martedì 13 febbraio 2007

l'Unità 13.2.07
«La Chiesa va contro il Concordato»
Rodotà: i Dico sono una risposta civile a un bisogno diffuso
di Maria Zegarelli


L’ATTACCO Il Concordato tra Stato e Chiesa «è stato messo in discussione dalla Chiesache vuole esercitare sovranità anche sullo Stato italiano». Il costituzionali-
sta Stefano Rodotà commenta così le ultime dichiarazioni del Papa e del Cardinale Camillo Ruini che ieri hanno di nuovo serrato le fila contro il ddl governativo che regola le unioni civili, i «Dico». «Si è aperto un conflitto - dice Rodotà -. Hanno aperto un conflitto dichiarato con il governo della Repubblica, il Parlamento e la nostra Carta Costituzionale. Dichiarare sovversivo un disegno di legge votato dal Consiglio dei ministri vuol dire aprire un conflitto con il nostro Stato. Cosa ulteriormente accentuata dall'atto di indirizzo che Ruini ha detto di voler emanare ai cattolici, compresi quindi anche i parlamentari, che devono quindi abbandonare la loro fedeltà alla Costituzione per la religione». Un’ingerenza quella Oltretevere che non ha precedenti, almeno dai tempi del divorzio e del referendum sull’aborto. Secondo il professore «i Dico sono una risposta civile a un bisogno diffuso della società e il legislatore deve tener conto delle esigenze della società, non delle sue convinzioni personali». E la Chiesa, che può «legittimamente esprimere la sua opinione», non può condizionare l’operato del parlamentare chiamato a votare leggi «dirette a tutti i cittadini». Rodotà è netto nel commentare le ultime prese di posizione di Cei e Vaticano parlando davanti alla telecamere del Tg3, ma già ieri mattina aveva a lungo parlato dei Dico davanti a una platea di giovani studenti, docenti universitari e delle scuole medie superiori, riuniti nell’Aula Magna della Sapienza di Roma in occasione del convegno «Convivenza Civile - tra dignità e rispetto delle regole».
Non risparmia critiche al ddl, a partire dall’acronimo scelto, «segno di cattiva capacità di comunicazione, che si presta a tutta una serie di battute che potevano essere evitate. O dall’«idea della raccomandata, una di quelle bizzarrie che dovrebbero essere spiegate», dice riferendosi alla comunicazione all’altro convivente che secondo il ddl governativo può avvenire tramite lettera. Ma a parte queste notazioni, il professore va dritto al cuore della questione: le convivenze sono un dato di fatto, un fenomeno «che non può essere costituzionalmente ignorato». Affianco a lui c’è Giovanni Maria Flik, ex ministro della Giustizia attuale vice presidente della Corte Costituzionale. Che annuisce e rispondendo a una domanda sul ddl sulle unioni civili, dice: «Non posso esprimermi sulla legge per l’incarico che rivesto anche se ho una mia opinione al riguardo». Rodotà fa riferimento alle sentenze emesse dalla Consulta - che hanno riconosciuto diritti ai conviventi - e i dati del Comune di Roma dai quali risulta che c’è stato un crollo di matrimoni civili e religiosi, scavalcati ormai dal numero di convivenze. «Non si possono ignorare fenomeni e cambiamenti così importanti della società». E fa bene la Chiesa a dire la sua, «è legittimo», ma uno Stato «deve occuparsi dei diritti dei cittadini, di tutti i cittadini». E ricorda la cerimonia di commemorazione delle vittime della strage di Nassiriya: Adele Parrillo, compagna di Stefano Rolla, il regista morto mentre girava un documentario nella base colpita dai terroristi, «non è stata invitata perché era convivente e non coniuge». Questo vuole dire, ad esempio, il vuoto normativo sulle unioni civili.

l'Unità 13.2.07
Dico, Ruini prepara il «sacro monito»
Il presidente delle Cei annuncia una nota vincolante
per i cattolici. Ratzinger: quella legge mina la famiglia
di Roberto Monteforte


CONTRO I «DI.CO» la linea è quella «intransigente». La Chiesa ha scelto. Non siamo al «non expedit» di Pio IX, ma rischia di andarci molto vicino. Quel disegno di legge sulle coppie di fatto è ritenuto un pericolo grave per la famiglia, per i giovani e per la società, in
netto contrasto con la legge naturale. Così ieri il Papa in persona ha spiegato il perché di questa intransigenza. «Nessuna legge fatta dall’uomo può sovvertire il disegno del Creatore» ha scandito ricevendo in udienza privata i partecipanti al convegno internazionale organizzato dall’Ateneo Lateranense proprio sul diritto naturale. Un discorso complesso che è partito da una premessa: «Vi sono norme che precedono qualsiasi legge umana» e che «non ammettono interventi in deroga da parte di nessuno». Per Papa Ratzinger è la legge naturale, con le sue «applicazioni concrete» sul fronte della difesa della vita umana dal suo inizio alla sua fine naturale e del matrimonio, «il solo valido baluardo contro l'arbitrio del potere o l'inganno della manipolazione ideologica». Un codice morale valido per tutti gli uomini. Spiega e sprona il Papa: «È la vera garanzia offerta a ognuno per poter vivere libero e rispettato nella propria dignità». Rinnova la sua critica all’uomo di oggi che «ha dimenticato che non tutto ciò che è scientificamente fattibile è anche eticamente lecito».
Questa è la premessa. L’obiettivo è la difesa della famiglia tradizionale, minacciata da normative che introducono uguali diritti alle coppie di fatto eterosessuali e omosessuali. Richiama il Concilio Vaticano II a difesa dell’istituto del matrimonio, «stabile per ordinamento divino». Nessuna legge fatta da uomini «può sovvertire la norma fatta dal Creatore senza che la società venga drammaticamente ferita in quella che è il suo fondamento basilare». Dimenticarlo, ha ammonito il pontefice, significa «indebolire la famiglia e penalizzare i figli». Non nomina né i Pacs, né i Di.co. Ma a chi e cosa si riferisce quando esorta i legislatori a promuovere le legge umana e a non «trasformare i diritti in interessi privati o in desideri che stridono con la legge naturale»? Lo ribadisce: «La legge naturale è il solo valido baluardo contro l'arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica». «La prima preoccupazione per tutti e particolarmente per chi ha responsabilità pubblica», conclude,- è che «possa progredire la coscienza morale di tutti».
È in piena sintonia con Papa Ratzinger il magnifico rettore della pontificia università Lateranense, monsignore Rino Fisichella. «Alcuni vorrebbero che restassimo in silenzio per emarginarci dal mondo» afferma nel suo saluto al pontefice nella Sala Clementina. Sferra il suo attacco. Sotto tiro secolarizzazione, relativismo e quella «crisi» della riflessione teologica, filosofica e giuridica, «sui problemi connessi alla Legge naturale», che prese avvio negli anni 60. «Ha portato ai nostri giorni anche diversi Parlamenti a promulgare leggi in netto contrasto con la legge naturale e per ciò stesso indegni di ordinamenti giuridici che possano essere di garanzia per tutti i cittadini» afferma veemente. Parole dure, di chi si presenta come pronto a guidare le truppe a difesa della legge naturale violata.
Ma la notizia la dà il presidente della Cei, cardinale Camillo Ruini. Sul «Di.co» è in arrivo «una parola meditata e impegnativa» da parte della Cei. Sarà rivolta a «coloro che accolgono il magistero della Chiesa». Preannuncia che sarà «chiarificatrice per tutti». Un documento «ufficiale» dei vescovi, quindi, che dopo un’analisi del testo di legge, conterrà indicazioni di comportamento «vincolanti», per tutti i cattolici. Compresi quelli impegnati in politica nei due schieramenti. I riferimenti, anche recenti, non mancano. Vi sono i pronunciamenti della Congregazione per la Dottrina della fede con le «note dottrinali» dell’allora cardinale Ratzinger, prefetto dell’ex Sant’Uffizio. La Chiesa si rivolge alla singola persona. Indica comportamenti da tenere. Richiama l’obbligo a seguire le indicazioni del magistero. In alcuni casi sino all’obiezione di coscienza. Ma dovrebbe pure rispettare l’autonomia dei politici nelle loro scelte «pubbliche». Non dovrebbero contenere «sanzioni». Per un credente ha già un forte valore morale essere considerato «non in piena comunione» con la Chiesa.
Che l’annuciata «nota» Cei avrà i suoi effetti politici è sicuro. Li staranno misurando Ruini ed i suoi collaboratori. Il prossimo 19 febbraio, anniversario della revisionedel l Concordato, all’ambasciata italiana presso la Santa Sede si terrà il tradizionale incontro tra rappresentati della Santa Sede e le massime autorità italiane. Nello spirito della collaborazione e del rispetto reciproco.

l'Unità 13.2.07
A ROMA Una commemorazione del filosofo
Nel nome di Giordano Bruno

Sabato 17 l’Associazione nazionale del Libero pensiero organizza (con il patrocinio del Comune di Roma e l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Centro Internazionale di Studi Bruniani Giovanni Aquilecchia) una giornata di commemorazione Nel nome di Giordano Bruno. Libertà ed autodeterminazione: valori laici. Alle 16,30 in piazza Campo de’ Fiori di Roma - dove il pensatore venne bruciato vivo il 17 febbraio 1600 - verranno deposte corone ai piedi della statua che campeggia al centro della piazza. Seguiranno gli interventi di: Bruno Segre, presidente dell’Associazione del Libero pensiero, Maria Mantello, Giulio Giorello, Federico Coen, Nuccio Ordine. Marianna Arbìa, Marialivia Franceschini, Fabiola Perna, Camilla Scrugli, Arianna Zapelloni Pavia e Carlotta Spizzichino leggeranno brani dalle opere di Giordano Bruno.

Repubblica 13.2.07
Enrico Boselli, leader Sdi: siamo un paese a sovranità limitata
"Concordato violato allora meglio abolirlo"
La Chiesa elimini il divieto per i preti di candidarsi alle elezioni. E Ruini si presenti
I Patti Lateranensi, la religione a scuola, non hanno più senso: porrò il problema agli alleati del centrosinistra
di Cludio Tito


ROMA - «Chiederò al governo e all´Unione di muoversi per abolire il Concordato». Dopo l´ultimo affondo contro i "Dico" sferrato dal Papa e dal presidente della Cei, Camillo Ruini, Enrico Boselli imbocca la strada dello scontro frontale. Mettendo in discussione persino i Patti lateranensi, che disciplinano i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa da quasi 80 anni. «Ormai - scandisce il segretario dello Sdi - non hanno più senso».
Perché le parole di Ruini l´hanno colpita così tanto?
«Sono rimasto impressionato da un fatto: perché non è stata usata la stessa forza quando è stata approvata una legge ben più aperta della nostra in Spagna? O in Francia? O in Germania? Solo quando il problema lo affrontano il governo e il Parlamento italiano, scatta questa campagna formidabile».
Secondo lei perché?
«Perché si pensa che l´Italia sia un paese a sovranità limitata».
Quindi c´è anche un movente politico?
«Bisognerebbe chiederlo a Mastella, a Rutelli, ai teodem».
Teme che l´obiettivo della Cei sia il governo Prodi?
«Non credo. Però mi colpisce che questa campagna non tocca temi etici ma solo la possibilità di andare a trovare in ospedale il convivente o di subentrare nel contratto di affitto. Vedo addirittura mons. Fisichella che si appella ai parlamentari cattolici perché non votino la legge».
Quali sono le possibili conseguenze?
«Guardi, queste prese di posizione, questi veti, questi ammonimenti delle gerarchie ecclesiastiche rappresentano un vero e proprio strappo del Concordato. Che, come tutti sanno, stabilisce la non ingerenza della Chiesa negli affari dello Stato».
Una violazione del Concordato?
«Sì. E allora c´è un´unica strada: quel Patto non è più accettabile in una società come la nostra. Nessuno vuol togliere alla Chiesa la libertà di parola. È legittimo che prenda posizione, difenda i suoi principi. Però non si può nascondere che da questo derivino due effetti: la violazione del Concordato e il fatto che lo Stato non può continuare a concedere i tanti privilegi previsti dallo stesso Concordato. In Italia non c´è più la religione di Stato».
Lei parla di una abolizione?
«Certo. Questo è un Paese aperto. Il principio di fondo dei Patti Lateranensi non è più attuale. Non c´è ragione che l´insegnamento della religione cattolica venga svolto dalle scuole pubbliche con i soldi pubblici, o che il fisco trasferisca l´8 per 1000 o che gli immobili della Chiesa siano esentati dall´Ici».
Presenterà una proposta di legge?
«Non è materia da proposta di legge. Porrò, però, il problema agli alleati e al governo. Solo un cieco non vede che il Concordato non serve più».
Secondo lei si è già aperto un conflitto con il governo?
«È evidente. Nel momento in cui si calpestano i diritti dei rappresentanti del popolo ad adempiere il loro mandato, comunque si apre un conflitto. Ricordo poi che Ruini in passato aveva già contestato alcune leggi regionali».
Quindi?
«Quando la Cei decide di entrare nella vita pubblica, nel dibattito tra i partiti, deve sapere che, appunto, diventa parte. E nessuno può limitare le risposte o le critiche».
Cioè i vescovi italiani si stanno muovendo come un partito?
«Mi auguro che la Chiesa elimini il divieto per i preti di candidarsi alle elezioni. E mi auguro che lo stesso Ruini si candidi. Così potrà far valere meglio le sue idee. E in maniera più corretta».

