Cosa vuole davvero la Chiesa
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Laddove qualcuno dice “non possumus”, qualcun altro, grazie al cielo (è il caso di dirlo), pensa invece di “potere”: di avere margini d’intervento per promuovere garanzie e diritti. E per dare rilievo giuridico a ciò che nella società ha già rilievo fattuale (e, dunque, relazionale, culturale, economico: e morale). L’approvazione, da parte del consiglio dei ministri, del disegno di legge sulle coppie di fatto è un bel colpo di reni: non per l’attuale maggioranza, non per l’Ulivo; bensì, più in generale, per la politica. Che, come sovente accade, arriva con qualche (non trascurabile) ritardo, e che deve, ancora una volta, esercitare la difficile arte del “compromesso”. Un’arte che solo gli sprovveduti giudicano a priori svilente e chiamano, ahinoi, “inciucio” (parola, essa sì, indecente: per chi la utilizza). Il compromesso, proprio in questa circostanza, ritrova un suo coraggio e una sua dignità.
Il risultato di un faticoso percorso di mediazione è una norma su «Diritti e doveri dei conviventi» (Dico) che, se per alcuni aspetti potrebbe essere migliore (assai migliore), appare tuttavia positiva: non discriminatoria e commisurata alla realtà cui si applica. La realtà, soprattutto, dei rapporti di forza ideali e ideologici, prevalenti nella nostra società.
Certo, c’è un limite “preventivo” assai pesante: l’attribuzione esclusiva di diritti e facoltà al singolo individuo. Fare diversamente (ovvero assegnarli alla coppia di fatto) non avrebbe significato in alcun modo - contrariamente a quanto viene ossessivamente ripetuto - “equiparare” ogni tipo di convivenza al matrimonio (religioso o civile): e nemmeno istituire un matrimonio “di serie B”. Avrebbe significato, piuttosto, il riconoscimento di forme di convivenza non coincidenti con il matrimonio stesso e, tuttavia, degne di tutela pubblica.
In ogni caso, quella legge, se approvata, potrebbe colmare un vuoto legislativo: e offrire un quadro normativo chiaro a chi, finora, aveva vissuto una relazione - anche duratura, anche fondata su un rapporto affettivo o arricchita dalla nascita di figli - sprovvisto di tutte quelle garanzie, altrimenti riconosciute ai matrimoni civili e religiosi.
L’iter parlamentare non sarà probabilmente dei più facili; e ci vorrà onestà intellettuale e libertà di intelligenza e di spirito per trasformare l’iniziativa del governo in legge dello Stato. Ci vorrà anche un dibattito pubblico in cui le parti interessate comincino a parlare una lingua comprensibile, magari rinunciando a veti e interdizioni, per spiegare le ragioni che giustificano favore o contrarietà. Uno sforzo di chiarezza (una chiarezza che non sia, appunto, mera tentazione di comunica), lo attendiamo in primis dalla Chiesa cattolica: ovvero da parte di chi, più di ogni altro, interviene nell’arena politica per ostacolare l’approvazione di una legge in materia.
Cosa pensa davvero la Chiesa? Pensa che una eventuale norma costituirebbe un drammatico vulnus per l’istituto della famiglia. Seppure così fosse, da cosa discende questo vulnus? E in cosa si sostanzia? Ecco, qui ci arrestiamo e fatichiamo a comprendere. Benedetto XVI esprime «preoccupazione» per leggi che riguardano «l’identità della famiglia e il rispetto del matrimonio»; i vescovi sostengono che «i cosiddetti “Dico” appaiono destinati a produrre sul cruciale piano delle politiche sociali e di solidarietà problemi più gravi di quelli che si ci si ripromette di affrontare (...). Il testo normativo a proposito dei “diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi” (...) minaccia, infatti, di incidere pesantemente - per intenzioni palesi e per conseguenze prevedibili - sul futuro della nostra società nazionale sia dal punto di vista giuridico, sia a livello culturale e di costume sia, infine, nella concreta ricaduta sulla vita delle famiglie italiane». Perché? Per quale motivo? Sinceramente, non lo comprendiamo. E sarebbe meglio, per tutti, che venisse spiegato. È logico (e comunque comprensibile) che la Chiesa riconosca come sola forma familiare legittima, per un credente, quella fondata sul matrimonio religioso. Può apparire, questa, come una visione eccessivamente severa; o, al contrario, come un ancoraggio virtuoso e irrinunciabile ai valori fondanti della visione cristiana della società. Comunque la si intenda, la Chiesa ne risponde al suo popolo. Ciò che non è comprensibile, crediamo, è che quella stessa Chiesa interloquisca - attraverso le sue gerarchie - con lo Stato, le istituzioni e la politica con toni prossimi all’intimidazione etica.
