito. «Se davvero egli ha inventato un nuovo genere» - così almeno dicono i filologi - «esso dovette essere quello coltivato anche da Callimaco, la trasposizione dei vari generi poetici del primo ellenismo nella forma epico-recitativa».
E con ciò si è detto ancora troppo poco. Poiché l´originaria melodia epico-recitativa dell´esametro, che era plastica e drammatica, pur essendo originariamente cantata, subì poi una trasformazione inglobando i suoni della lirica, compresi quelli dei canti pastorali, nello strumento sensuale della musicalità della parola, che cantava di per sé, senza accompagnamenti e senza passare dal recitativo al canto puro.
Grazie a Teocrito, Virgilio trovò il proprio strumento espressivo, non solo per le Bucoliche, ma per tutta la sua poesia. Tale espressione poetica era stata per lui un´inquietante e assillante possibilità fino al suo ventottesimo anno di vita, ma poi, in virtù della scoperta d´un equivalente latino del modello teocriteo, essa poté finalmente trovare piena realizzazione. Perciò la lettura ad alta voce delle sue poesie era per Virgilio più importante che per altri poeti, ed egli soffriva molto quando i frequenti mal di gola gliela impedivano. La sua lettura era un´unica soave seduzione - pronuntiavit autem cum suavitate et lenociniis miris. Un suo rivale ebbe poi a dire che avrebbe rubato varie cose a Virgilio se avesse potuto ereditare anche la sua voce, la sua bocca e il suo talento di attore, poiché i versi che altrimenti parevano vuoti e muti, se letti da Virgilio, risuonavano. Le Bucoliche, che nella versione definitiva includevano dieci poesie scelte (Eclogae), ebbero un tale successo, che furono più volte recitate dai cantori a teatro.
Quando Virgilio ebbe terminata l´opera successiva, le Georgiche, andò a curarsi la gola ad Atella, in Campania, dove dopo la battaglia di Anzio, Ottaviano accorse per ascoltarlo. In quattro giorni furono letti i quattro libri delle Georgiche. Quando la voce di Virgilio si affievoliva, era Mecenate a continuare la lettura.
La poesia pastorale come la più pura poesia in onore del Tempo che conduce il cantore insito nel pastore (e il più semplice degli esseri umani rappresentato dal poeta - il «pastore») in un mondo di suoni, un mondo opposto alla triste realtà, cui pure si accenna: queste sono le Bucoliche di Virgilio. Tutto ciò ha un che di operistico e il poeta stesso, verrebbe da dire, giustamente, viene a configurarsi come una sorta di primadonna, se non vi fosse anche l´elemento intimamente legato alla «preghiera» e se il gioco non fosse elevato alle alte sfere della sacra serietà. La religiosità di Virgilio in ciò - e in tutto - è l´aspetto che meno è stato compreso dai posteri. Le parole di ringraziamento di Titiro nella prima Ecloga: «... deus nobis haec otia fecit, namque erit ille mjhi semper deus (un dio ci ha concesso questa quiete, infatti egli sarà per me sempre un dio)» derivano come semplice conclusione contadina da quella religiosità umana, greca e certo anche romana, che, tradotta in latino, probabilmente dall´opera di Menandro, si manifesta con queste parole: «deus est homini invare hominem (dio è per l´uomo aiutare l´uomo)». Fu un evento divino che aiutò Virgilio a conservare il suo bene, ma vi fu anche chi concretamente lo scatenò: perché non si sarebbe dovuto trasferire a costui la divinità e il culto?

Repubblica 4.2.07
Se continua questa guerra tutti quanti van per terra
di Eugenio Scalfari


E così anche il calcio affonda nell´abisso: stadi chiusi, campionato sospeso ad oltranza, partite della Nazionale rinviate senza scadenza. Era cominciata con Calciopoli, adesso siamo ai morti ammazzati (due in dieci giorni) e agli ospedali gremiti di feriti. Dire che lo specchio si è rotto anche per il principale giocattolo che mobilitava ancora le passioni sportive del paese è dir poco. Non era passione sportiva ma feticismo, selvaggia idolatria, voglia di fare a botte per il solo gusto di farlo, di rompere, di esibizione muscolare. Nel calcio si è già visto di tutto: soldi e potere, teppismo e divismo, teppismo di massa e teppismo di "élite". Gli italiani sono impazziti? Forse sì, una larga fetta di italiani dà prove di follia o quantomeno di instabilità mentale, rivalità di campanile tracimano in pulsioni omicide; le regole vengono infrante, la pubblica sicurezza aggredita da una vera e propria guerriglia di tutti contro tutti e del tanto peggio tanto meglio.
Si può sopprimere il calcio e le sue manifestazioni? Al di là dei provvedimenti della Federcalcio e di quelli che il governo dovrà prendere, il calcio si è soppresso da sé. Lascerà un vuoto enorme e nessuno sa come sarà riempito. Non nascondiamoci pensando che si tratta solo d´un gioco. Quel gioco alimentava anche sogni. Ora suscita incubi. Folle inferocite. Vite bruciate per niente, tragedie prive di senso, lutto collettivo senza elaborazione. Impossibile fare ironia su questo disastro. Lo si guarda con stupefatta impotenza e costernazione.
* * *
Ai piani superiori, quelli della politica e della ragione, si dovrebbe respirare meglio. Siamo nelle zone dell´intelletto, da "intelligere". Si dovrebbe esser più lontani dalle pulsioni incontrollate, dalla muscolarità dei gesti e delle parole. Ma è così?
A giudicare da quanto è avvenuto nelle ultime ore non pare che sia così. La lucidità di pochi è assediata e messa a rischio dalla stoltezza di molti. In un´atmosfera hobbesiana, qui si recita la guerra di tutti contro tutti sul niente. L´ampliamento d´una base americana a Vicenza, una base che non contiene alcun deposito di armi e che non ha finalità guerresche offensive né difensive ma soltanto logistiche, rischia di innescare – ha già innescato – una reazione a catena che, se non verrà interrotta, porterà dritti alla crisi politica di un´alleanza che non avrebbe alternative se non la paralisi delle istituzioni. Siamo arrivati al colmo di un´opposizione che vota a favore del governo con l´intenzione dichiarata di farlo cadere e di una maggioranza che cade nella trappola presentando un documento talmente ambiguo e circospetto nei confronti del governo da mettere in moto tutte le forze centrifughe e ridursi in minoranza disordinata e sconfitta.