Repubblica 13.2.07
Le nuove famiglie
Nozze in calo, è boom di coppie di fatto
Sono 500.000, 10 anni fa erano la metà. Bimbi, il 15% nasce fuori dal matrimonio
Aumentano le separazioni, quasi due coppie su dieci si lasciano
In ventotto capoluoghi del Centro Nord le cerimonie civili superano quelle religiose
Ci si sposa sempre più tardi e aumentano le coppie con uno dei due sposi stranieri
di Maria Novella De Luca


ROMA - Un mutamento inarrestabile. Impermeabile a qualunque appello di fede o di ideologia. Così e basta. La famiglia italiana sta cambiando, sovvertendo tutte le regole, polverizzando le tradizioni consolidate. Le coppie disertano il matrimonio, ancor più se religioso, diventano miste, multietniche, mentre l´insieme è sempre più piccolo, in case c´è un figlio, massimo due. Amatissimi però. Una famiglia che mal sopporta l´usura del tempo e dei sentimenti, e se non va più, poche lacrime, ci si lascia, separazioni e divorzi sono in aumento esponenziale. Arriva tempestiva la fotografia Istat delle coppie italiane ai tempi dei Pacs, anzi dei Dico, e le statistiche dimostrano che se i matrimoni ormai sono soltanto 250 mila l´anno, le coppie di fatto sono oltre 500 mila (riferito però soltanto alle coppie eterosessuali, fa notare l´Arcigay), i bimbi nati da "libere unioni" sono il 15% del totale delle nascite, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa. È vero, la situazione italiana è ancora molto diversa dal resto d´Europa, ma quello che colpisce, sottolinea l´Istat, è «la rapidità del cambiamento». Ecco, voce per voce, la rivoluzione della famiglia made in Italy.
MATRIMONI: Secondo i dati rilevati presso gli uffici di Stato civile dei Comuni, nel 2005 sono stati celebrati poco più di 250 mila matrimoni. Un numero in continua diminuzione dal 1972, anno in cui si sono registrate poco meno di 419 mila nozze. Il 32,4% di tutti i matrimoni viene celebrato con rito civile. Il 56% degli sposi scelgono il regime patrimoniale di separazione dei beni,
COPPIE DI FATTO: Nel 2005 erano oltre 500 mila le coppie di fatto, «un fenomeno in rapida espansione - scrive l´Istat - solo 10 anni infatti fa erano meno della metà, anche se in Italia le libere unioni non sono ancora così frequenti come in altri paesi europei».
UN PAESE DIVISO IN DUE: Sul fronte famiglia però l´Italia è un paese nettamente diviso in due, con il Nord e il Centro sempre più lontani dal matrimonio (3,8 matrimoni su 1000 abitanti) e il Sud che conserva le tradizioni (4,9 matrimoni per 1.000 abitanti nel 2005. In ben 28 capoluoghi del Centro Nord i matrimoni civili superano poi quelli religiosi.
I FIGLI FUORI DEL MATRIMONIO: "Punta dell´iceberg" del fenomeno delle libere unioni, è l´incidenza di bambini nati al di fuori del matrimonio, attualmente intorno al 15%, cioè quasi 80 mila nati all´anno, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa, quando questo valore era pari all´8%.
CI SI SPOSA PIU´ TARDI: Alle prime nozze i maschi hanno un´età media di circa 32 anni e le spose di quasi 30 anni, 4 anni in più dell´età che avevano in media i loro genitori al primo matrimonio.
COPPIE MISTE - Le coppie in cui uno dei due sposi o entrambi sono di cittadinanza straniera sono il 12,5% (2005): erano solo il 4,8% dieci anni fa. Gli uomini italiani che sposano una cittadina straniera scelgono nel 49% dei casi donne dell´Europa centro-orientale, e nel 21% donne dell´America centro-meridionale. Le donne italiane mostrano una preferenza per gli uomini di origine nordafricana (23% dei matrimoni).
DIVORZI E SEPARAZIONI. Gli ultimi dati disponibili, riferiti al 2004, parlano di oltre 80 mila separazioni l´anno e più di 45 mila divorzi. In media su 100 coppie che si sposano, 15 divorziano. Eppure, in tanti ci riprovano. Oggi in quasi il 10% dei matrimoni almeno uno degli sposi è alla sua seconda esperienza.

Corriere della Sera 13.2.07
Dico, quel limite grave nelle regole per le coppie
di Luigi Manconi


Caro direttore, è toccato a me, un anno e mezzo fa, scrivere quelle parti del programma politico-elettorale dell'Unione, dedicate ai «nuovi diritti»: temi assai delicati, e controversi, come il testamento biologico, la tutela delle persone private della libertà e, appunto, la questione — che solo in Italia assume una così alta intensità emotiva e simbolica — del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto.
Dopo una tribolata discussione, all'interno della commissione per il programma, questo è il testo che ne risultò: «Le unioni civili come riconoscimento giuridico di una forma di relazione capace di assicurare prerogative e facoltà e di garantire reciprocità nei diritti e nei doveri. (...) Al fine di definire natura e qualità di tale forma di unione, non è dirimente il genere dei contraenti e il loro orientamento sessuale; va considerato, piuttosto, il sistema di relazioni (amicali, sentimentali, assistenziali, di mutualità e di reciprocità) — la sua stabilità e la sua intenzionalità — quale criterio qualificante la scelta dell'unione».
Questo testo venne fatto proprio (nel corso del seminario di San Martino del 5 e 6 dicembre 2005) da Romano Prodi e dai segretari dei partiti del centrosinistra. Ma, evidentemente, quella formulazione sembrò eccessivamente audace e venne sottoposta a revisione: così che, nel programma definitivo dell'Unione, si parlava del «riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle coppie di fatto», e si dichiarava che «al fine di definire natura e qualità di una unione di fatto, non è dirimente il genere dei conviventi né il loro orientamento sessuale».
Pertanto, il disegno di legge sui Dico, appena approvato dal Consiglio dei ministri, corrisponde puntualmente — va detto — a quanto previsto dal programma definitivo del centrosinistra. Contiene, già nella prima riga, una clausola — giuridicamente formalizzata e tutelata — contro la discriminazione di natura sessuale (e questo, nel nostro ordinamento e nella nostra società, non è poco: anzi, è tantissimo). E riconosce, poi, diritti e facoltà e attribuisce doveri ai membri di una coppia convivente.
Certo, la differenza rispetto al primo testo (quello del dicembre del 2005), e alla proposta di legge che presentammo dodici anni fa, è assai significativa. Diritti e doveri, nel disegno di legge del governo, fanno capo ai singoli individui e non alla coppia, non più considerata — in questo testo — come autonoma forma di relazione. Personalmente, lo ritengo un grave limite. Riconoscerli alla coppia, quei diritti e quei doveri, non avrebbe significato, in alcun modo, «equiparare» ogni tipo di convivenza al matrimonio (religioso o civile): e nemmeno istituire una sorta di «nozze di serie B» (come, in un tripudio di strepitoso analfabetismo politico-giuridico, si sente dire a proposito dei Dico, in queste ore).
Avrebbe significato, invece, il riconoscimento di forme di convivenza non coincidenti con il matrimonio e, tuttavia, degne di tutela pubblica. Tali perché, quelle coppie di fatto, possono essere connotate da vincoli affettivi e solidali, reciprocità e mutualità, intenti comuni e progetti condivisi. E, dunque, da un' istanza anche morale. Questo, i rapporti di forza (ideali e ideologici) oggi vigenti in Italia, non consentono di riconoscerlo e formalizzarlo in una legge. In questo quadro, i Dico rappresentano un realistico punto di partenza. Un buon punto di partenza.

il Riformista 13.2.07
Ecco perché non starò nel Partito democratico
di Emanuele Macaluso


C’è o no una ragione per definirsi socialisti e c’è una differenza tra il riformismo socialista e gli altri riformismi, cattolico e liberal-democratico? La questione non è nominalistica ma di sostanza politica. La discussione fu già fatta dopo la svolta della Bolognina e la nascita del Pds. La scelta di un nome richiama infatti una storia, una tradizione, dei valori che l’hanno contrassegnata, una politica che qualifica la realtà in cui viviamo. Altrimenti non si capisce perché fu cambiato il nome del Pci e dopo la svolta fu respinta la proposta di Natta, Ingrao, Tortorella e altri di chiamarci «comunisti democratici». Era la sostanza politica che quel sostantivo richiamava che veniva respinta. Tuttavia in quell’occasione non fu accettato il nome che richiamava il socialismo europeo. In ogni caso, però, il nuovo partito si qualificava con una parola che indicava una storia e un progetto politico: «Democratici di sinistra». Oggi si vuole abolire la parola «sinistra». Non ha alcun significato? Se non è essenziale, perché abolirla?
Ma torniamo alle ragioni del socialismo democratico. Se, ad esempio, il partito del Congresso indiano di Sonia Gandhi ha sentito l’esigenza di stare nell’Internazionale socialista, un motivo ci sarà pure. Penso che le ragioni di quell’adesione vadano ricercate nel fatto che gli enormi problemi posti dalla globalizzazione non possono essere affrontati né con il negazionismo dei no-global né con un’adesione acritica. In questo mondo che cambia, la storia, i valori e i programmi del socialismo democratico emergono con grande forza. La questione sociale nella globalizzazione può e deve essere la nuova frontiera del socialismo democratico. I cui valori e programmi in Europa sono riemersi negli anni in cui il vento della rivoluzione conservatrice sembrava che dovesse spazzare via le conquiste sociali, a partire da quel welfare novecentesco, che è stato difeso, rinnovato, aggiornato proprio dal socialismo democratico, attraverso un nuovo “compromesso” tra sviluppo economico e istanze sociali, che guardasse al futuro e alle nuove generazioni. Ed è stato proprio il socialismo democratico a fornire risposte laiche e incisive alla domanda di nuovi diritti sollecitati dalla modernità e dal progresso scientifico, attingendo a quei valori che si ritrovano in una storia in cui il rispetto della persona e le libertà individuali (come il culto) si sono coniugate sempre con l’interesse generale e la laicità dello Stato.
Su questi temi (welfare, diritti) la revisione critica e il rinnovamento del socialismo europeo hanno portato soluzioni più avanzate della “novità”, tutta italiana, proposta col cosiddetto Partito democratico. Non ne faccio una questione ideologica ma politica: rileggendolo, non cambierei una sola virgola del giudizio che la settimana scorsa ho espresso sul documento del segretario Fassino. Nel frattempo, il rito congressuale dei Ds presenta davvero poche novità: una mozione firmata da tanti e da tante sponde, un grande assemblaggio attorno al segretario come vuole la tradizione comunista. C’è di tutto. Ci sono anche le firme di compagni che con me hanno condiviso tante battaglie politiche nell’area riformista, anche quella per la fondazione e la redazione della rivista che non a caso chiamammo Le nuove ragioni del socialismo. Ci sono momenti in cui una persona è chiamata a prendere decisioni individuali che coinvolgono la propria storia. Rispetto le scelte diverse dalle mie quando non sono frutto di interessati opportunismi. Per quel che mi riguarda non starò in un partito che non appartenga al socialismo europeo (non «negli ambiti»). E non in nome di un’appartenenza a una storia, quella della sinistra in cui milito da 66 anni (anche se per me ha un significato e un valore), ma per il ruolo che esso, il socialismo democratico, è chiamato a svolgere in Europa e nel mondo.

Repubblica on line 13.2.07
Il Papa: "L'amore di Dio è anche eros
Gesù ne è la rivelazione più sconvolgente"


CITTA' DEL VATICANO - "L'amore di Dio è anche eros: nell'Antico Testamento il Creatore dell'Universo mostra verso il popolo che si è scelto una predilezione che trascende ogni umana motivazione": lo sottolinea Benedetto XVI, nel Messaggio per la Quaresima 2007. Un tema già affrontato dal Papa nella sua prima enciclica la "Deus caritas est", nella quale si distinguevano le due componenti dell'amore: l'agape che "indica l'amore oblativo di chi ricerca esclusivamente il bene dell'altro", e l'eros che "denota invece l'amore di chi desidera possedere ciò che gli manca ed anela all'unione con l'amato".
Nel documento pubblicato oggi, Benedetto XVI ribadisce che se "l'amore con cui Dio ci circonda è senz'altro agape", c'è anche una "passione divina" che la Bibbia descrive "con immagini audaci come quella dell'amore dell'uomo per una donna adultera". "Questi testi biblici - afferma - indicano che l'eros fa parte del cuore stesso di Dio: l'Onnipotente attende il sì delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa".
"Purtroppo - osserva però il Pontefice - fin dalle sue origini l'umanità, sedotta dalle menzogne del Maligno, si è chiusa all'amore di Dio, nell'illusione di una impossibile autosufficienza".
"Ripiegandosi su se stesso - scrive ancora Joseph Ratzinger - Adamo si è allontanato da quella fonte della vita che è Dio stesso, ed è diventato il primo di quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la vita".
Nel suo messaggio, il Papa teologo ricorda che "Dio, però, non si è dato per vinto, anzi il no dell'uomo è stato come la spinta decisiva che l'ha indotto a manifestare il suo amore in tutta la sua forza redentrice". "
"E' Gesù - conclude - la rivelazione più sconvolgente dell'amore di Dio, un amore in cui eros e agape, lungi dal contrapporsi, si illuminano a vicenda. Sulla Croce è Dio stesso che mendica l'amore della sua creatura: Egli ha sete dell'amore di ognuno di noi".