Eppure, nel momento in cui il Vaticano vede nei Dico (uno strumento per sottrarre centinaia di migliaia di cittadini a una condizione diseguale) una sorta di attentato alla famiglia, non si rende conto di sminuire il valore religioso del matrimonio cattolico; che è esperienza radicalmente e irriducibilmente distinta da quella che può inquadrare, per diritto civile, ogni altra forma di convivenza. E che dunque, in virtù di questa sua unicità, non può ricevere dall’approvazione della legge sui Dico alcuna vera “aggressione”.
Non solo. Paradossalmente, il Vaticano finisce col mortificare, così, anche i valori di chi sceglie di sposarsi: perché sembra rivelare il timore che un istituto di convivenza civile renda obsoleto il matrimonio, garantendo ai contraenti una parte dei diritti sin qui previsti solo a seguito della celebrazione del rito religioso o di quello civile. Il ragionamento sotteso, insomma, è che buona parte dei cittadini e dei credenti che scelgono di sposarsi, lo fanno anche per interesse (per sentirsi più tutelati e protetti), oltre che per convinzione o credo. Cosa, va da sè, assolutamente legittima. Ciò che inquieta è la conclusione che ne trae la Chiesa: insomma, sarebbe conveniente mantenere il riconoscimento di diritti e garanzie solo per chi si sposa, così da prevedere una sorta di coazione al legame coniugale.
Infine, crediamo, il Vaticano non riesce ad accettare che lo Stato riconosca formalmente la convivenza di persone omosessuali; e che, riconoscendola, la normi in virtù di criteri di mero buon senso e civiltà. E qui si finisce, ancora una volta, per proiettare sul diritto pubblico quei giudizi che trovano giustificazione solo nell’idea del peccato; un'idea che può essere assunta a bussola morale dai credenti, non dalle istituzioni e dalla democrazia liberale.
l'Unità 11.2.07
Dove Osano i Cardinali
di Gianfranco Pasquino
Totalmente incuranti della qualità delle disposizioni contenute nel disegno di legge Bindi-Pollastrini, che sono assolutamente liberali e nient’affatto disgregatrici della famiglia classica, fondata sul matrimonio, non soltanto alcuni cardinali italiani e i loro ossequienti seguaci politici, ma lo stesso Papa, ritornano in campo con insistenza e con veemenza. Non argomentano, intimano e pretendono di dettare addirittura i comportamenti di voto dei parlamentari.
Altro che Tevere più stretto! Si tratta di una vera e propria inondazione che minaccia di lambire Montecitorio e Palazzo Madama.
È evidente che, al di là del merito specifico, che considerano irrilevante, del disegno di legge sul riconoscimento delle convivenze, la Curia romana e il suo Papa stanno perseguendo un disegno molto più ambizioso, decisamente politico e nient’affatto pastorale.