Un episodio simile di confusionismo parlamentare non era mai accaduto e non vale ora rimpallarsene le responsabilità. La mozione presentata dal centrosinistra era un capolavoro di ambiguità. L´errore è stato d´averla redatta in quel modo. Il Senato era chiamato a giudicare la relazione del ministro della Difesa sul caso Vicenza. La maggioranza non poteva che approvarla completandola eventualmente con ulteriori qualificazioni, ma la sinistra radicale ha preteso di sostituire la parola «approvazione» con l´algido termine della «presa d´atto». Prendere atto di un fatto significa che non lo si approva ma se ne constata l´esistenza, lo si accantona e si procede come se non fosse avvenuto. Il risultato si è visto.
Ora ci sarà la manifestazione popolare del 17 febbraio a Vicenza e sarà un altro passo verso la centrifugazione della maggioranza e contro la politica di pace coerentemente condotta fin qui dal governo e lucidamente esposta nella lettera che Prodi ha indirizzato a "Repubblica" pubblicata ieri su questo giornale. Poi ci sarà il voto sulla nostra missione in Afganistan, appuntamento decisivo per la sussistenza del governo.
Bertinotti, parlando dall´America Latina dove attualmente si trova, si è dimostrato fiducioso ed ha invitato il governo a trarre forza dalla «partecipazione popolare». Che cosa vuol dire il presidente della Camera? La manifestazione di Vicenza si effettua con il solo obiettivo d´impedire l´ampliamento e quindi l´esistenza della base americana. Non sappiamo quanto sia rappresentativa della volontà dei vicentini. Comunque in che modo il governo ne può trarre forza? Smentendo il proprio ministro della Difesa, anzi lo stesso presidente del Consiglio? Non si accorge il presidente della Camera di gettare olio sulla fiammella vicentina rischiando di farla diventare un incendio generale? E ancora: può una figura istituzionale assumere comportamenti che sono in stridente contrasto con la sua doverosa neutralità politica?
* * *
C´è dell´altro e di peggio. I contrasti di politica estera hanno rimesso in moto nell´altra ala dello schieramento di centrosinistra un battagliero massimalismo sul delicato tema delle coppie di fatto.
Sembrava avviato a positiva soluzione con il documento Bindi-Pollastrini che aveva superato lo scoglio del "riconoscimento" attraverso la dichiarazione delle coppie dinanzi all´anagrafe del Comune di residenza anziché con l´iscrizione in apposito registro da parte d´un qualsiasi ufficiale di stato civile sul territorio nazionale. Con quest´accorgimento di notevole valenza giuridica era stata evitata ogni possibile somiglianza all´istituto matrimoniale e quindi - si riteneva - ogni contrasto con le posizioni non solo del laicato cattolico e delle sue associazioni ma della Chiesa.
Questa era la speranza di tutte le «persone di buona volontà» a cominciare dallo stesso presidente della Repubblica quando aveva auspicato, nel corso della sua recente visita di Stato al Papa, la collaborazione della Chiesa per accrescere la coesione della società italiana nel rispetto della reciproca autonomia delle due entità - lo Stato e la Chiesa - nell´ambito delle rispettive sovranità e competenze. Il fatto che l´accordo fosse stato redatto da due ministri, l´una di cultura decisamente laica e l´altra di fede e cultura fermamente cattoliche, dava ulteriore garanzia di solidità.
Purtroppo nelle ultime battute di questa vicenda, che dovrebbe arrivare all´esame del Consiglio dei ministri entro i prossimi quindici giorni, sono emersi nuovi freni e ripensamenti. Il ministro della Giustizia ha più volte dichiarato che non voterà l´accordo invocando il fatto che il suo partito non ha votato e quindi non ha sottoscritto su questo tema il programma del centrosinistra.
Diverso il caso di Francesco Rutelli, presidente della Margherita e vicepresidente del Consiglio. Lui il programma di coalizione l´ha votato in tutti i punti e quindi non può rifiutarsi di accettarne anche questa parte nella quale si parla esplicitamente di riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto.
Rifondazione e gli altri partiti della sinistra radicale tirano la corda in politica estera, una parte della Margherita la tira sulla questione delle coppie di fatto. Infine una dozzina di "cani sciolti" che non seguono più gli impegni di coalizione e neppure le indicazioni dei partiti di appartenenza, puntano esplicitamente alla crisi di governo e quindi ad una terza reincarnazione di Berlusconi.
E la Chiesa? La Chiesa che dovrebbe collaborare alla coesione della società italiana?
* * *
Parlare della Chiesa o della Santa Sede o del Vaticano è impresa quanto mai ardua, data la complessità del mondo cattolico e delle istituzioni che lo dirigono. Cerchiamo dunque di essere molto precisi: qui parliamo della Conferenza episcopale italiana e del suo presidente (ancora per due mesi) cardinale Camillo Ruini.
I vescovi italiani sono entrati a gamba tesa nella discussione sulle coppie di fatto. Hanno detto e ridetto che il Parlamento non deve fare nessuna legge in proposito perché qualsiasi intervento legislativo che nomini le coppie di fatto equivale, per il fatto stesso di nominarle, ad un riconoscimento para-matrimoniale inaccettabile dai Vescovi italiani.
Che un intervento così plateale e più volte ribadito vada oltre il Concordato e oltre i Patti lateranensi è evidente. In queste ultime ore è nato anche un "giallo" su ipotetici contatti tra esponenti della Cei ed esponenti della Margherita. Smentite e controsmentite; ma debbo dire che il fatto mi sembra irrilevante. Non è invece irrilevante, anzi è rilevantissima la natura dell´intervento della Cei. Essa non si è limitata a comunicare la dottrina e l´etica della Chiesa in materia matrimoniale ma è arrivata a dare prescrizioni ai membri cattolici del Parlamento e al Parlamento stesso, irricevibili dalla massima istituzione della Repubblica, rappresentante della volontà popolare.
Non è mistero che nella Chiesa questo travalicare della Cei incontra molte e qualificate opposizioni. Ma neppure è mistero che Ruini, nell´imminenza della sua sostituzione, sembra animato da una sorta di "cupio dissolvi" puntato contro il governo di centrosinistra presieduto da un cattolico di sicura fede ma di adulto, autonomo e quindi laico comportamento.
Questo è lo scontro cui stiamo assistendo, attizzato anche, come già si è detto, dagli strappi della sinistra radicale sull´altro fronte. Gli attori principali di questi "destini incrociati" stanno portando il centrosinistra verso un "harakiri" che, se dovesse aver luogo, riporterebbe il paese molto più affondo di quanto non sia, mentre cominciava finalmente a risollevarsi.
Qualche lettore mi ha scritto per dirmi che coglie toni sfiduciati e pessimistici nei miei più recenti interventi. Assicuro che non sono sfiduciato. Pessimista abbastanza. In un mondo in cui ciascuno pensa di essere il birillo rosso del biliardo, cioè il centro geometrico di tutto ciò che accade, è difficile essere ottimisti. Diventa un gioco senza regole, di quelli che si facevano nei "saloon" del West, con la pistola sul tavolo.
Vogliamo ridurci a questo? Ne siamo ad un passo di distanza.

P. S. Per due giorni i nostri "media" e quelli di tutto il mondo si sono occupati come prima notizia dello scambio epistolare tra i coniugi Berlusconi.
Divertente (per gli spettatori). Con molti ed anche utili insegnamenti sull´evoluzione della morale pubblica, come hanno egregiamente commentato alcune delle nostre firme più brillanti.
Qualche collega di altri giornali si è chiesto che cosa ci fosse dietro e l´ha chiesto a "Repubblica", destinataria della lettera di Veronica Lario Berlusconi, quasi che noi fossimo depositari di eventuali retroscena e quindi strumentalizzati da interessi estranei alla nostra deontologia.
È strano porre a noi queste domande. Noi abbiamo ricevuto una lettera inviataci dalla moglie di un uomo pubblico, la quale chiedeva scuse pubbliche per suoi comportamenti avvenuti in pubblico e pubblicamente riferiti dai giornali e dalle tivù. Non abbiamo né carpito un documento privato né stimolato l´autrice a pubblicarlo. Il direttore Ezio Mauro ha ricevuto quella lettera, si è doverosamente accertato dell´autenticità e della volontà del mittente di renderla pubblica ed ha agito di conseguenza. Chi contesta le deontologia scrive a sproposito e se pensa che vi siano retroscena e secondi fini se li vada a cercare come ogni buon giornalista dovrebbe fare.

l’Unità 4.2.07
L’ultima missione di Ruini: affondare la legge sui Pacs
di Roberto Monteforte


L’ultima consegna di Papa Benedetto XVI al cardinale Ruini: bloccare ad ogni costo la legge sulle unioni di fatto. Ratzinger benedice la linea intransigente del presidente «in proroga» della Cei. Quella contro i Pacs potrebbe essere l’ultima battaglia del cardinale da sedici anni alla guida dei vescovi italiani. La sostituzione dovrebbe avvenire il prossimo 7 marzo. Per il successore, molto probabilmente il patriarca di Venezia, Angelo Scola, il rischio di un’eredità pesante: un paese lacerato. Monteforte

