lunedì 12 febbraio 2007

l'Unità 12.2.07
Ingerenze vaticane
Nuovi Diritti e Vecchi Divieti
di Carlo Flamigni


Ci sono certamente differenti modi di giudicare una scelta politica, e questo vale anche per la recente proposta del governo che ci è stata presentata con l’orribile nome di «Dico». Il primo modo è quello che si ispira al pragmatismo, che guarda ai risultati concreti. Chi segue questa via, si pone una domanda semplice: era possibile fare di più? Se consideriamo la situazione politica del Paese, la prepotenza di una gran parte del mondo cattolico, l’invadenza dei vescovi la risposta è no, non si poteva far di più.
Lo si capisce anche guardando lo sguardo supplice dei tanti parlamentari che temono di non poter essere rieletti senza il voto delle parrocchie e che implorano un buffetto di approvazione da parte del loro vescovo di riferimento. Ammettiamolo dunque, non si poteva fare di più. Con qualche perplessità sul concetto cattolico di mediazione: cento metri da percorrere, li facciamo tutti noi e loro si lamentano ugualmente.
La manifesta soddisfazione dimostrata dalla senatrice Binetti mi fa però sospettare che esistano altri modi di considerare il problema. So per certo, ad esempio, che esistono persone un po’ meno pragmatiche (e un po’ meno ciniche) che vedono nella proposta del governo una rinuncia - piuttosto dolorosa - a un riconoscimento pubblico che molte coppie di fatto si aspettavano e che, in un recente passato, molti rappresentanti della sinistra che sta governando il Paese si erano impegnati ad ottenere. Secondo costoro, il progetto di legge del governo finisce con l’essere una sintesi molto impoverita di contenuti di un lavoro politico che ha evidentemente trovato difficoltà insuperabili all’interno della coalizione di centro-sinistra, ed è inutile perder tempo a spiegare chi come e perché, questi fatti li conosciamo benissimo.
Mi sembra dunque opportuno che ci chiediamo, a questo punto, quanto siano giustificati tutti questi sgomenti, quanto comprensibili queste paure, quanto irresistibili questi ricatti. Comincio così dall’argomento che mi interessa di più: ci stiamo comportando da Paese laico, o il concetto stesso di laicità, attraverso una serie incredibile di travisamenti, ha assunto significati completamente diversi da quelli nei quali le persone come me hanno sempre creduto?
Scelgo un articolo di Giuseppe Dalla Torre, professore di Diritto Ecclesiastico e rettore della «Lumsa», che trovo negli atti del convegno di studio del Comitato Nazionale di Bioetica organizzato in occasione del suo 15° anniversario. Scrive Dalla Torre: «Certo uno Stato laico non imporrà, con la forza del braccio secolare, un’etica al corpo sociale; ma non potrà fare a meno di tradurre in norme quei valori etici che, alla prova delle regole democratiche, risulteranno diffusi e condivisi nel corpo sociale. In maniera più esplicita si deve dire che le comunità religiose... hanno il diritto, ma dire anche il dovere, di intervenire nello spazio pubblico, quindi politico, proponendo i propri valori, e quindi i propri progetti di società cercando democraticamente di acquisire, intorno ad essi, significativi consensi». Un discorso, se non altro, apprezzabile per la sua chiarezza: poiché noi cattolici siamo più numerosi, le nostre regole morali sono migliori delle vostre e possiamo imporle a tutti. Questa definizione di laicità è esattamente il contrario della mia, e mi piacerebbe molto che su questa peculiare enunciazione intervenissero Viano, Lecaldano, Rodotà, Mori, Giorello e gli altri intellettuali laici che l’articolo di Dalla Torre dovrebbe aver non poco turbato. Dal canto mio, e in attesa di riaprire questa discussione se e quando arriveranno tempi migliori, mi limito a segnalare al professor Dalla Torre che tutte - ma proprio tutte - le inchieste che sono state fatte negli ultimi anni in Italia sui temi che vengono definiti «eticamente sensibili» questa maggioranza cattolica ortodossa non l’hanno proprio registrata, anzi. La maggioranza dei cittadini è invece favorevole alla fecondazione assistita, alla pillola abortiva, al diritto di decidere in merito alla fine della propria esistenza, alla pillola del giorno dopo, alla legge 194 e così via fino ai Pacs: ripeto, per chiarezza, Pacs, non Dico. La sensazione, dunque, è che il Vaticano - e i Cardinali, e i Vescovi, e i professori di Diritto Ecclesiatico - abbiano tutto il diritto di difendere le proprie idee e di parlare in nome della propria fede, ma dovrebbero risparmiarci i ragionamenti sulla democrazia e le ipotesi sulle maggioranze. La sensazione è che le loro possibili maggioranze vengano ottenute commerciando, in modo piuttosto truffaldino, in Parlamento, e che non abbiano niente a che fare con il Paese. D’altra parte ricordo che alcuni anni orsono l’allora cardinale Ratzinger, in una intervista a «Repubblica», ammise che la secolarizzazione del Paese aveva comportato un forte perdita di popolarità e di consensi del mondo cattolico, che non poteva essere più considerato maggioranza; ed è di pochi giorni or sono un editoriale di Ezio Mauro nel quale questi stessi eventi vengono esaminati alla luce del nuovo atteggiamento “bellicoso” del Vaticano, volontà di prevaricazione secondo alcuni, servizio secondo altri.
È però legittimo chiedersi, giunti a questo punto, dove in effetti stiano le ragioni “forti” del non possumus della Chiesa cattolica. Per un cattolico, il matrimonio è un sacramento, un atto sacro, un “pegno della fede”; per lo Stato, il matrimonio è un contratto, un istituto giuridico mediante il quale si dà forma legale all’unione tra due persone (per ora di un uomo e di una donna) che stabiliscono di vivere in comunione (di vita, di beni, di interessi) anche in ordine alla formazione di una famiglia. E la famiglia è l’insieme delle persone legate tra loro da un rapporto di convivenza, di parentela e di affinità. A me sembra che lo Stato abbia già richiamato a sé il diritto di definire questo istituto, di stabilirne le regole e i privilegi, assicurandogli oltre tutto una assoluta autonomia nei confronti di sacramenti e di sacralità. Che c’è di male, che c’è di nuovo nel fatto che lo stesso Stato che ha elaborato una prima definizione di matrimonio e di famiglia decida oggi di modificarla tenendo conto degli importanti mutamenti ai quali sono andate incontro le consuetudini sociali? Che c’è di strano, che c’è di immorale nel fatto che tante nuove differenti famiglie stiano cercando di far udire la propria voce, indicando insieme alle proprie sofferenze e ai propri disagi anche la capacità di assumersi l’insieme delle responsabilità che caratterizzano le unioni familiari tradizionali? E ai cittadini (ai cittadini, non ai preti) che chiedono allo Stato sulla base di quali garanzie si accinge a fare certe determinate scelte, lo Stato può rispondere che le garanzie sono tutte lì, nella capacità di queste nuove famiglie di assumersi specifiche responsabilità. Forse che questa dichiarazione di intenti ha un peso diverso dal giuramento fatto davanti a Dio o dalla promessa fatta davanti al sindaco?
Il significato delle parole, è bene ricordarlo, cambia nel tempo, restare appesi alla semantica del passato è sbagliato e perdente. Un genitore non è più, o non è più soltanto, colui che trasferisce il proprio patrimonio genetico al figlio ma è anche colui che promette di essere vicino al bambino che nascerà e si impegna a rispondere alle sue domande e ai suoi bisogni. Non è anche questa una versione molto nobile e dignitosa di genitore?
Anche le abitudini sociali cambiano, e cambiano rapidamente e radicalmente. Negli Stati Uniti - Paese adorato per certe sue prepotenze, ignorato per molte sue debolezze - nel 1992 oltre 6 milioni di bambini venivano cresciuti ed educati da genitori omosessuali, con ottimi risultati a sentire l’American Psychological Association e l’American Society for Reproductive Medicine. Secondo Machelle Seibel, direttore di uno dei più importanti giornali scientifici americani, le coppie omosessuali americane stanno cercando sicurezza per la loro vita comune all’interno di istituzioni riconosciute e protette e per questo si battono per ottenere leggi che consentano loro di sposarsi: quando riescono a farlo, si dimostrano straordinariamente consapevoli delle responsabilità acquisite e si confermano ottimi educatori di figli propri e adottati. Gli eterosessuali, dal canto loro, preferiscono dedicarsi allo hooking-up, il che significa uscire alla sera senza un appuntamento preciso e fare sesso con il primo venuto “per conoscerlo meglio”. Il risultato è che diminuiscono non solo i matrimoni, ma anche le coppie di fatto e la nascita del primo figlio subisce continui rinvii. Chiediamoci dunque: siamo certi che abbiamo ben capito cosa sta accadendo nel mondo? Siamo certi dell’utilità degli strumenti della fede per interpretare e proteggere?
Quando leggo certe dichiarazioni della Cei («il testo normativo... minaccia di incidere pesantemente... sul futuro della nostra società nazionale) mi chiedo se sia in realtà possibile un dialogo, o se la propensione di una certa parte del mondo cattolico non sia invece quella di considerare con affetto e tenerezza la vecchia signora che, guardando al passato, afferma con fierezza «domo mansi, lanam feci», non ho mai lasciato la casa, ho trascorso gli anni a fare la calza. E il desiderio di ragionare con loro di diritti individuali, chissà perché, si dissolve.

Repubblica 12.2.07
Scoprire il dolore dell'anima
Sofferenza mentale: una proposta per una psichiatria a misura d'uomo
di Umberto Galimberti


Eugenio Borgna e Bruno Callieri, tra i maggiori psicopatologi italiani, firmano due saggi sul terribile mondo degli psicotici e dei depressi
I malati hanno bisogno di essere ascoltati e confortati con la parola e non abbandonati ai soli farmaci

Perché la «psichiatria organicista», quella che impiega i farmaci per intenderci, utilissimi, anzi in alcuni casi indispensabili per alleviare le condizioni di chi soffre, non ascolta con una certa continuità e frequenza le parole che sgorgano dalla sofferenza e che riproducono in modo drammatico le condizioni d'esistenza di ciascuno di noi, e in modo vertiginoso alcuni abissi che solo l'arte, la poesia, la musica, la mistica fanno dischiudere, chiedendo spesso il sacrificio dell'artista, del poeta, del musicista, del mistico?
Solo la «psichiatria fenomenologica», che in Italia non si insegna in nessuna scuola di specializzazione, si presta a questo ascolto, per andare incontro alla speranza di chi soffre, sciogliere i vissuti di colpa che incatenano, perforare i muri della solitudine quando nessuna parola la raggiunge, nessun gesto la incrina, fino a quel taedium vitae che tutti, per brevi attimi, avvertiamo come nausea dell'esistenza.
Perché non avviene un'integrazione di questi due orientamenti psichiatrici? Perché la pratica farmacologica sopprime l'ascolto, disumanizza l'uomo, riducendolo ad un «caso» da rubricare in quei quadri nosologici, dove è l'efficacia del farmaco a decidere la diagnosi, mettendo a tacere tutte le parole del dolore che la follia urla e le nostre anime sussurrano. E così disimpariamo il vocabolario emozionale, anche se sappiamo che tutte le parole dimenticate diventano opachi silenzi del cuore, che aprono quei percorsi bui e insospettati di cui ci accorgiamo solo quando approdano a gesti tragici.
Perché la follia sta diventando solo una faccenda «medica» e non più un evento «umano»? Perché la categoria della «malattia» deve occupare tutto lo spazio, fino a oscurare la profonda parentela che esiste tra l'eccesso dell'anima e la sua normale condizione? Perché subito un medico o un farmaco quando la malinconia di un adolescente o la sua angoscia, almeno all'inizio, stanno implorando solo un po' di ascolto? Davvero non abbiamo più fiducia in uno sguardo comprensivo, in una parola che sa corrispondere all'abisso della disperazione? Davvero non abbiamo più tempo in quest'epoca che ci vuole tutti insensatamente gioiosi, e se non riusciamo, almeno mascherati da quella fredda razionalità che non lascia trasparire nessun moto d'anima?
E allora se proprio nessuno ci ascolta, se noi stessi, complici di questa mancata comunicazione, imbocchiamo quella strada che ci porta a tacitare l'anima, per poi offrirci, disarmati, alle sue profonde perturbazioni che neppure sappiamo più riconoscere e tantomeno nominare, se il silenzio intorno a noi e dentro di noi s'è fatto cupo e buio, apriamo un luogo di conoscenza, una terra amica, dove possiamo constatare che le «malattie dell'anima», prima che una faccenda medica o farmacologica, sono condizioni comuni dell'esistenza umana, che i poeti, prima e meglio degli psichiatri, sanno descrivere in tutta la loro abissalità.
Perché i poeti, come ci ricorda Heidegger, sono «i più arrischianti», i più vicini, quando non i più inoltrati negli scenari della follia, dove la condizione umana è descritta fino a quei limiti dove può estendersi e implorare ascolto, accoglienza, ri-conoscenza.
A partire da queste considerazioni propongo agli psichiatri (perché non racchiudano subito la follia nelle mura spesse e opache della malattia) e a tutti noi (per non cancellare fino a dimenticare del tutto le parole dell'anima) due importanti contributi della psichiatria fenomenologica. Uno di Eugenio Borgna Come in uno specchio oscuramente (Feltrinelli, pagg. 230, euro 16), l'altro di Bruno Callieri, Corpo, esistenze, mondi (Edizioni Universitarie Roma, pagg. 320, euro 25). Si tratta dei due maggiori psicopatologi italiani che dall'alto della loro biografia e pratica clinica si espongono in questi libri, raccontando per la prima volta i loro incontri con l'esperienza psicotica a cui si sono offerti, come ospiti ad un tempo stranieri e insieme compartecipi, a quei mondi che oscillano tra realtà e delirio, in uno spazio coartato dall´angoscia o dilatato nel buio senza confine e senza fondo della depressione malinconica, alla ricerca di un senso, dove anche le forme più sgangherate di follia, riflettono le aree tematiche raggiunte dai vertici della poesia, o segretate nelle pieghe della nostra anima di cui non abbiamo più cura.
Seguendo l'intuizione di Brentano, Eugenio Borgna legge la follia come «la sorella sfortunata della poesia». E perciò le esperienze di vita e di morte nelle considerazioni filosofiche di Simon Weil, la malinconia sfibrata e oscura di Emily Dickinson e di Ingeborg Bachmann che si fa musica in Franz Schubert, l'angoscia che soffoca e però trova parola in Georg Trakl ed espressione in Francis Bacon, il destino di dolore è scacco esistenziale di Van Gogh, nelle cui esperienze artistiche trova espressione l'angoscia psicotica, sono quello specchio dove, talvolta oscuramente, talvolta con toni abbaglianti, la condizione esistenziale di noi tutti trova un suo riflesso, una sua descrizione, che la psichiatria organicista trascura, mentre la psichiatria fenomenologica raccoglie per offrirla a chiunque voglia conoscere quanto è segretato nella propria anima, ma mai, per fortuna, definitivamente sepolto.
C'è infatti una creatività sempre incistata nella follia, c'è un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente abitiamo, c'è un desiderio di espandere orizzonti fino alla vertigine del senza-confine, c'è la perla della conchiglia, come vuole l'immagine di Jaspers là dove scrive che: «Lo spirito creativo dell'artista, pur condizionato dall'evolversi di una malattia, è al di là dell'opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell'opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita».
Proprio perché ascolta, invece di tacitare immediatamente il linguaggio della follia con il farmaco, Eugenio Borgna riesce a individuare e a descrivere nel suo libro le differenze tra le connotazioni maschili e femminili dell'anoressia nella sua immersione in un presente divorato dal desiderio narcisistico di un corpo «altro» da quello che si ha, i diversi modi maschili e femminili di vivere la tristezza vitale della depressione e di immaginare la morte volontaria come ultimo orizzonte di una speranza divenuta impossibile. E ancora, riconoscere i volti dell'angoscia nelle differenti risonanze maschili e femminili di vivere gli sconvolgimenti emozionali e le metamorfosi relazionali, dove, come in uno specchio è dato cogliere, oscuramente, quel che è in ciascuno di noi, perché ciascuno di noi, anche se non si accorge, è quotidianamente impegnato ad armonizzare le dissonanze tra il mondo della ragione e il mondo della follia che ci abita.
E a proposito di «mondi» Bruno Callieri descrive con la sensibilità del fenomenologo, da cui si tiene distante la psichiatria organicista, il mondo della vita che ha per soggetto l'esistenza con i suoi vissuti e non l'organismo a cui la pratica medica ha ridotto la nozione di «corpo». Infatti, quando in gioco è la sofferenza dell'esistenza, rapportarsi a un «apparato organico» come fa la medicina o a un «apparato psichico» come fa la psicologia è diverso dal rapportarsi fenomenologicamente a un corpo vivente che dispone di una sua esperienza e di un suo mondo.
Organicamente mi appariranno tensioni nervose e contrazioni muscolari, psicologicamente le dinamiche di quell'energia che Freud ha chiamato «libido», in nessuno dei due casi mi apparirà una successione di esperienze, perché sia l'apparato organico, sia l'apparato psichico sono senza mondo e senza quell'intenzionalità che si dispiega nel desiderio, nel timore, nella speranza e nella disperazione per le cose del mondo.
A questo punto, pensare di comprendere meglio l'esperienza di un corpo vivente che abita un mondo, scindendolo nell'impersonalità dei due sistemi, uno organico e uno psichico, che per definizione non hanno un mondo, perché sono costruiti sui modelli concettuali ricavati dalla fisica e dalla biologia, significa non rendersi conto di quanto sia assurdo tentare di comprendere persone con procedimenti di spersonalizzazione.
Se infatti la follia, come ci ricorda Bruno Callieri, è la scissione nell'uomo, la sua lontananza dagli altri, la sua estraneità al mondo, come si può pensare di guarire applicando una dottrina i cui principi sono l'esatta riproduzione delle componenti della follia? Come si può pensare di condurre all'unità dell'esistenza un uomo «a pezzi», servendosi di una dottrina che non ha mai conosciuto l'unità, ma sempre e solo la giustapposizione dei «pezzi»?
Se è vero, come dice Heidegger che «il linguaggio parla», termini come psico-fisico, psico-somatico, bio-psico-logico, psico-pato-logico, psico-sociale dicono che la psicologia non ha mai conosciuto l'unità dell'esistenza, ma solo la composizione delle parti che la scienza ha già consegnato ai vari sistemi. Il suo sforzo di ricostruzione, come ci ricorda Laing, assomiglia «allo sforzo disperato dello schizofrenico per ricomporre il suo io e il suo mondo disgregati».
Quando la psichiatria organicista presterà ascolto alla psichiatria fenomenologica e imparerà a conoscere le «diverse modalità» della sofferenza esistenziale che non ha organi specifici di riferimento? E soprattutto quando noi, tutti noi, presteremo attenzione all'urlo straziante del folle o al suo muto silenzio, dal momento che non possiamo ignorare che la sua disperazione solo per intensità e frequenza differisce dalla nostra? «Noi siamo un colloquio» diceva Hölderlin dall'abisso della sua follia, e allora incominciamo a parlare e ad ascoltare prima di tacitare o mentre attenuiamo l'urlo o il silenzio con un farmaco. Del resto già Kafka annotava che «scrivere una ricetta è facile, ma ascoltare la sofferenza è molto, molto più difficile».