La premessa del grande disegno è stata rappresentata da quella che considerano, erroneamente, una loro grande vittoria nel referendum che voleva abolire la pessima legge sulla fecondazione assistita e sull’uso per ricerca delle cellule staminali, anche se interpretare l’astensionismo come segnale forte e inequivocabile di consenso appare una notevole forzatura della situazione. Poi, è venuto, direttamente dal Vicariato di Roma lo schiaffo a Piergiorgio Welby con il diniego, a fronte di una sua esplicita richiesta, di una cerimonia religiosa. Qui, il segnale era diretto, senza nessuna traccia né di pietas né di caritas, davvero urbi et orbi. Pressappoco così: «sappiano tutti che a nessuno che abbia chiesto e ottenuto di porre fine alle sue sofferenze in punto di morte verrà concesso un funerale religioso». Adesso, la battaglia è diventata campale poiché la Chiesa e il suo Papa saggiano la consistenza, l’ossequienza e la fedeltà delle loro divisioni (in senso belliche) politiche e parlamentari. Non soltanto al di là del Tevere qualcuno, grazie ai lunghi incontrastati anni di guida dei vescovi italiani ad opera del Cardinale Camillo Ruini, ha deciso che non è soltanto opportuno, ma addirittura doveroso, dettare le posizioni che tutti i cattolici, in special modo se “adulti”, dovrebbero seguire. La Chiesa Cattolica Romana ha stabilito che la sfida debba essere portata alla stessa laicità dello Stato italiano e che verrà condotta facendo leva sui politici a lei vicini (che, purtroppo, non sono soltanto quelli di “destra”).
Non potendo più fare affidamento su un partito che, in buona, ma mai totale o incondizionata, misura, sapeva svolgere la mediazione necessaria fra valori, come fu, salvo qualche sbandamento (vedi: divorzio) la Democrazia Cristiana (ma quelli erano altri politici e, forse, anche altri Papi...), la Chiesa ha deciso non soltanto di esaltare il suo ruolo pubblico, che nessuno negherebbe, anzi, nessuno in Italia ha mai negato, ma di fare politica in prima persona. Sono due attività alquanto diverse. Svolgere un ruolo pubblico significa partecipare a un dibattito portando argomenti e anche formulando proposte, nella consapevolezza che, alla fine, nei sistemi politici democratici, di quelle proposte decideranno coloro che sono stati eletti e che hanno la delega a scegliere interpretando un interesse generale, e che quegli argomenti verranno sottoposti a scrutinio anche per saggiarne la loro validità scientifica. Fare politica in prima persona, da parte della Chiesa, richiamandosi con durezza a non incontestabili princìpi religiosi e volendoli imporre non soltanto ai cattolici, ma a tutta la società è, invece, bisogna dirlo con estrema chiarezza, un segnale inequivocabile di fondamentalismo.
Giustamente combattuto nel resto del mondo, quando fa la sua comparsa nelle dichiarazioni e nei comportamenti di altre religioni organizzate, il fondamentalismo di Ruini e di Ratzinger merita uguale scrutinio e uguale contrasto. Non starò a dire che il contenimento del fondamentalismo cattolico è un servizio che i laici, credenti e no, fanno alla stessa Chiesa cattolica, poiché sono del tutto fedele al principio di (mia personale) non ingerenza. Valuti la Chiesa se le conviene, in termini di apostolato, di proselitismo, di difesa dei suoi princìpi, esporsi e interferire come sta facendo in Italia oggi. Valutino anche i parlamentari italiani, di destra e di sinistra. Quanto agli italiani, cittadini e politici, tocca a loro rivendicare e difendere l’autonomia della politica a servizio di una società aperta, più giusta, che vuole possibilità di scelta e non imposizioni, coesione sociale e non sottomissione.
Repubblica 11.2.07
Quei patti dimenticati tra Stato e chiesa
di Eugenio Scalfari
Nella giornata di ieri la Chiesa è passata al contrattacco, guidata dal Papa in persona a rinforzo del «non possumus» emanato dalla Conferenza episcopale. Benedetto XVI, con riferimento specifico ai temi della bioetica e al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulle convivenze di fatto, ha detto che c´è da pensare «che ci siano dei periodi in cui l´essere umano non esista veramente» Addirittura! Accenti simili non si erano più uditi da quando i bersaglieri di La Marmora entrarono dalla breccia di Porta Pia mettendo fine al potere elettorale e la nobiltà clericale chiuse i portoni dei suoi palazzi sconfessando la nascita dell´Italia unita e di Roma capitale.