La legge sui pacs non deve passare. Ancora non si conosce nel dettaglio il testo di legge, ma è chiarissima la sequela di no della Chiesa di Roma. C’è attesa per le parole che oggi Papa Benedetto XVI pronuncerà all’Angelus. È la domenica che la Chiesa ita-
liana ha dedicato alla «giornata per la difesa della vita». Uno di quei temi «eticamente sensibili» sui quali il Papa teologo chiede intransigenza e mobilitazione. Il «vescovo di Roma» renderà ancora più esplicita la sua benedizione alla campagna del cardinale Ruini contro la legge sulle coppie di fatto? Perché che la «consegna» ci sia stata, oramai è fuori di dubbio. Quella legge va bloccata. Costi quel che costi. Anche una crisi di governo. Al suo «cardinale vicario» per la diocesi di Roma e presidente «in proroga» della Cei, il Papa ha chiesto di condurre con determinazione quella che molto probabilmente sarà l’ultima battaglia del porporato emiliano, oramai sessantaseienne, come guida dei vescovi italiani. Il cambio è vicino. Sarà forse il prossimo 7 marzo, quando Ruini conterà ben 16 anni dalla sua nomina a presidente della Cei. Oppure a fine aprile, quando termineranno le visite «ad limina» dal Papa dei vescovi italiani. Più improbabile a maggio, all’assemblea generale dell’episcopato italiano che metterà a punto il programma del «dopo Verona»: l’azione della Chiesa italiana per i prossimi 10 anni.
Intanto battaglia ci sarà. Ferma e intransigente. Questo è il posizionamento della gerarchia cattolica, della Cei e d’Oltretevere. Ha usato parole charissime proprio il cardinale «presidente» nella sua prolusione all’ultimo Consiglio Permanente della Cei. Ancora più netta è stata la linea espressa a nome di tutti i vescovi dal segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori. La Chiesa farà «diga» contro quella legge. Non è ancora stato deciso se si arriverà, in caso di una sua approvazione, al referendum. «Comunque non potremo rimanere inerti» ha scandito Betori. Il punto non è solo il riconoscimento dei diritti alle coppie di fatto in quanto tali, ma quel «piano inclinato», «quello scivolo verso un sempre maggiore riconoscimento di diritti che finirebbe per mettere in discussione non solo la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, ma l’intero assetto sociale». Il messaggio è chiarissimo. L’Italia non segua la via dell’Olanda o del Belgio, dove recenti riforme legislative hanno introdotto non solo il matrimonio tra gay, ma anche la possibilità di adottare bambini. È il fronte contro quel «relativismo etico» indicato come un pericolo da Ratzinger. È la questione «antropologica». Argomenti usati in pubblico e in privato. Nei colloqui «riservati» e negli incontri «confermati», come quello tra il ministro per la Famiglia, Rosy Bindi e monsignor Betori. Pressione trasversale. Sulla Margherita di Rutelli come sulle altre realtà «sensibili» alle indicazioni della Chiesa. Vi sarà un’occasione in più. Il ricevimento all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede del 19 febbraio per l’anniversario del Concordato. Ci sarà la presentazione alle autorità italiane della nuova squadra di Benedetto XVI, dal segretario di Stato, cardinale Bertone al ministro degli esteri, monsignor Dominique Mamberti, al nuovo Nunzio apostolico in Italia, monsignor Bertello. Sarà l’ occasione per un confronto ravvicinato tra le due sponde del Tevere. Tra i temi anche «i Pacs». Fin dove si spingerà la Chiesa? Sono in discussione principi ritenuti «non negoziabili». Fino al raggiugimento dell’obiettivo. Anche a costo di far cadere il governo e di spaccare la società italiana? Un’eredità pesante per chiunque sia il successore di Ruini. Sia pure il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola.

l’Unità 4.2.07
Gennaro Migliore
Parla il capogruppo di Rifondazione alla Camera: «Governare cinque anni, non abbiamo alternativa»
«A Mastella dico: rassegnati abbiamo vinto insieme»


Roma. Onorevole Migliore, crede che stiamo rapidamente arrivando alla caduta di Prodi e al ritorno di Berlusconi?
«Penso che Prodi abbia il mandato per governare 5 anni e noi siamo impegnati perché ciò avvenga. Dal nostro punto di vista non abbiamo alternative».
Fino a che punto darete battaglia sull’Afghanistan?
«Abbiamo detto che vogliamo un miglioramento in 3 punti: l’istituzione di una Conferenza internazionale, l’utilizzo dell’oppio a fini terapeutici e il rafforzamento della cooperazione civile. Non abbiamo posto come ineludibile il ritiro. Abbiamo fatto uno sforzo in questa direzione, chiediamo lo stesso all’altra parte della coalizione».
E sulle unioni civili?
«Mi pare che rappresentino una specie di compromesso che vale solo per una parte dell’alleanza. Noi non ci stiamo ovviamente. Perché l’Udeur esplicitamente ha cercato i voti della destra».
Come si esce dalla situazione di adesso?
«Rinnovando il patto sul programma e sulla costruzione di una proposta politica che veda tutti partecipare con pari dignità alle decisioni».
La parte più moderata della coalizione vi accusa di essere l’elemento destabilizzatore della coalizione. Soltanto ieri Rutelli vi ha attaccato frontalmente. Cosa risponde?
«Intanto, su Vicenza non siamo gli unici ad essere contrari. A Rutelli dico che noi vogliamo continuare per 5 anni e ritengo che questo sia un impegno di tutti. Non esistono elementi di governo privilegiato, ma bisogna mettersi d’accordo, andare avanti. Non abbiamo nessuna colpa. Siamo stati quelli che più hanno sottolineato alcuni motivi di grande interesse sociale».
Secondo lei i vertici sono utili?
«Se i vertici sono accettati da tutti hanno un senso. Noi abbiamo condiviso le soluzioni di Caserta. Ma faccio un esempio. Se facciamo una riunione al Senato di tutta la maggioranza con la Lanzillotta e si raggiunge un accordo, e poi la stessa Lanzillotta in una sede del tutto impropria come il tavolo dei volenterosi mette in discussione la ripubblicizzazione del’acqua chiedo a un osservatore esterno se sia Rc a mettere in discussione il profilo unitario della coalizione. Voglio ricordare che l’Unione è nata da un sistema di regole condivise, dalle primarie. Abbiamo scelto di vincere sulla base della partecipazione. Così dico all’Udc: rassegnatevi, avete perso. E lo stesso ai centristi della nostra coalizione: rassegnatevi abbiamo vinto e vinto insieme».
wa.ma.

Repubblica 5.2.07
Il latinista del Pci
Cinquant'anni fa moriva Concetto Marchesi, grande storico della letteratura classica
di Nello Ajello


Impetuoso e beffardo, ha scritto opere fondamentali Ma nel '56 non digerì le accuse a Stalin
Militante e insigne accademico, venne giudicato da Amendola un settario