Repubblica on line 12.2.07
Sono ormai 500.000 le unioni libere. E l'incidenza delle nascite all'interno di queste famiglie è del 15%, il doppio rispetto a 10 anni fa
Istat, aumentano le coppie di fatto e i figli nati fuori dal matrimonio


ROMA - In Italia le coppie di fatto sono in continuo aumento, un fenomeno al quale corrisponde una diminuzione dei matrimoni. Non solo: sono sempre di più le coppie di fatto che scelgono di avere dei figli. L'incidenza dei bambini nati al di fuori del matrimonio, attesta l'Istat nell'indagine 'Il matrimonio in Italia: un'istituzione in mutamento', è attualmente intorno al 15 per cento, cioè quasi 80.000 nati all'anno, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa, quando questo valore era pari all'8 per cento.
"Questo fenomeno - spiega l'Istat - va interpretato nel quadro più generale delle trasformazioni dei comportamenti familiari. Sono infatti sempre più numerose le coppie, ormai oltre 500.000, che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio".
Nel 2005 sono stati celebrati poco più di 250.000 matrimoni. Rapportato al '72 il numero presenta un vistosissimo calo: infatti in quell'anno ne vennero celebrati 419.000.
Oltre alla tendenza a vivere la vita di coppia senza contrarre matrimonio, si è rafforzata nel 2005 (anno di riferimento dell'indagine) la tendenza a posticipare l'età delle nozze per chi invece continua a fare questa scelta: attualmente infatti gli sposi alle prime nozze hanno un'età media che è intorno ai 32 anni e le spose quasi 30, quattro anni in più dell'età che avevano in media i genitori al primo matrimonio.

domenica 11 febbraio 2007

l'Unità 11.2.07
Cosa vuole davvero la Chiesa
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Laddove qualcuno dice “non possumus”, qualcun altro, grazie al cielo (è il caso di dirlo), pensa invece di “potere”: di avere margini d’intervento per promuovere garanzie e diritti. E per dare rilievo giuridico a ciò che nella società ha già rilievo fattuale (e, dunque, relazionale, culturale, economico: e morale). L’approvazione, da parte del consiglio dei ministri, del disegno di legge sulle coppie di fatto è un bel colpo di reni: non per l’attuale maggioranza, non per l’Ulivo; bensì, più in generale, per la politica. Che, come sovente accade, arriva con qualche (non trascurabile) ritardo, e che deve, ancora una volta, esercitare la difficile arte del “compromesso”. Un’arte che solo gli sprovveduti giudicano a priori svilente e chiamano, ahinoi, “inciucio” (parola, essa sì, indecente: per chi la utilizza). Il compromesso, proprio in questa circostanza, ritrova un suo coraggio e una sua dignità.
Il risultato di un faticoso percorso di mediazione è una norma su «Diritti e doveri dei conviventi» (Dico) che, se per alcuni aspetti potrebbe essere migliore (assai migliore), appare tuttavia positiva: non discriminatoria e commisurata alla realtà cui si applica. La realtà, soprattutto, dei rapporti di forza ideali e ideologici, prevalenti nella nostra società.
Certo, c’è un limite “preventivo” assai pesante: l’attribuzione esclusiva di diritti e facoltà al singolo individuo. Fare diversamente (ovvero assegnarli alla coppia di fatto) non avrebbe significato in alcun modo - contrariamente a quanto viene ossessivamente ripetuto - “equiparare” ogni tipo di convivenza al matrimonio (religioso o civile): e nemmeno istituire un matrimonio “di serie B”. Avrebbe significato, piuttosto, il riconoscimento di forme di convivenza non coincidenti con il matrimonio stesso e, tuttavia, degne di tutela pubblica.
In ogni caso, quella legge, se approvata, potrebbe colmare un vuoto legislativo: e offrire un quadro normativo chiaro a chi, finora, aveva vissuto una relazione - anche duratura, anche fondata su un rapporto affettivo o arricchita dalla nascita di figli - sprovvisto di tutte quelle garanzie, altrimenti riconosciute ai matrimoni civili e religiosi.
L’iter parlamentare non sarà probabilmente dei più facili; e ci vorrà onestà intellettuale e libertà di intelligenza e di spirito per trasformare l’iniziativa del governo in legge dello Stato. Ci vorrà anche un dibattito pubblico in cui le parti interessate comincino a parlare una lingua comprensibile, magari rinunciando a veti e interdizioni, per spiegare le ragioni che giustificano favore o contrarietà. Uno sforzo di chiarezza (una chiarezza che non sia, appunto, mera tentazione di comunica), lo attendiamo in primis dalla Chiesa cattolica: ovvero da parte di chi, più di ogni altro, interviene nell’arena politica per ostacolare l’approvazione di una legge in materia.
Cosa pensa davvero la Chiesa? Pensa che una eventuale norma costituirebbe un drammatico vulnus per l’istituto della famiglia. Seppure così fosse, da cosa discende questo vulnus? E in cosa si sostanzia? Ecco, qui ci arrestiamo e fatichiamo a comprendere. Benedetto XVI esprime «preoccupazione» per leggi che riguardano «l’identità della famiglia e il rispetto del matrimonio»; i vescovi sostengono che «i cosiddetti “Dico” appaiono destinati a produrre sul cruciale piano delle politiche sociali e di solidarietà problemi più gravi di quelli che si ci si ripromette di affrontare (...). Il testo normativo a proposito dei “diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi” (...) minaccia, infatti, di incidere pesantemente - per intenzioni palesi e per conseguenze prevedibili - sul futuro della nostra società nazionale sia dal punto di vista giuridico, sia a livello culturale e di costume sia, infine, nella concreta ricaduta sulla vita delle famiglie italiane». Perché? Per quale motivo? Sinceramente, non lo comprendiamo. E sarebbe meglio, per tutti, che venisse spiegato. È logico (e comunque comprensibile) che la Chiesa riconosca come sola forma familiare legittima, per un credente, quella fondata sul matrimonio religioso. Può apparire, questa, come una visione eccessivamente severa; o, al contrario, come un ancoraggio virtuoso e irrinunciabile ai valori fondanti della visione cristiana della società. Comunque la si intenda, la Chiesa ne risponde al suo popolo. Ciò che non è comprensibile, crediamo, è che quella stessa Chiesa interloquisca - attraverso le sue gerarchie - con lo Stato, le istituzioni e la politica con toni prossimi all’intimidazione etica.
Eppure, nel momento in cui il Vaticano vede nei Dico (uno strumento per sottrarre centinaia di migliaia di cittadini a una condizione diseguale) una sorta di attentato alla famiglia, non si rende conto di sminuire il valore religioso del matrimonio cattolico; che è esperienza radicalmente e irriducibilmente distinta da quella che può inquadrare, per diritto civile, ogni altra forma di convivenza. E che dunque, in virtù di questa sua unicità, non può ricevere dall’approvazione della legge sui Dico alcuna vera “aggressione”.
Non solo. Paradossalmente, il Vaticano finisce col mortificare, così, anche i valori di chi sceglie di sposarsi: perché sembra rivelare il timore che un istituto di convivenza civile renda obsoleto il matrimonio, garantendo ai contraenti una parte dei diritti sin qui previsti solo a seguito della celebrazione del rito religioso o di quello civile. Il ragionamento sotteso, insomma, è che buona parte dei cittadini e dei credenti che scelgono di sposarsi, lo fanno anche per interesse (per sentirsi più tutelati e protetti), oltre che per convinzione o credo. Cosa, va da sè, assolutamente legittima. Ciò che inquieta è la conclusione che ne trae la Chiesa: insomma, sarebbe conveniente mantenere il riconoscimento di diritti e garanzie solo per chi si sposa, così da prevedere una sorta di coazione al legame coniugale.
Infine, crediamo, il Vaticano non riesce ad accettare che lo Stato riconosca formalmente la convivenza di persone omosessuali; e che, riconoscendola, la normi in virtù di criteri di mero buon senso e civiltà. E qui si finisce, ancora una volta, per proiettare sul diritto pubblico quei giudizi che trovano giustificazione solo nell’idea del peccato; un'idea che può essere assunta a bussola morale dai credenti, non dalle istituzioni e dalla democrazia liberale.

l'Unità 11.2.07
Dove Osano i Cardinali
di Gianfranco Pasquino


Totalmente incuranti della qualità delle disposizioni contenute nel disegno di legge Bindi-Pollastrini, che sono assolutamente liberali e nient’affatto disgregatrici della famiglia classica, fondata sul matrimonio, non soltanto alcuni cardinali italiani e i loro ossequienti seguaci politici, ma lo stesso Papa, ritornano in campo con insistenza e con veemenza. Non argomentano, intimano e pretendono di dettare addirittura i comportamenti di voto dei parlamentari.
Altro che Tevere più stretto! Si tratta di una vera e propria inondazione che minaccia di lambire Montecitorio e Palazzo Madama.
È evidente che, al di là del merito specifico, che considerano irrilevante, del disegno di legge sul riconoscimento delle convivenze, la Curia romana e il suo Papa stanno perseguendo un disegno molto più ambizioso, decisamente politico e nient’affatto pastorale.
La premessa del grande disegno è stata rappresentata da quella che considerano, erroneamente, una loro grande vittoria nel referendum che voleva abolire la pessima legge sulla fecondazione assistita e sull’uso per ricerca delle cellule staminali, anche se interpretare l’astensionismo come segnale forte e inequivocabile di consenso appare una notevole forzatura della situazione. Poi, è venuto, direttamente dal Vicariato di Roma lo schiaffo a Piergiorgio Welby con il diniego, a fronte di una sua esplicita richiesta, di una cerimonia religiosa. Qui, il segnale era diretto, senza nessuna traccia né di pietas né di caritas, davvero urbi et orbi. Pressappoco così: «sappiano tutti che a nessuno che abbia chiesto e ottenuto di porre fine alle sue sofferenze in punto di morte verrà concesso un funerale religioso». Adesso, la battaglia è diventata campale poiché la Chiesa e il suo Papa saggiano la consistenza, l’ossequienza e la fedeltà delle loro divisioni (in senso belliche) politiche e parlamentari. Non soltanto al di là del Tevere qualcuno, grazie ai lunghi incontrastati anni di guida dei vescovi italiani ad opera del Cardinale Camillo Ruini, ha deciso che non è soltanto opportuno, ma addirittura doveroso, dettare le posizioni che tutti i cattolici, in special modo se “adulti”, dovrebbero seguire. La Chiesa Cattolica Romana ha stabilito che la sfida debba essere portata alla stessa laicità dello Stato italiano e che verrà condotta facendo leva sui politici a lei vicini (che, purtroppo, non sono soltanto quelli di “destra”).
Non potendo più fare affidamento su un partito che, in buona, ma mai totale o incondizionata, misura, sapeva svolgere la mediazione necessaria fra valori, come fu, salvo qualche sbandamento (vedi: divorzio) la Democrazia Cristiana (ma quelli erano altri politici e, forse, anche altri Papi...), la Chiesa ha deciso non soltanto di esaltare il suo ruolo pubblico, che nessuno negherebbe, anzi, nessuno in Italia ha mai negato, ma di fare politica in prima persona. Sono due attività alquanto diverse. Svolgere un ruolo pubblico significa partecipare a un dibattito portando argomenti e anche formulando proposte, nella consapevolezza che, alla fine, nei sistemi politici democratici, di quelle proposte decideranno coloro che sono stati eletti e che hanno la delega a scegliere interpretando un interesse generale, e che quegli argomenti verranno sottoposti a scrutinio anche per saggiarne la loro validità scientifica. Fare politica in prima persona, da parte della Chiesa, richiamandosi con durezza a non incontestabili princìpi religiosi e volendoli imporre non soltanto ai cattolici, ma a tutta la società è, invece, bisogna dirlo con estrema chiarezza, un segnale inequivocabile di fondamentalismo.
Giustamente combattuto nel resto del mondo, quando fa la sua comparsa nelle dichiarazioni e nei comportamenti di altre religioni organizzate, il fondamentalismo di Ruini e di Ratzinger merita uguale scrutinio e uguale contrasto. Non starò a dire che il contenimento del fondamentalismo cattolico è un servizio che i laici, credenti e no, fanno alla stessa Chiesa cattolica, poiché sono del tutto fedele al principio di (mia personale) non ingerenza. Valuti la Chiesa se le conviene, in termini di apostolato, di proselitismo, di difesa dei suoi princìpi, esporsi e interferire come sta facendo in Italia oggi. Valutino anche i parlamentari italiani, di destra e di sinistra. Quanto agli italiani, cittadini e politici, tocca a loro rivendicare e difendere l’autonomia della politica a servizio di una società aperta, più giusta, che vuole possibilità di scelta e non imposizioni, coesione sociale e non sottomissione.