Dev´essere accaduto qualche cosa di molto più grave a ferire la sensibilità e gli interessi della Chiesa del riconoscimento di alcuni diritti che regolarizzano le coppie di fatto ben più timidamente di quanto già non sia avvenuto in tutt´Europa, dalla Spagna all´Olanda e dalla Francia alla Germania. Che cosa è dunque accaduto?
È accaduto che quel cautissimo atto di governo, che porta la firma d´un premier cattolicissimo ed è stato redatto da un cattolicissimo ministro, ha posto un paletto al neo-temporalismo della Santa Sede, alle sue crescenti interferenze nella legislazione e addirittura nell´articolazione delle norme di legge che il Parlamento voterà nelle prossime settimane.
È accaduto che al «non possumus» dei vescovi italiani è stato opposto il «possumus» dei gruppi parlamentari del centrosinistra e in particolare dei parlamentari cattolici della Margherita, che hanno rivendicato la loro responsabile autonomia laica e – insieme – la loro costante appartenenza ai valori del cristianesimo.
Viene in mente il rifiuto di Alcide De Gasperi all´operazione Sturzo di stampo clerico-fascista, sponsorizzata da papa Pacelli e dai Comitati civici. Da allora il leader della Dc non fu più ricevuto, neppure in udienza privata, da Pio XII, il che non gli impedì di reggere le sorti del governo nazionale senza mai venir meno ai suoi sentimenti di appartenenza cattolica e ai suoi doveri verso il paese e verso la Costituzione.
Questo preoccupa Benedetto XVI e i vescovi italiani: che i cattolici democratici, messi con le spalle al muro dall´intransigenza ruiniana, abbiano rifiutato di essere passiva cinghia di trasmissione ponendo così un argine alla clericalizzazione delle istituzioni.
Non li preoccupa né Diliberto né Pecoraro Scanio né Rifondazione comunista, bensì i Franceschini, i Letta, le Bindi, gli Scoppola e, soprattutto, Romano Prodi che va a messa e frequenta i sacramenti tutte le domeniche. Si ritrovano - i vescovi - in compagnia del paganesimo berlusconiano con il rischio di un neo-temporalismo profumato alla cipria del Bagaglino anziché all´incenso delle basiliche.
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Si dice - talvolta l´ho detto anch´io - che il potere politico è debole. Ha un pensiero debole. Inclina al compromesso. Si vorrebbe una politica che scelga senza se e senza ma. E poiché i se e i ma abbondano, se ne conclude che la politica non fa il dover suo e le si contrappone il deposito dei valori della religione, alimentati dall´intransigenza della fede.Ma si è mai vista nella storia una politica senza compromessi? La politica si nutre di compromessi, procede per sintesi, non si ferma mai ad una tesi intransigente o ad un´intransigente antitesi, salvo in regimi di dittatura o, peggio, di totalitarismo.
I regimi liberali e ancor più quelli liberal-democratici amministrano organismi complessi, interessi plurimi e spesso contrapposti. Debbono pertanto rappresentarli tutti superandone i particolarismi, includendo e non escludendo, trovando il denominatore comune.
Il pensiero debole della politica coincide con compromessi deboli e privi di obiettivi forti. E in quei casi debbono essere vigorosamente criticati. La politica è l´arte del possibile, quindi del dialogo e dell´accordo al più alto livello possibile. Cavour voleva fare un grande Piemonte nel 1857 e si accordò con la Francia di Napoleone III. Poi l´obiettivo cambiò e divenne assai più ambizioso: volle fare l´Italia. Si alleò con Garibaldi, con Ricasoli, con Minghetti e con l´Inghilterra. Si sarebbe alleato anche col diavolo se fosse servito.
Quale politica non fa compromessi? Perfino Cesare li fece. Perfino Napoleone. Hitler no, non li fece. Voleva sterminare gli ebrei e li sterminò. Voleva conquistare tutta l´Europa e c´era quasi riuscito se non ci fosse stato Pearl Harbor e se Roosevelt non si fosse alleato con Stalin. Ma Hitler non era un politico, era un pazzo criminale. Antipolitico per eccellenza.