«Siano avvertiti il Partito e l'Università di Padova». Così si leggeva su un biglietto che i familiari trovarono indosso a Concetto Marchesi nel momento della sua morte, a Roma, il 12 febbraio 1957, cinquant'anni fa. Quel biglietto, Marchesi lo portava con sé da alcuni giorni, in previsione dell'unico viaggio per il quale (diceva) non si sarebbe recato alla stazione con un quarto d'ora d'anticipo.
Il commiato dalla vita del grande umanista - nativo di Catania, ha appena compiuto settantanove anni - avviene in un quadro a suo modo sontuoso. Vi partecipano, appunto, l'ateneo padovano in cui ha insegnato per trent'anni, e soprattutto il Pci, nel quale ha militato dal 1921. L´Unità gli dedica quattro fitte pagine, con firme molto note, da Ranuccio Bianchi Bandinelli a Francesco Flora, da Vincenzo Arangio Ruiz a Gabriele Pepe. Di fronte alla salma, la scrittrice Sibilla Aleramo sprofonda nel lirismo: «Giuro che avrei voluto essere io in sua vece, stesa in tanto limpido riposo». È piena di confronti con De Sanctis e Gramsci l'orazione pronunciata da Togliatti. A "coprire" la cronaca provvede Gianni Rodari. Secondo il quale, uscendo dal suo appartamento in via Cristoforo Colombo per raggiungere la clinica Sanatrix, Marchesi avrebbe detto, in greco, a un suo discepolo: «Oichomai», me ne vado. Nell´articolo di Luigi Russo, celebre italianista anche lui siciliano, si trova un ritratto dell´amico: «Piccolo, snodato, aveva un´aria d´un bambino, o d´un "angelone", come quelli che ricorrono nei nostri paesi nelle cerimonie cattoliche».
Di conversione, nessuno parlò. Marchesi non era il tipo, benché in una delle sue ultime opere, L´Antologia della letteratura latina per i licei, avesse curato con particolare amore la parte relativa agli scrittori del primo cristianesimo, Arnobio, Tertulliano, Prudenzio. Dichiarando poi: «Noi comunisti ci inchiniamo davanti a tutte le fedi», anche a quella «degli apologisti e dei padri della Chiesa». Ecco un modo di ribadire che la sua Chiesa era un´altra. E anche di rispondere in anticipo a una diffusa perplessità, come quella espressa, proprio nel febbraio ´57, dal Corriere della sera: come si spiega (s´è chiesto il giornale) una ispida «passionalità di accenti» politici in «un uomo che ha studiato con penetrazione alcune delle più serene figure del mondo classico», Marziale, Seneca, Petronio, Fedro, Orazio, Apuleio?
Di fatto, convivevano in Marchesi un filologo e un uomo politico. Impetuoso, quest´ultimo. Beffardo. Incurante di apparire settario. Così egli era stato fin da adolescente. Sulle sue origini aleggiava un precedente suggestivo. Si voleva che egli discendesse da lombi aristocratici, i nobili d´Angiò. Un sacerdote, suo antenato, essendogli nato un figlio naturale, lo aveva dato ad allevare a una coppia di contadini: e il cognome Marchese, diventato poi Marchesi, alludeva a quella origine patrizia. In politica, la precocità di Concetto si manifestò in forme prorompenti, "sovversive". Lucifero, un giornale catanese che egli fondò nel 1894, a sedici anni, venne subito sequestrato per aver osannato al «furore ideologico» che conduceva al patibolo gli anarchici di Parigi. Condannato a un mese di reclusione per apologia di reato, si risparmiò al direttore la prigione: era un ragazzo.
Ma nel ´96, appena Concetto ebbe compiuti i diciotto anni, la sentenza divenne esecutiva ed egli fu arrestato nella sede dell´Università di Catania: vi si era recato per ascoltare una lezione di Remigio Sabatini (il professore del quale sarebbe restato "discepolo a vita" sposandone la figlia Ada). Dopo il primo mese di carcere, gliene inflissero un secondo per aver commesso «oltraggio a pubblico ufficiale», dando del «rospo» a una guardia.
Su simili episodi Marchesi s´intrattiene nei volumi di memorie Il cane di terracotta, Il letto di Procuste e Il libro di Tersite. S´intitolava Battaglie un libretto di poesie a sua firma uscito nel ´96 a Catania: egli avvertì che lo aveva scritto «con la rabbia di chi ha una vendetta da compiere e la fede di chi ha un ideale da raggiungere». L´autore avrebbe poi sconfessato quei versi giovanili, ma lo spirito che li connotava gli sarebbe rimasto inalterato lungo un´intera carriera di cattedratico - a Messina e poi a Padova - e di «militante».
Il ventennio fascista coincise con la sua piena maturità. Non era iscritto al fascio, ma adempì nel 1931 all´obbligo, per i professori, di giurare fedeltà al regime. Nei giorni della morte fu Ludovico Geymonat a rimproverargli quel gesto, mentre Cesare Musatti lo difese (e poi Giorgio Amendola nelle sue memorie rivelò che era stato Togliatti ad autorizzare il giuramento). Gli amici di Marchesi andarono a cercare nel suo capolavoro, la geniale Storia della letteratura latina (1927), certi giudizi interpretabili in chiave di critica al fascismo. A partire da quello su Giulio Cesare: «Quest´uomo, giunto al sommo dell´umano potere, lasciò che tutti parlassero, perché le bocche si chiudono quando si è servi della ventura e non signori della storia». Ezio Franceschini, suo biografo, ricorda che nel 1942 Marchesi, rievocando a Perugia Cornelio Tacito, inserì nel discorso acuti sapori antitedeschi. Quello di guardare alla storia come eterno presente era un vezzo del professore catanese. Sedici anni più tardi, nel 1956, all´VIII Congresso del Pci, il nome del massimo storico del Principato gli sarebbe tornato sulle labbra in un contesto sarcastico, contro la demolizione della personalità di Stalin: «Tiberio uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma», egli ricordò, «trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Kruscev». Aveva così rassicurato il partito in merito alla sua fedeltà. Compiacendo Togliatti. Al quale, anni prima, aveva rilasciato una patente di umanista. Si può parlare - s´era chiesto - della «cultura classica» del segretario del Pci? «Certo», era stata la risposta, «se per classico s´intende "di prima classe"».
Il partito ricambiava. Con stupore ammirativo veniva ricordato il coraggio mostrato dal latinista nei tardi anni del regime, i più duri. Di quando, per esempio, clandestino a Milano, si faceva passare per l´avvocato Antonio Mancinelli. Lui stesso usava spesso commemorare la notte di Natale del ‘43, allorché nella casa in cui si nascondeva piombarono «come lupi affamati» i compagni di partito Scoccimarro e Li Causi. «Tutti e due insieme!», esclamava il professore. «Sarebbe stata una bella festa se ci avessero presi». Nel maggio di quell´anno, a Padova, Marchesi aveva conosciuto Giorgio Amendola che, pur molto ammirandolo, trovò i suoi argomenti politici «settari e anche ingenui».
Un´accentuata freddezza mostrerà poi nei suoi riguardi Luigi Longo, imputandogli di aver accettato la carica di Rettore, a Padova, nei mesi di Salò. Ma a riportarlo nella "linea" del partito valsero le dimissioni da quella carica, accompagnate, il 1. dicembre 1943, da un vigoroso appello agli studenti di Padova perché si unissero alla Resistenza, a «questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo».
Febbraio ´44: Marchesi si rifugia in Svizzera. In settembre eccolo nell´Ossola, nelle file della Resistenza. C´è stato, ai primi dell´anno, un altro colpo di scena a sua firma. Commentando un articolo di Giovanni Gentile sul Corriere della sera, nel quale si invocava la concordia nazionale, Marchesi così aveva reagito: «Concordia è unità di cuori, è congiunzione di fede e di opere: non è residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggine». E più avanti: «Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l´assassino». Questa Lettera aperta a Gentile venne stampata nel giornale «La Lotta» del gennaio 1944. In marzo, essa venne ripubblicata nella rivista clandestina del Pci «La nostra lotta». Era scomparsa la firma. Sotto un nuovo titolo - Sentenza di morte - era stata aggiunta una frase finale: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!». Si sarebbe saputo più tardi che a rimaneggiare il testo aveva provveduto Girolamo Li Causi.
Il 15 aprile 1944 Giovanni Gentile viene assassinato a Firenze. E fra gli enigmi connessi al delitto se ne profila uno con al centro, appunto, la figura di Marchesi. Per tentare di decifrarlo, lo storico dell´antichità Luciano Canfora scriverà assai più tardi, nel 1985, edito da Sellerio, un libro affascinante, una sorta di noir dal vero. S´intitola La sentenza. L´autore percorre l´intero arco delle ipotesi che accompagnano la morte di Gentile (se alla base dell´attentato ci sia un ordine emanato dal Pci, se si debba invece pensare a un´iniziativa "dal basso", e così via). Ma Canfora esamina soprattutto il ruolo che svolse, all´interno del «caso», Concetto Marchesi. Ne ripercorre la carriera di militante comunista. Ricorda le roventi accuse che egli rivolse a Gentile. Esclude che quella variante finale, in cui si parla esplicitamente di morte, apposta da Li Causi al testo di Marchesi, possa essere passata senza la sua approvazione.
Canfora definiva comunque quell´attentato un «fotogramma sfocato». Tale forse è destinato a rimanere. Offuscando, di scorcio, la biografia - che si vorrebbe luminosa - d´un grande umanista.