Repubblica 11.2.07
Quei patti dimenticati tra Stato e chiesa
di Eugenio Scalfari


Nella giornata di ieri la Chiesa è passata al contrattacco, guidata dal Papa in persona a rinforzo del «non possumus» emanato dalla Conferenza episcopale. Benedetto XVI, con riferimento specifico ai temi della bioetica e al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulle convivenze di fatto, ha detto che c´è da pensare «che ci siano dei periodi in cui l´essere umano non esista veramente» Addirittura! Accenti simili non si erano più uditi da quando i bersaglieri di La Marmora entrarono dalla breccia di Porta Pia mettendo fine al potere elettorale e la nobiltà clericale chiuse i portoni dei suoi palazzi sconfessando la nascita dell´Italia unita e di Roma capitale.
Dev´essere accaduto qualche cosa di molto più grave a ferire la sensibilità e gli interessi della Chiesa del riconoscimento di alcuni diritti che regolarizzano le coppie di fatto ben più timidamente di quanto già non sia avvenuto in tutt´Europa, dalla Spagna all´Olanda e dalla Francia alla Germania. Che cosa è dunque accaduto?
È accaduto che quel cautissimo atto di governo, che porta la firma d´un premier cattolicissimo ed è stato redatto da un cattolicissimo ministro, ha posto un paletto al neo-temporalismo della Santa Sede, alle sue crescenti interferenze nella legislazione e addirittura nell´articolazione delle norme di legge che il Parlamento voterà nelle prossime settimane.
È accaduto che al «non possumus» dei vescovi italiani è stato opposto il «possumus» dei gruppi parlamentari del centrosinistra e in particolare dei parlamentari cattolici della Margherita, che hanno rivendicato la loro responsabile autonomia laica e – insieme – la loro costante appartenenza ai valori del cristianesimo.
Viene in mente il rifiuto di Alcide De Gasperi all´operazione Sturzo di stampo clerico-fascista, sponsorizzata da papa Pacelli e dai Comitati civici. Da allora il leader della Dc non fu più ricevuto, neppure in udienza privata, da Pio XII, il che non gli impedì di reggere le sorti del governo nazionale senza mai venir meno ai suoi sentimenti di appartenenza cattolica e ai suoi doveri verso il paese e verso la Costituzione.
Questo preoccupa Benedetto XVI e i vescovi italiani: che i cattolici democratici, messi con le spalle al muro dall´intransigenza ruiniana, abbiano rifiutato di essere passiva cinghia di trasmissione ponendo così un argine alla clericalizzazione delle istituzioni.
Non li preoccupa né Diliberto né Pecoraro Scanio né Rifondazione comunista, bensì i Franceschini, i Letta, le Bindi, gli Scoppola e, soprattutto, Romano Prodi che va a messa e frequenta i sacramenti tutte le domeniche. Si ritrovano - i vescovi - in compagnia del paganesimo berlusconiano con il rischio di un neo-temporalismo profumato alla cipria del Bagaglino anziché all´incenso delle basiliche.
* * *
Si dice - talvolta l´ho detto anch´io - che il potere politico è debole. Ha un pensiero debole. Inclina al compromesso. Si vorrebbe una politica che scelga senza se e senza ma. E poiché i se e i ma abbondano, se ne conclude che la politica non fa il dover suo e le si contrappone il deposito dei valori della religione, alimentati dall´intransigenza della fede.
Ma si è mai vista nella storia una politica senza compromessi? La politica si nutre di compromessi, procede per sintesi, non si ferma mai ad una tesi intransigente o ad un´intransigente antitesi, salvo in regimi di dittatura o, peggio, di totalitarismo.
I regimi liberali e ancor più quelli liberal-democratici amministrano organismi complessi, interessi plurimi e spesso contrapposti. Debbono pertanto rappresentarli tutti superandone i particolarismi, includendo e non escludendo, trovando il denominatore comune.
Il pensiero debole della politica coincide con compromessi deboli e privi di obiettivi forti. E in quei casi debbono essere vigorosamente criticati. La politica è l´arte del possibile, quindi del dialogo e dell´accordo al più alto livello possibile. Cavour voleva fare un grande Piemonte nel 1857 e si accordò con la Francia di Napoleone III. Poi l´obiettivo cambiò e divenne assai più ambizioso: volle fare l´Italia. Si alleò con Garibaldi, con Ricasoli, con Minghetti e con l´Inghilterra. Si sarebbe alleato anche col diavolo se fosse servito.
Quale politica non fa compromessi? Perfino Cesare li fece. Perfino Napoleone. Hitler no, non li fece. Voleva sterminare gli ebrei e li sterminò. Voleva conquistare tutta l´Europa e c´era quasi riuscito se non ci fosse stato Pearl Harbor e se Roosevelt non si fosse alleato con Stalin. Ma Hitler non era un politico, era un pazzo criminale. Antipolitico per eccellenza.
Anche la Chiesa ha fatto compromessi. Perfino con Hitler. Con Mussolini. Con Franco. Con Breznev. Con Jaruzelski. Con Gorbaciov. Tutte le volte che le è convenuto ha stipulato concordati. Non è forse un compromesso il concordato? Si patteggia, si dà e si prende.
La fede non fa compromessi. Ma la fede riguarda la coscienza individuale, non le organizzazioni che l´amministrano. La Chiesa e la sua gerarchia sono il corpo che riveste la fede. Talvolta il corpo esprime e realizza l´anima, talaltra la rinserra nei suoi corposi interessi mondani. Questo è sempre stato il rapporto tra la gerarchia dei presbiteri e la comunità dei fedeli. Lo scontro tra il modernismo e il Vaticano ebbe proprio questa motivazione. Finì con la persecuzione dei modernisti della quale c´è traccia evidente perfino nel Concordato del ‘29. Il cristianesimo diffuso dalla predicazione degli apostoli è la religione dell´amore. Ma non sempre.
* * *
È singolare che nel dibattito in corso tra il Vaticano e il governo italiano nessuno (salvo i radicali) abbia menzionato il Concordato. Come se non esistesse più. Come se fosse caduto in desuetudine. Come se non fosse stato recepito nella Costituzione del 1947.
Infatti è caduto in desuetudine. O meglio: sta in piedi soltanto a tutela dei benefici che ne riceve la Chiesa. I limiti che la Chiesa ha pattuito con lo Stato sono stati invece superati.
Il deputato Capezzone, tanto per dire, si è stupito l´altro ieri perché si aspettava che il governo protestasse con la Santa Sede per l´irritualità compiuta dalla Cei con l´irruzione palese e anticoncordataria compiuta nei confronti del potere legislativo, così come il governo aveva ritenuto irrituale l´intervento dei sei ambasciatori che ci invitavano perentoriamente a restare in Afghanistan senza se e senza ma.
Ha ragione Capezzone. Ma ha ragione anche il governo. Il Vaticano in Italia è infinitamente più forte degli ambasciatori dei sei paesi alleati. È più forte come potere temporale. Pretende di dirigere le coscienze dei fedeli anche - anzi soprattutto - quando rivestano cariche ministeriali o siano membri del Parlamento. Chiede, anzi pretende obbedienza.
Ho letto l´intervista di Rosy Bindi su Repubblica di ieri. Dice: «Abbiamo scritto una legge giusta che tutela i più deboli, riconosce diritti alle persone discriminate, non crea nessuna figura giuridica che possa attentare alla famiglia. L´insegnamento cattolico parla di valore della giustizia, di pace, di libertà personale, di accoglienza perfino dell´errore. Di carità e di misericordia... Un politico non deve sentirsi referente di nessuno. Il mio referente è il Paese e la mia coscienza cattolica».
Ebbene, questo è il punto che per i vescovi italiani ha l´effetto d´un panno rosso davanti a un toro infuriato: il fatto che il laicato cattolico democratico abbia come riferimento la Costituzione e la propria coscienza cattolica e sulla base di questi due riferimenti fondamentali arrivi a conclusioni difformi da quelle della gerarchia ecclesiastica. La considera una ribellione perché ha perso la nozione esatta della parola Ecclesia. Che non distingue tra presbiteri e fedeli. Ecclesia è la comunità cristiana, è comunione partecipata perché tutti prendono il corpo eucaristico del Cristo, tutti nello stesso momento e alla stessa mensa. La grazia non passa attraverso l´intermediazione dei presbiteri, ma il Signore la dispensa direttamente ai fedeli che credono in lui e da lui prescelti.
Il neo-temporalismo è il contrario di tutto ciò. Non a caso Paolo VI ritenne la fine del temporalismo «un fausto evento per la Chiesa». Ma in realtà a partire dal pontificato di papa Wojtyla fino ad oggi la Chiesa sta devitalizzando i contenuti più significativi del Concilio Vaticano II e i due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. L´ha scritto a chiare lettere Pietro Scoppola nel suo articolo di tre giorni fa su Repubblica.
Questo è il senso dell´operazione in corso, di cui il disegno di legge sulle convivenze non è che il pretesto.
* * *
Si dice che il pensiero laico sia debole. Capisco perché lo si dice: i laici (qui intesi come laici non credenti) non hanno né papi né cardinali né vescovi né preti. Ciascuno parla per sé e rappresenta solo se stesso. Per fortuna.
Non significa che un pensiero laico non esista e neppure che sia debole. Al contrario è forte, è lucido, è coerente alle sue premesse e nella sua dialettica con i clerici. Basta aver letto i più recenti prodotti di questo pensiero pubblicati questa settimana dal nostro giornale: l´articolo di Ezio Mauro e quello di Gustavo Zagrebelsky a proposito del "non possumus" episcopale.
I laici sono favorevoli allo spazio pubblico che spetta alla Chiesa, per ampio e crescente che sia, e ascoltano la sua parola con interesse traendone elementi di positiva riflessione e di rispettosa accoglienza quando ve ne siano, contestando elementi di intolleranza e tentazioni teocratiche che spesso, purtroppo, vi sono.
I laici non sono anticlericali, anche se l´episcopato italiano sta facendo il possibile per farceli diventare. Ma i laici hanno come solo punto di riferimento il patto costituzionale. Su quel patto si fonda la Repubblica italiana e in esso ciascuno trova le radici della sua identità.
Perciò mi stupisco molto di coloro che sarebbero pronti ad accettare i patti di convivenza purché limitati agli eterosessuali. La Costituzione vieta in modo esplicito che la legislazione possa introdurre norme discriminanti nei confronti dei cittadini per ragioni di etnia, di religione, di sesso. Un regime di convivenza che discriminasse gli omosessuali cadrebbe ovviamente sotto la scure della Corte costituzionale e, prima ancora, sotto quella del Capo dello Stato secondo i poteri e le modalità che gli sono attribuiti.
Quindi tutto è molto chiaro. I laici vogliono il rispetto della Costituzione e di conseguenza anche del Concordato. Qualcuno, prima o poi, chiederà alla Corte se il Concordato sia ancora in vigore o sia gravemente leso. E qualora lo fosse, quali siano gli strumenti atti a recuperarne il rispetto o a proclamarne la decadenza per doveroso recesso della parte lesa.


il manifesto 11.2.07
Giù le mani dalle foibe
di Enzo Collotti


I fatti ci hanno dato ragione. I timori che avevamo espresso fin da quando fu istituito il giorno del ricordo si sono puntualmente avverati. Anche dalle più alte cariche dello Stato si è sentito il dovere di enfatizzare una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, l'unica che possa servire ad elevare il nostro senso civile, ma che alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale. Per questo vogliamo ribadire quanto scrivevamo già due anni fa con la prima Giornata del Ricordo per onorare le vittime delle foibe.
Non era difficile prevedere che collocare la celebrazione a due settimane dal Giorno della Memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno l'unico denominatore comune di appartenere tutte all'esplosione sino allora inedita di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia. Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili la cosa più sorprendente è l'incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l'incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile e ambiguo pentitismo, non contribuisce - come fa il discorso del presidente Napolitano - a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.
La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia, di una regione italiana, senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell'italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell'italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando parliamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l'Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro paese.
Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d'Aosta) addirittura da prima dell'avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell'identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?
I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all'Italia il monopolio strategico ed economico dell'Adriatico. Che cosa sanno dell'occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d'Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?
Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria.
Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. Al singolo, vittima di eventi più grandi di lui, può anche non importare capire l'origine delle sue disgrazie; ma chi fa responsabilmente il mestiere di politico o anche più modestamente quello dell'educatore deve avere la consapevolezza dei messaggi che trasmette, deve sapere che cosa significa trasmettere un messaggio dimezzato, unilaterale. Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale (Msi) un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell'esodo per rinfocolare l'odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l'unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionalistico e della guerra fredda.
I profughi dall'Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell'Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci ha esortato Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa, Donzelli, 2005) bisogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell'Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall'Istria, ma l'Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornavano (i più fortunati) dai campi di concentramento - di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari - centinaia di migliaia - che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione?
La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d'Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.

venerdì 9 febbraio 2007

Repubblica 9.2.07
TUTTE LE MADRI DEL MEDITERRANEO
Una mostra sull'archeologia turca


Spicca una sculturina di diciannove centimetri, una divinità che ha molte gemelle nel mar Tirreno
Una "Camera delle Meraviglie" con pezzi molto antichi neolitici, assiri ed ittiti: sette millenni di storia
Pugliese Carratelli già trent´anni fa proponeva di cercare tracce "micenee" in Italia
Le teorie di Mommsen sull´incapacità degli Elleni antichi di navigare per mare
Tra i pezzi più interessanti c´è uno specchio usato da Solimano il Magnifico
La Chiesa di Roma ipotizzò che Maria sarebbe morta vicino alla città di Efeso