Anche la Chiesa ha fatto compromessi. Perfino con Hitler. Con Mussolini. Con Franco. Con Breznev. Con Jaruzelski. Con Gorbaciov. Tutte le volte che le è convenuto ha stipulato concordati. Non è forse un compromesso il concordato? Si patteggia, si dà e si prende.
La fede non fa compromessi. Ma la fede riguarda la coscienza individuale, non le organizzazioni che l´amministrano. La Chiesa e la sua gerarchia sono il corpo che riveste la fede. Talvolta il corpo esprime e realizza l´anima, talaltra la rinserra nei suoi corposi interessi mondani. Questo è sempre stato il rapporto tra la gerarchia dei presbiteri e la comunità dei fedeli. Lo scontro tra il modernismo e il Vaticano ebbe proprio questa motivazione. Finì con la persecuzione dei modernisti della quale c´è traccia evidente perfino nel Concordato del ‘29. Il cristianesimo diffuso dalla predicazione degli apostoli è la religione dell´amore. Ma non sempre.
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È singolare che nel dibattito in corso tra il Vaticano e il governo italiano nessuno (salvo i radicali) abbia menzionato il Concordato. Come se non esistesse più. Come se fosse caduto in desuetudine. Come se non fosse stato recepito nella Costituzione del 1947.Infatti è caduto in desuetudine. O meglio: sta in piedi soltanto a tutela dei benefici che ne riceve la Chiesa. I limiti che la Chiesa ha pattuito con lo Stato sono stati invece superati.
Il deputato Capezzone, tanto per dire, si è stupito l´altro ieri perché si aspettava che il governo protestasse con la Santa Sede per l´irritualità compiuta dalla Cei con l´irruzione palese e anticoncordataria compiuta nei confronti del potere legislativo, così come il governo aveva ritenuto irrituale l´intervento dei sei ambasciatori che ci invitavano perentoriamente a restare in Afghanistan senza se e senza ma.
Ha ragione Capezzone. Ma ha ragione anche il governo. Il Vaticano in Italia è infinitamente più forte degli ambasciatori dei sei paesi alleati. È più forte come potere temporale. Pretende di dirigere le coscienze dei fedeli anche - anzi soprattutto - quando rivestano cariche ministeriali o siano membri del Parlamento. Chiede, anzi pretende obbedienza.
Ho letto l´intervista di Rosy Bindi su Repubblica di ieri. Dice: «Abbiamo scritto una legge giusta che tutela i più deboli, riconosce diritti alle persone discriminate, non crea nessuna figura giuridica che possa attentare alla famiglia. L´insegnamento cattolico parla di valore della giustizia, di pace, di libertà personale, di accoglienza perfino dell´errore. Di carità e di misericordia... Un politico non deve sentirsi referente di nessuno. Il mio referente è il Paese e la mia coscienza cattolica».
Ebbene, questo è il punto che per i vescovi italiani ha l´effetto d´un panno rosso davanti a un toro infuriato: il fatto che il laicato cattolico democratico abbia come riferimento la Costituzione e la propria coscienza cattolica e sulla base di questi due riferimenti fondamentali arrivi a conclusioni difformi da quelle della gerarchia ecclesiastica. La considera una ribellione perché ha perso la nozione esatta della parola Ecclesia. Che non distingue tra presbiteri e fedeli. Ecclesia è la comunità cristiana, è comunione partecipata perché tutti prendono il corpo eucaristico del Cristo, tutti nello stesso momento e alla stessa mensa. La grazia non passa attraverso l´intermediazione dei presbiteri, ma il Signore la dispensa direttamente ai fedeli che credono in lui e da lui prescelti.
Il neo-temporalismo è il contrario di tutto ciò. Non a caso Paolo VI ritenne la fine del temporalismo «un fausto evento per la Chiesa». Ma in realtà a partire dal pontificato di papa Wojtyla fino ad oggi la Chiesa sta devitalizzando i contenuti più significativi del Concilio Vaticano II e i due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. L´ha scritto a chiare lettere Pietro Scoppola nel suo articolo di tre giorni fa su Repubblica.
Questo è il senso dell´operazione in corso, di cui il disegno di legge sulle convivenze non è che il pretesto.