D, supplemento di Repubblica 10.2.07 pag.202
La pornografia non è una faccenda sessuale
Risponde Umberto Galimberti


Scrive Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso (Einaudi): “Io desidero il mio desiderio, e l’essere amato non è altro che il suo accessorio”

Sono un pornodipendente in sobrietà. Ho letto con grande interesse la sua intervista sull’ultimo numero di D, relativa a “Le coppie che non fanno più l’amore”, e vorrei portare alla sua attenzione il rapporto tra calo di tensione sessuale e pornodipendenza da Internet. Sono il fondatore e moderatore del gruppo di autoaiuto on line noallapornodipendenza (2.200 iscritti, 11.800 lettere ricevute, un numero non esattamente quantificabile di lettori del gruppo - ma sicuramente molto elevato). Sull’argomento, inoltre, ho creato un sito che ha in media 120 contatti al giorno. E le posso dire con certezza che gli iscritti al gruppo sono solo la punta dell’iceberg di coloro che soffrono di questa patologia. Sulla base di questa larga esperienza e sulla base delle 150.000 lettere ricevute dai gruppi americani simili al nostro, desidero informarla che la più immediata ed evidente conseguenza della pornodipendenza è il calo drastico della tensione sessuale, sia per gli uomini sia per le donne e per gli uomini una insorgente impotenza parziale o totale. La pornodipendenza modifica in modo negativo tutti gli aspetti della vita di un individuo: rapporti di lavoro, capacità di applicazione e attenzione al proprio lavoro, applicazione allo studio, rapporti di amicizia e di amore, progressiva sfiducia in se stessi. Per quanto riguarda l’influenza sulla dinamica sessuale, le conseguenze più significative sono: calo del desiderio sessuale verso il proprio partner; semiimpotenza o impotenza totale all’atto con una persona reale; possibilità di erezione masturbatoria ed eiaculazione solo attraverso la visione di materiale pornografico; condizionamento a guardare i potenziali partner solo ed esclusivamente come oggetti pornografici. Sulla mia esperienza di liberazione ho scritto un libro: Io, pornodipendente (Costa e Nolan). Tutto questo per dirle che sarebbe molto importante che uno studioso come lei trattasse questo argomento.
Vincenzo Ponzi Roma

Nel corso della storia la pornografia ha sempre fatto la sua comparsa, ma con accenti e significati ogni volta diversi. Dal Kamasutra alle iscrizioni egizie, fino agli affreschi di Pompei, scene che oggi definiremmo “pornografiche” erano rappresentate per stimolare il desiderio sessuale in una cultura che esaltava il corpo e l’innocenza del suo gesto, senza intenti trasgressivi e ancor meno sensi di colpa. Fu a partire dal Medioevo che, come ci illustra il teatro di Dario Fo, la sessualità fu caricata di accenti pornografici per esprimere una reazione popolare immediata e trasgressiva all’ordine imposto da un potere quasi sempre imparentato con l’autorità religiosa. Ma fu nel ’500 e nel ’600 che la pornografia fu impiegata esplicitamente per mettere in discussione i meccanismi tradizionali dell’esercizio dell’autorità. Come riferisce Pietro Adamo in La pornografia e i suoi nemici (il Saggiatore): “Scoperti nelle loro vergogne e nella bassezza della loro vita quotidiana, re e regine, preti e vescovi, prefetti e contesse venivano privati non solo dei segni esteriori del potere che stabilivano un rapporto di gerarchia (la pompa, il decoro, i vestiti), ma anche delle giustificazioni ultime della sua legittimità”. Nel ’700, all’uso della pornografia per desacralizzare li potere si affiancò, con il pensiero libertino, la rivendicazione della naturalezza dell’attività sessuale in tutte le sue espressioni, con conseguente critica del matrimonio che limita l’esercizio della sessualità, legittimazione del godimento femminile, rivendicazione di spazi trasgressivi contro una società ritenuta eccessivamente repressiva. Questa fase si chiuse nella seconda metà dell’800 quando la morale sessuale passò sotto la giurisdizione della scienza medica, e tutte le pratiche non indirizzate alla procreazione furono bollate come forme patologiche. Non più solo il peccato come infrazione della legge divina, ma anche la malattia come infrazione delle leggi di natura. Oggi la pornografia dilagante che lei denuncia a me pare un sintomo di debolezza dovuta al fatto che è più facile avere un rapporto col proprio immaginario di quanto non lo sia un rapporto con un’altra persona che toglie al mio gesto ogni sorta di sovranità, perché a limitarlo è la risposta dell’altro. Nel gesto pornografico infatti non si è mai in due, perché uno dei due è ridotto a semplice oggetto del piacere dell’altro con cui non c’è confronto, ma semplicemente uso e abuso. Siccome l’oggettivazione dell’altro, la sua riduzione a cosa, coincide quasi sempre con l’oggettivazione della donna, la pornografia è profondamente maschilista e non fa che riproporre sul registro sessuale la dominanza dell’uomo sulla donna, dell’attivo sul passivo, dove la scena viene progressivamente sottratta alla sessualità per essere consegnata alla dominanza, all’esercizio di potere e in casi estremi alla violenza. A questo punto sarebbe interessante decodificare la “dipendenza pornografica” che lei denuncia e andare a scoprire se, sotteso questa dipendenza, non sia tanto il tema della sessualità, quanto il tema del potere e del dominio che gli “impotenti” (in termini non tanto sessuali, ma psicologici) sono costretti a reiterare per una sorta di coazione a ripetere, perché non dispongono di altri spazi, che non siano quelli segreti della pornografia, per esprimere quella pulsione naturale che è l’affermazione di sé.

lunedì 12 febbraio 2007

l'Unità 12.2.07
Ingerenze vaticane
Nuovi Diritti e Vecchi Divieti
di Carlo Flamigni


Ci sono certamente differenti modi di giudicare una scelta politica, e questo vale anche per la recente proposta del governo che ci è stata presentata con l’orribile nome di «Dico». Il primo modo è quello che si ispira al pragmatismo, che guarda ai risultati concreti. Chi segue questa via, si pone una domanda semplice: era possibile fare di più? Se consideriamo la situazione politica del Paese, la prepotenza di una gran parte del mondo cattolico, l’invadenza dei vescovi la risposta è no, non si poteva far di più.
Lo si capisce anche guardando lo sguardo supplice dei tanti parlamentari che temono di non poter essere rieletti senza il voto delle parrocchie e che implorano un buffetto di approvazione da parte del loro vescovo di riferimento. Ammettiamolo dunque, non si poteva fare di più. Con qualche perplessità sul concetto cattolico di mediazione: cento metri da percorrere, li facciamo tutti noi e loro si lamentano ugualmente.
La manifesta soddisfazione dimostrata dalla senatrice Binetti mi fa però sospettare che esistano altri modi di considerare il problema. So per certo, ad esempio, che esistono persone un po’ meno pragmatiche (e un po’ meno ciniche) che vedono nella proposta del governo una rinuncia - piuttosto dolorosa - a un riconoscimento pubblico che molte coppie di fatto si aspettavano e che, in un recente passato, molti rappresentanti della sinistra che sta governando il Paese si erano impegnati ad ottenere. Secondo costoro, il progetto di legge del governo finisce con l’essere una sintesi molto impoverita di contenuti di un lavoro politico che ha evidentemente trovato difficoltà insuperabili all’interno della coalizione di centro-sinistra, ed è inutile perder tempo a spiegare chi come e perché, questi fatti li conosciamo benissimo.
Mi sembra dunque opportuno che ci chiediamo, a questo punto, quanto siano giustificati tutti questi sgomenti, quanto comprensibili queste paure, quanto irresistibili questi ricatti. Comincio così dall’argomento che mi interessa di più: ci stiamo comportando da Paese laico, o il concetto stesso di laicità, attraverso una serie incredibile di travisamenti, ha assunto significati completamente diversi da quelli nei quali le persone come me hanno sempre creduto?
Scelgo un articolo di Giuseppe Dalla Torre, professore di Diritto Ecclesiastico e rettore della «Lumsa», che trovo negli atti del convegno di studio del Comitato Nazionale di Bioetica organizzato in occasione del suo 15° anniversario. Scrive Dalla Torre: «Certo uno Stato laico non imporrà, con la forza del braccio secolare, un’etica al corpo sociale; ma non potrà fare a meno di tradurre in norme quei valori etici che, alla prova delle regole democratiche, risulteranno diffusi e condivisi nel corpo sociale. In maniera più esplicita si deve dire che le comunità religiose... hanno il diritto, ma dire anche il dovere, di intervenire nello spazio pubblico, quindi politico, proponendo i propri valori, e quindi i propri progetti di società cercando democraticamente di acquisire, intorno ad essi, significativi consensi». Un discorso, se non altro, apprezzabile per la sua chiarezza: poiché noi cattolici siamo più numerosi, le nostre regole morali sono migliori delle vostre e possiamo imporle a tutti. Questa definizione di laicità è esattamente il contrario della mia, e mi piacerebbe molto che su questa peculiare enunciazione intervenissero Viano, Lecaldano, Rodotà, Mori, Giorello e gli altri intellettuali laici che l’articolo di Dalla Torre dovrebbe aver non poco turbato. Dal canto mio, e in attesa di riaprire questa discussione se e quando arriveranno tempi migliori, mi limito a segnalare al professor Dalla Torre che tutte - ma proprio tutte - le inchieste che sono state fatte negli ultimi anni in Italia sui temi che vengono definiti «eticamente sensibili» questa maggioranza cattolica ortodossa non l’hanno proprio registrata, anzi. La maggioranza dei cittadini è invece favorevole alla fecondazione assistita, alla pillola abortiva, al diritto di decidere in merito alla fine della propria esistenza, alla pillola del giorno dopo, alla legge 194 e così via fino ai Pacs: ripeto, per chiarezza, Pacs, non Dico. La sensazione, dunque, è che il Vaticano - e i Cardinali, e i Vescovi, e i professori di Diritto Ecclesiatico - abbiano tutto il diritto di difendere le proprie idee e di parlare in nome della propria fede, ma dovrebbero risparmiarci i ragionamenti sulla democrazia e le ipotesi sulle maggioranze. La sensazione è che le loro possibili maggioranze vengano ottenute commerciando, in modo piuttosto truffaldino, in Parlamento, e che non abbiano niente a che fare con il Paese. D’altra parte ricordo che alcuni anni orsono l’allora cardinale Ratzinger, in una intervista a «Repubblica», ammise che la secolarizzazione del Paese aveva comportato un forte perdita di popolarità e di consensi del mondo cattolico, che non poteva essere più considerato maggioranza; ed è di pochi giorni or sono un editoriale di Ezio Mauro nel quale questi stessi eventi vengono esaminati alla luce del nuovo atteggiamento “bellicoso” del Vaticano, volontà di prevaricazione secondo alcuni, servizio secondo altri.
È però legittimo chiedersi, giunti a questo punto, dove in effetti stiano le ragioni “forti” del non possumus della Chiesa cattolica. Per un cattolico, il matrimonio è un sacramento, un atto sacro, un “pegno della fede”; per lo Stato, il matrimonio è un contratto, un istituto giuridico mediante il quale si dà forma legale all’unione tra due persone (per ora di un uomo e di una donna) che stabiliscono di vivere in comunione (di vita, di beni, di interessi) anche in ordine alla formazione di una famiglia. E la famiglia è l’insieme delle persone legate tra loro da un rapporto di convivenza, di parentela e di affinità. A me sembra che lo Stato abbia già richiamato a sé il diritto di definire questo istituto, di stabilirne le regole e i privilegi, assicurandogli oltre tutto una assoluta autonomia nei confronti di sacramenti e di sacralità. Che c’è di male, che c’è di nuovo nel fatto che lo stesso Stato che ha elaborato una prima definizione di matrimonio e di famiglia decida oggi di modificarla tenendo conto degli importanti mutamenti ai quali sono andate incontro le consuetudini sociali? Che c’è di strano, che c’è di immorale nel fatto che tante nuove differenti famiglie stiano cercando di far udire la propria voce, indicando insieme alle proprie sofferenze e ai propri disagi anche la capacità di assumersi l’insieme delle responsabilità che caratterizzano le unioni familiari tradizionali? E ai cittadini (ai cittadini, non ai preti) che chiedono allo Stato sulla base di quali garanzie si accinge a fare certe determinate scelte, lo Stato può rispondere che le garanzie sono tutte lì, nella capacità di queste nuove famiglie di assumersi specifiche responsabilità. Forse che questa dichiarazione di intenti ha un peso diverso dal giuramento fatto davanti a Dio o dalla promessa fatta davanti al sindaco?
Il significato delle parole, è bene ricordarlo, cambia nel tempo, restare appesi alla semantica del passato è sbagliato e perdente. Un genitore non è più, o non è più soltanto, colui che trasferisce il proprio patrimonio genetico al figlio ma è anche colui che promette di essere vicino al bambino che nascerà e si impegna a rispondere alle sue domande e ai suoi bisogni. Non è anche questa una versione molto nobile e dignitosa di genitore?
Anche le abitudini sociali cambiano, e cambiano rapidamente e radicalmente. Negli Stati Uniti - Paese adorato per certe sue prepotenze, ignorato per molte sue debolezze - nel 1992 oltre 6 milioni di bambini venivano cresciuti ed educati da genitori omosessuali, con ottimi risultati a sentire l’American Psychological Association e l’American Society for Reproductive Medicine. Secondo Machelle Seibel, direttore di uno dei più importanti giornali scientifici americani, le coppie omosessuali americane stanno cercando sicurezza per la loro vita comune all’interno di istituzioni riconosciute e protette e per questo si battono per ottenere leggi che consentano loro di sposarsi: quando riescono a farlo, si dimostrano straordinariamente consapevoli delle responsabilità acquisite e si confermano ottimi educatori di figli propri e adottati. Gli eterosessuali, dal canto loro, preferiscono dedicarsi allo hooking-up, il che significa uscire alla sera senza un appuntamento preciso e fare sesso con il primo venuto “per conoscerlo meglio”. Il risultato è che diminuiscono non solo i matrimoni, ma anche le coppie di fatto e la nascita del primo figlio subisce continui rinvii. Chiediamoci dunque: siamo certi che abbiamo ben capito cosa sta accadendo nel mondo? Siamo certi dell’utilità degli strumenti della fede per interpretare e proteggere?
Quando leggo certe dichiarazioni della Cei («il testo normativo... minaccia di incidere pesantemente... sul futuro della nostra società nazionale) mi chiedo se sia in realtà possibile un dialogo, o se la propensione di una certa parte del mondo cattolico non sia invece quella di considerare con affetto e tenerezza la vecchia signora che, guardando al passato, afferma con fierezza «domo mansi, lanam feci», non ho mai lasciato la casa, ho trascorso gli anni a fare la calza. E il desiderio di ragionare con loro di diritti individuali, chissà perché, si dissolve.