ROMA. «Una faccia, una razza!». Chissà se a dircelo per primi - a noi Italiani, almeno sei millenni fa - non sian stati proprio i Turchi? Certo a guardarsela per bene questa loro Dea Madre del IV millennio a. C. che apre la mostra "Turchia 7000 anni di civiltà", allestita da Louis Godart, al Quirinale, per festeggiare i 150 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Turchia, il sospetto viene: vien da pensare che a quel secolo e mezzo sancito dall´ufficialità, ne andrebbero aggiunti almeno altri 60 di secoli.
Seimila anni di preistoria e storie, un tempo comuni.
E una sculturina minima in calcare, questa Dea di Canhasan, 19 centimetri in tutto, e tutti inquartati nella posizione austera e accovacciata che i canoni di quell´epoca di fede le avevano affibbiato. Ha lasciato il suo Museo di Ankara per mostrare a noi e all´Europa di Bruxelles, quanto antiche siano la civiltà e la religiosità in Anatolia. E, ora, fa da pezzo forte a questa Wunderkammer tutta turca che chiuderà i battenti il 31 marzo prossimo dopo aver mostrato 46 reperti eccellenti, emblematici, scelti con cura, uno per uno da Godart, per rievocare le tappe fondamentali di quella civiltà (la mostra sarà poi allestita all´Archeologico di Napoli, ndr.).
Quindi: roba neolitica, e assira, e ittita; e sigilli (che fanno presupporre depositi e magazzini da tener sotto controllo); e scritture, appena nate; e i primissimi sistri di bronzo; e altri bronzi (che troveremo simili anche in Europa, ma molto dopo); e vasi lustrati ad arte, già nel III millennio a. C. Via via - accennando soltanto a Bisanzio - si arriva fino alle raffinatezze dell´Islam che lì affina l´arte nuova - ormai, senza più figure umane - fatta solo dei suoi caleidoscopici arabeschi simbolici. E gioielli, e boccali in cristalli di rocca, e Corani istoriati da non credere. C´è, in mostra, persino uno specchio - tutto giade, rubini, diamanti e turchesi - che era usato da Solimano, il Magnifico.
Lei, però, quella Dea Madre del IV millennio a. C., sembra saperla più lunga di tutti: viene da lontano, andrà lontano. Capelli raccolti dietro la nuca, occhi quasi a mandorla, faccia paffuta, un po´ tutta sovrappeso, come allora piaceva assai. Dimagrirà nel millennio successivo: si affilerà nel marmo bianco e nelle geometrie sacrali per unire - in un unico credo - il mare da Est a Ovest.
Del resto il suo compito era di tutto rispetto: opulenta prima, stilizzata poi, la Dea Madre in molte zone del Mediterraneo - in Turchia, nelle Cicladi, in Sardegna - doveva accompagnare nell´Aldilà il morto in modo che una volta arrivato laggiù, non si sentisse troppo solo e, soprattutto, non tornasse, per nostalgia, a disturbare i suoi cari.
Paciosa, morbida e tranquillizzante com´è, non si direbbe proprio che questa Nostra Signora dei Turchi sia arrivata qui da noi per seppellire definitivamente un dogma che - seppur datato alla metà dell´Ottocento - ha influenzato, ritardandoli, moltissimi ragionamenti archeologici del secolo appena finito.
Del resto a promulgarlo ex cathedra era stato nientemeno che Theodor Mommsen, e per di più l´aveva fatto nella sua Storia di Roma antica, dove - già nel II capitolo, come una premessa - sentenziò: «Indubbiamente le più antiche migrazioni di popoli avvennero tutte per via di terra, specialmente quelle verso l´Italia, le cui coste potevano essere raggiunte per mare solo da esperti naviganti ed erano quindi ancora al tempo di Omero perfettamente sconosciute agli Elleni».
Oggi si sa che non è così. Ma - con questa sua frase (che, però, sottende tutta l´opera del grande antichista tedesco) - il Mommsen riuscì a semplificarci il Passato Remoto: i riflettori e le attenzioni di molti antichisti, italici e ortodossi, puntarono tutto sulle Super Razze e si accoccolarono nello studio dell´autoctonia dei Popoli, mettendo al bando ogni comparativismo.
Nacquero persino le teorie del «hic et nunc», il «qui e ora» delle etnie: da studiarsi soltanto sul posto. Radici o migrazioni diventarono off limits per gli studiosi più seri. I racconti degli Antichi? Fiabe pazze da prender con le pinze.
Già il grande grecista Giovanni Pugliese Carratelli, aveva rischiato l´accusa di eresia quando, una trentina di anni fa, stimolò gli archeologhi affinché cercassero tracce «micenee» qui da noi, in Italia. Presto, però, la ricerca gli diede ragione: in Sicilia, a Ischia, in Sardegna, Puglia, persino in Veneto, saltarono fuori e riconosciuti reperti datati al XIII e XII secolo a. C. - proprio l´età raccontata da Omero - a legare strette strette le genti mediterranee e a fare assai più grande il mondo e il mare degli Antichi.
Eppure - e proprio grazie a quel dogma promulgato da Mommsen - in certi ambienti ci si continua ancor oggi a stupire se, di tanto in tanto, relitti di bastimenti del II millennio a. C. restituiscono merci dell´intero Mediterraneo.
Ora questa madonnina turca del IV millennio, quasi gemella alle sue coetanee neolitiche di Sardegna. A riguardarsela da vicino vicino - adesso che troneggia in vetrina, lì, al Quirinale - sembra materializzarci le antiche rotte di cui favoleggiarono i Sargon prima, gli Ittiti poi, con l´Anatolia a far da grande imbarcadero della civiltà: Terra Madre!
Solo che, ormai, nessuno se lo ricorda più: né al Museo di Ankara (dove normalmente questa statuina è esposta), né in quelli sardi, (dove sono in mostra le sue sorelle) e neppure all´Archeologico di Bruxelles (dov´è un´altra loro parente stretta, con la testa un po´ più sottile, trovata nelle Cicladi), vengono sottolineati questi loro gemellaggi transmarini.
Eppure l´ha sottolineato con scrupolo in catalogo, Godart: «Fin dal neolitico le scoperte e le conquiste culturali di cui le terre anatoliche sono state teatro hanno segnato profondamente la civiltà europea e, a sua volta, la civiltà occidentale ha plasmato in parte il volto della Turchia moderna». Figurarsi che, ormai, c´è chi - come Gray & Atkinson, su Nature del novembre 2003 - assicura che gli Indoeuropei proprio da lì siano partiti per regalarci lingue tutte apparentate, insieme ai semi giusti per l´agricoltura e ai cento segreti dell´allevamento.
Ed è una storia infinita quella nostra che s´intreccia con la loro.
A dare ai Greci quel che è dei Greci, ormai, ci siamo abituati. Spesso, poi, però, ci si dimentica di ricontrollare quanto la Grecia classica si sentisse debitrice con l´Anatolia, il paese dell´alba: l´altra metà del suo cielo. Omero? C´è chi ce lo giura mezzo turco. Esiodo, il teologo? Lo racconta lui stesso - proprio mentre sta costruendo un Pantheon agli Elleni - che suo padre era emigrato da Cuma eolica «non certo fuggendo gli agi, né la ricchezza e il benessere, ma la cattiva povertà che Zeus assegna ai mortali».
Per non parlare di Dioniso che - parola sua, ma grazie alla penna dell´Euripide di Baccanti - nel V secolo a C. si autocertifica così: «Mia patria è la Lidia». Tanto che Penteo, con cui il Dio della Vite sta dialogando, gli ribatte: «E com´è che vieni ora a portare questi riti nell´Ellade?». E son targati Turchia anche uomini che sembrano dèi - come Mida, e Creso - insieme a dèi che soffrono come uomini, come Prometeo. E Demetra/Madre Terra da dove ci arriva se non dalla Dea Madre di Ìatalh´y´k («Un pezzo che rimpiango: l´avrei voluto qui, in mostra» confessa Godart) che - datata VI millennio a. C., ritratta trionfante in trono mentre sta partorendo - si prende il primato delle divinità femminili mediterranee che via via si materializzeranno nell´elaboratissima Artemide di Efeso, pregata in mezzo mondo, fino su alla Marsiglia dei Focei, lupi di mare d´antan.
Roba vecchia? Cose turche? Solo turche?
Fino a un certo punto: dopo mille cautele la Chiesa di Roma, nel secolo scorso, decise che proprio in una casa a pochi chilometri dalla Efeso di Artemide, (ritrovata dagli archeologhi, grazie alle visioni di una mistica austriaca), sarebbe morta Maria, la madre di Gesù.
Nel 1967 Paolo VI si recò lì a pregare l´ultima nostra Dea Madre.

giovedì 8 febbraio 2007

Ansa.it 6.2.07
Editoria: Storia Anni 70 con Liberazione, non fu solo piombo

Una storia a fascicoli raccontata da chi l'ha vissuta per spiegare alle giovani generazioni che gli anni Settanta non furono solo ''anni di piombo'' ma anni di ''speranze e di allegria''. La raccontera' il quotidiano 'Liberazione' che a partire da giovedi' e per dodici settimane mandera' in edicola 12 fascicoli per raccontare il decennio che ha segnato una generazione intera. Un numero per ogni anno e due uscite sul '77, l'anno del Movimento e della 'fantasia al potere', ma anche quello in cui molti giovani fecero la scelta della lotta armata. L'iniziativa e' stata presentata oggi a Roma dal direttore del quotidiano Piero Sansonetti, da Ritanna Armeni, da Tano D'Amico, le cui foto illustrano il decennio, e da Oreste Scalzone, appena rientrato in Italia da uomo libero dopo che i reati per cui e' stato condannato a 16 anni di carcere sono caduti in prescrizione. L'obiettivo e' chiaro. ''Volevamo raccontare ai giovani di oggi - dice Sansonetti - che gli anni settanta non sono stati solo violenza. Raccontarli come anni di pura cupezza non solo e' sbagliato ma non ci serve a nulla''. ''Ci furono tante speranze, tanta allegria - aggiunge Tano D'Amico -lunghe storie d'amore e d'amicizia. E la cosa piu' triste e' che quei volti e quei sorrisi non esistono piu'''. Certo, aggiunge Sansonetti, ''c'era pure la violenza, ma era inserita in qualcosa di molto piu' grande. Siamo convinti che quel decennio e' stato ricchissimo di contenuti, anni in cui germogliarono idee ricchissime che hanno cambiato il nostro modo di vivere''. Negli anni Settanta, prosegue, ''nacquero infatti il femminismo, l'egualitarismo, l'ambientalismo. E siamo convinti che per affrontare le crisi politiche di oggi, italiane e occidentali, sia fondamentale correre a riprendere alcuni temi abbandonati proprio negli anni settanta''. (ANSA).

il Riformista 8.2.07
LETTERA. PRIMA LE IDEE, POI I PARTITI
Bene il dibattito, ma il punto è:
che cosa vuol dire socialismo oggi?
di Nerio Nesi

l’Unità 8.2.07
Mussi presenta la mozione «Perché dico no al Pd»
Il documento firmato anche da Salvi, Spini, Bandoli
e Nerozzi. Richiamo alla sinistra e al socialismo europeo
di Simone Collini


NON SI VA «OLTRE» IL SOCIALISMO con il Partito democratico: si va «fuori e indietro» rispetto alla tradizione socialista. Fabio Mussi riprende un’immagine a cui è recentemente ricorso Massimo D’Alema per spiegare il suo no a quella che giudica una «pura fusione tra Ds e Margherita». Il leader della sinistra diessina ha depositato ieri la mozione con cui si candida alla segreteria del partito. E poi l’ha presentata ai giornalisti a Montecitorio insieme agli altri primi firmatari: Cesare Salvi, Fulvia Bandoli, Valdo Spini e il segretario confederale della Cgil Paolo Nerozzi. Un’occasione per ribadire che mozione e candidatura per il congresso di aprile non sono «un atto di testimonianza»: «Andiamo per vincerlo, cioè per avere il consenso sufficiente per fermare il treno del Partito democratico». Perché se va in porto l’operazione a cui lavora la maggioranza dei Ds, il primo, immediato risultato è che scompaiono due immagini e due parole. «Le due immagini: la Quercia e la Rosa; le due parole: sinistra e socialismo». Ma soprattutto resta tutto da sciogliere il nodo della collocazione internazionale. Da qui il no a un partito che «nasce homeless, senza casa». E da qui la decisione di presentare agli iscritti una posizione «alternativa», che punta all’«unità» della coalizione e all’«autonomia» del partito, che vuole lavorare «per un rinnovamento profondo dei Ds» e per «un nuovo socialismo». Il tutto, sintetizzato nel titolo della mozione: «A sinistra per il socialismo europeo».
Il documento si apre sottolineando che «questo è il congresso che decide l’avvenire della sinistra italiana» e con la contrarietà «alla scomparsa in Italia, unico Paese europeo, di un grande partito socialista e di sinistra». Si parla poi del «rischio di una catastrofe ambientale», della necessità di sostituire alla pratica dello scontro di civiltà «il primato del diritto internazionale, la riforma e il rilancio dell’Onu», dell’Africa («nella nostra mozione c’è, in quella firmata da Veltroni no», dice con un sorriso il coordinatore organizzativo della mozione Gianni Zagato), dell’uso della forza «legittimo» solo nel rispetto della Carta dell’Onu e dell’articolo 11 della Costituzione, dell’«insostenibilità dell’attuale organizzazione dell’economia globale». Nelle 19 pagine di testo si parla anche della necessità per la sinistra, se vuole rappresentare il mondo del lavoro, di non essere «equidistante tra la Confindustria e i sindacati» e di lavorare per una «occupazione stabile, perché la lotta alla precarietà non può limitarsi agli ammortizzatori sociali, ma richiede una nuova normativa che rovesci la logica della legge 30». Si dedica un capitolo alla laicità dello Stato, «una conquista della democrazia repubblicana», «un principio non negoziabile», e uno alla riforma della politica, nel quale si dice aperta «una nuova e inquietante questione morale». Non mancano riferimenti a vicende più o meno recenti: «La separazione tra finanza, economia e politica deve essere netta e chiara, come non è accaduto nel caso Unipol», si dice in questo stesso capitolo, mentre in quello dedicato a «un futuro di pace» si parla anche della base di Vicenza: «Riteniamo si debba ascoltare l’opinione contraria delle popolazioni locali».
A firmare la mozione sono stati anche 36 parlamentari, tra nazionali ed europei, oltre ai primi cinque firmatari. «Non è vero che diciamo solo dei no» sottolinea Salvi parlando della necessità di unire forze di sinistra e movimenti. «Oggi il lavoro e senza rappresentanza», dice Nerozzi, mentre Spini rivolge un appello al leader dello Sdi Boselli a lavorare per rafforzare il socialismo europeo in Italia. Fulvia Bandoli accusa: «Mettere insieme due partiti poco democratici e autoreferenziali non può dar vita a un partito nuovo».
Mussi, a chi gli domanda se in caso di sconfitta si staccheranno dal partito, risponde dicendo che «si cammina un passo alla volta, ora andiamo al congresso per vincere». Di più parole, invece, quando gli viene chiesto un commento su Sofri, che alla presentazione della mozione di Fassino aveva definito «grottesca l’idea che Mussi o Salvi lascino i Ds»: «Io ho rispetto per lui ma la sua storia politica non giustifica questa alterigia. È andato fuori dal seminato quando ha lanciato l’anatema contro le minoranze dei Ds. Lui può fare le scelte che vuole, passare da Lc al Pd ma mi lasci stare, anche la mia è una scelta politica che merita rispetto».

l'Unità 8.2.07
La parlamentare: «È stato condannato, invitarlo alla presentazione della mozione Fassino è un vulnus ai giudici»
Sofri, la polemica di Olga D’Antona


«Nella giornata di ieri, in occasione della presentazione della mozione di maggioranza dei Ds, tra gli interlocutori chiamati a discutere con Piero Fassino, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, c’era anche Adriano Sofri». Parte dalla cronaca, Olga D’Antona, per lamentare il «vulnus» nei confronti della magistratura provocato dalla presenza l’altro ieri al Capranica dell’ex leader di Lotta continua. Dopo la presentazione dei fatti, la vedova del giuslavorista ucciso dalle Br nel ‘99 fa una premessa, e cioè che a volte ha apprezzato le cose che Sofri ha scritto e che «in considerazione del suo stato di salute» non ha mai manifestato contrarietà alla «concessione della grazia nei suoi confronti per motivi umanitari». E ci tiene anche a sottolineare, la deputata dell’Ulivo, che in passato non ha mostrato «particolare accanimento né spirito di vendetta verso chi, pur essendo stato autore di gravi atti di terrorismo, ha scontato la propria pena e ha mostrato segni di ravvedimento».
È a questo punto del testo, un’intera pagina scritta l’altra notte dopo aver avuto la conferma di quanto visto annunciato su giornali e manifesti, e cioè che effettivamente l’ex leader di Lotta continua era sul palco del Capranica con Fassino e gli altri, che l’esponente della sinistra Ds critica la scelta compiuta dai vertici del suo partito: «Non posso altresì fare a meno di rilevare che Adriano Sofri è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per l’omicidio di un servitore dello Stato e che non ha finito di scontare la sua pena. A questo punto mi chiedo perché il gruppo dirigente del mio partito, che è partito di governo, lo sceglie come interlocutore privilegiato». La vedova di Massimo D’Antona si chiede quale sia il «messaggio simbolico» di questa scelta, ma soprattutto fa un ragionamento di cui chiede conto ai vertici del suo partito. Perché le ipotesi sono solo due. La prima: «Se si ritiene che Sofri sia vittima di un errore giudiziario, in base ad elementi concreti, perché non chiedere la revisione del processo per scagionarlo e cercare i veri colpevoli?». La seconda: «Ma se invece è colpevole, come la magistratura ha ritenuto, chiedo ai dirigenti del mio partito, che hanno ricoperto e ricoprono importanti incarichi di governo (presidente e vicepresidente del Consiglio, ministro della Giustizia, ministro degli Esteri) se, in un Paese democratico, questo non rappresenti un vulnus nei rapporti con una delle più importanti istituzioni dello Stato, cioè nei confronti della magistratura, che ha emesso una sentenza definitiva, infliggendo una pena non ancora completamente scontata».
Parole che non si aspettavano al Botteghino, anche perché neanche il centrodestra aveva commentato in modo così aspro la presenza al Capranica di Sofri, che a dicembre ha avuto dal tribunale di sorveglianza di Firenze un nuovo differimento della pena per condizioni di salute «assolutamente incompatibili» con il regime carcerario.
A volere l’ex leader di Lotta continua alla presentazione della mozione è stato lo stesso Fassino, che nei giorni scorsi lo ha contattato personalmente. E non a caso sono due membri della segreteria molto vicini al leader Ds a difendere l’iniziativa. «Adriano Sofri è una personalità della cultura italiana, espressione anche di una visione globale dei problemi del mondo e di una tensione innovativa della politica e della sinistra», dice il coordinatore della segreteria Ds Maurizio Migliavacca dicendosi fiducioso che «come altre personalità della cultura sarà interessato alla costruzione del Partito democratico». Il responsabile Sapere e innovazione dei Ds Andrea Ranieri insiste invece sul fatto che la «scommessa» del Pd si basa sulla capacità di cambiare se stessi e di «far fronte ai grandi cambiamenti del mondo e dell’Italia», e che essendo Sofri «una testimonianza di capacità di cambiamento», la sua presenza è stata una scelta opportuna.
s.c.

l'Unità 8.2.07
Bertinotti cerca un leader vero. Ma in Italia per ora non lo vede
Estasiato dal tour sudamericano, ieri l’incontro con Lula. «Si riescono a fare cose per i poveri a Bahia impossibili a Palermo»
di Natalia Lombardo