Repubblica 5.2.07
Il rito domenicale della violenza
di Umberto Galimberti


A Catania hanno ucciso un poliziotto e altri ne hanno feriti. Chi? I facinorosi da stadio. Quelli che ogni domenica in qualche città italiana, con una cadenza ormai rituale, sono soliti provocare incidenti, guerriglie neppure tanto simulate, con i loro passamontagna calati, perché la violenza è codarda, coi loro fumogeni che annebbiano l´ambiente per garantire impunità, le loro sassaiole che piovono come grandine da tutte le parti in modo che non ti puoi difendere, con i petardi, che quando non spaventano, feriscono, con le loro sassaiole e le loro bombe carta che, come a Catania, uccidono.
Qui i colori politici sono irrilevanti, perché il calcio si è sempre definito, con un po´ di ipocrisia, «politicamente neutrale», e questa neutralità apre le porte al piacere dell´eccesso, allo sconfinamento dell´eccitazione, al rituale ripetuto della messa in scena, alla festa del massacro, alla socievolezza dell´assassinio, al lavoro di gruppo dei complici, alla pianificazione della crudeltà, alla risata di scherno sul dolore della vittima, dove la freddezza del calcolo è inscindibilmente intrecciata alla furia del sangue, la noia dello spirito alla bestialità umana.
Finito il rito della crudeltà tutti spariscono, e solo le registrazioni delle telecamere consentono di individuare qualcuno di quei pavidi che si nascondono nella massa per i loro gesti di violenza. Si sentono innocenti, semplicemente perché non sono in grado di fornire uno straccio di giustificazione ai loro gesti. L´ignoranza e l´ottusità che li caratterizza sono, ai loro occhi, un´attenuante. L´analfabetismo mentale, verbale ed emotivo con cui rispondono a chi li interroga sono per loro una giustificazione.
La loro violenza è cieca perché è assurda, ed assurda perché non è neppure un mezzo per raggiungere uno scopo. È puro scatenamento di forza che non si sa come impiegare, e perciò si sfoga nell´anonimato di massa, senza considerazione e senza calcolo delle conseguenze. La mancanza di scopi rende la violenza infondata, e quindi assoluta. Ma proprio nel momento in cui la violenza è libera da qualsiasi considerazione e da qualsiasi scopo, e quindi da qualsiasi razionalità, la violenza diventa completamente se stessa e si trasforma in pura e sfrenata crudeltà.
Le pene miti finora inflitte ai violenti, come ad esempio l´interdizione a frequentare gli stadi o i patteggiamenti, abituano progressivamente a ripetere, con la cadenza del rito, ciò che all´inizio era solo un fatto isolato. È come aprire una chiusa. E siccome il primo gesto è rimasto, senza particolari conseguenze, dopo che il divieto era stato violato, il percorso è libero. Tutto diventa possibile. Al primo atto ne segue un secondo, e poi un terzo, e infine ogni volta che c´è una partita di calcio. E così la violenza si ritualizza.
Si ritualizza secondo quel meccanismo che Freud ci ha spiegato là dove scrive che la violenza, latente nell´inconscio individuale di ciascuno di noi, diventa manifesta nell´inconscio collettivo di massa, dove la responsabilità individuale diventa difficile da identificare e l´impunità generale diventa un salvacondotto per gesti più esecrati e senza motivazione, perché la violenza assoluta è autosufficiente.
E allora l´orgia della crudeltà si ripete con la monotona regolarità con cui si succedono i sabati e le domeniche di campionato. E nel rito i tifosi più scalmanati agiscono secondo routine. E siccome la routine annoia, come i drogati, anche i criminali da stadio hanno bisogno di dosi sempre più forti, per allontanare la noia sempre incombente. La violenza da stadio, infatti, non ha creatività e lascia poco spazio alla fantasia. E dal momento che è ripetitiva e qualitativamente identica, l´unica variazione può essere solo quantitativa, e perciò ogni volta si aumenta la dose e, con la dose, l´euforia di un incontrollato sconfinamento di sé, di una sovranità illimitata e di un´assoluta libertà dal peso della morale e del vincolo sociale.
Siccome la violenza da stadio è ormai rituale, bisogna assolutamente interrompere il rito delle partite di calcio, a cui la ritualità della violenza si aggancia. Bisogna interrompere il rito di quegli agitatori televisivi che ogni lunedì, martedì e mercoledì, sulle reti pubbliche e private, aizzano gli animi, scambiando la passione per il calcio con una non troppo celata istigazione all´eccesso, perché se loro per primi autoeliminano i freni inibitori, cosa possiamo pretendere da chi ne dispone di molto limitati, come sono quegli analfabeti mentali ed emotivi che frequentano gli stadi per scatenare la violenza, essendo la violenza l´unica cosa di cui dispongono per sentirsi vivi? E perciò infliggono morte.
La caratteristica rituale della violenza da stadio rende questa violenza diversa dall´insurrezione o dal tumulto che, avendo di mira uno scopo, si placa quando lo scopo è raggiunto. Proprio perché è senza scopo, non c´è altro modo di interrompere questo tipo di violenza se non interrompendo il rito. Il rito delle domeniche di calcio a cui la violenza da stadio si è abitualmente legata. Spiace per gli sportivi non violenti, che peraltro già hanno qualche difficoltà a frequentare gli stadi, ma se non vogliamo diventare complici di questa immotivata e perciò ancora più assurda violenza, tutti dobbiamo concorrere, anche con qualche sacrificio, a interrompere la crudeltà di questo rito.

Repubblica 5.2.07
Incontro in carcere con il giovane che massacrò i genitori. "Mi scrivono migliaia di ragazzi"
Maso: ora provo a salvare gli altri
di Paolo Berizzi


MILANO - «Sono una persona diversa. Sedici anni di carcere mi hanno cambiato. Mi ero perso, ho cercato di ritrovarmi, grazie anche alla fede. Ai ragazzi che mi scrivono e mi raccontano che vogliono uccidere i genitori, dico di fermarsi, di ragionare, di ricucire i rapporti. Non ho potuto salvare me stesso, almeno ci provo con gli altri. Perché quando fra cinque anni uscirò da qui, anche queste cose, forse, mi serviranno per iniziare una nuova vita». Parla Pietro Maso, il giovane veronese che il 17 aprile 1991, a 19 anni, massacrò – aiutato da tre amici – i genitori a colpi di padella e bloccasterzo.
Erano le 23,30 quella sera nella villetta di Montecchia di Crosara. Antonio Maso e Maria Rosa Tessari sono appena rientrati da una funzione religiosa. Pietro, il figlio minore che abita con loro e le due sorelle, Laura e Nadia, li sta aspettando in cucina. È un´imboscata. Mascherati da demoni e draghi, Maso e i suoi tre amici (Paolo Cavazza, 18 anni, Giorgio Carbognin, 18, e Damiano Burano, 17) danno il via a una mattanza che dura 53 minuti. Dopo l´aggressione, simulano una rapina e vanno tranquillamente in discoteca. A portare i carabinieri sulle tracce del delitto, qualche giorno dopo, sono proprio le due sorelle di Pietro, le quali scoprono che dal conto corrente della madre erano stati prelevati 25 milioni di lire con un assegno recante la sua firma contraffatta. Soldi che sarebbero serviti a estinguere un debito contratto da Carbognin con una banca per comprare una lancia Delta integrale, ma che nel frattempo erano stati spesi lo stesso nel giro di due mesi. Per fare la "bella vita" nei locali. Secondo l´accusa, fu proprio per evitare che i genitori se ne accorgessero che Maso decise di ucciderli. Condannato a 30 anni e due mesi (confermati fino all´ultimo grado di giudizio), Maso, che oggi ha 35anni, finirà di scontare la sua pena il 18 agosto del 2015, anziché nel 2018 (grazie ai benefici dell´indulto). A Opera, dov´è detenuto e dove si occupa della gestione della palestra, il killer di Montecchia parla per la prima volta. Lo fa con un consigliere regionale della Lombardia, il verde Marcello Saponaro, che, in visita al carcere, dove è stato sia nella sezione maschile sia in quella femminile, lo ha incontrato ieri mattina. Il colloquio è durato quasi un´ora, nell´ufficio di un agente di custodia. Jeans, pullover marrone a girocollo, scarpe Nike bianche di pelle, capelli corti, un rosario di legno dal quale pende un crocifisso. Pietro Maso è sorridente, garbato e riflessivo. Questa è la trascrizione di quanto si sono detti.
«Possiamo partire da questo rosario? - esordisce Maso - Lo recito spesso, anche mentre lavoro in palestra. Pregare è come dire "ti amo" alla tua donna. È una cosa che può sembrare banale e scontata ma che invece non lo è. Perché fa piacere dirlo, e fa piacere sentirselo dire. Grazie alla fede, in questi anni, ho iniziato un percorso di redenzione. Ho chiesto perdono, mi sono pentito. E Dio mi ha aiutato molto. Ci credevo anche prima, ovviamente. Ho fatto la prima media in seminario, e il mio tutor, oggi, è fra´ Beppe Prioli. Ci siamo scelti l´un l´altro. Quando ci vediamo lo diciamo sempre».
Come ha vissuto questi anni in carcere? Ci racconti le sue giornate.
«Sono molto piene. Non è vero che in carcere il tempo non passa mai. Io curo la palestra, insegno body building (con il compagno di cella, al-Assadi Jabbar, un omone alto due metri, ex guardia del corpo di Saddam Hussein condannato in Italia per omicidio, ndr). Prego e leggo, leggo molto. Ma non le cose che riguardano la mia vicenda. Quelle le evito accuratamente. Preferisco Platone, Aristotele, e anche i moderni. All´inizio non capivo tanto, poi, con il tempo, mi sono reso conto che certi messaggi, il senso delle cose, possono venire fuori da ogni lettura. Dalle più difficili, a Topolino. E poi rispondo alle lettere. In questi anni ne ho ricevute migliaia».
Anche di ammiratrici, si diceva un tempo.
«Anche. Ma a quelle non rispondo più. Non ha senso. Preferisco aiutare i giovani che rischiano di perdersi in situazioni uguali o simili alla mia. Mi scrivono per raccontarmi i loro sentimenti, l´odio verso i genitori, il desiderio di fargli del male o di ucciderli. Io cerco di dissuaderli, dico che è bestiale fare quello che ho fatto io. È un piccolo contributo al disagio enorme che c´è oggi tra i giovani. Non dico che faccio da psicologo, ma quasi. Parlo il loro linguaggio, capisco cosa vogliono trasmettere quando lanciano certi messaggi. Alcuni sono davvero giovanissimi. E ti accorgi che vivono proprio male».
Ci spieghi meglio, per favore.
«Lo so che fa effetto detto da me, ma c´è un vuoto e una solitudine pazzesca oggi tra i ragazzi. Avrebbero bisogno di risposte, e soprattutto di prevenzione. Quando vai in crisi e stai per perderti non c´è nessuno che ti ascolta. E non è vero che quando commetti un´atrocità non sei cosciente. Sei razionale, eccome, ti rendi conto perfettamente di quello che stai facendo. Dall´inizio alla fine. Ecco, bisognerebbe creare delle strutture per prevenire, per evitare che tanti ragazzi arrivino a commettere dei delitti così. Non sempre i sociologi sono spinti dalla volontà di capire. Spesso cavalcano l´onda mediatica perché gli conviene».
Della sua vicenda oggi che cosa pensa?
«Non ho mai cercato alibi. Ho sbagliato, ho fatto una cosa atroce e, come ho detto, quando commetti una cosa del genere sei assolutamente consapevole. Anche a 19 anni. Oggi cerco di guardare al futuro, penso a costruire una vita quando sarò fuori di qui».
Tra otto anni. Che cosa farà dopo?
«Intanto sto ancora studiando. Sono al quarto anno di ragioneria. Faccio cinque ore al giorno, dal lunedì al venerdì. Ho ricominciato da capo, perché prima avevo fatto tre anni di agraria. L´anno prossimo prenderò il diploma, poi mi iscriverò a filosofia».
Cosa c´è nel suo futuro?
«Di sicuro sarà lontano da Verona. Le mie sorelle vivono ancora lì. Ma per ricominciare devi cambiare anche i luoghi fisici. Magari, chissà, me ne andrò anche lontano dall´Italia. Dove nessuno sa chi sono, quello che ho fatto, quello che sono stato. Mi piacerebbe continuare ad aiutare i giovani, parlare con loro, incontrarli nei momenti di difficoltà. Tendere loro una mano prima che facciano cose assurde. Che so, magari anche insegnare».
Lei ha ucciso i suoi genitori perché coi loro soldi voleva fare la bella vita. Divertirsi, andare in discoteca, comprarsi le macchina nuova. È stata una storia drammatica ambientata nel ricco Nordest. Quelli che hanno 19 anni oggi secondo lei che persone sono?
«La prima cosa che noto di loro, almeno dalle lettere che ricevo, e anche da quello che vedo in televisione, è la grande solitudine. E poi, certo, la massificazione. Oggi i ragazzi sono tutti uguali, pensano tutti allo stesso modo. Ne vedi cinque e ne hai visti tutti».
Ha seguiti i recenti fatti cronaca. Per esempio il massacro di Erba?
«Sì, l´ho seguito e mi ha molto colpito. La figura che mi ha impressionato di più è quella del signor Castagna. All´inizio, quando ho sentito le parole di perdono per gli assassini di sua figlia, di sua moglie e del nipotino, ho pensato: questo o è stupido o è davvero guidato da una grande fede. Poi ho capito che è una grande persona, e che credere in Dio lo ha aiutato a non provare odio per quei vicini di casa. Io ho ucciso, mi sono perso e sono stato aiutato da Dio. Certo, però, non avrei reagito come lui. Almeno non a caldo. Di impulso avrei buttato fuori tutta la rabbia. Anche se è sbagliato».
Gli assassini di Erba in carcere sono stati accolti con offese e minacce. Nel codice dei detenuti quello che hanno fatto è un reato infamante. Anche lei ha avuto problemi con gli altri detenuti?
«No, mai. In tutti questi anni nessuno mi ha mai insultato o minacciato».
Maso, se guarda indietro ci sono ancora delle sequenze orribili che affollano la sua mente?
«Di questo preferirei non parlare. Me le tengo dentro queste cose. Potessi tornare indietro, certo, chiederei aiuto a qualcuno».