Repubblica 12.2.07
Scoprire il dolore dell'anima
Sofferenza mentale: una proposta per una psichiatria a misura d'uomo
di Umberto Galimberti


Eugenio Borgna e Bruno Callieri, tra i maggiori psicopatologi italiani, firmano due saggi sul terribile mondo degli psicotici e dei depressi
I malati hanno bisogno di essere ascoltati e confortati con la parola e non abbandonati ai soli farmaci

Perché la «psichiatria organicista», quella che impiega i farmaci per intenderci, utilissimi, anzi in alcuni casi indispensabili per alleviare le condizioni di chi soffre, non ascolta con una certa continuità e frequenza le parole che sgorgano dalla sofferenza e che riproducono in modo drammatico le condizioni d'esistenza di ciascuno di noi, e in modo vertiginoso alcuni abissi che solo l'arte, la poesia, la musica, la mistica fanno dischiudere, chiedendo spesso il sacrificio dell'artista, del poeta, del musicista, del mistico?
Solo la «psichiatria fenomenologica», che in Italia non si insegna in nessuna scuola di specializzazione, si presta a questo ascolto, per andare incontro alla speranza di chi soffre, sciogliere i vissuti di colpa che incatenano, perforare i muri della solitudine quando nessuna parola la raggiunge, nessun gesto la incrina, fino a quel taedium vitae che tutti, per brevi attimi, avvertiamo come nausea dell'esistenza.
Perché non avviene un'integrazione di questi due orientamenti psichiatrici? Perché la pratica farmacologica sopprime l'ascolto, disumanizza l'uomo, riducendolo ad un «caso» da rubricare in quei quadri nosologici, dove è l'efficacia del farmaco a decidere la diagnosi, mettendo a tacere tutte le parole del dolore che la follia urla e le nostre anime sussurrano. E così disimpariamo il vocabolario emozionale, anche se sappiamo che tutte le parole dimenticate diventano opachi silenzi del cuore, che aprono quei percorsi bui e insospettati di cui ci accorgiamo solo quando approdano a gesti tragici.
Perché la follia sta diventando solo una faccenda «medica» e non più un evento «umano»? Perché la categoria della «malattia» deve occupare tutto lo spazio, fino a oscurare la profonda parentela che esiste tra l'eccesso dell'anima e la sua normale condizione? Perché subito un medico o un farmaco quando la malinconia di un adolescente o la sua angoscia, almeno all'inizio, stanno implorando solo un po' di ascolto? Davvero non abbiamo più fiducia in uno sguardo comprensivo, in una parola che sa corrispondere all'abisso della disperazione? Davvero non abbiamo più tempo in quest'epoca che ci vuole tutti insensatamente gioiosi, e se non riusciamo, almeno mascherati da quella fredda razionalità che non lascia trasparire nessun moto d'anima?
E allora se proprio nessuno ci ascolta, se noi stessi, complici di questa mancata comunicazione, imbocchiamo quella strada che ci porta a tacitare l'anima, per poi offrirci, disarmati, alle sue profonde perturbazioni che neppure sappiamo più riconoscere e tantomeno nominare, se il silenzio intorno a noi e dentro di noi s'è fatto cupo e buio, apriamo un luogo di conoscenza, una terra amica, dove possiamo constatare che le «malattie dell'anima», prima che una faccenda medica o farmacologica, sono condizioni comuni dell'esistenza umana, che i poeti, prima e meglio degli psichiatri, sanno descrivere in tutta la loro abissalità.
Perché i poeti, come ci ricorda Heidegger, sono «i più arrischianti», i più vicini, quando non i più inoltrati negli scenari della follia, dove la condizione umana è descritta fino a quei limiti dove può estendersi e implorare ascolto, accoglienza, ri-conoscenza.
A partire da queste considerazioni propongo agli psichiatri (perché non racchiudano subito la follia nelle mura spesse e opache della malattia) e a tutti noi (per non cancellare fino a dimenticare del tutto le parole dell'anima) due importanti contributi della psichiatria fenomenologica. Uno di Eugenio Borgna Come in uno specchio oscuramente (Feltrinelli, pagg. 230, euro 16), l'altro di Bruno Callieri, Corpo, esistenze, mondi (Edizioni Universitarie Roma, pagg. 320, euro 25). Si tratta dei due maggiori psicopatologi italiani che dall'alto della loro biografia e pratica clinica si espongono in questi libri, raccontando per la prima volta i loro incontri con l'esperienza psicotica a cui si sono offerti, come ospiti ad un tempo stranieri e insieme compartecipi, a quei mondi che oscillano tra realtà e delirio, in uno spazio coartato dall´angoscia o dilatato nel buio senza confine e senza fondo della depressione malinconica, alla ricerca di un senso, dove anche le forme più sgangherate di follia, riflettono le aree tematiche raggiunte dai vertici della poesia, o segretate nelle pieghe della nostra anima di cui non abbiamo più cura.
Seguendo l'intuizione di Brentano, Eugenio Borgna legge la follia come «la sorella sfortunata della poesia». E perciò le esperienze di vita e di morte nelle considerazioni filosofiche di Simon Weil, la malinconia sfibrata e oscura di Emily Dickinson e di Ingeborg Bachmann che si fa musica in Franz Schubert, l'angoscia che soffoca e però trova parola in Georg Trakl ed espressione in Francis Bacon, il destino di dolore è scacco esistenziale di Van Gogh, nelle cui esperienze artistiche trova espressione l'angoscia psicotica, sono quello specchio dove, talvolta oscuramente, talvolta con toni abbaglianti, la condizione esistenziale di noi tutti trova un suo riflesso, una sua descrizione, che la psichiatria organicista trascura, mentre la psichiatria fenomenologica raccoglie per offrirla a chiunque voglia conoscere quanto è segretato nella propria anima, ma mai, per fortuna, definitivamente sepolto.
C'è infatti una creatività sempre incistata nella follia, c'è un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente abitiamo, c'è un desiderio di espandere orizzonti fino alla vertigine del senza-confine, c'è la perla della conchiglia, come vuole l'immagine di Jaspers là dove scrive che: «Lo spirito creativo dell'artista, pur condizionato dall'evolversi di una malattia, è al di là dell'opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell'opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita».
Proprio perché ascolta, invece di tacitare immediatamente il linguaggio della follia con il farmaco, Eugenio Borgna riesce a individuare e a descrivere nel suo libro le differenze tra le connotazioni maschili e femminili dell'anoressia nella sua immersione in un presente divorato dal desiderio narcisistico di un corpo «altro» da quello che si ha, i diversi modi maschili e femminili di vivere la tristezza vitale della depressione e di immaginare la morte volontaria come ultimo orizzonte di una speranza divenuta impossibile. E ancora, riconoscere i volti dell'angoscia nelle differenti risonanze maschili e femminili di vivere gli sconvolgimenti emozionali e le metamorfosi relazionali, dove, come in uno specchio è dato cogliere, oscuramente, quel che è in ciascuno di noi, perché ciascuno di noi, anche se non si accorge, è quotidianamente impegnato ad armonizzare le dissonanze tra il mondo della ragione e il mondo della follia che ci abita.
E a proposito di «mondi» Bruno Callieri descrive con la sensibilità del fenomenologo, da cui si tiene distante la psichiatria organicista, il mondo della vita che ha per soggetto l'esistenza con i suoi vissuti e non l'organismo a cui la pratica medica ha ridotto la nozione di «corpo». Infatti, quando in gioco è la sofferenza dell'esistenza, rapportarsi a un «apparato organico» come fa la medicina o a un «apparato psichico» come fa la psicologia è diverso dal rapportarsi fenomenologicamente a un corpo vivente che dispone di una sua esperienza e di un suo mondo.
Organicamente mi appariranno tensioni nervose e contrazioni muscolari, psicologicamente le dinamiche di quell'energia che Freud ha chiamato «libido», in nessuno dei due casi mi apparirà una successione di esperienze, perché sia l'apparato organico, sia l'apparato psichico sono senza mondo e senza quell'intenzionalità che si dispiega nel desiderio, nel timore, nella speranza e nella disperazione per le cose del mondo.
A questo punto, pensare di comprendere meglio l'esperienza di un corpo vivente che abita un mondo, scindendolo nell'impersonalità dei due sistemi, uno organico e uno psichico, che per definizione non hanno un mondo, perché sono costruiti sui modelli concettuali ricavati dalla fisica e dalla biologia, significa non rendersi conto di quanto sia assurdo tentare di comprendere persone con procedimenti di spersonalizzazione.
Se infatti la follia, come ci ricorda Bruno Callieri, è la scissione nell'uomo, la sua lontananza dagli altri, la sua estraneità al mondo, come si può pensare di guarire applicando una dottrina i cui principi sono l'esatta riproduzione delle componenti della follia? Come si può pensare di condurre all'unità dell'esistenza un uomo «a pezzi», servendosi di una dottrina che non ha mai conosciuto l'unità, ma sempre e solo la giustapposizione dei «pezzi»?
Se è vero, come dice Heidegger che «il linguaggio parla», termini come psico-fisico, psico-somatico, bio-psico-logico, psico-pato-logico, psico-sociale dicono che la psicologia non ha mai conosciuto l'unità dell'esistenza, ma solo la composizione delle parti che la scienza ha già consegnato ai vari sistemi. Il suo sforzo di ricostruzione, come ci ricorda Laing, assomiglia «allo sforzo disperato dello schizofrenico per ricomporre il suo io e il suo mondo disgregati».
Quando la psichiatria organicista presterà ascolto alla psichiatria fenomenologica e imparerà a conoscere le «diverse modalità» della sofferenza esistenziale che non ha organi specifici di riferimento? E soprattutto quando noi, tutti noi, presteremo attenzione all'urlo straziante del folle o al suo muto silenzio, dal momento che non possiamo ignorare che la sua disperazione solo per intensità e frequenza differisce dalla nostra? «Noi siamo un colloquio» diceva Hölderlin dall'abisso della sua follia, e allora incominciamo a parlare e ad ascoltare prima di tacitare o mentre attenuiamo l'urlo o il silenzio con un farmaco. Del resto già Kafka annotava che «scrivere una ricetta è facile, ma ascoltare la sofferenza è molto, molto più difficile».