UN LEADER carismatico, con idee forti e uno stretto rapporto con il popolo, tale da fondare un partito di massa che non pensi solo alla governabilità: ecco, un leader così Fausto Bertinotti non sembra vederlo nell’orizzonte europeo, tanto meno in quello italiano. Potrebbe essercene uno “imprevisto in futuro”. Nelle vicinanze per ora vede solo chi l’ha ricevuto nel Palazzo presidenziale Plan Alto a Brasilia: Lula, il “presidente operaio” che è stato rieletto nel 2006 con 58 milioni di voti e temi essenziali come “il diritto a mangiare”. “Viva Lula, un protagonista della storia mondiale”, lo definisce Bertinotti dopo l’incontro, nel quale hanno parlato di cooperazione con l’Europa, dove Lula verrà presto, e dell’integrazione fra i paesi dell’America Latina.
Un incontro cordiale, forse più formale che in altre occasioni, per un rapporto nato dal passato di capi sindacali negli anni 70, dalla Flm a Torino alla Fiat di Bel Horizonte in Brasile, fino a quel dialogo a distanza quando, nel 2002, l’allora segretario di Rifondazione era al Social Forum di Porto Alegre e, collegato in video da Davos, Luiz Inacio da Silva sbattè sul tavolo Usa i diritti dei poveri in Brasile.
Molto colpito dal “rinascimento” dell’America Latina, nel suo viaggio istituzionale e nel sociale, l’ex leader di Rifondazione ha ritrovato il filo della partecipazione col quale “i soggetti politici precedono l’esperienza di governo”. Un filo spezzato in Italia, è un pensiero non detto del tutto dal presidente della Camera, a cui preme “ripensare la politica in termini sociali”. Ma non basta. Guarda altre esperienze: il colpo d’ala l’hanno dato leader carismatici come Lula, o il venezuelano Chavez (che dovrebbe incontrare in un secondo tour a primavera in Venezuela, Bolivia, Cuba), così come “il colpo di scena” di Mitterrand a Epinay, nel suo discorso sul Partito socialista francese.
Bertinotti così rivaluta la necessità di un leader che “in America Latina è diventato un fattore fondamentale”. Sorpassa la contraddizione con la sua storia con una punta di autoironia, citando Woody Allen: “A volte mi vengono pensieri che non condivido”. Della leadership in Italia “non parlo neppure sotto tortura”, si schermisce restando nei panni istituzionali. “Il leader non dev’essere necessariamente quello di ieri, ma può esserlo domani. Ci sono leader imprevisti, costruiti giorno per giorno. Non sono senza volto, potrebbero avere anche nomi antichi.”. Gli esempi ci sono: da “Lula tessitore” delle forze di sinistra nel Pt e poi del sindacato unitario del Cut ora mediatore coi paesi sudamericani considerati più radicali (distinzione che Bertinotti rifiuta), fino a Mitterrand, o al Frente Ampio uruguayano. Non entra nella trappola dello specifico italiano però non assegna a nessuno, neppure a Prodi, il ruolo di “leader maximo”. Veleggia nella “cultura politica” indicando un modello ampio, calzante sia per il suo partito che per la Sinistra europea o per l’Unione. Insomma, per ora un Lula italiano non c’è, potrebbe nascere “con un carisma relativo, da una congiuntura di necessità”. Nessun nome. Anzi, riviene a galla la collegialità della figura del sub comandante Marcos (al quale rese visita da segretario di Rifondazione, ovviamente più movimentista): “In teoria….siete tutti candidabili”, dice come battuta ai giornalisti nel patio della comunità Axe a Salvador de Bahia, altro esempio di partecipazione e solidarietà.
Solidarietà che in America Latina dà i suoi frutti, recupera i minori alla collettività creativa, emancipa chi vive nell’Alagados, le palafitte malsane di Bahia, ad una più dignitosa abitazione, lavoro della ciellina comunità Ribeira Azul, l’aiuto della Banca Mondiale e del governo locale. “Perché queste cose si possono fare in Sudamerica e non al quartiere Zen di Palermo?” si chiede Bertinotti. Qui “i soggetti politici precedono l’esperienza di governo”. Nella paludata e vecchia Europa, invece, “la politica negli ultimi venti anni è stata vissuta solo nella chiave della governabilità”, piegando a questa anche le riforme istituzionali.
Certo “governare non è un pranzo di gala” e chi è al potere perde (tranne Blair comunque in calo), la prova del fallimento è la bocciatura della Costituzione europea da parte della Francia. Il segno di un divario dei governi “che faticano a realizzare una politica col consenso di popolo”. Insomma, la sinistra in Europa esca dai Palazzi e torni nel sociale. “persino Sarkozy si è accorto che deve puntare sul lavoro”, e persino il populismo alla Chavez non è da gettare nel cestino.
Del “rinascimento” in Sudamerica, sarà difficile trovare germogli in Europa, Bertinotti immagina, o forse sogna, un partito di massa che raccolga varie esperienze “la semplificazione non è lo sterminio dei partiti, con un sistema elettorale alla tedesca. Insomma, in Italia non va bene niente, la sinistra si svegli. Il leader? Lui o un sub comandante Marcos?

Il Giornale 8.2.07
La psiche è donna parola di Sigmund
di Angelo Ascoli


C’è Anna, la figlia, e se è vero che la psicanalisi ha fatto esplodere la famiglia, smascherandone delitti e misteri, smontandone i meccanismi senza spesso più riuscire a rimontarli, è anche vero che non ci sarebbe stata la psicanalisi se la famiglia non fosse già saltata in aria a contatto con la modernità. Ed è logico che dalla famiglia Freud trasse i modelli delle sue intenzioni e nella famiglia trovò la linfa per il suo lavoro: «La sua stirpe proseguì attraverso la più giovane delle sue figlie, la vergine vestale Anna, che divenne la guardiana del tempio della psicoanalisi e della parola del padre. “Sant’Anna”. Anna, la santa pulzella che, in quella che definisce un’“altruistica resa”, rinuncia a se stessa per dedicarsi a Freud e alla sua eredità».
C’è Lou Andreas-Salomé, «donna straordinaria», di «pericolosa intelligenza»: quando arriva a Vienna, nel 1912, ha già 51 anni, non è più la meravigliosa, fresca forza della natura la cui vita, prima di incrociare quella di Freud, aveva attraversato i destini di Nietzsche e di Rilke, di Wedekind e di Schnitzler, ma è comunque una delle donne più affascinanti d’Europa, il prototipo del moderno femminino, e non è un caso che per i 25 anni successivi diventi discepola e musa, ispiratrice e seguace, figlia e madre della psicanalisi, dimostrando quelle origini femminili della rivoluzione freudiana che ne costituirono subito la vera forza dirompente.
C’è Marie Bonaparte, pronipote dell’unico Napoleone, moglie di Giorgio di Grecia, zia del Filippo di Edimburgo che tutt’oggi siede sul gradino più basso del trono d’Inghilterra: soprannominata «Freud a dit», fu il ministro degli Esteri della psicoanalisi in Francia e si autoproclamò depositaria del verbo al punto da scomunicare Jacques Lacan, e scusate se è poco; di fronte a lei, Freud si considerò sempre «un piccolo-borghese». Grafomane, eccessiva negli entusiasmi e negli amori sebbene fosse assillata da un’eterna frigidità, Marie, a 42 anni, lesse l’Introduzione alla psicoanalisi e scoprì in Freud un altro padre, forse l’unica figura che nella sua mente potesse competere con l’ingombrante fantasma del grande antenato e che desse un senso, una missione alla sua vita dispersa tra salotti e amanti.
Ci sono Anna, Lou, Marie e tante altre donne, e senza di loro probabilmente il destino di Freud non sarebbe stato lo stesso. Perché è nel rapporto tra il padre e le figlie, tra la gigantesca figura di Sigmund, nello stesso tempo Edipo che ha ucciso il padre e Cronos che divora i figli; è nel tormentato, a volte drammatico, sempre ricchissimo legame che Freud ebbe con le donne, con il femminino che, come prima nessun altro, aiutò a liberarsi da millenni di tabù e di menzogne, e da cui trasse la forza per liberare le sue intuizioni e le sue verità, che viene analizzato l’universo di Sigmund Freud e le sue donne (La Tartaruga, pagg. 524, euro 17,50) che Lisa Appignanesi e John Forrester riescono a dire qualcosa di più sulla grande rivoluzione dell’inizio del Novecento.
Anna, Lou, Marie, e poi Sabina Spielrein, la donna «per cui Jung nel 1906 decise di scrivere a Freud, inaugurando così un rapporto triangolare che sarebbe stato determinante per entrambi i colleghi nonché per la storia della psicoanalisi». E ancora Loe Kann, una delle tante pazienti donne di Sigmund, con in più il fatto che fosse la moglie di Ernest Jones, colui il quale per primo fece conoscere la nuova scienza in Inghilterra. E ancora, Helene Deutsch, una delle prime psicanaliste, icona del femminismo del Novecento, eppure anche lei figlia e discepola del gran misogino. E poi Alix Strachey e Joan Riviére, ambasciatrici di Freud in Inghilterra; Hilda Doolittle e Melanie Klein, donne famose e altre sconosciute, uno sterminato universo femminile che ruota intorno al sole di Sigmund, e ci sarà un motivo se «negli ultimi decenni di vita, Freud allacciò rapporti di amicizia soprattutto con le donne».
Forse perché erano loro le più pronte e le più bisognose di sposare una rivoluzione culturale che aprì la strada al terremoto sociale e mentale che ha spazzato via la famiglia tradizionale, lasciando solo macerie ogni giorno più fragili. O forse perché, ambasciatrice e portatrice di una modernità in cui l’occidente non riesce a fermare (o non vuole) la sua ineluttabile femminilizzazione, è nelle donne che la psicoanalisi e il suo padre trovarono la loro origine e il loro destino.

Liberazione 8.2.07
Washington (Rice) e Vaticano (Ruini) vogliono silurare il governo Prodi
di Rina Gagliardi


Offensiva convergente delle due ”Grandi Potenze”. Condoleeza non gradisce la politica estera dell’Italia e non si accontenta di Vicenza
L’ambasciatore Usa insolentisce D’Alema. Monsignor Ruini, con toni da Pio IX, pretende la testa dell’ex-amico Prodi che considera un traditore

Il disegno è chiaro e passa per un patto di ferro tra due grandi poteri: il Vaticano e il governo americano. Per capirci: Sua eminenza il cardinale Camillo Ruini e Condoleeza Rice faranno di tutto, da qui ai prossimi due mesi, per far cadere il governo Prodi. Al quale, ad ogni modo, hanno già palesemente “dichiarato guerra”. Questa “informazione” o, se preferite, questa tesi circola da vari giorni nei palazzi della politica - una sorta di allarmato tam tam, sostenuto da figure diverse e tutte credibili, cioè nient’affatto dedite alla fantapolitica e per nulla afflitte dalla sindrome del “Grande Complotto”. E dunque? Dunque, noi non possiamo garantirvi che si tratti di una notizia certa, o di una verità politica dimostrata. Non dubitiamo invece della sua credibilità. Proviamo perciò ad analizzarla attraverso le cronache di queste giornate, e qualche spunto di riflessione.

Politica estera. Che stia calando il grande freddo tra Italia e Stati Uniti d’America, e che nel mirino di Washington sia finito soprattutto il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, è ormai sotto gli occhi di tutti. I tempi del “bye bye Condy” sembrano appartenere ad un’atra stagione, quando il governo americano è sembrato incassare con relativo fair play il ritiro dall’Iraq e l’iniziativa sul Libano: due scelte che certo non sono mai particolarmente piaciute all’amministrazione di Washington, ma che forse, lì per lì, sono state considerate lo “scotto” necessario da pagare al nuovo governo appena insediato, e all’affermazione di una strategia almeno dotata dell’apparenza del multilateralismo. Via via, nel corso dei mesi, la politica estera italiana ha assunto agli occhi nordamericani un pericoloso e crescente livello di autonomia, sia per il suo marcato europeismo, sia per la sua porzione “filoaraba”, sia, anche, per quella che sin da luglio è stata percepita come una scelta di disimpegno (di disimpegno militare) dal fronte afghano. Non è certo un caso che Prodi non abbia a tutt’oggi messo in calendario, come è tradizione dei presidenti del Consiglio italiani, un viaggio nella capitale americana. Per quanto nessuno possa mettere in dubbio la sua collocazione, o i suoi sentimenti, occidentali, anzi occidentalissimi, per quanto egli abbia deciso di autorità il raddoppio della base Usa di Vicenza, Prodi resta per gli americani un politico di profilo europeo. Un leader poco affidabile. Un alleato che ha in testa più gli accordi con la Cina che non la realizzazione di un rapporto di fedele soggezione agli Stati Uniti. Non è da escludere che, avvertendo attorno a se questo clima di sfiducia, il nostro premier abbia deciso, sul Dal Molin, di compiere un vero e proprio “gesto di ubbidienza”, coartando una parte importante della sua coalizione proprio allo scopo di rassicurare il segretario di Stato e di guadagnarsi un gallone di affidabilità. Ma in tutta evidenza a Condoleeza Rice questo gesto non è bastato: pochi giorni dopo, la risposta è stata la lettera a “Repubblica”dei sei ambasciatori amici degli Usa, una interferenza sulla sovranità nazionale italiana così smaccata e pesante da non avere precedenti.

A sua volta, la replica del ministro degli Esteri non ha molti precedenti, per la sua secchezza e per il suo tono: D’Alema, forse, sa che si sono esauriti tutti i margini del bon ton. Gli Stati Uniti pretendono non il semplice rifinanziamento della missione italiana a Kabul, non una nuda e cruda conferma, ma il suo congruo rafforzamento, in vista della annunciata offensiva di primavera dei taliban e in vista di una guerra nella quale si giocano la loro residua credibilità. La partita, come si capisce, è tutta politica - ma anche molto simbolica. E quello che Washington pensa di D’Alema l’ha detto a chiare lettere, ieri sul “Corriere della Sera”, l’ex ambasciatore Secchia: ha detto che D’Alema è un uomo che «non capisce dove sono i suoi amici», che è segnato dalla sua storia nella sinistra radicale, che «se fosse per lui oggi ci sarebbe ancora l’Unione Sovietica». Quando mai un ex diplomatico, peraltro molto vicino al presidente Bush, ha parlato con tanta violenza di un membro eminente del governo di un paese amico?
“I Pacs”. Anche questo è un fronte più che pubblico. Le autorità vaticane hanno da settimane scatenato non una campagna, ma una crociata, contro la moderatissima proposta sulle unioni civili prospettata con una mozione alla Camera. Ci si sono messi tutti, dalle prediche domenicali di Ratzinger, ai cardinali con gli incubi di Satana. Fino al “non possumus” del giornale dei vescovi, che ha il sinistro sapore del sillabo di Pio IX e del peggior clericalismo neotemporalistico: come se avesse senso oggi dettare allo Stato italiano le leggi che può fare e quelle che non può fare. Dunque, i pacs, se così si può dire, sono anche un cavallo ruffiano, uno strumento, un pretesto: il cardinal Ruini, che gestisce in toto la politica della chiesa cattolica, mira in realtà a sgambettare il governo Prodi e l’Unione, ai suoi occhi così zeppi di laicisti e di comunisti. E’ noto che Sua eminenza, tanto legato a Prodi d’aver celebrato il suo matrimonio, considerò la sua discesa in campo, nel ’96, a capo di uno schieramento di centrosinistra, un vero e proprio tradimento. Che abbia deciso di fargliela pagare, anche sul piano personale? Mancano solo tre mesi al pensionamento del cardinale e alla nomina del nuovo presidente della Cei (si dice, speriamo sia vero, che sarà più pastore e meno intrigante). Il tempo stringe, perciò sale a mille la pressione sui politici e parlamentari cattolici, perciò i teodem alzano i toni, anzi strillano, come hanno fatto ieri, annunciando il loro “non possumus”, che va dai pacs alla messa in discussione del testamento biologico.
“Conclusione provvisoria”. La cronaca quotidiana forse non conferma il sospetto del Grande Complotto, ma di sicuro accredita l’inasprimento dell’offensiva vaticana e nordamericana contro il governo dell’Unione. Un’aggressività che si produce in contemporanea e che sfrutta tutte le contraddizioni che sono già presenti nella coalizione e concorre a produrne di nuove. Una coincidenza? Forse. Quel che è sicuro, è che sembra essere tornati ai tempi dell’ambasciatrice Luce e del pontificato di Pio XII e che, oltreoceano e oltretevere, si vorrebbe terremotare il quadro politico ben oltre le speranze e le volontà dello stesso Berlusconi (una crisi di governo in tempi rapidi, magari nuove elezioni, non convengono oggi al Cavaliere: metterebbero comunque in pole position il suo ex alleato Casini). Invece, logorare l’Unione, anzi frantumarla e seppellirla, cacciare Prodi e D’Alema, andare ad un anno e mezzo o due di governo neocentrista, riformare la legge elettorale nel senso indicato dai referendari, ovvero nel senso di recidere per la sinistra radicale e per Rifondazione comunista ogni vera possibilità di rappresentanza, inaugurare, insomma, la terza Repubblica: ecco il programma che, chissà, Camillo può avere spiegato a Condy, e che comunque va realizzato ora, non tra un anno. Non passerà, ne siamo sicuri. Ma, se il cardinale ce lo consente, è davvero diabolico.