Repubblica 5.2.07
L'ex leader di Potop è tornato ieri in Italia. Prima tappa Reggio Emilia, per i morti degli anni 60 e Gallinari
Scalzone: "La rivoluzione non è finita"
L'arrivo su un vecchio camper: da qui riparte la mia battaglia
di Luciano NIgro


REGGIO EMILIA - «Riparte da qui la mia vecchia battaglia per la libertà, perché è un vecchio disco di vinile morbido venduto dentro Vie Nuove che mi ha fatto scegliere la rivoluzione. Ve lo ricordate? "Morti di Reggio Emilia, uscite dalla fossa, fuori a cantare con noi bandiera rossa"». Arriva di notte, nella nebbia, Oreste Scalzone, a bordo di un vecchio camper prestato da un amico. Nei giardini pubblici, davanti al monumento dei martiri del governo Tambroni del 1960 l´avvocato Vainer Burani, che è andato a prenderlo al casello, e Tonino Paroli («lo conobbi nel cortile di un carcere speciale»). E´ la prima tappa del suo rientro in Italia del leader di Potere Operaio, poi di Autonomia Operaia, dopo 27 anni di latitanza e di esilio, in seguito alle condanne per associazione sovversiva, banda armata e rapine. Due settimane fa, quando la Corte d´Assise di Milano dichiarò la prescrizione dei reati, Scalzone annunciò che sarebbe tornato per riprendere «una vecchia battaglia».
Ha scelto Reggio Emilia per dire che «la rivoluzione sarà sempre attuale fino a quando ci sarà il capitalismo. Anzi, questo sistema integrato capitalismo-Stato». E che «mi sarebbe piaciuto incontrare Prospero Gallinari, perché in fondo abbiamo fatto parte della stessa rivoluzione». Gallinari, accusato dell´omicidio di Aldo Moro, un assassino? «Se lui è un assassino, allo stesso modo lo sono anch´io - replica Scalzone, senza alzare la voce, senza irritarsi - però provate a chiedere, ad esempio a Cossiga, che rispetto, se non sia vero ciò che dice Machiavelli, e cioè che non si governa senza crimine e senza le mani sporche di sangue».
Non è tornato per ripudiare una stagione di terrore e di violenza, Scalzone. Certamente non per chiedere scusa. «Le scuse, semmai, è giusto chiederle alle mamme dei morti. A tutte quante però, del compagno, del poliziotto e del fascista». Semmai è venuto per accusare. E l´accusa più dura riguarda il Pci. «Se i morti di Reggio Emilia furono ammazzati come cani, il responsabile è lo Stato e ne chiedo conto anche alla maison del vecchio Pci e ai suoi eredi Napolitano, D´Alema e Veltroni che ne fanno parte oggi. Allora era il Pci che faceva venire il brivido di giustizia ai ragazzini. Ricordate "sangue del nostro sangue"? E´ da lì che siamo partiti tutti noi, io ero iscritto alla Fgci, allora. Poi il partito comunista può rivendicare il merito di essere stato decisivo nello schiacciarci, ci voleva il Pci per toglierci l´anima».
Sono passati 27 anni da quando Scalzone fuggì all´estero. E l´Italia che ha in mente nella sua prima tappa è ancora quella dalla quale fuggiva. Dopo una sosta a Bologna, a casa di amici, oggi sarà a Giano dell´Umbria alle 11 a un incontro promosso da «La Repubblica di Frigolandia». E alle 15, rivela ripartendo nella nebbia quasi a mezzanotte, «vorrei andare al carcere di Viterbo a incontrare Paolo Persichetti, l´unico estradato da Parigi per una montatura».