Repubblica on line 12.2.07
Sono ormai 500.000 le unioni libere. E l'incidenza delle nascite all'interno di queste famiglie è del 15%, il doppio rispetto a 10 anni fa
Istat, aumentano le coppie di fatto e i figli nati fuori dal matrimonio


ROMA - In Italia le coppie di fatto sono in continuo aumento, un fenomeno al quale corrisponde una diminuzione dei matrimoni. Non solo: sono sempre di più le coppie di fatto che scelgono di avere dei figli. L'incidenza dei bambini nati al di fuori del matrimonio, attesta l'Istat nell'indagine 'Il matrimonio in Italia: un'istituzione in mutamento', è attualmente intorno al 15 per cento, cioè quasi 80.000 nati all'anno, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa, quando questo valore era pari all'8 per cento.
"Questo fenomeno - spiega l'Istat - va interpretato nel quadro più generale delle trasformazioni dei comportamenti familiari. Sono infatti sempre più numerose le coppie, ormai oltre 500.000, che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio".
Nel 2005 sono stati celebrati poco più di 250.000 matrimoni. Rapportato al '72 il numero presenta un vistosissimo calo: infatti in quell'anno ne vennero celebrati 419.000.
Oltre alla tendenza a vivere la vita di coppia senza contrarre matrimonio, si è rafforzata nel 2005 (anno di riferimento dell'indagine) la tendenza a posticipare l'età delle nozze per chi invece continua a fare questa scelta: attualmente infatti gli sposi alle prime nozze hanno un'età media che è intorno ai 32 anni e le spose quasi 30, quattro anni in più dell'età che avevano in media i genitori al primo matrimonio.

domenica 11 febbraio 2007

l'Unità 11.2.07
Cosa vuole davvero la Chiesa
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Laddove qualcuno dice “non possumus”, qualcun altro, grazie al cielo (è il caso di dirlo), pensa invece di “potere”: di avere margini d’intervento per promuovere garanzie e diritti. E per dare rilievo giuridico a ciò che nella società ha già rilievo fattuale (e, dunque, relazionale, culturale, economico: e morale). L’approvazione, da parte del consiglio dei ministri, del disegno di legge sulle coppie di fatto è un bel colpo di reni: non per l’attuale maggioranza, non per l’Ulivo; bensì, più in generale, per la politica. Che, come sovente accade, arriva con qualche (non trascurabile) ritardo, e che deve, ancora una volta, esercitare la difficile arte del “compromesso”. Un’arte che solo gli sprovveduti giudicano a priori svilente e chiamano, ahinoi, “inciucio” (parola, essa sì, indecente: per chi la utilizza). Il compromesso, proprio in questa circostanza, ritrova un suo coraggio e una sua dignità.
Il risultato di un faticoso percorso di mediazione è una norma su «Diritti e doveri dei conviventi» (Dico) che, se per alcuni aspetti potrebbe essere migliore (assai migliore), appare tuttavia positiva: non discriminatoria e commisurata alla realtà cui si applica. La realtà, soprattutto, dei rapporti di forza ideali e ideologici, prevalenti nella nostra società.
Certo, c’è un limite “preventivo” assai pesante: l’attribuzione esclusiva di diritti e facoltà al singolo individuo. Fare diversamente (ovvero assegnarli alla coppia di fatto) non avrebbe significato in alcun modo - contrariamente a quanto viene ossessivamente ripetuto - “equiparare” ogni tipo di convivenza al matrimonio (religioso o civile): e nemmeno istituire un matrimonio “di serie B”. Avrebbe significato, piuttosto, il riconoscimento di forme di convivenza non coincidenti con il matrimonio stesso e, tuttavia, degne di tutela pubblica.
In ogni caso, quella legge, se approvata, potrebbe colmare un vuoto legislativo: e offrire un quadro normativo chiaro a chi, finora, aveva vissuto una relazione - anche duratura, anche fondata su un rapporto affettivo o arricchita dalla nascita di figli - sprovvisto di tutte quelle garanzie, altrimenti riconosciute ai matrimoni civili e religiosi.
L’iter parlamentare non sarà probabilmente dei più facili; e ci vorrà onestà intellettuale e libertà di intelligenza e di spirito per trasformare l’iniziativa del governo in legge dello Stato. Ci vorrà anche un dibattito pubblico in cui le parti interessate comincino a parlare una lingua comprensibile, magari rinunciando a veti e interdizioni, per spiegare le ragioni che giustificano favore o contrarietà. Uno sforzo di chiarezza (una chiarezza che non sia, appunto, mera tentazione di comunica), lo attendiamo in primis dalla Chiesa cattolica: ovvero da parte di chi, più di ogni altro, interviene nell’arena politica per ostacolare l’approvazione di una legge in materia.
Cosa pensa davvero la Chiesa? Pensa che una eventuale norma costituirebbe un drammatico vulnus per l’istituto della famiglia. Seppure così fosse, da cosa discende questo vulnus? E in cosa si sostanzia? Ecco, qui ci arrestiamo e fatichiamo a comprendere. Benedetto XVI esprime «preoccupazione» per leggi che riguardano «l’identità della famiglia e il rispetto del matrimonio»; i vescovi sostengono che «i cosiddetti “Dico” appaiono destinati a produrre sul cruciale piano delle politiche sociali e di solidarietà problemi più gravi di quelli che si ci si ripromette di affrontare (...). Il testo normativo a proposito dei “diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi” (...) minaccia, infatti, di incidere pesantemente - per intenzioni palesi e per conseguenze prevedibili - sul futuro della nostra società nazionale sia dal punto di vista giuridico, sia a livello culturale e di costume sia, infine, nella concreta ricaduta sulla vita delle famiglie italiane». Perché? Per quale motivo? Sinceramente, non lo comprendiamo. E sarebbe meglio, per tutti, che venisse spiegato. È logico (e comunque comprensibile) che la Chiesa riconosca come sola forma familiare legittima, per un credente, quella fondata sul matrimonio religioso. Può apparire, questa, come una visione eccessivamente severa; o, al contrario, come un ancoraggio virtuoso e irrinunciabile ai valori fondanti della visione cristiana della società. Comunque la si intenda, la Chiesa ne risponde al suo popolo. Ciò che non è comprensibile, crediamo, è che quella stessa Chiesa interloquisca - attraverso le sue gerarchie - con lo Stato, le istituzioni e la politica con toni prossimi all’intimidazione etica.
Eppure, nel momento in cui il Vaticano vede nei Dico (uno strumento per sottrarre centinaia di migliaia di cittadini a una condizione diseguale) una sorta di attentato alla famiglia, non si rende conto di sminuire il valore religioso del matrimonio cattolico; che è esperienza radicalmente e irriducibilmente distinta da quella che può inquadrare, per diritto civile, ogni altra forma di convivenza. E che dunque, in virtù di questa sua unicità, non può ricevere dall’approvazione della legge sui Dico alcuna vera “aggressione”.
Non solo. Paradossalmente, il Vaticano finisce col mortificare, così, anche i valori di chi sceglie di sposarsi: perché sembra rivelare il timore che un istituto di convivenza civile renda obsoleto il matrimonio, garantendo ai contraenti una parte dei diritti sin qui previsti solo a seguito della celebrazione del rito religioso o di quello civile. Il ragionamento sotteso, insomma, è che buona parte dei cittadini e dei credenti che scelgono di sposarsi, lo fanno anche per interesse (per sentirsi più tutelati e protetti), oltre che per convinzione o credo. Cosa, va da sè, assolutamente legittima. Ciò che inquieta è la conclusione che ne trae la Chiesa: insomma, sarebbe conveniente mantenere il riconoscimento di diritti e garanzie solo per chi si sposa, così da prevedere una sorta di coazione al legame coniugale.
Infine, crediamo, il Vaticano non riesce ad accettare che lo Stato riconosca formalmente la convivenza di persone omosessuali; e che, riconoscendola, la normi in virtù di criteri di mero buon senso e civiltà. E qui si finisce, ancora una volta, per proiettare sul diritto pubblico quei giudizi che trovano giustificazione solo nell’idea del peccato; un'idea che può essere assunta a bussola morale dai credenti, non dalle istituzioni e dalla democrazia liberale.

l'Unità 11.2.07
Dove Osano i Cardinali
di Gianfranco Pasquino


Totalmente incuranti della qualità delle disposizioni contenute nel disegno di legge Bindi-Pollastrini, che sono assolutamente liberali e nient’affatto disgregatrici della famiglia classica, fondata sul matrimonio, non soltanto alcuni cardinali italiani e i loro ossequienti seguaci politici, ma lo stesso Papa, ritornano in campo con insistenza e con veemenza. Non argomentano, intimano e pretendono di dettare addirittura i comportamenti di voto dei parlamentari.
Altro che Tevere più stretto! Si tratta di una vera e propria inondazione che minaccia di lambire Montecitorio e Palazzo Madama.
È evidente che, al di là del merito specifico, che considerano irrilevante, del disegno di legge sul riconoscimento delle convivenze, la Curia romana e il suo Papa stanno perseguendo un disegno molto più ambizioso, decisamente politico e nient’affatto pastorale.
La premessa del grande disegno è stata rappresentata da quella che considerano, erroneamente, una loro grande vittoria nel referendum che voleva abolire la pessima legge sulla fecondazione assistita e sull’uso per ricerca delle cellule staminali, anche se interpretare l’astensionismo come segnale forte e inequivocabile di consenso appare una notevole forzatura della situazione. Poi, è venuto, direttamente dal Vicariato di Roma lo schiaffo a Piergiorgio Welby con il diniego, a fronte di una sua esplicita richiesta, di una cerimonia religiosa. Qui, il segnale era diretto, senza nessuna traccia né di pietas né di caritas, davvero urbi et orbi. Pressappoco così: «sappiano tutti che a nessuno che abbia chiesto e ottenuto di porre fine alle sue sofferenze in punto di morte verrà concesso un funerale religioso». Adesso, la battaglia è diventata campale poiché la Chiesa e il suo Papa saggiano la consistenza, l’ossequienza e la fedeltà delle loro divisioni (in senso belliche) politiche e parlamentari. Non soltanto al di là del Tevere qualcuno, grazie ai lunghi incontrastati anni di guida dei vescovi italiani ad opera del Cardinale Camillo Ruini, ha deciso che non è soltanto opportuno, ma addirittura doveroso, dettare le posizioni che tutti i cattolici, in special modo se “adulti”, dovrebbero seguire. La Chiesa Cattolica Romana ha stabilito che la sfida debba essere portata alla stessa laicità dello Stato italiano e che verrà condotta facendo leva sui politici a lei vicini (che, purtroppo, non sono soltanto quelli di “destra”).
Non potendo più fare affidamento su un partito che, in buona, ma mai totale o incondizionata, misura, sapeva svolgere la mediazione necessaria fra valori, come fu, salvo qualche sbandamento (vedi: divorzio) la Democrazia Cristiana (ma quelli erano altri politici e, forse, anche altri Papi...), la Chiesa ha deciso non soltanto di esaltare il suo ruolo pubblico, che nessuno negherebbe, anzi, nessuno in Italia ha mai negato, ma di fare politica in prima persona. Sono due attività alquanto diverse. Svolgere un ruolo pubblico significa partecipare a un dibattito portando argomenti e anche formulando proposte, nella consapevolezza che, alla fine, nei sistemi politici democratici, di quelle proposte decideranno coloro che sono stati eletti e che hanno la delega a scegliere interpretando un interesse generale, e che quegli argomenti verranno sottoposti a scrutinio anche per saggiarne la loro validità scientifica. Fare politica in prima persona, da parte della Chiesa, richiamandosi con durezza a non incontestabili princìpi religiosi e volendoli imporre non soltanto ai cattolici, ma a tutta la società è, invece, bisogna dirlo con estrema chiarezza, un segnale inequivocabile di fondamentalismo.
Giustamente combattuto nel resto del mondo, quando fa la sua comparsa nelle dichiarazioni e nei comportamenti di altre religioni organizzate, il fondamentalismo di Ruini e di Ratzinger merita uguale scrutinio e uguale contrasto. Non starò a dire che il contenimento del fondamentalismo cattolico è un servizio che i laici, credenti e no, fanno alla stessa Chiesa cattolica, poiché sono del tutto fedele al principio di (mia personale) non ingerenza. Valuti la Chiesa se le conviene, in termini di apostolato, di proselitismo, di difesa dei suoi princìpi, esporsi e interferire come sta facendo in Italia oggi. Valutino anche i parlamentari italiani, di destra e di sinistra. Quanto agli italiani, cittadini e politici, tocca a loro rivendicare e difendere l’autonomia della politica a servizio di una società aperta, più giusta, che vuole possibilità di scelta e non imposizioni, coesione sociale e non sottomissione.