mercoledì 7 febbraio 2007

l’Unità 7.2.07
Quel giorno con Lama all’Università
di Piero Marietti


Era grigio, coperto e anche freddo quel 17 febbraio 1977, giovedì grasso. Non lo ricorda nessuno, ma non è da trascurare: era vacanza di Carnevale, niente lezioni, pochi studenti, pochi professori, poco di tutto. Poco anche di voglia di andarci, a sentire Lama che viene a parlare a quelli... che invece sono tanti. Da tempo tengono in scacco l’Ateneo, occupano di tutto, picchiano forte solo se passi vicino, ti sputano addosso, non ti lasciano nemmeno dire buongiorno. Li odi? No, ma di sicuro li temi. Noi sessantottini siamo stati sconfitti da piazza Fontana in poi e non siamo più allenati, né a menare le mani, né a scappare se carica la polizia.
Figurarsi se vogliamo essere picchiati «da sinistra».
Non li odi perché capisci che li spinge la disperazione, si sentono poveri quando avevano loro promesso un luccicante consumismo e se uno si sente povero e pieno di «desideri», sta male da fare schifo. Si ribella perché pensa di non avere vie d’uscita: metti un topo all’angolo e diventa un leone. L’austerità di Berlinguer e la svolta dell’Eur di Lama li vivono come una colica renale.
Sacrifici, sacrifici, he he he, Lama, Lama. Lo cantano come si fa allo stadio, per scherno.
È una turba che si autoconnota plebe, esprime una creatività abortita sullo scemo-scemo da stadio, gli indiani metropolitani hanno un nome spiritoso, sembrano i più simpatici ma purtroppo rimandano solo all’idea di riserva. Secondo loro, il Partito li vuole sfatti, i partiti manco a parlarne (con qualche ragione, lo ammetto), il sindacato è visto più o meno come la Confindustria, l’Università e la Scuola riproducono l’establishment e i suoi privilegi. Ascoltano sirene che poi andranno in Canada, a Parigi, anche in Parlamento, scriveranno saggi imperiali, pontificheranno da talk show e giornali, reciteranno punti politici per la Tv di Giuliano Ferrara, faranno gli assessori e i presidenti della Rai, mai un moto di ripensamento, non dico pentimento, mentre loro resteranno a campionario delle indagini sociologiche sui nuovi poveri.
Questo ci passa per la testa mentre andiamo a fare il nostro dovere di iscritti alla Cgil. Ci posizioniamo elevati in piedi sul muretto dello spiazzo di Chimica. Stiamo praticamente sulla linea di demarcazione tra il servizio d’ordine e loro, collettivamente detti Autonomi.
Il servizio d’ordine fa ridere: capitanati dal compagno Carlini (di lì a poco la sua vecchia Nsu sarà data alle fiamme), persona leggermente pingue, di modi gentili e di voce sempre tenuta bassa, una cinquantina di impiegati con la fascia al braccio. Dietro di loro, verso il palco, quelli che vogliono fare numero per Lama. La mattina c’è stato un tentativo della Camera del Lavoro di accordarsi con gli Autonomi secondo una linea di scontro morbida e solo verbale: insultateci pure, non esagerate, evitiamo lo scontro fisico, non ci facciamo male. Sembra funzionare.
Gli Autonomi si presentano con una scala da biblioteca che alla sommità porta un fantoccio (scritta: Lama) impiccato. Non poche aste di legno che sembra duro reggono improvvisate bandiere rosse, senza simboli. Possibile che per quanto loro siano brutti e cattivi, ci si picchierà tra compagni? Possibile che non porteranno rispetto a Lama? Possibile.
Appena Lama comincia a parlare, la scala con l’impiccato comincia a premere contro il servizio d’ordine delle pancette e delle incipienti calvizie, preme e la folla oscilla, uno sciagurato dei nostri sguaina un estintore e punta sugli autonomi il getto antincendio. Botte da orbi, spintoni e sputi.
Sotto di noi, appoggiato a uno dei lecci, un cumulo di detriti con una buona dose di rottami di vetro. Un ragazzo con la coda di cavallo e gli occhialetti tondi afferra un pezzo di lastra e fa per lanciarla a mo’ di disco verso la folla, chi cojo, cojo.
Scendo, lo abbraccio e gli strillo: «Mi devi ammazzare per farlo!» Lo capisce, chiede scusa e molla il vetro, «Hai ragione», mi dice e scompare nella baraonda. I compagni raccolgono gli altri vetri e li fanno sparire. Lama è già andato via, il servizio d’ordine attempato ha, bene o male, retto l’urto che non deve essere stato tanto deciso, nonostante i sassi e le sedie. Una voce dal microfono invita i compagni a raccogliersi sotto il palco. Mai invito/ordine è stato eseguito con più velocità e tecnica.
Gli Autonomi si trovano davanti una cinquantina di metri liberi, esitano un po’, andiamo via? La danno per vinta? Ma due o tre di loro non si contentano e scattano alla carica urlando come Mel Gibson quando fa Wallace, gli altri, esaltati, seguono. Fuggi fuggi grande, il palco rovesciato, partita stravinta.
Lama era venuto a parlare a quel grumo di disperazione, a dire loro che non era vero, che non erano stati mollati, che l’austerità e i sacrifici erano la loro salvezza (poi s’è visto con la Milano da bere), che li aspettavamo dalla parte nostra per provare a mettere su una società più giusta, mica perfetta, solo più giusta. Era un tentativo politicamente rischioso perché il confine fra scontro politico e provocazione era inesistente a quei tempi, ma era un tentativo generoso come generoso era l’uomo che lo faceva con la sua faccia chiedendo aiuto ai suoi iscritti, a noi, senza costruire un servizio d’ordine con le mani nodose e di poche cerimonie degli edili e dei meccanici.
Fu lasciato solo da tutti i maître à penser, à écrire che gli rimproverarono l’errore politico, una politica nella quale la generosità non trova posto, tutto occupato dal calcolo.
Furono lasciati soli, preda delle loro malinconie, quei ragazzi. Sappiamo come è finita.
*Prorettore dell’Università

l’Unità 7.2.07
Scalzone «Andrò a Vicenza, ma se qualcuno brucerà bandiere Usa io spegnerò quei fuochi»


ROMA «La sovversione non è sbagliata in sé. È sbagliata se mossa da risentimento». Oreste Scalzone è tornato e a 60 anni suonati - festeggiati pochi giorni fa a Ventimiglia - si dimostra perfettamente calato nelle vicende italiane: durante la conferenza stampa in cui è stata presentata l'iniziativa del quotidiano Liberazione, «70. Gli anni in cui il futuro incominciò», l'ex di Potere Operaio spazia dalla base di Vicenza ai fatti di Catania. «Io il 17 vado alla manifestazione di Vicenza - dichiara Scalzone - se va a finire a sassate, sono sincero, non mi dispiace, non mi sento in imbarazzo. Però se qualcuno si mette a bruciare una bandiera americana, solo perché americana, io sarò tra quelli che la andranno a spegnere così come contesterò cori idioti del tipo 10-100-1.000 Nassiriya. Sono cose che non hanno niente di rivoluzionario perché sono mosse da risentimento».

l’Unità 7.2.07
SINISTRA DS. Il leader della seconda mozione a testa bassa contro il Partito democratico
Mussi: «Un progetto lacerante»
«Per quello che mi offrono penso non valga la pena di continuare così».


Inizia fra gli applausi di una sala gremita dell'hotel Palatino a Roma l'intervento del ministro dell'Università, Fabio Mussi, che ieri ha presentato ai ds del Lazio la mozione del correntone in vista del prossimo congresso della Quercia. «Raramente- prosegue Mussi- sono stato convinto come ora del «No» al Partito democratico: davanti a questa scelta le uniche alternative sono lasciare o combattere, e io ho deciso di combattere, per proporre una prospettiva diversa da quella del partito democratico».
Una prospettiva «socialista ed europea, che riunifichi la sinistra italiana e la salvi dalla crisi, che è anche la crisi dell'Italia intera».
Le critiche più nette sono rivolte però al nascente Pd: «Si dice che servirà alla stabilizzazione del governo- continua Mussi- ma io dico che dovremo fare i salti mortali per evitare i danni provocati dall'instabilità di questo nuovo partito». Un partito debole, «che non sa dove stare al mondo»: secondo Mussi, infatti, «è evidente che un futuro partito democratico potrà costruirsi solo al di fuori del Pse, altrimenti non avrebbe questo nome». E, prosegue il ministro a mo’ di esempio, «non bisogna dimenticare che sulla questione delle cellule staminali fu la Margherita ad opporsi, così come oggi si oppone ai Pacs».
Di fronte a un progetto che «rischia di dividere ancora la sinistra», allora, secondo Mussi si può e ci si deve opporre per cambiare le cose: come successe nel caso del ritiro delle truppe dall'Iraq, quando «lottando riuscimmo a portare via i nostri soldati, evitando alla sinistra di essere sommersa dal fallimento della politica estera in Iraq».
Fabio Mussi, non risparmia i «compagni» Piero Fassino e Massimo D'Alema. La prima stoccata è per il segretario del suo partito e la mozione che presenterà al congresso: «Fassino- dice Mussi- ha firmato una mozione laica, pacifista, ambientalista, e mai come prima socialista: si tratta però di una truffa, dovuta al fatto che si deve fare il pd», accusa Mussi. E lo stesso Fassino «afferma che quello che ci sarà fra tre mesi sarà non l'ultimo, ma il penultimo congresso dei ds». Anche in questo caso, secondo Mussi, Fassino agisce «per illudere i contrari al pd, nel tentativo di far loro sperare che qualcosa possa ancora cambiare: ma così illude i contrari e delude coloro che al pd realmente credono- conclude Mussi.

l’Unità 7.2.07
SCIENZA Una ricerca dell’Università di Padova ha individuato forti somiglianze tra il patrimonio genetico dei toscani e quello delle popolazioni dell’Asia occidentale
Il Dna svela il mistero: gli Etruschi (e le mucche maremmane) vengono da Oriente
di Nicoletta Manuzzato


Erodoto aveva ragione: l’origine degli Etruschi e della loro raffinata cultura va rintracciata in Medio Oriente. A confermare le affermazioni dello storico greco non è la scoperta di nuovi reperti archeologici, ma uno studio genetico sui toscani moderni uscito su The American Journal of Human Genetics. Lo ha realizzato un’équipe internazionale guidata dal professor Antonio Torroni, dell’Università degli Studi di Pavia. I ricercatori pavesi hanno preso in esame 322 persone di tre diverse località che un tempo appartenevano all’antica Etruria: Murlo (provincia di Siena); Volterra (Pisa) e Valle del Casentino (Arezzo). Il loro Dna mitocondriale è stato posto a confronto con quello di altri 15.000 soggetti di 55 popolazioni europee e dell’Asia occidentale, tra cui sette italiane.
Il Dna mitocondriale costituisce un vero e proprio archivio molecolare. I 37 geni che lo compongono rappresentano solo una piccola frazione del genoma umano, ma hanno una particolarità: vengono trasmessi unicamente per via materna. Poiché sono caratterizzati da mutazioni fino a venti volte più frequenti rispetto ai geni del nucleo (che ereditiamo da entrambi i genitori) e poiché tali mutazioni hanno scandito la nostra colonizzazione del pianeta, i diversi rami dell’albero evolutivo mitocondriale tendono a essere circoscritti a determinate popolazioni e a determinate aree geografiche. Analizzando questa parte del nostro genoma possiamo perciò seguire come su una mappa le migrazioni delle nostre lontane antenate.
Nel caso degli Etruschi il responso è chiaro: «I dati che abbiamo ottenuto evidenziano l’esistenza di un legame genetico diretto e relativamente recente tra i toscani moderni e le popolazioni del Medio Oriente», spiega il professor Torroni. «Oltre il 5% dei toscani presenta sequenze di Dna mitocondriale assenti negli altri gruppi europei e italiani e presenti invece nell’area mediorientale».
«Al tempo di Atys, figlio del re Mane, ci fu in tutta la Lidia una tremenda carestia... Il re, divisi in due gruppi tutti gli abitanti, ne sorteggiò uno per rimanere, l’altro per emigrare dal paese... Quelli di loro che ebbero in sorte di partire scesero a Smirne, costruirono navi e, imbarcati tutti gli oggetti che erano loro utili, si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra finché, oltrepassati molti popoli, giunsero al paese degli Umbri, dove costruirono città e abitano tuttora». Così Erodoto, nel V secolo avanti Cristo, narra l’arrivo in Italia di queste genti provenienti dall’Asia Minore.
Tale ricostruzione venne messa in dubbio fin dall’antichità: nel primo secolo avanti Cristo, Dionigi di Alicarnasso propendeva per un’origine autoctona degli Etruschi. In seguito spuntò una terza ipotesi, che poneva la culla etrusca in Europa centrale. Ora la scienza non solo dà ragione ad Erodoto, ma avvalora anche i dettagli del suo racconto. La migrazione avvenne effettivamente via mare e, oltre a «tutti gli oggetti che erano loro utili», i nuovi venuti portarono con sé anche gli armenti. Lo stabilisce una ricerca sui bovini diretta dal gruppo del professor Paolo Ajmone-Marsan, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, e alla quale ha collaborato anche il gruppo pavese.
Che cosa ci dice il Dna mitocondriale dei bovini? Che le razze chianina e maremmana, tipiche dell’area toscana, sono geneticamente molto più vicine agli esemplari mediorientali che a quelli europei. Ma perché possiamo parlare con certezza di uno spostamento via mare? «La migrazione via terra che avviene con l’espandersi dell’agricoltura - spiega il professor Ajmone-Marsan - è molto lenta e graduale ed è accompagnata dalla perdita della variabilità genetica degli animali. Immaginiamo una cesta piena di palline colorate: se trasferiamo con successive manciate queste palline in altri cesti, ogni passaggio determina la diminuzione dei colori rappresentati. Invece in Toscana troviamo intatta la variabilità presente nell’area mediorientale». Da quelle navi provenienti da oriente sbarcarono dunque non solo gli avi degli odierni toscani, ma anche i capostipiti di quel Bos etruscus che lo scrittore latino Columella ci segnala nel suo trattato sull’agricoltura.

Repubblica 7.2.07
POLEMICHE/ A PROPOSITO DI UN ARTICOLO DI VITTORIO MESSORI
IL VERO MASSACRO DEI CATARI
Assurde enormità su una setta antica
di FRANCESCO ZAMBON