Il Giornale 5.2.07
"Sono ancora rivoluzionario.
E potrei anche sparare"
di Gianluigi Nuzzi


Savona. Chissà che dirà Olga D’Antona, moglie del professore ammazzato dalle Brigate rosse. Chissà che diranno quelli che hanno visto il marito cadere imbottito di piombo. Il cattivo maestro è tornato. Oreste Scalzone, l’ex leader di Potere Operaio, dopo 25 anni di latitanza a Parigi, incassata la prescrizione, è di nuovo in prima linea. Da ieri mattina, dopo un’ultima cena a Nizza, ospite, con gamberi e coquillages, è rientrato in Italia: gira il Paese a bordo di un camper. E attacca proprio loro, i parenti delle vittime del terrorismo. Ricatta sottosegretari. Sogna un tavolo comune politici-ex terroristi (senza parenti) per chiudere gli anni di piombo con un’amnistia.
«Di quegli anni - annuncia - voglio parlare dei morti che ho sentito come carne della mia carne...». Si ferma e sferza: «Vabbè non sarò un parente, un fratello e infatti non voglio diventare deputato come finiscono tanti parenti delle vittime». Ce l’ha con loro, adesso? Scalzone equipara senza esitare i parenti delle vittime ai dissociati e ai pentiti del terrorismo. «Non è il massimo della dignità, no? - continua -. Come parenti o, peggio ancora, come ex terroristi ravveduti o dissociati pensare di non poter vivere senza andare nel teatro della politica istituzionale. Con relativi emolumenti». E cosa dovrebbero fare? «Si può vivere benissimo senza essere deputati ed eventualmente in Parlamento, senza essere vice presidente di una commissione come quella Giustizia». Frecciata all’ex leoncavallino Daniele Farina. Ma è solo l’inizio. Sicuro.
«Si può coltivare il proprio dolore - arriva a dire -, non necessariamente alla ribalta di un teatro o nel teatro della politica». Provo a chiedergli che colpa avevano quelli ammazzati, i proletari in divisa. Mi interrompe. «Sa dove vado adesso? A Reggio Emilia. Lì dove le sventagliate di mitra della polizia uccisero operai manifestanti disarmati». Ma quando? «C’erano Scelba e Tambroni». È passato mezzo secolo. «Vede? Ogni morte ha un peso specifico diverso. Senza demagogia: alcune morti pesano come piume altre come montagne. Sono in Italia per questo. Da Reggio Emilia chiederò che venga chiesta scusa anche a loro. Anche a me. “Scusa che abbiamo ammazzato degli operai innocenti”».
E chi dovrebbe porgerle? «Lo Stato che comprende anche i comunisti». All’epoca erano all'opposizione. «Il Pci sui morti di Reggio Emilia ha fatto solo della mistica». Insomma, Scalzone ha studiato le mosse e cercherà di rompere gli equilibri. Avverte: «Se tutti pensano, soprattutto la sinistra e i suoi intellettuali, di trattarmi con affettuosa condiscendenza come i fratelli Taviani presentavano il vecchio anarchico mi sa che si sbagliano. La ricreazione è finita. Sarò come una spina nella zampa di un cane». Un esempio? «Subito. Il cambiamento di carcere per il compagno detenuto Paolo Persichetti, amico fraterno». Vuol farlo evadere? «No deve cambiare di carcere. Lì la situazione è invivibile».
Cosa ha in mente: «Userò l’arsenale della non violenza che è anche peggio». Boom. «Spiego subito: cambiare di carcere è mera burocrazia, la magistratura, le parti civili non c’entrano. Ebbene se non lo levano... io non penso che uno che è sottosegretario alla Giustizia (il diessino Luigi Manconi, ndr) e che deve prendere i voti da una certa parte possa permettersi di sognare di essere rieletto parlamentare alle prossime elezioni». Una minaccia? «Un ricatto. Nulla di personale. Ma non è finita». Vada avanti. Se ne assume le responsabilità, ovviamente. «Io per Persichetti sono pronto a farmi morire di fame e Manconi lo sa. E tagliarmi sotto il ministero». Ma si rende conto che pressioni così sono illegittime, trasformeranno Persichetti o in un privilegiato o in un caso? «Se uno ti dice “guarda che ti rimarrà uno schizzo di sangue sulla camicia e dubito che ti rieleggono” è più cattiva di una pistolettata. Lo so. Oppure spero di dimostrare quanto sono carogne così magari un giorno suo figlio gli dice “papà fai schifo preferisco Scalzone”. È peggio di un colpo di pistola, lo so. Ma è l’unico mezzo».
Scalzone ti fissa gelido. Ha dentro odio per una storia che gli fa perdere il controllo. Ma le idee sono chiare e un'agenda fitta. A Reggio Emilia dovrebbe incontrare l'ex br Prospero Gallinari, «su Moro non si è mai fatto estorcere una confessione d'innocenza quando a torto lo accusavano di aver premuto il grilletto». Quindi incontro antagonista con Vincenzo Sparagna a Giano in Umbria. «La rivoluzione la voglio fare tuttora». Gli piacerebbe incontrare il fondatore delle Br Renato Curcio, «Renato sta in Piemonte, magari tra qualche settimana». E martedì convegno di Rifondazione a Roma. Si parte. «Perché sa io mica sono come quegli ex terroristi star che vivono in ville a spese dello Stato. Si sono “pentiti”. Sono stati premiati. Io no. Sono un pessimo maestro». E poi mai dire mai. Chissà, «in un’insurrezione potrei arrivare a sparare».

Corriere della Sera 5.2.07
Il ritorno. Scalzone: Sanguineti un irresponsabile, non c'è odio senza violenza
Via al «tour italiano» dell'ex leader di Potere operaio: al G8 i giovani hanno creduto ai «sapienti» come lui ed è stata tragedia


ROMA — Per un aspirante sindaco come Edoardo Sanguineti che rispolvera l'odio di classe ecco un agitatore itinerante, molto affezionato alla classe, che al suo primo tour italiano prende a bersaglio proprio il poeta-candidato di Rifondazione comunista. Reduce da 25 anni di esilio o latitanza (a seconda dei punti di vista) e in attesa di esibirsi davanti a un carcere con megafono e fisarmonica per salutare un «amico e compagno» detenuto, Oreste Scalzone si scaglia contro quel «demagogo volgare e irresponsabile» di Sanguineti: «Lo sfido a un pubblico contraddittorio, dove e quando vuole. E se non me lo concede sarà difficile che non mi incontri in qualche piazza o qualche convegno».
Niente male, come inizio. Ma perché tanto vigore contro il rappresentante della sinistra più estrema nelle primarie genovesi? «Perché è inammissibile — grida Scalzone mentre il camper su cui viaggia attraversa la Liguria — che un intellettuale si permetta di parlare di odio di classe e subito dopo se ne lavi le mani chiarendo che è contrario alla violenza. Ma come si fa a dire una simile castroneria? Che cosa intende per "odio nonviolento" questo signore che cita Marx a sproposito con semplificazioni becere sulla società che mercifica l'uomo?». Odio e violenza sono inscindibili, «almeno nel senso brechtiano del termine, per cui se uno ha fame rompe la vetrina per mangiare. Invece no, il professore avverte l'esigenza di precisare che l'odio va bene, ma nessuno si sogni di tirare una pietra! Purtroppo è già successo proprio a Genova, al G8, ed è finita in tragedia: i "sapienti" hanno specificato che loro facevano solo mitopoiesi, e i giovani ribelli che hanno tradotto in fatti l'invito alla "guerra" sono stati crocifissi come provocatori».
L'ex leader di Potere operaio era fuggito dall'Italia che aveva 35 anni, è tornato grazie alla prescrizione delle pene e dei reati che ne ha appena compiuti 60, ma la verve polemica e politica che alimenta il fiume di parole in cui nuota da sempre non è diminuita. Anzi, sono aumentati gli argomenti di cui discutere, i temi sui quali attaccare, i simboli da celebrare. Ecco allora che — simbolicamente — anche il ritorno in patria (termine estraneo a un internazionalista come lui) diventa «un rito da decostruire, perché non è un ritorno né un esilio al contrario; sarebbe come se dicessi che per un quarto di secolo sono rimasto in sospensione, in sala d'attesa, in una non-vita, e dunque una vittoria dello Stato...». D'accordo, che cos'è allora? «Diciamo una sorta di autostop, tra alcune "stazioni"».
Il viaggio è avvenuto ieri nel camper guidato da un vecchio compagno dei Comitati comunisti rivoluzionari. Prima sosta a Camogli, con intervista e riprese per una trasmissione tv di Mediaset; poi Sestri Levante, per incontrare altri amici e militanti; quindi Reggio Emilia, in ricordo dei morti in piazza nel luglio 1960: «Nelle piccole guerre sociali e civili a bassa intensità che hanno attraversato l'Italia ogni parte ha avuto i suoi morti. E se dobbiamo parlare delle vittime, io che pure sono contrario alla retorica del vittimismo comincio a rendere omaggio a quelle che hanno segnato la mia personale discesa in campo, a 13 anni, con l'iscrizione alla federazione giovanile del Partito comunista». A Reggio Scalzone avrebbe anche voluto salutare Prospero Gallinari, l'ex brigatista fuori dal carcere per motivi di salute; ma Gallinari l'ha chiamato per dirgli di soprassedere, il suo status gli vieta di incontrare pregiudicati. Come Scalzone. «Stazione» successiva Giano dell'Umbria, nella Repubblica di Frigolandia fondata da Vincenzo Sparagna, quello della satira politica anni Settanta stampata sul Male. Stamani a Frigolandia l'ex rifugiato-latitante terrà una conferenza stampa, poi via verso Viterbo, sotto le mura del carcere chiamato «Mammagialla», per far sentire attraverso le sbarre una cantata a Paolo Persichetti, unico «combattente» estradato dalla Francia in questo quarto di secolo, chiuso in cella dal 2002 e ancora in attesa di un permesso negatogli a ripetizione, «oggetto di una catena di abusi e malversazioni che risultano di un'iniquità intollerabile» accusa Scalzone che lo accolse a Parigi nel primi anni Novanta. Infine Roma, la capitale del Sessantotto e del Settantasette, dove domani Scalzone parteciperà alla presentazione di un inserto di Liberazione su cui ha scritto un saggio dedicato al 1971, stagione di «picchetti, scioperi, lotte di fabbrica, case occupate, sgomberi, carceri» ricordata con dovizia di episodi e particolari. Trentasei anni dopo l'agitatore itinerante ha trovato un'altra Italia dove scriverà, o canterà con la sua fisarmonica, altre storie e un'altra storia.