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Si dice che il pensiero laico sia debole. Capisco perché lo si dice: i laici (qui intesi come laici non credenti) non hanno né papi né cardinali né vescovi né preti. Ciascuno parla per sé e rappresenta solo se stesso. Per fortuna.Non significa che un pensiero laico non esista e neppure che sia debole. Al contrario è forte, è lucido, è coerente alle sue premesse e nella sua dialettica con i clerici. Basta aver letto i più recenti prodotti di questo pensiero pubblicati questa settimana dal nostro giornale: l´articolo di Ezio Mauro e quello di Gustavo Zagrebelsky a proposito del "non possumus" episcopale.
I laici sono favorevoli allo spazio pubblico che spetta alla Chiesa, per ampio e crescente che sia, e ascoltano la sua parola con interesse traendone elementi di positiva riflessione e di rispettosa accoglienza quando ve ne siano, contestando elementi di intolleranza e tentazioni teocratiche che spesso, purtroppo, vi sono.
I laici non sono anticlericali, anche se l´episcopato italiano sta facendo il possibile per farceli diventare. Ma i laici hanno come solo punto di riferimento il patto costituzionale. Su quel patto si fonda la Repubblica italiana e in esso ciascuno trova le radici della sua identità.
Perciò mi stupisco molto di coloro che sarebbero pronti ad accettare i patti di convivenza purché limitati agli eterosessuali. La Costituzione vieta in modo esplicito che la legislazione possa introdurre norme discriminanti nei confronti dei cittadini per ragioni di etnia, di religione, di sesso. Un regime di convivenza che discriminasse gli omosessuali cadrebbe ovviamente sotto la scure della Corte costituzionale e, prima ancora, sotto quella del Capo dello Stato secondo i poteri e le modalità che gli sono attribuiti.
Quindi tutto è molto chiaro. I laici vogliono il rispetto della Costituzione e di conseguenza anche del Concordato. Qualcuno, prima o poi, chiederà alla Corte se il Concordato sia ancora in vigore o sia gravemente leso. E qualora lo fosse, quali siano gli strumenti atti a recuperarne il rispetto o a proclamarne la decadenza per doveroso recesso della parte lesa.
il manifesto 11.2.07
Giù le mani dalle foibe
di Enzo Collotti
I fatti ci hanno dato ragione. I timori che avevamo espresso fin da quando fu istituito il giorno del ricordo si sono puntualmente avverati. Anche dalle più alte cariche dello Stato si è sentito il dovere di enfatizzare una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, l'unica che possa servire ad elevare il nostro senso civile, ma che alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale. Per questo vogliamo ribadire quanto scrivevamo già due anni fa con la prima Giornata del Ricordo per onorare le vittime delle foibe.
Non era difficile prevedere che collocare la celebrazione a due settimane dal Giorno della Memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno l'unico denominatore comune di appartenere tutte all'esplosione sino allora inedita di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia. Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili la cosa più sorprendente è l'incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l'incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile e ambiguo pentitismo, non contribuisce - come fa il discorso del presidente Napolitano - a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.
La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia, di una regione italiana, senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell'italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell'italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando parliamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l'Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro paese.
Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d'Aosta) addirittura da prima dell'avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell'identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?
I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all'Italia il monopolio strategico ed economico dell'Adriatico. Che cosa sanno dell'occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d'Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?
Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria.
Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. Al singolo, vittima di eventi più grandi di lui, può anche non importare capire l'origine delle sue disgrazie; ma chi fa responsabilmente il mestiere di politico o anche più modestamente quello dell'educatore deve avere la consapevolezza dei messaggi che trasmette, deve sapere che cosa significa trasmettere un messaggio dimezzato, unilaterale. Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale (Msi) un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell'esodo per rinfocolare l'odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l'unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionalistico e della guerra fredda.
I profughi dall'Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell'Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci ha esortato Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa, Donzelli, 2005) bisogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell'Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall'Istria, ma l'Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornavano (i più fortunati) dai campi di concentramento - di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari - centinaia di migliaia - che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione?
La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d'Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.