Sul Corriere della Sera di mercoledì 31 gennaio, Vittorio Messori propone la costituzione di una "Lega anticalunnia" in difesa dei cattolici, allo scopo di rettificare - basandosi «sui dati esatti e sui documenti autentici» - alcune verità storiche che sarebbero deformate da "falsi miti". Il "falso mito" che Messori prende di mira nell´articolo è lo sterminio dei catari, con particolare riferimento a un episodio della Crociata scatenata da papa Innocenzo III per debellare l´eresia catara nel Mezzogiorno francese, la presa e il sacco di Béziers (1209). Ma altro che dati esatti e documenti autentici! Gran parte di quelle che ammannisce Messori sono delle vere enormità dal punto di vista storico. Sorvoliamo su pure invenzioni a scopo di calunnia (queste sì!), come il fatto che i catari sarebbero stati seguaci di una «cupa, feroce, sanguinaria setta di origine asiatica». È ben noto da innumerevoli fonti, per lo più cattoliche, che essi praticavano la forma più rigorosa di non violenza, astenendosi dall´uccisione sia degli uomini sia degli animali. Alcuni contadini impiccati a Goslar nel 1051, fra le prime vittime della repressione cattolica, furono accusati di eresia e condannati solo per aver rifiutato di un uccidere un pollo!
Ma veniamo alla strage perpetrata dai crociati a Béziers il 22 luglio 1209, all´inizio della Crociata albigese. Messori afferma che se eccidio ci fu, esso fu giustificato «dall´esasperazione provocata dalla crudeltà dei càtari, che non solo a Béziers da anni perseguitavano i cattolici». Ora, a parte il paradosso di presentare come persecutori coloro che furono perseguitati per oltre un secolo in tutta Europa, proprio il caso di Béziers mostra esattamente il contrario di quanto vorrebbe farci credere Messori: i cattolici erano così poco esasperati dai catari, che la ragione per cui la città fu attaccata e distrutta fu il rifiuto da parte dei suoi abitanti, fedeli alla propria autonomia municipale e ai propri princìpi di tolleranza, di consegnare ai crociati i circa duecento sospetti di eresia (tanti erano) di cui il vescovo Renaud de Montpeyroux aveva provveduto a stilare la lista.
Ma tutta la ricostruzione del sacco di Béziers proposta nell´articolo è pura deformazione storica, costellata di clamorosi errori e falsificazioni. In particolare per quanto riguarda la frase che avrebbe pronunciato il legato pontificio Arnaldo Amalrico, allora alla guida dei crociati, in risposta ai suoi uomini che gli chiedevano che cosa fare della popolazione, in maggioranza cattolica: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», avrebbe risposto. Messori nega l´autenticità di questa frase, che è riportata da un autore tedesco, il monaco cistercense Cesario di Heisterbach, nel suo Dialogus miraculorum. Per svalutarne l´attendibilità, egli afferma che l´opera di Cesario sarebbe stata scritta sessant´anni dopo i fatti. Peccato che a quest´epoca Cesario fosse già morto da quasi trent´anni. In realtà il Dialogus fu scritto fra il 1219 e il 1223, appena una decina d´anni dopo il sacco di Béziers.
Certo, l´autenticità della frase attribuita ad Arnaldo è stata molto discussa dagli storici; ma oggi si tende a ritenerla del tutto plausibile, essendo stata dimostrata la molteplicità e attendibilità delle fonti dirette di cui disponeva Cesario. Comunque, autentica o no, la frase (che in realtà suona così nel testo di Cesario: «Massacrateli tutti, perché il Signore conosce i suoi», con una riconoscibile citazione della Seconda lettera a Timoteo di san Paolo), corrisponde esattamente a ciò che avvenne e, contrariamente a quanto sostiene Messori, trova riscontro in numerose altre fonti contemporanee. La più sconvolgente è proprio la lettera ufficiale che Arnaldo in persona, insieme all´altro legato pontificio Milone, scrisse al papa per riferirgli l´accaduto e che si può leggere nel volume 216 della Patrologia latina: «La città di Béziers fu presa e, poiché i nostri non guardarono a dignità, né a sesso, né a età, quasi ventimila uomini morirono di spada. Fatta così una grandissima strage di uomini, la città fu saccheggiata e bruciata: in questo modo la colpì il mirabile castigo divino».
I nostri, dice Arnaldo: siano stati tutti gli assalitori a compiere la strage o solo i cosiddetti "ribaldi" (ossia i mercenari al seguito dell´esercito crociato), Arnaldo se ne assume pienamente e trionfalmente la responsabilità, parlando di "mirabile castigo divino". Il numero di morti di cui si vanta è sicuramente esagerato, come lo è quello fornito da altri testimoni e cronisti (qualcuno parlò addirittura di centomila): si voleva indicare solo una mattanza straordinaria, che restò a lungo nella memoria della gente. Ciò che avvenne fu proprio quel che lascia intendere la frase attribuita ad Arnaldo: fu compiuto uno sterminio indiscriminato degli abitanti di Béziers, cattolici ed eretici, uomini e donne, vecchi e bambini.
Se gli argomenti della "Lega anticalunnia" che Messori propone di costituire sono quelli addotti nel suo articolo, temo che per essa non si aprano grandi prospettive. E credo che la Chiesa non abbia davvero bisogno di questa nuova e goffa forma di "negazionismo" per difendere i propri valori e propri princìpi.

Repubblica 7.2.07
QUANDO LA PAROLA UCCIDE
Per una nuova traduzione di "Antigone"
di Massimo Cacciari


Il dramma di Sofocle va in scena domani sera a Torino: l´eroina e Creonte sono figure inseparabili e incarnano l´essenza del dialogo tragico che culmina in un conflitto incomponibile
Il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro

TORINO - Anticipiamo parte dell´introduzione di Massimo Cacciari all´Antigone di Sofocle, da lui curata e tradotta, in uscita domani nella Collezione di Teatro Einaudi (pagg. XIV+48, euro 8,50). Sempre domani, alle 20.45, al Teatro Astra di Torino andrà in scena lo spettacolo diretto da Walter Le Moli, che si basa appunto sulla nuova versione.
Altri spettacoli classici sono in programma, voluti dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino (in collaborazione con Teatro di Roma e Fondazione Teatro Due): da La folle giornata o il matrimonio di Figaro, di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, nella traduzione di Valerio Magrelli, a Dossier Ifigenia, da Euripide, in quella di Edoardo Sanguineti.

Il grido acuto di Antigone, «come di uccello angosciato alla vista del nido deserto», deve poter essere udito, ora lontano ora incombente, in ogni momento della tragedia. Esso riempie ogni sua pausa e ne determina il ritmo. La parola articolata non può liberarsene, ma lo porta in sé come sua propria, intima «dissonanza».
La parola assume questo timbro quando essa si fa effettualmente, corporalmente toedtendfactisches, quella parola capace di uccidere, di recare morte, di «divenire» mortale (più che toedlichfaktisches, meramente «assassina»), che è per Hölderlin «das griechischtragische Wort», la parola greco-tragica. Tale tremenda potenza della parola si manifesta nell´Antigone nella sua forma più pura, come archè della parola stessa. È la sua originaria energia che la produce e la muove, è essa che ne spiega l´inesausto agonismo, è per essa che le parole si affrontano nella più pericolosa delle gare, nel dialogo. E mai essa si rivela più potentemente che nella parola ispirata, "entusiasta": se infatti uccide la parola di Creonte, ancor più duramente colpisce quella di Tiresia, e proprio perché fino all´ultimo trattenuta essa si scatena alla fine quasi selvaggiamente. Mortale per Creonte la parola di Emone, il cui ultimo timbro sarà quello sputo, nel talamo-tomba di Antigone, tanto più feroce di ogni punta di spada. Da morte a morte conducono, infine, le parole di Antigone, tutte comprese nel destino comune della stirpe: inseparabili fino a darsi reciproca morte hanno "dialogato" i fratelli; e in diversa forma questo stesso polemos continua ora tra Antigone e Creonte. Poiché Logos è Polemos, e l´unità del divino non può darsi che nel contrapporsi delle parole, non si rivela ai mortali che nell´articolarsi-distinguersi delle sue dimensioni, dei suoi dominî, delle sue timai.
Questo è l´essenziale: comprendere l´inseparabilità dei Due, Antigone e Creonte. E dare alla voce di entrambi tutta la sua potenza "omicida". Assolutamente necessari l´uno all´altro, metafisicamente estranei a ogni odio personale, inarrestabili nel "rendersi morte", essi incarnano così l´essenza del dialogo tragico. Il dialogo è tragico quando le distinte dimensioni della Parola si incontrano e affrontano pervenendo ciascuna all´acme della propria chiarezza, della coscienza di sé, e proprio su questo limite manifestano l´impotenza a comprendersi e accogliersi. Quando due figure si affrontano con l´arma più tremenda, la parola, e scoprono reciprocamente di essere destinalmente impotenti all´ascolto, lì scoppia il conflitto incomponibile - che significa tuttavia, a un tempo, la necessità della loro relazione. Antigone non sarebbe senza Creonte, mentre del tutto contingente è il suo rapporto con Emone. E così per Creonte solo il rapporto con Antigone, l´antagonismo con la figlia di Edipo, lo caratterizza irreversibilmente. Le parole di Creonte ed Emone possono contraddirsi intrecciandosi - e la possibilità, per quanto estrema, del loro accordo è la speranza del Coro. Creonte si fra-intende con il Coro e con tutte le altre personae della tragedia, con Tiresia anzitutto. Soltanto con Antigone il dialogo diviene polemos purissimo, affrontamento di principî che si "conciliano" solo nel darsi reciproca morte.
Certo, l´assoluta "fedeltà" di entrambi al proprio dèmone non li esenta dal dubbio; nell´imminenza del supplizio Antigone si chiede se nella sofferenza non le verrà inflitto di scoprire un suo errore, e a Creonte la maledizione di Tiresia spalanca all´ultimo la vista di un abisso che fin dall´inizio traspariva dalla sua ostinazione. L´eroe tragico incarna il proprio destino e fa ciò che deve nel dubbio e nella interrogazione, mai passivamente. E tuttavia a entrambi non è dato che insistere nella propria parola, anche se essa condanna e si condanna alla morte. Simone Weil sembra accomunare per un momento il dubitare di Antigone (un cenno appena, ma il cui timbro è necessario far sempre udire) con quello di Arjuna nella Gita: è il dubitare che si risolve nell´agire, secondo il senso tragico del dran, spiegato da Snell, nell´agire in quanto decisione irrimediabile corrispondente all´essenza del protagonista. Ma l´eroe dell´epos indiano trova pace alla fine nell´agire secondo il suo dharma, mentre l´autonomia dell´eroe tragico si manifesta sempre nella contraddizione con l´altro da sé. La sua parola non dà morte che ricevendola; anzi, non vive in tutta la sua luce che per questa "dialettica".
E affinché proprio quest´ultima si manifesti nella forma più comprensibile, e possa perciò la partecipazione al dolore "convertirsi" in conoscenza, sarà necessario che le parole autonome dei protagonisti risuonino logicamente coerenti col principio che ne domina il carattere. Nulla in questo dramma costantemente intonato al threnos, al canto luttuoso, viene risparmiato dalla "cura" dell´indagine; nulla si dichiara con semplice im-mediatezza. Creonte esprime certo l´immanente pericolo dell´agire politico, della prassi, ma non è affatto tiranno secondo l´accezione usuale del termine. Creonte ha ben regnato, ha ben meritato per la polis, l´ha salvata dalla catastrofe contro prepotenti schiere nemiche. Lo riconosce il Coro, lo riconosce Tiresia.
Per tradizione, forse, per convenienza, certo senza intima convinzione, ha sempre rispettato anche le arti della divinazione e gli oracoli divini. Si badi, neppure il suo decreto che scatena la tragedia va preso come espressione di un impeto d´ira, di irragionevole, delirante volontà di vendetta. Certo, il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro per chi regna; qui davvero la dimensione del sacro si confonde nel modo più pericoloso con la decisione politica. Fino a che punto si può spingere la damnatio del nemico vinto e ucciso senza diventare offesa degli dèi di sotterra, empietà? Creonte non ignora affatto il problema, non si slancia affatto inconsapevole nell´abisso che il suo comando gli prepara; è evidente, invece, in tutto ciò che dice e che compie, il suo sforzo di trovare a quel problema convincente, responsabile, ragionevole risposta. La stessa pena che infligge ad Antigone viene da lui predisposta senza "sadismo" alcuno, ma proprio per evitare l´accusa di empietà. Anzitutto, appare a lui manifesta l´enormità della colpa di Polinice; non si tratta del semplice nemico, ma del fratello che vuole annichilire i fratelli, la terra che l´ha nutrito, gli dèi stessi che l´hanno protetto. Non dovrebbero proprio i custodi del sacro essere i suoi più convinti alleati nel decretare tale condanna? L´enormità della pena segue all´enormità del peccato, nient´affatto alla prepotenza di chi la commina. Inoltre, Creonte fa intendere bene che nella città altri, più o meno segretamente, parteggiavano per il vinto.
Poteva Polinice non trovare simpatie e sostegno all´interno della stessa Tebe? Colui che regna saldamente (e razionalmente!) sa di non potersi mai limitare al peana vittorioso, come quello che il Coro intona nel Parodo, ma di dover subito colpire «il seguito clandestino dei vinti» (K. Reinhardt). La pena inflitta al cadavere di Polinice deve suonare avvertimento tremendo, tanto più necessario, agli occhi di Creonte, quanto più lo stesso Coro degli anziani e più grandi di Tebe mostra esplicitamente riluttanza a condividere la decisione del sovrano. E che tale decisione non sia affatto espressione di ira violenta lo dimostra ancora, ad abundantiam, il trattamento riservato al servo che annuncia il "crimine" di Antigone, e, poi, la "assoluzione" di Ismene. Semmai è proprio, invece, il suo cedere alla fine un movimento immediato dell´animo, un incondizionato riflesso difronte alla maledizione di Tiresia. Più che una meditata "conversione", un ragionato "pentimento", esso somiglia a una manifestazione di irrefrenabile paura. Egli non "cede" alle parole di Tiresia, ma piuttosto precipita, compie la propria catastrofe.


Repubblica 7.2.07
Se il Dio di Ruini diventa di destra
di Ezio Mauro


C'È UNA domanda cruciale per la politica italiana che nessuno fa a voce alta, assordati come siamo in questo inizio di secolo dal suono delle campane dei vescovi. Eppure è una domanda che, a seconda delle risposte, può cambiare il paesaggio politico del nostro Paese e può ridefinire alleanze e schieramenti. La questione è molto semplice e si può sintetizzare così: è ancora consentito, nell'Italia del 2007, credere in Dio e votare a sinistra?

Nel silenzio della coscienza individuale è senz'altro possibile e anzi è comune, risponderebbero molti dei nostri lettori, che hanno in mano un giornale laico, sono in parte cattolici e votano abitualmente per lo schieramento di sinistra, magari talvolta turandosi il naso. E infatti, non è la libera testimonianza individuale che è in discussione: e ci mancherebbe. Ciò che invece mi sembra sotto attacco è l'organizzazione politica del pensiero cattolico di sinistra, la sua "forma" culturale, l'esperienza storica che ha avuto in questo Paese e infine e soprattutto la traduzione concreta di tutto ciò nella nostra vita di tutti i giorni e nel possibile futuro. Cioè l'alleanza tra i cattolici progressisti e gli ex comunisti che è al centro della storia dell'Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del nuovo partito democratico, risolvendo l'identità incerta della sinistra italiana.

Se non fosse così, non si capirebbe tutto ciò che si muove in queste ore sotto il mantello dei vescovi. È come se per la gerarchia fosse iniziata la terza fase, nei rapporti con la politica italiana. Prima, nel Paese "naturalmente cristiano", la Chiesa poteva presumere di essere il tutto, affidando ad un unico soggetto politico - la Democrazia Cristiana - la traduzione nel codice statuale dei suoi precetti e la tutela dei suoi timori, sempre nell'ombra dei corridoi vaticani, perché l'impronta del Papato oscurava comunque in una surroga di potenza l'identità culturale dell'episcopato nazionale.

Poi, a cavallo del giubileo e all'apogeo di un papato universale come quello di Wojtyla, ecco la coscienza per la Chiesa di essere finita in minoranza in un Paese cattolico per battesimo ma scristianizzato nei fatti, improvvisamente "terra di missione" per una riconquista che per compiersi ha bisogno di un disegno forte e autonomo dei vescovi, perché dopo secoli anche in Italia da "tutto" la Chiesa deve diventare "parte".

L'uomo che gestisce il passaggio in minoranza della Chiesa - la seconda fase - e capisce le potenzialità politiche di questa nuova condizione, è il cardinal Ruini, presidente della Cei.

Diventando parte, la Chiesa diventa reattiva, combattiva, entra in concorrenza con le altre grandi agenzie valoriali e le centrali culturali, si "lobbizza" agendo da gruppo di pressione sui centri di decisione della politica e soprattutto della legislazione. Ruini intuisce che la sfida della modernità, in questa fase, è soprattutto culturale, e capisce di trovarsi di fronte - dopo Tangentopoli e la caduta del Muro - partiti senza tradizione, senza bandiere, senza identità storica. Il pensiero debole della politica italiana può dunque essere attraversato facilmente dal pensiero forte del Papa guerriero, e nella breccia possono utilmente infilarsi i vescovi per una politica di scambio che abbia al centro i cinque temi della vita, della solidarietà, della gioventù e soprattutto della famiglia e della scuola.

La terza fase comincia quando Ruini avverte che alla Chiesa è consentito, nei fatti, ciò che nella Repubblica non è permesso alle altre "parti". Ogni componente della società, ogni identità culturale, nella sua autonomia e nella sua libertà deve riconoscere un insieme in cui le parti si ricompongono: lo Stato. Ma è come se la Chiesa, mentre ammette di essere diventata minoranza, non accettasse di vedere in minoranza i suoi valori, faticasse a stare dentro la regola democratica della maggioranza, dubitasse del principio per cui in democrazia le verità sono tutte parziali, perché lo Stato non contempla l'assoluto. La Chiesa oggi in Italia è più debole di ieri nei numeri? Non importa, perché i numeri non contano visto che per Ruini il cristianesimo è avvertito nel nostro Paese come "senso comune", una sorta di substrato antropologico, una specie di natura italiana: alla quale si può trasgredire solo con leggi che diventano automaticamente contro natura, dunque sono contestabili alla radice.

È un discorso che ha in sé l'obiettivo grandioso della terza e ultima fase del lungo regno ruiniano sull'episcopato italiano: la riconquista dell'egemonia, non più attraverso il partito dei cristiani ma direttamente da parte della Chiesa, che con la spada di questa egemonia rifonderà la politica, separando infine il grano dal loglio e costituendo un nuovo protettorato dei valori nell'esercizio di un potere non più temporale, ma culturale. Un progetto che può compiersi solo davanti ad un sistema politico gregario, senza autonomia, incapace di testimoniare un sentimento civile della Repubblica, svuotato di identità al punto da vedere nella Chiesa l'ultima agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie. Fonte ancora di mobilitazione, forse di legittimazione, almeno di benedizione, in un Paese in cui tutti i leader politici - o quasi - si sono convertiti se non altro mediaticamente, o comunque hanno dichiarato di essere pronti a farlo, e altrimenti sono in lista di attesa: o, come si dice, in ricerca.