Repubblica 11.2.07
Quei patti dimenticati tra Stato e chiesa
di Eugenio Scalfari


Nella giornata di ieri la Chiesa è passata al contrattacco, guidata dal Papa in persona a rinforzo del «non possumus» emanato dalla Conferenza episcopale. Benedetto XVI, con riferimento specifico ai temi della bioetica e al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulle convivenze di fatto, ha detto che c´è da pensare «che ci siano dei periodi in cui l´essere umano non esista veramente» Addirittura! Accenti simili non si erano più uditi da quando i bersaglieri di La Marmora entrarono dalla breccia di Porta Pia mettendo fine al potere elettorale e la nobiltà clericale chiuse i portoni dei suoi palazzi sconfessando la nascita dell´Italia unita e di Roma capitale.
Dev´essere accaduto qualche cosa di molto più grave a ferire la sensibilità e gli interessi della Chiesa del riconoscimento di alcuni diritti che regolarizzano le coppie di fatto ben più timidamente di quanto già non sia avvenuto in tutt´Europa, dalla Spagna all´Olanda e dalla Francia alla Germania. Che cosa è dunque accaduto?
È accaduto che quel cautissimo atto di governo, che porta la firma d´un premier cattolicissimo ed è stato redatto da un cattolicissimo ministro, ha posto un paletto al neo-temporalismo della Santa Sede, alle sue crescenti interferenze nella legislazione e addirittura nell´articolazione delle norme di legge che il Parlamento voterà nelle prossime settimane.
È accaduto che al «non possumus» dei vescovi italiani è stato opposto il «possumus» dei gruppi parlamentari del centrosinistra e in particolare dei parlamentari cattolici della Margherita, che hanno rivendicato la loro responsabile autonomia laica e – insieme – la loro costante appartenenza ai valori del cristianesimo.
Viene in mente il rifiuto di Alcide De Gasperi all´operazione Sturzo di stampo clerico-fascista, sponsorizzata da papa Pacelli e dai Comitati civici. Da allora il leader della Dc non fu più ricevuto, neppure in udienza privata, da Pio XII, il che non gli impedì di reggere le sorti del governo nazionale senza mai venir meno ai suoi sentimenti di appartenenza cattolica e ai suoi doveri verso il paese e verso la Costituzione.
Questo preoccupa Benedetto XVI e i vescovi italiani: che i cattolici democratici, messi con le spalle al muro dall´intransigenza ruiniana, abbiano rifiutato di essere passiva cinghia di trasmissione ponendo così un argine alla clericalizzazione delle istituzioni.
Non li preoccupa né Diliberto né Pecoraro Scanio né Rifondazione comunista, bensì i Franceschini, i Letta, le Bindi, gli Scoppola e, soprattutto, Romano Prodi che va a messa e frequenta i sacramenti tutte le domeniche. Si ritrovano - i vescovi - in compagnia del paganesimo berlusconiano con il rischio di un neo-temporalismo profumato alla cipria del Bagaglino anziché all´incenso delle basiliche.
* * *
Si dice - talvolta l´ho detto anch´io - che il potere politico è debole. Ha un pensiero debole. Inclina al compromesso. Si vorrebbe una politica che scelga senza se e senza ma. E poiché i se e i ma abbondano, se ne conclude che la politica non fa il dover suo e le si contrappone il deposito dei valori della religione, alimentati dall´intransigenza della fede.
Ma si è mai vista nella storia una politica senza compromessi? La politica si nutre di compromessi, procede per sintesi, non si ferma mai ad una tesi intransigente o ad un´intransigente antitesi, salvo in regimi di dittatura o, peggio, di totalitarismo.
I regimi liberali e ancor più quelli liberal-democratici amministrano organismi complessi, interessi plurimi e spesso contrapposti. Debbono pertanto rappresentarli tutti superandone i particolarismi, includendo e non escludendo, trovando il denominatore comune.
Il pensiero debole della politica coincide con compromessi deboli e privi di obiettivi forti. E in quei casi debbono essere vigorosamente criticati. La politica è l´arte del possibile, quindi del dialogo e dell´accordo al più alto livello possibile. Cavour voleva fare un grande Piemonte nel 1857 e si accordò con la Francia di Napoleone III. Poi l´obiettivo cambiò e divenne assai più ambizioso: volle fare l´Italia. Si alleò con Garibaldi, con Ricasoli, con Minghetti e con l´Inghilterra. Si sarebbe alleato anche col diavolo se fosse servito.
Quale politica non fa compromessi? Perfino Cesare li fece. Perfino Napoleone. Hitler no, non li fece. Voleva sterminare gli ebrei e li sterminò. Voleva conquistare tutta l´Europa e c´era quasi riuscito se non ci fosse stato Pearl Harbor e se Roosevelt non si fosse alleato con Stalin. Ma Hitler non era un politico, era un pazzo criminale. Antipolitico per eccellenza.
Anche la Chiesa ha fatto compromessi. Perfino con Hitler. Con Mussolini. Con Franco. Con Breznev. Con Jaruzelski. Con Gorbaciov. Tutte le volte che le è convenuto ha stipulato concordati. Non è forse un compromesso il concordato? Si patteggia, si dà e si prende.
La fede non fa compromessi. Ma la fede riguarda la coscienza individuale, non le organizzazioni che l´amministrano. La Chiesa e la sua gerarchia sono il corpo che riveste la fede. Talvolta il corpo esprime e realizza l´anima, talaltra la rinserra nei suoi corposi interessi mondani. Questo è sempre stato il rapporto tra la gerarchia dei presbiteri e la comunità dei fedeli. Lo scontro tra il modernismo e il Vaticano ebbe proprio questa motivazione. Finì con la persecuzione dei modernisti della quale c´è traccia evidente perfino nel Concordato del ‘29. Il cristianesimo diffuso dalla predicazione degli apostoli è la religione dell´amore. Ma non sempre.
* * *
È singolare che nel dibattito in corso tra il Vaticano e il governo italiano nessuno (salvo i radicali) abbia menzionato il Concordato. Come se non esistesse più. Come se fosse caduto in desuetudine. Come se non fosse stato recepito nella Costituzione del 1947.
Infatti è caduto in desuetudine. O meglio: sta in piedi soltanto a tutela dei benefici che ne riceve la Chiesa. I limiti che la Chiesa ha pattuito con lo Stato sono stati invece superati.
Il deputato Capezzone, tanto per dire, si è stupito l´altro ieri perché si aspettava che il governo protestasse con la Santa Sede per l´irritualità compiuta dalla Cei con l´irruzione palese e anticoncordataria compiuta nei confronti del potere legislativo, così come il governo aveva ritenuto irrituale l´intervento dei sei ambasciatori che ci invitavano perentoriamente a restare in Afghanistan senza se e senza ma.
Ha ragione Capezzone. Ma ha ragione anche il governo. Il Vaticano in Italia è infinitamente più forte degli ambasciatori dei sei paesi alleati. È più forte come potere temporale. Pretende di dirigere le coscienze dei fedeli anche - anzi soprattutto - quando rivestano cariche ministeriali o siano membri del Parlamento. Chiede, anzi pretende obbedienza.
Ho letto l´intervista di Rosy Bindi su Repubblica di ieri. Dice: «Abbiamo scritto una legge giusta che tutela i più deboli, riconosce diritti alle persone discriminate, non crea nessuna figura giuridica che possa attentare alla famiglia. L´insegnamento cattolico parla di valore della giustizia, di pace, di libertà personale, di accoglienza perfino dell´errore. Di carità e di misericordia... Un politico non deve sentirsi referente di nessuno. Il mio referente è il Paese e la mia coscienza cattolica».
Ebbene, questo è il punto che per i vescovi italiani ha l´effetto d´un panno rosso davanti a un toro infuriato: il fatto che il laicato cattolico democratico abbia come riferimento la Costituzione e la propria coscienza cattolica e sulla base di questi due riferimenti fondamentali arrivi a conclusioni difformi da quelle della gerarchia ecclesiastica. La considera una ribellione perché ha perso la nozione esatta della parola Ecclesia. Che non distingue tra presbiteri e fedeli. Ecclesia è la comunità cristiana, è comunione partecipata perché tutti prendono il corpo eucaristico del Cristo, tutti nello stesso momento e alla stessa mensa. La grazia non passa attraverso l´intermediazione dei presbiteri, ma il Signore la dispensa direttamente ai fedeli che credono in lui e da lui prescelti.
Il neo-temporalismo è il contrario di tutto ciò. Non a caso Paolo VI ritenne la fine del temporalismo «un fausto evento per la Chiesa». Ma in realtà a partire dal pontificato di papa Wojtyla fino ad oggi la Chiesa sta devitalizzando i contenuti più significativi del Concilio Vaticano II e i due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. L´ha scritto a chiare lettere Pietro Scoppola nel suo articolo di tre giorni fa su Repubblica.
Questo è il senso dell´operazione in corso, di cui il disegno di legge sulle convivenze non è che il pretesto.
* * *
Si dice che il pensiero laico sia debole. Capisco perché lo si dice: i laici (qui intesi come laici non credenti) non hanno né papi né cardinali né vescovi né preti. Ciascuno parla per sé e rappresenta solo se stesso. Per fortuna.
Non significa che un pensiero laico non esista e neppure che sia debole. Al contrario è forte, è lucido, è coerente alle sue premesse e nella sua dialettica con i clerici. Basta aver letto i più recenti prodotti di questo pensiero pubblicati questa settimana dal nostro giornale: l´articolo di Ezio Mauro e quello di Gustavo Zagrebelsky a proposito del "non possumus" episcopale.
I laici sono favorevoli allo spazio pubblico che spetta alla Chiesa, per ampio e crescente che sia, e ascoltano la sua parola con interesse traendone elementi di positiva riflessione e di rispettosa accoglienza quando ve ne siano, contestando elementi di intolleranza e tentazioni teocratiche che spesso, purtroppo, vi sono.
I laici non sono anticlericali, anche se l´episcopato italiano sta facendo il possibile per farceli diventare. Ma i laici hanno come solo punto di riferimento il patto costituzionale. Su quel patto si fonda la Repubblica italiana e in esso ciascuno trova le radici della sua identità.
Perciò mi stupisco molto di coloro che sarebbero pronti ad accettare i patti di convivenza purché limitati agli eterosessuali. La Costituzione vieta in modo esplicito che la legislazione possa introdurre norme discriminanti nei confronti dei cittadini per ragioni di etnia, di religione, di sesso. Un regime di convivenza che discriminasse gli omosessuali cadrebbe ovviamente sotto la scure della Corte costituzionale e, prima ancora, sotto quella del Capo dello Stato secondo i poteri e le modalità che gli sono attribuiti.
Quindi tutto è molto chiaro. I laici vogliono il rispetto della Costituzione e di conseguenza anche del Concordato. Qualcuno, prima o poi, chiederà alla Corte se il Concordato sia ancora in vigore o sia gravemente leso. E qualora lo fosse, quali siano gli strumenti atti a recuperarne il rispetto o a proclamarne la decadenza per doveroso recesso della parte lesa.


il manifesto 11.2.07
Giù le mani dalle foibe
di Enzo Collotti


I fatti ci hanno dato ragione. I timori che avevamo espresso fin da quando fu istituito il giorno del ricordo si sono puntualmente avverati. Anche dalle più alte cariche dello Stato si è sentito il dovere di enfatizzare una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, l'unica che possa servire ad elevare il nostro senso civile, ma che alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale. Per questo vogliamo ribadire quanto scrivevamo già due anni fa con la prima Giornata del Ricordo per onorare le vittime delle foibe.
Non era difficile prevedere che collocare la celebrazione a due settimane dal Giorno della Memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno l'unico denominatore comune di appartenere tutte all'esplosione sino allora inedita di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia. Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili la cosa più sorprendente è l'incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l'incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile e ambiguo pentitismo, non contribuisce - come fa il discorso del presidente Napolitano - a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.
La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia, di una regione italiana, senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell'italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell'italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando parliamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l'Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro paese.
Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d'Aosta) addirittura da prima dell'avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell'identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?
I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all'Italia il monopolio strategico ed economico dell'Adriatico. Che cosa sanno dell'occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d'Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?
Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria.
Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. Al singolo, vittima di eventi più grandi di lui, può anche non importare capire l'origine delle sue disgrazie; ma chi fa responsabilmente il mestiere di politico o anche più modestamente quello dell'educatore deve avere la consapevolezza dei messaggi che trasmette, deve sapere che cosa significa trasmettere un messaggio dimezzato, unilaterale. Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale (Msi) un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell'esodo per rinfocolare l'odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l'unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionalistico e della guerra fredda.
I profughi dall'Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell'Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci ha esortato Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa, Donzelli, 2005) bisogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell'Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall'Istria, ma l'Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornavano (i più fortunati) dai campi di concentramento - di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari - centinaia di migliaia - che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione?
La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d'Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.

venerdì 9 febbraio 2007

Repubblica 9.2.07
TUTTE LE MADRI DEL MEDITERRANEO
Una mostra sull'archeologia turca


Spicca una sculturina di diciannove centimetri, una divinità che ha molte gemelle nel mar Tirreno
Una "Camera delle Meraviglie" con pezzi molto antichi neolitici, assiri ed ittiti: sette millenni di storia
Pugliese Carratelli già trent´anni fa proponeva di cercare tracce "micenee" in Italia
Le teorie di Mommsen sull´incapacità degli Elleni antichi di navigare per mare
Tra i pezzi più interessanti c´è uno specchio usato da Solimano il Magnifico
La Chiesa di Roma ipotizzò che Maria sarebbe morta vicino alla città di Efeso