Corriere della Sera 5.2.07
Rutelli richiama la sinistra: «Non tirate troppo la corda»
Rischio di inaffidabilità


ROMA — È di nuovo scontro tra Francesco Rutelli e la sinistra dell'Unione. «È bene — ha detto il leader della Margherita — che la sinistra si allinei. Non ci sono due politiche estere, la sinistra non deve tirare troppo la corda: non provi a modificare la linea del governo perché non ci riuscirà». «Sono frasi inaccettabili», ha commentato Franco Giordano (Rifondazione comunista). Rutelli ha poi chiarito che «è un bene se l'opposizione più dialogante concorre a una convergenza sui grandi temi, ma senza cambiare la maggioranza».
Ha ragione il ministro della Difesa Arturo Parisi a giudicare irrituale la lettera aperta dei sei ambasciatori di Paesi aderenti alla Nato sul nostro ruolo in Afghanistan: un passo diplomatico anomalo con cui gli alleati, pur nella prudenza del linguaggio, ci hanno notificato di essere consapevoli che la politica estera sia il maggior elemento di debolezza del governo Prodi.
Dopo il risultato sbalorditivo (con pochi precedenti nella storia delle democrazie parlamentari) della votazione su Vicenza, Parisi ha chiesto con forza che la coalizione di governo esca finalmente dall'ambiguità sulla politica estera e di difesa. Ma è difficile che ciò possa accadere. Non solo perché il problema va al di là della contrapposizione massimalisti/moderati: come Parisi ha rilevato in una intervista esemplare per chiarezza e rigore (La Stampa, 4 febbraio), pesa anche, per ragioni storiche, una più generale carenza di «cultura della difesa» che attraversa l'intera coalizione.
L'ambiguità non è però superabile anche per altre e più profonde ragioni. Soprattutto perché senza equilibrismi, furbizie tattiche e giochi di parole, in tema di scelte di fondo sulla collocazione internazionale dell'Italia, non sarebbe mai stato possibile mettere insieme la coalizione antiberlusconiana che vinse di stretta misura le elezioni. Basta aver letto il sempre citato «programma dell'Unione» per saperlo: quel programma, mentre dedicava enfaticamente pagine su pagine alla questione dell'Europa e dell'europeismo del centrosinistra, liquidava invece con stringatissime parole (ove il «non detto» appariva molto più importante del detto) il nostro ruolo nella Nato e l'alleanza con gli Stati Uniti. Era l'ambiguità in azione, appunto, frutto della necessità, per i partiti moderati del centrosinistra, di fare un cartello elettorale, e un'alleanza di governo, con forze politiche anti- Nato e antiamericane.
Del resto, lo stesso premier Romano Prodi appare consapevole dell'impossibilità di arrivare a un vero chiarimento. Nello stesso momento in cui usa parole dure, mai usate prima, nei confronti della sinistra massimalista per l'episodio di Vicenza, continua a concedere molto, almeno sul piano retorico, a quella stessa sinistra massimalista, rimarcando più del dovuto (in materie che riguardano la collocazione internazionale del Paese non si dovrebbe fare) tutte le discontinuità esistenti fra le scelte del suo governo e quelle del governo precedente, e nascondendo dietro il paravento verbale della «politica di pace» in cui il governo sarebbe oggi impegnato il ruolo dei nostri militari nella guerra (perché di guerra, al di là dei giri di parole, si tratta) in Afghanistan.
Tra il governo Prodi e il precedente governo Berlusconi ci sono ovviamente grandi differenze. Alcune vanno a vantaggio del governo Prodi, altre a vantaggio del governo Berlusconi. Ma certo la differenza più importante riguarda proprio la politica internazionale. Nei cinque anni di governo di Berlusconi la politica estera e la collocazione internazionale dell'Italia non furono mai oggetto di veri conflitti all'interno della coalizione. Di divisioni naturalmente ce n'erano tante, ma riguardavano la politica interna. Anche la Lega di Umberto Bossi, che quando stava all'opposizione era pronta ad assumere atteggiamenti eterodossi (nel 1999 Bossi fu, con Armando Cossutta, uno degli esponenti politici italiani che andarono a Belgrado per solidarizzare con il serbo Milosevic sulla questione del Kosovo), rimase per lo più allineatissima alle posizioni del governo di cui era parte.
Anche le sue sparate contro l'Europa (come le invettive contro «forcolandia») non avevano conseguenze pratiche, non erano tali da destabilizzare un esecutivo che, per parte sua, intratteneva all'epoca rapporti alquanto travagliati e freddi con l'asse franco-tedesco di Chirac e Schroeder. Persino quando la Lega (insieme a Rifondazione) diede in Parlamento «un voto di bandiera» contro il trattato costituzionale europeo, il governo non ne fu minimamente toccato.
Da cosa nasce la differenza? Perché la presenza della Lega (pur ideologicamente contraria a quello che essa chiamava il «Superstato europeo») nella coalizione di Berlusconi non fu altrettanto destabilizzante per la politica estera di quanto si stia rivelando la sinistra massimalista nella coalizione di Prodi? La ragione ha a che fare con le identità.
Il cruciale elemento identitario della Lega era e resta il «federalismo». Era quindi sufficiente, per il governo Berlusconi, offrire alla Lega garanzie in tema di riforma federalista perché essa accettasse, nonostante il suo antieuropeismo, di non destabilizzare la politica estera del governo.
Il caso della sinistra massimalista è diverso: antiamericanismo e pacifismo sono parti integranti della sua identità. Sono il suo nervo scoperto, come si è visto a Vicenza e come si vede nella questione del rifinanziamento della missione in Afghanistan. E come si vedrà ancor di più fra pochi mesi, se risulteranno esatte le previsioni dei comandi americani che annunciano, per primavera, una grande offensiva militare dei talebani contro la coalizione Nato in Afghanistan.
Se nel centrodestra fu facile per la Lega accettare i termini dello «scambio» (federalismo contro sostegno al governo anche sulla politica estera), nel centrosinistra lo scambio fra moderati e sinistra massimalista è assai più difficile da assicurare man mano che passa il tempo. E infatti, finita la (brevissima) luna di miele del governo, sinistra massimalista e moderati sono ormai ai ferri corti su tutto, dalla politica estera ai Pacs, alle liberalizzazioni.
Le divisioni delle maggioranze sulla politica estera vanno in scena davanti a una platea mondiale. Quando poi a scontrarsi sono «visioni del mondo» da cui discendono idee opposte sulla collocazione internazionale del Paese, la sensazione che gli altri (la comunità internazionale) ne ricavano, a volte anche al di là della sostanza, è che a regnare sia la confusione, se non addirittura l'inaffidabilità. Il problema che ha il governo Prodi è come evitare di pagare un prezzo internazionale così alto senza rimuovere quell'ambiguità di fondo grazie alla quale il centrosinistra si è formato e tuttora vive.