Siamo davanti ad una sorta di neo-gentilonismo, con la religione che diventa materia di scambio, nella presunzione che sia vera la leggenda del voto cattolico di massa orientato dalla stanza del vescovo. Con l'intercapedine culturale dei partiti debole e fragile, la Chiesa scopre la tentazione di raggiungere direttamente il legislatore, si accorge che la precettistica può influenzare molto da vicino la legge, dimentica la distinzione suprema tra la legge del creatore e la legge delle creature. Se il disegno è egemonico, tutto è potenza. E se un testo legislativo diventa simbolico, qui si deve dare battaglia fino in fondo perché la bandiera trascende la norma e il valore ideologico supera il valore d'uso. Ecco la prima risposta alla domanda intelligente di Giuliano Ferrara ai vescovi: dove volete andare con questa battaglia intransigente, non più negoziale, sui Pacs, visto che si prepara "un risultato che collocherebbe l'Italia in un ambito di cautelosità e di disciplina morbida delle pretese nuove forme di famiglia"? Semplicemente, vogliono andare fino in fondo: non della battaglia sui Pacs, ma della battaglia per l'egemonia culturale, che è appena incominciata.

Come accade in ogni battaglia, anche in questo caso il cardinal Ruini lascerà tra poco in eredità al suo successore non solo le truppe, le mappe e le strategie, ma anche le alleanze. Che sono tutte a destra, perché qui si compie, oggi, la lunga cavalcata di quello "strano cristiano" che avevamo visto muoversi sulla scena italiana per la prima volta sei anni fa. Incapace da più di un decennio di far nascere un nuovo sistema culturale che dia un codice moderno ed europeo a moderati e conservatori, la destra si accontenta della prassi di potere e di consenso berlusconiana e prende a prestito le idee forti, che non ha, nel deposito di tradizione della Chiesa italiana. La destra cerca un pensiero, la Chiesa cerca la forza e nell'incontro inedito il verbo si fa carne: e poco importa che sia carne pagana, con la mistica idolatra del berlusconismo che ha introdotto una nuova religione in politica, rendendo Dio strumento dell'unzione perenne al demiurgo, mentre nasce un nuovo "cristianismo", con la fede svalutata in ideologia.

Se questo disegno si compie, la Chiesa corre il rischio mondano di diventare parte, se non addirittura un soggetto politico diretto, e si amputa a sinistra la cultura politica cattolica, per la prima volta nella storia della Repubblica. Escludendo quei cattolici democratici che hanno preso parte attiva alla nascita della costituzione e delle istituzioni repubblicane, e che soprattutto hanno saputo per decenni coniugare la fede con la laicità dello Stato. Forse per il cardinal vicario vale ancora la condanna di Augusto Del Noce contro i "progressisti cattolici": "Trasformano talmente il cristianesimo per non ledere l'avversario, che bisogna dubitare se effettivamente credano". Certo, per Sua Eminenza vale la profezia di Rocco Buttiglione: "Il cattolicesimo che si era lasciato ridurre nell'inglobante progressista oggi non ha più nulla da dire, torna attuale il pensiero cattolico che aveva rifiutato il progressismo".

La partita ruiniana sembra puntare proprio qui, a far saltare l'alleanza tra i cattolici democratici e la sinistra ex comunista, in un disegno riformista che può diventare un partito. Ecco perché ieri sui Pacs - dove i vescovi intervengono ormai sugli articoli di un disegno di legge, non sui valori - è riecheggiato addirittura il solenne "non possumus" di Pio IX, con un monito preciso contro la sinistra e in particolare contro i cattolici democratici: quanto sta accadendo, ha scritto infatti con chiarezza il giornale dei vescovi con un linguaggio mai usato nei giorni più neri della Repubblica, è "uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana".

Il dado, a questo punto, sembra tratto. È vero che la presenza cristiana nel Paese, come dice Pietro Scoppola, non è riducibile a questo schema di comodo. Ma la Chiesa, con lo spartiacque benedetto di Ruini rischia di aprire per la prima volta un fronte religioso nella battaglia politica italiana, qualcosa che non abbiamo ancora conosciuto, una faglia inedita. In un terreno fragilissimo, dove troppi politici sono pronti a cambiare opinione a ogni rintocco di campana, sensibili nei confronti dei vescovi molto più al comando che ai comandamenti. Ecco perché bisogna chiedersi se è ancora consentito credere in Dio e votare a sinistra.

Anche se bisognerebbe aggiungere un'ultima domanda: in quale Dio? Nella prima fase dell'era Ruini, era un Dio post-democristiano, comodo perché relativo, appagato dalla sua onnipotenza e affaticato dal suo declino. Nella seconda fase, quella della minoranza, è diventato un Dio italiano, in una sorta di via nazionale al cattolicesimo. Oggi, rischiano di farci incontrare un Dio di destra, e già solo dirlo sembra una bestemmia.

(7 febbraio 2007)

il Riformista 7.2.07
SETTANTASETTE 1. LA VIOLENZA ESTREMISTA
Non c’è dubbio, il Pci capì con ritardo. Eppure la linea della fermezza fu giusta
di Federico Fornaro


Ripercorrere nel libro di Lucia Annunziata 1977. L’ultima foto di famiglia (Einaudi), quell’anno così dominato dall’odio e dalla violenza provoca l’effetto di un pugno diretto nello stomaco. Di quelli che fanno male. Sono passati trent’anni e a differenza del ’68, il ricordo di quel movimento non provoca alcun fremito e neppure rimpianti. Eppure hanno ragione sia Paolo Franchi sia la Annunziata a invitare a ragionare, a guardare dentro quei cortei, quelle vetrine spaccate, quelle P38 (prima disegnate simbolicamente nell’aria con tre dita della mano e poi divenute drammaticamente vere). Riflettere su quella stagione, infatti, è certamente utile per comprendere sia i limiti della strategia del compromesso storico, con la progressiva dilapidazione da parte del Pci dello straordinario patrimonio elettorale conquistato nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976 sia le radici profonde del fenomeno terroristico del nostro Paese. Se la cifra del movimento di protesta del ’68 era stata la fantasia contrapposta al grigiore burocratico della società dell’epoca, quella del ’77 sarebbe diventata rapidamente quella della violenza contro lo Stato nelle sue molteplici articolazioni, partiti compresi. Il Pci e la stessa Fgci del “questurino” Massimo D’Alema - così era stato ribattezzato dai dirigenti del movimento il segretario dei giovani comunisti - non ebbero dubbi sulla scelta da compiere e si schierarono senza esitazioni dalla parte delle istituzioni. La Annunziata, all’epoca giovane dirigente del Manifesto-Pdup, in tutto il suo racconto cerca di mettere in luce i ritardi nella comprensione delle ragioni del nascente movimento, facendo trasparire a più riprese l’idea che un diverso atteggiamento del più grande partito della sinistra - e del loro alleato Francesco Cossiga, ministro democristiano dell’Interno - avrebbe potuto limitare, se non addirittura evitare la deriva violenta impressa, dopo gli scontri del 12 marzo 1977, dai gruppi dell’Autonomia. Non c’è ovviamente la controprova e rimanendo sullo stesso piano ipotetico, viene naturale domandarsi quali sarebbero state le conseguenze per la democrazia italiana se il Pci e il sindacato non avessero deliberatamente costruito una vera e propria diga contro l’ estremismo e la violenza di piazza. Se è vero che l’assenza di uno sbocco politico all’azione del movimento finì per favorire le tesi di chi vedeva nella lotta armata clandestina l’unica possibilità per cambiare le cose, è altrettanto incontestabile che l’ammiccamento del Pci verso la violenza avrebbe prodotto conseguenze inimmaginabili e soprattutto la lotta al terrorismo sarebbe stata molto più difficile e la vittoria dello Stato contro i brigatisti certamente più lontana. D’altronde - come sintetizza efficacemente Lucia Annunziata - «nel 1977 la famiglia della sinistra uccise suo padre, il Partito comunista italiano. Un delitto a lungo cercato». Un rapporto di odio misto a rispetto - «il suo pessimismo doloroso contro il nostro grintoso ottimismo» scrive l’ex presidente della Rai riferendosi al Pci - che viene da lontano, dal 1968, dalle lotte sociali e per l’allargamento dell’area dei diritti dei primi anni Settanta e affonda le radici in un ribellismo antisistema, assai diffuso tra i militanti della sinistra italiana in tutto il Novecento. Non a caso Enrico Berlinguer, di fronte alle prime avvisaglie della violenza estremistica, rispolvera l’immagine del «diciannovismo». E a guardar bene, pur nella profonda differenza dei contesti storici, qualche analogia con quel periodo della storia italiana c’era davvero: l’occupazione dell’università invece delle fabbriche come luogo simbolo della rivoluzione e gli studenti al posto della classe operaia, come avanguardia della lotta contro l’oppressione dello Stato. In fondo il rivoluzionarismo verbale delle assemblee e delle prime contestazioni assomigliava tristemente al massimalismo parolaio degli anni Venti, quello che annunciava la rivoluzione senza essere in grado di organizzarla: in entrambe le occasioni il drammatico errore di pensare di trovarsi nel pieno della crisi del sistema capitalistico e quindi in una situazione prerivoluzionaria. Invece, nel ’77 all’organizzazione militare ci pensarono le Brigate Rosse. Fu l’escalation delle azioni armate delle cellule clandestine di quegli anni, più delle occupazioni e i cortei del movimento, a cambiare nel profondo la società e la politica italiana. Indubbiamente le ragioni di insofferenza libertaria verso l’ «ortodossia comunista» erano più che giustificate, così come era fondata la denuncia del ritardo del Pci nell’interpretare la domanda di modernizzazione, sintetizzata nella ritrosia dei vertici di Botteghe Oscure a partecipare alla lotta referendaria a difesa della legge sul divorzio nel 1974. Certamente l’ala creativa del movimento, gli indiani metropolitani, riuscì nell’intento di dissacrare molti dei riti delle istituzioni e dei partiti, ma ben presto gli slogan intelligentemente spiritosi del «Lama non l’ama nessuno» lasciarono il posto alle spranghe e alle P38 dell’ala dura dell’Autonomia Operaia, rapidamente impadronitasi della guida delle contestazioni dopo aver relegato in un angolo sia Lotta continua sia gli altri movimenti della sinistra extra- parlamentare. In definitiva il problema non è quello di domandarsi quale sia l’ eredità del ’77. Può essere, invece, più utile interrogarsi quanto gli attuali partiti della sinistra siano disponibili ad ascoltare il disagio giovanile e sociale - che si presenta in forme e con problematiche diverse da quelle del passato - per evitare di ricreare quel fossato di incomunicabilità al fondo del quale c’è nel migliore dei casi l’antipolitica o la fuga dalla realtà per mezzo della droga e dietro cui, come dimostra il 1977, può nascondersi il demone del terrorismo.

il Riformista 7.2.07
SETTANTASETTE 2. LE DIVERSITÀ DAL SESSANTOTTO
Sarà paradossale, ma il rifiuto del lavoro anticipò il popolo delle partite Iva
di Massimo Bordin


Agli anniversari non si sfugge, tanto meno ai trentennali. Dunque il «movimento del ’77» viene riportato alla luce. Il tempo trascorso e la distanza impongono però occhiali adatti, altrimenti si rischia di andare a memoria e di restare prigionieri di quello che si vide con gli occhi di allora. In fondo fu tutto molto rapido. Dall’occupazione dell’ università di Roma alla mattina del giovedì grasso in cui Lama e la Cgil ne furono cacciati, passarono solo due settimane, come ha notato Lucia Annunziata. Tanto poco ci mise il movimento a bruciare i ponti con l’ufficialità della rappresentanza sociale. Non fu così nove anni prima. Il primo maggio del ’68 il movimento studentesco parlò dal palco della triplice a piazza san Giovanni inaugurando un rapporto di conflitto coi vertici sindacali per conquistarne la base e a essa si rivolse il rappresentante degli studenti, mi pare fosse Piperno: «Voi ci avete insegnato la lotta, da voi abbiamo imparato l’uso della violenza». E i vostri capi oggi vi stanno tradendo, era il nemmeno troppo sottinteso. Iniziava una storia che finì la mattina del comizio di Lama all’ università, quando le bandiere del sindacato e del partito non furono strappate per sostituirle con altre più rosse; furono strappate e basta. Qui, e non nell’eccesso di violenza, sta la differenza con quello che era successo nove anni prima. Il ’68, almeno quello europeo, andò a piazzarsi dentro la tradizione del movimento operaio e comunista. Per estremizzarla, a ovest, per democratizzarla, a est. Rimase comunque in quell’alveo, con l’ingenua velleità di acquisire la leadership e in prospettiva il potere. Nel ’77 non andò così ma non è detto che l’immagine del parricidio spieghi tutto. Intanto perché chi aveva vent’anni nel ’77 nove anni prima giocava con le figurine e non con i movimenti di massa. E poi perché la “nuova sinistra” aveva già riposto ogni velleità e si interrogava fra integrazione e scioglimento dopo il deludente voto del ’76, su cui molto aveva puntato. Indimenticabile il manifesto elettorale del Pdup: «Prenderemo solo il 3 per cento, ma sarà decisivo per il 51 che porterà al governo delle sinistre». Presero l’1,5 e le sinistre, rimaste ben sotto il 50, sostennero con l’astensione un governo Andreotti. Inevitabile il disimpegno. O l’integrazione, anche perché ben diversa era la situazione del Pci. Mancato il sorpasso, era comunque arrivato ai suoi massimi storici tornando dopo trent’anni nell’area di governo, e con Pietro Ingrao presidente della Camera. Nell’estate del 1976, col «governo delle astensioni», il «monopartitismo imperfetto» si fa Stato; restano fuori solo Almirante (che sarà abbandonato da un cospicuo pezzo di Msi), i liberali e i nuovi giunti radicali insieme all’estrema sinistra. Ma soprattutto restano tagliati fuori i luoghi e i soggetti del conflitto sociale, che per la prima volta si trovano privi di una sponda istituzionale e di un sostegno nella società che, bene o male, il Pci non aveva mai fatto mancare. Il gramsciano «moderno Principe» si fa esigente e spietato. Il conflitto va sacrificato al modello berlingueriano dell’austerità. Asor Rosa è il più lucido: il partito deve farsi Stato, sia pure nella inedita forma consociativa. A questo obiettivo tutto va sottomesso e peggio per chi è fuori. Naturalmente, nota Asor, c’è un prezzo: le forme tradizionali del conflitto sociale mutano, non si scontrano più lavoro e capitale ma garantiti e non garantiti. Dal conflitto generatore di sviluppo si rischia di passare a un modello conflittuale quasi pre-capitalistico. Due società separate, l’una che racchiude i garantiti dal nuovo patto social-corporativo che tenta di perfezionarsi nella sfera istituzionale, l’altra composta da tutti quelli che si trovano fuori dal recinto, quasi nuovi paria. Infatti la manifestazione che il 12 marzo sfila per Roma con abbondante uso di armi da fuoco corte e lunghe è politicamente più simile al tumulto dei Ciompi che alla moderna lotta di classe. Nemmeno i brigatisti si fanno incantare dalle pallottole che fischiano, e restano diffidenti, saldi nei loro pur avvizziti schemini cominternisti. Nessuno dei manifestanti pensa però di sparare al padre- partito: i più giovani perché non lo ritengono nemmeno parente, gli over 25 perché, chi prima chi dopo, l’hanno già sepolto. Se c’è qualche eccezione è una di quelle cose che capitano quando c’è tanta gente. Ma il ’77 non vive solo di armi e indiani metropolitani. Il movimento ribelle all’emarginazione non disdegna la marginalità. Paradossalmente la richiesta di reddito viene sganciata da quella del “posto” non solo perché comunque negato ma anche perché, al fondo delle cose, poco appetito. Lavori di nicchia, con molto tempo libero, senza rinunciare a una vita di relazioni ricca. Il morettiano «Vedo gente, faccio cose» anticipa caricaturalmente i “Mc jobs”; se si deve lavorare sotto padrone meglio starci il meno possibile. Meglio ancora riuscire a lavorare in proprio, magari facendo piccole cose. È il paradosso più significativo di quel movimento. Il «rifiuto del lavoro» è, anche, la premonizione del fenomeno delle partite Iva. Percorso bizzarro che ancora lascia molto da descrivere.