ROMA. «Una faccia, una razza!». Chissà se a dircelo per primi - a noi Italiani, almeno sei millenni fa - non sian stati proprio i Turchi? Certo a guardarsela per bene questa loro Dea Madre del IV millennio a. C. che apre la mostra "Turchia 7000 anni di civiltà", allestita da Louis Godart, al Quirinale, per festeggiare i 150 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Turchia, il sospetto viene: vien da pensare che a quel secolo e mezzo sancito dall´ufficialità, ne andrebbero aggiunti almeno altri 60 di secoli.
Seimila anni di preistoria e storie, un tempo comuni.
E una sculturina minima in calcare, questa Dea di Canhasan, 19 centimetri in tutto, e tutti inquartati nella posizione austera e accovacciata che i canoni di quell´epoca di fede le avevano affibbiato. Ha lasciato il suo Museo di Ankara per mostrare a noi e all´Europa di Bruxelles, quanto antiche siano la civiltà e la religiosità in Anatolia. E, ora, fa da pezzo forte a questa Wunderkammer tutta turca che chiuderà i battenti il 31 marzo prossimo dopo aver mostrato 46 reperti eccellenti, emblematici, scelti con cura, uno per uno da Godart, per rievocare le tappe fondamentali di quella civiltà (la mostra sarà poi allestita all´Archeologico di Napoli, ndr.).
Quindi: roba neolitica, e assira, e ittita; e sigilli (che fanno presupporre depositi e magazzini da tener sotto controllo); e scritture, appena nate; e i primissimi sistri di bronzo; e altri bronzi (che troveremo simili anche in Europa, ma molto dopo); e vasi lustrati ad arte, già nel III millennio a. C. Via via - accennando soltanto a Bisanzio - si arriva fino alle raffinatezze dell´Islam che lì affina l´arte nuova - ormai, senza più figure umane - fatta solo dei suoi caleidoscopici arabeschi simbolici. E gioielli, e boccali in cristalli di rocca, e Corani istoriati da non credere. C´è, in mostra, persino uno specchio - tutto giade, rubini, diamanti e turchesi - che era usato da Solimano, il Magnifico.
Lei, però, quella Dea Madre del IV millennio a. C., sembra saperla più lunga di tutti: viene da lontano, andrà lontano. Capelli raccolti dietro la nuca, occhi quasi a mandorla, faccia paffuta, un po´ tutta sovrappeso, come allora piaceva assai. Dimagrirà nel millennio successivo: si affilerà nel marmo bianco e nelle geometrie sacrali per unire - in un unico credo - il mare da Est a Ovest.
Del resto il suo compito era di tutto rispetto: opulenta prima, stilizzata poi, la Dea Madre in molte zone del Mediterraneo - in Turchia, nelle Cicladi, in Sardegna - doveva accompagnare nell´Aldilà il morto in modo che una volta arrivato laggiù, non si sentisse troppo solo e, soprattutto, non tornasse, per nostalgia, a disturbare i suoi cari.
Paciosa, morbida e tranquillizzante com´è, non si direbbe proprio che questa Nostra Signora dei Turchi sia arrivata qui da noi per seppellire definitivamente un dogma che - seppur datato alla metà dell´Ottocento - ha influenzato, ritardandoli, moltissimi ragionamenti archeologici del secolo appena finito.
Del resto a promulgarlo ex cathedra era stato nientemeno che Theodor Mommsen, e per di più l´aveva fatto nella sua Storia di Roma antica, dove - già nel II capitolo, come una premessa - sentenziò: «Indubbiamente le più antiche migrazioni di popoli avvennero tutte per via di terra, specialmente quelle verso l´Italia, le cui coste potevano essere raggiunte per mare solo da esperti naviganti ed erano quindi ancora al tempo di Omero perfettamente sconosciute agli Elleni».
Oggi si sa che non è così. Ma - con questa sua frase (che, però, sottende tutta l´opera del grande antichista tedesco) - il Mommsen riuscì a semplificarci il Passato Remoto: i riflettori e le attenzioni di molti antichisti, italici e ortodossi, puntarono tutto sulle Super Razze e si accoccolarono nello studio dell´autoctonia dei Popoli, mettendo al bando ogni comparativismo.
Nacquero persino le teorie del «hic et nunc», il «qui e ora» delle etnie: da studiarsi soltanto sul posto. Radici o migrazioni diventarono off limits per gli studiosi più seri. I racconti degli Antichi? Fiabe pazze da prender con le pinze.
Già il grande grecista Giovanni Pugliese Carratelli, aveva rischiato l´accusa di eresia quando, una trentina di anni fa, stimolò gli archeologhi affinché cercassero tracce «micenee» qui da noi, in Italia. Presto, però, la ricerca gli diede ragione: in Sicilia, a Ischia, in Sardegna, Puglia, persino in Veneto, saltarono fuori e riconosciuti reperti datati al XIII e XII secolo a. C. - proprio l´età raccontata da Omero - a legare strette strette le genti mediterranee e a fare assai più grande il mondo e il mare degli Antichi.
Eppure - e proprio grazie a quel dogma promulgato da Mommsen - in certi ambienti ci si continua ancor oggi a stupire se, di tanto in tanto, relitti di bastimenti del II millennio a. C. restituiscono merci dell´intero Mediterraneo.
Ora questa madonnina turca del IV millennio, quasi gemella alle sue coetanee neolitiche di Sardegna. A riguardarsela da vicino vicino - adesso che troneggia in vetrina, lì, al Quirinale - sembra materializzarci le antiche rotte di cui favoleggiarono i Sargon prima, gli Ittiti poi, con l´Anatolia a far da grande imbarcadero della civiltà: Terra Madre!
Solo che, ormai, nessuno se lo ricorda più: né al Museo di Ankara (dove normalmente questa statuina è esposta), né in quelli sardi, (dove sono in mostra le sue sorelle) e neppure all´Archeologico di Bruxelles (dov´è un´altra loro parente stretta, con la testa un po´ più sottile, trovata nelle Cicladi), vengono sottolineati questi loro gemellaggi transmarini.
Eppure l´ha sottolineato con scrupolo in catalogo, Godart: «Fin dal neolitico le scoperte e le conquiste culturali di cui le terre anatoliche sono state teatro hanno segnato profondamente la civiltà europea e, a sua volta, la civiltà occidentale ha plasmato in parte il volto della Turchia moderna». Figurarsi che, ormai, c´è chi - come Gray & Atkinson, su Nature del novembre 2003 - assicura che gli Indoeuropei proprio da lì siano partiti per regalarci lingue tutte apparentate, insieme ai semi giusti per l´agricoltura e ai cento segreti dell´allevamento.
Ed è una storia infinita quella nostra che s´intreccia con la loro.
A dare ai Greci quel che è dei Greci, ormai, ci siamo abituati. Spesso, poi, però, ci si dimentica di ricontrollare quanto la Grecia classica si sentisse debitrice con l´Anatolia, il paese dell´alba: l´altra metà del suo cielo. Omero? C´è chi ce lo giura mezzo turco. Esiodo, il teologo? Lo racconta lui stesso - proprio mentre sta costruendo un Pantheon agli Elleni - che suo padre era emigrato da Cuma eolica «non certo fuggendo gli agi, né la ricchezza e il benessere, ma la cattiva povertà che Zeus assegna ai mortali».
Per non parlare di Dioniso che - parola sua, ma grazie alla penna dell´Euripide di Baccanti - nel V secolo a C. si autocertifica così: «Mia patria è la Lidia». Tanto che Penteo, con cui il Dio della Vite sta dialogando, gli ribatte: «E com´è che vieni ora a portare questi riti nell´Ellade?». E son targati Turchia anche uomini che sembrano dèi - come Mida, e Creso - insieme a dèi che soffrono come uomini, come Prometeo. E Demetra/Madre Terra da dove ci arriva se non dalla Dea Madre di Ìatalh´y´k («Un pezzo che rimpiango: l´avrei voluto qui, in mostra» confessa Godart) che - datata VI millennio a. C., ritratta trionfante in trono mentre sta partorendo - si prende il primato delle divinità femminili mediterranee che via via si materializzeranno nell´elaboratissima Artemide di Efeso, pregata in mezzo mondo, fino su alla Marsiglia dei Focei, lupi di mare d´antan.
Roba vecchia? Cose turche? Solo turche?
Fino a un certo punto: dopo mille cautele la Chiesa di Roma, nel secolo scorso, decise che proprio in una casa a pochi chilometri dalla Efeso di Artemide, (ritrovata dagli archeologhi, grazie alle visioni di una mistica austriaca), sarebbe morta Maria, la madre di Gesù.
Nel 1967 Paolo VI si recò lì a pregare l´ultima nostra Dea Madre.

giovedì 8 febbraio 2007

Ansa.it 6.2.07
Editoria: Storia Anni 70 con Liberazione, non fu solo piombo

Una storia a fascicoli raccontata da chi l'ha vissuta per spiegare alle giovani generazioni che gli anni Settanta non furono solo ''anni di piombo'' ma anni di ''speranze e di allegria''. La raccontera' il quotidiano 'Liberazione' che a partire da giovedi' e per dodici settimane mandera' in edicola 12 fascicoli per raccontare il decennio che ha segnato una generazione intera. Un numero per ogni anno e due uscite sul '77, l'anno del Movimento e della 'fantasia al potere', ma anche quello in cui molti giovani fecero la scelta della lotta armata. L'iniziativa e' stata presentata oggi a Roma dal direttore del quotidiano Piero Sansonetti, da Ritanna Armeni, da Tano D'Amico, le cui foto illustrano il decennio, e da Oreste Scalzone, appena rientrato in Italia da uomo libero dopo che i reati per cui e' stato condannato a 16 anni di carcere sono caduti in prescrizione. L'obiettivo e' chiaro. ''Volevamo raccontare ai giovani di oggi - dice Sansonetti - che gli anni settanta non sono stati solo violenza. Raccontarli come anni di pura cupezza non solo e' sbagliato ma non ci serve a nulla''. ''Ci furono tante speranze, tanta allegria - aggiunge Tano D'Amico -lunghe storie d'amore e d'amicizia. E la cosa piu' triste e' che quei volti e quei sorrisi non esistono piu'''. Certo, aggiunge Sansonetti, ''c'era pure la violenza, ma era inserita in qualcosa di molto piu' grande. Siamo convinti che quel decennio e' stato ricchissimo di contenuti, anni in cui germogliarono idee ricchissime che hanno cambiato il nostro modo di vivere''. Negli anni Settanta, prosegue, ''nacquero infatti il femminismo, l'egualitarismo, l'ambientalismo. E siamo convinti che per affrontare le crisi politiche di oggi, italiane e occidentali, sia fondamentale correre a riprendere alcuni temi abbandonati proprio negli anni settanta''. (ANSA).

il Riformista 8.2.07
LETTERA. PRIMA LE IDEE, POI I PARTITI
Bene il dibattito, ma il punto è:
che cosa vuol dire socialismo oggi?
di Nerio Nesi

l’Unità 8.2.07
Mussi presenta la mozione «Perché dico no al Pd»
Il documento firmato anche da Salvi, Spini, Bandoli
e Nerozzi. Richiamo alla sinistra e al socialismo europeo
di Simone Collini


NON SI VA «OLTRE» IL SOCIALISMO con il Partito democratico: si va «fuori e indietro» rispetto alla tradizione socialista. Fabio Mussi riprende un’immagine a cui è recentemente ricorso Massimo D’Alema per spiegare il suo no a quella che giudica una «pura fusione tra Ds e Margherita». Il leader della sinistra diessina ha depositato ieri la mozione con cui si candida alla segreteria del partito. E poi l’ha presentata ai giornalisti a Montecitorio insieme agli altri primi firmatari: Cesare Salvi, Fulvia Bandoli, Valdo Spini e il segretario confederale della Cgil Paolo Nerozzi. Un’occasione per ribadire che mozione e candidatura per il congresso di aprile non sono «un atto di testimonianza»: «Andiamo per vincerlo, cioè per avere il consenso sufficiente per fermare il treno del Partito democratico». Perché se va in porto l’operazione a cui lavora la maggioranza dei Ds, il primo, immediato risultato è che scompaiono due immagini e due parole. «Le due immagini: la Quercia e la Rosa; le due parole: sinistra e socialismo». Ma soprattutto resta tutto da sciogliere il nodo della collocazione internazionale. Da qui il no a un partito che «nasce homeless, senza casa». E da qui la decisione di presentare agli iscritti una posizione «alternativa», che punta all’«unità» della coalizione e all’«autonomia» del partito, che vuole lavorare «per un rinnovamento profondo dei Ds» e per «un nuovo socialismo». Il tutto, sintetizzato nel titolo della mozione: «A sinistra per il socialismo europeo».
Il documento si apre sottolineando che «questo è il congresso che decide l’avvenire della sinistra italiana» e con la contrarietà «alla scomparsa in Italia, unico Paese europeo, di un grande partito socialista e di sinistra». Si parla poi del «rischio di una catastrofe ambientale», della necessità di sostituire alla pratica dello scontro di civiltà «il primato del diritto internazionale, la riforma e il rilancio dell’Onu», dell’Africa («nella nostra mozione c’è, in quella firmata da Veltroni no», dice con un sorriso il coordinatore organizzativo della mozione Gianni Zagato), dell’uso della forza «legittimo» solo nel rispetto della Carta dell’Onu e dell’articolo 11 della Costituzione, dell’«insostenibilità dell’attuale organizzazione dell’economia globale». Nelle 19 pagine di testo si parla anche della necessità per la sinistra, se vuole rappresentare il mondo del lavoro, di non essere «equidistante tra la Confindustria e i sindacati» e di lavorare per una «occupazione stabile, perché la lotta alla precarietà non può limitarsi agli ammortizzatori sociali, ma richiede una nuova normativa che rovesci la logica della legge 30». Si dedica un capitolo alla laicità dello Stato, «una conquista della democrazia repubblicana», «un principio non negoziabile», e uno alla riforma della politica, nel quale si dice aperta «una nuova e inquietante questione morale». Non mancano riferimenti a vicende più o meno recenti: «La separazione tra finanza, economia e politica deve essere netta e chiara, come non è accaduto nel caso Unipol», si dice in questo stesso capitolo, mentre in quello dedicato a «un futuro di pace» si parla anche della base di Vicenza: «Riteniamo si debba ascoltare l’opinione contraria delle popolazioni locali».
A firmare la mozione sono stati anche 36 parlamentari, tra nazionali ed europei, oltre ai primi cinque firmatari. «Non è vero che diciamo solo dei no» sottolinea Salvi parlando della necessità di unire forze di sinistra e movimenti. «Oggi il lavoro e senza rappresentanza», dice Nerozzi, mentre Spini rivolge un appello al leader dello Sdi Boselli a lavorare per rafforzare il socialismo europeo in Italia. Fulvia Bandoli accusa: «Mettere insieme due partiti poco democratici e autoreferenziali non può dar vita a un partito nuovo».
Mussi, a chi gli domanda se in caso di sconfitta si staccheranno dal partito, risponde dicendo che «si cammina un passo alla volta, ora andiamo al congresso per vincere». Di più parole, invece, quando gli viene chiesto un commento su Sofri, che alla presentazione della mozione di Fassino aveva definito «grottesca l’idea che Mussi o Salvi lascino i Ds»: «Io ho rispetto per lui ma la sua storia politica non giustifica questa alterigia. È andato fuori dal seminato quando ha lanciato l’anatema contro le minoranze dei Ds. Lui può fare le scelte che vuole, passare da Lc al Pd ma mi lasci stare, anche la mia è una scelta politica che merita rispetto».

l'Unità 8.2.07
La parlamentare: «È stato condannato, invitarlo alla presentazione della mozione Fassino è un vulnus ai giudici»
Sofri, la polemica di Olga D’Antona


«Nella giornata di ieri, in occasione della presentazione della mozione di maggioranza dei Ds, tra gli interlocutori chiamati a discutere con Piero Fassino, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, c’era anche Adriano Sofri». Parte dalla cronaca, Olga D’Antona, per lamentare il «vulnus» nei confronti della magistratura provocato dalla presenza l’altro ieri al Capranica dell’ex leader di Lotta continua. Dopo la presentazione dei fatti, la vedova del giuslavorista ucciso dalle Br nel ‘99 fa una premessa, e cioè che a volte ha apprezzato le cose che Sofri ha scritto e che «in considerazione del suo stato di salute» non ha mai manifestato contrarietà alla «concessione della grazia nei suoi confronti per motivi umanitari». E ci tiene anche a sottolineare, la deputata dell’Ulivo, che in passato non ha mostrato «particolare accanimento né spirito di vendetta verso chi, pur essendo stato autore di gravi atti di terrorismo, ha scontato la propria pena e ha mostrato segni di ravvedimento».
È a questo punto del testo, un’intera pagina scritta l’altra notte dopo aver avuto la conferma di quanto visto annunciato su giornali e manifesti, e cioè che effettivamente l’ex leader di Lotta continua era sul palco del Capranica con Fassino e gli altri, che l’esponente della sinistra Ds critica la scelta compiuta dai vertici del suo partito: «Non posso altresì fare a meno di rilevare che Adriano Sofri è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per l’omicidio di un servitore dello Stato e che non ha finito di scontare la sua pena. A questo punto mi chiedo perché il gruppo dirigente del mio partito, che è partito di governo, lo sceglie come interlocutore privilegiato». La vedova di Massimo D’Antona si chiede quale sia il «messaggio simbolico» di questa scelta, ma soprattutto fa un ragionamento di cui chiede conto ai vertici del suo partito. Perché le ipotesi sono solo due. La prima: «Se si ritiene che Sofri sia vittima di un errore giudiziario, in base ad elementi concreti, perché non chiedere la revisione del processo per scagionarlo e cercare i veri colpevoli?». La seconda: «Ma se invece è colpevole, come la magistratura ha ritenuto, chiedo ai dirigenti del mio partito, che hanno ricoperto e ricoprono importanti incarichi di governo (presidente e vicepresidente del Consiglio, ministro della Giustizia, ministro degli Esteri) se, in un Paese democratico, questo non rappresenti un vulnus nei rapporti con una delle più importanti istituzioni dello Stato, cioè nei confronti della magistratura, che ha emesso una sentenza definitiva, infliggendo una pena non ancora completamente scontata».
Parole che non si aspettavano al Botteghino, anche perché neanche il centrodestra aveva commentato in modo così aspro la presenza al Capranica di Sofri, che a dicembre ha avuto dal tribunale di sorveglianza di Firenze un nuovo differimento della pena per condizioni di salute «assolutamente incompatibili» con il regime carcerario.
A volere l’ex leader di Lotta continua alla presentazione della mozione è stato lo stesso Fassino, che nei giorni scorsi lo ha contattato personalmente. E non a caso sono due membri della segreteria molto vicini al leader Ds a difendere l’iniziativa. «Adriano Sofri è una personalità della cultura italiana, espressione anche di una visione globale dei problemi del mondo e di una tensione innovativa della politica e della sinistra», dice il coordinatore della segreteria Ds Maurizio Migliavacca dicendosi fiducioso che «come altre personalità della cultura sarà interessato alla costruzione del Partito democratico». Il responsabile Sapere e innovazione dei Ds Andrea Ranieri insiste invece sul fatto che la «scommessa» del Pd si basa sulla capacità di cambiare se stessi e di «far fronte ai grandi cambiamenti del mondo e dell’Italia», e che essendo Sofri «una testimonianza di capacità di cambiamento», la sua presenza è stata una scelta opportuna.
s.c.

l'Unità 8.2.07
Bertinotti cerca un leader vero. Ma in Italia per ora non lo vede
Estasiato dal tour sudamericano, ieri l’incontro con Lula. «Si riescono a fare cose per i poveri a Bahia impossibili a Palermo»
di Natalia Lombardo


UN LEADER carismatico, con idee forti e uno stretto rapporto con il popolo, tale da fondare un partito di massa che non pensi solo alla governabilità: ecco, un leader così Fausto Bertinotti non sembra vederlo nell’orizzonte europeo, tanto meno in quello italiano. Potrebbe essercene uno “imprevisto in futuro”. Nelle vicinanze per ora vede solo chi l’ha ricevuto nel Palazzo presidenziale Plan Alto a Brasilia: Lula, il “presidente operaio” che è stato rieletto nel 2006 con 58 milioni di voti e temi essenziali come “il diritto a mangiare”. “Viva Lula, un protagonista della storia mondiale”, lo definisce Bertinotti dopo l’incontro, nel quale hanno parlato di cooperazione con l’Europa, dove Lula verrà presto, e dell’integrazione fra i paesi dell’America Latina.
Un incontro cordiale, forse più formale che in altre occasioni, per un rapporto nato dal passato di capi sindacali negli anni 70, dalla Flm a Torino alla Fiat di Bel Horizonte in Brasile, fino a quel dialogo a distanza quando, nel 2002, l’allora segretario di Rifondazione era al Social Forum di Porto Alegre e, collegato in video da Davos, Luiz Inacio da Silva sbattè sul tavolo Usa i diritti dei poveri in Brasile.
Molto colpito dal “rinascimento” dell’America Latina, nel suo viaggio istituzionale e nel sociale, l’ex leader di Rifondazione ha ritrovato il filo della partecipazione col quale “i soggetti politici precedono l’esperienza di governo”. Un filo spezzato in Italia, è un pensiero non detto del tutto dal presidente della Camera, a cui preme “ripensare la politica in termini sociali”. Ma non basta. Guarda altre esperienze: il colpo d’ala l’hanno dato leader carismatici come Lula, o il venezuelano Chavez (che dovrebbe incontrare in un secondo tour a primavera in Venezuela, Bolivia, Cuba), così come “il colpo di scena” di Mitterrand a Epinay, nel suo discorso sul Partito socialista francese.
Bertinotti così rivaluta la necessità di un leader che “in America Latina è diventato un fattore fondamentale”. Sorpassa la contraddizione con la sua storia con una punta di autoironia, citando Woody Allen: “A volte mi vengono pensieri che non condivido”. Della leadership in Italia “non parlo neppure sotto tortura”, si schermisce restando nei panni istituzionali. “Il leader non dev’essere necessariamente quello di ieri, ma può esserlo domani. Ci sono leader imprevisti, costruiti giorno per giorno. Non sono senza volto, potrebbero avere anche nomi antichi.”. Gli esempi ci sono: da “Lula tessitore” delle forze di sinistra nel Pt e poi del sindacato unitario del Cut ora mediatore coi paesi sudamericani considerati più radicali (distinzione che Bertinotti rifiuta), fino a Mitterrand, o al Frente Ampio uruguayano. Non entra nella trappola dello specifico italiano però non assegna a nessuno, neppure a Prodi, il ruolo di “leader maximo”. Veleggia nella “cultura politica” indicando un modello ampio, calzante sia per il suo partito che per la Sinistra europea o per l’Unione. Insomma, per ora un Lula italiano non c’è, potrebbe nascere “con un carisma relativo, da una congiuntura di necessità”. Nessun nome. Anzi, riviene a galla la collegialità della figura del sub comandante Marcos (al quale rese visita da segretario di Rifondazione, ovviamente più movimentista): “In teoria….siete tutti candidabili”, dice come battuta ai giornalisti nel patio della comunità Axe a Salvador de Bahia, altro esempio di partecipazione e solidarietà.
Solidarietà che in America Latina dà i suoi frutti, recupera i minori alla collettività creativa, emancipa chi vive nell’Alagados, le palafitte malsane di Bahia, ad una più dignitosa abitazione, lavoro della ciellina comunità Ribeira Azul, l’aiuto della Banca Mondiale e del governo locale. “Perché queste cose si possono fare in Sudamerica e non al quartiere Zen di Palermo?” si chiede Bertinotti. Qui “i soggetti politici precedono l’esperienza di governo”. Nella paludata e vecchia Europa, invece, “la politica negli ultimi venti anni è stata vissuta solo nella chiave della governabilità”, piegando a questa anche le riforme istituzionali.
Certo “governare non è un pranzo di gala” e chi è al potere perde (tranne Blair comunque in calo), la prova del fallimento è la bocciatura della Costituzione europea da parte della Francia. Il segno di un divario dei governi “che faticano a realizzare una politica col consenso di popolo”. Insomma, la sinistra in Europa esca dai Palazzi e torni nel sociale. “persino Sarkozy si è accorto che deve puntare sul lavoro”, e persino il populismo alla Chavez non è da gettare nel cestino.
Del “rinascimento” in Sudamerica, sarà difficile trovare germogli in Europa, Bertinotti immagina, o forse sogna, un partito di massa che raccolga varie esperienze “la semplificazione non è lo sterminio dei partiti, con un sistema elettorale alla tedesca. Insomma, in Italia non va bene niente, la sinistra si svegli. Il leader? Lui o un sub comandante Marcos?

Il Giornale 8.2.07
La psiche è donna parola di Sigmund
di Angelo Ascoli


C’è Anna, la figlia, e se è vero che la psicanalisi ha fatto esplodere la famiglia, smascherandone delitti e misteri, smontandone i meccanismi senza spesso più riuscire a rimontarli, è anche vero che non ci sarebbe stata la psicanalisi se la famiglia non fosse già saltata in aria a contatto con la modernità. Ed è logico che dalla famiglia Freud trasse i modelli delle sue intenzioni e nella famiglia trovò la linfa per il suo lavoro: «La sua stirpe proseguì attraverso la più giovane delle sue figlie, la vergine vestale Anna, che divenne la guardiana del tempio della psicoanalisi e della parola del padre. “Sant’Anna”. Anna, la santa pulzella che, in quella che definisce un’“altruistica resa”, rinuncia a se stessa per dedicarsi a Freud e alla sua eredità».
C’è Lou Andreas-Salomé, «donna straordinaria», di «pericolosa intelligenza»: quando arriva a Vienna, nel 1912, ha già 51 anni, non è più la meravigliosa, fresca forza della natura la cui vita, prima di incrociare quella di Freud, aveva attraversato i destini di Nietzsche e di Rilke, di Wedekind e di Schnitzler, ma è comunque una delle donne più affascinanti d’Europa, il prototipo del moderno femminino, e non è un caso che per i 25 anni successivi diventi discepola e musa, ispiratrice e seguace, figlia e madre della psicanalisi, dimostrando quelle origini femminili della rivoluzione freudiana che ne costituirono subito la vera forza dirompente.
C’è Marie Bonaparte, pronipote dell’unico Napoleone, moglie di Giorgio di Grecia, zia del Filippo di Edimburgo che tutt’oggi siede sul gradino più basso del trono d’Inghilterra: soprannominata «Freud a dit», fu il ministro degli Esteri della psicoanalisi in Francia e si autoproclamò depositaria del verbo al punto da scomunicare Jacques Lacan, e scusate se è poco; di fronte a lei, Freud si considerò sempre «un piccolo-borghese». Grafomane, eccessiva negli entusiasmi e negli amori sebbene fosse assillata da un’eterna frigidità, Marie, a 42 anni, lesse l’Introduzione alla psicoanalisi e scoprì in Freud un altro padre, forse l’unica figura che nella sua mente potesse competere con l’ingombrante fantasma del grande antenato e che desse un senso, una missione alla sua vita dispersa tra salotti e amanti.
Ci sono Anna, Lou, Marie e tante altre donne, e senza di loro probabilmente il destino di Freud non sarebbe stato lo stesso. Perché è nel rapporto tra il padre e le figlie, tra la gigantesca figura di Sigmund, nello stesso tempo Edipo che ha ucciso il padre e Cronos che divora i figli; è nel tormentato, a volte drammatico, sempre ricchissimo legame che Freud ebbe con le donne, con il femminino che, come prima nessun altro, aiutò a liberarsi da millenni di tabù e di menzogne, e da cui trasse la forza per liberare le sue intuizioni e le sue verità, che viene analizzato l’universo di Sigmund Freud e le sue donne (La Tartaruga, pagg. 524, euro 17,50) che Lisa Appignanesi e John Forrester riescono a dire qualcosa di più sulla grande rivoluzione dell’inizio del Novecento.
Anna, Lou, Marie, e poi Sabina Spielrein, la donna «per cui Jung nel 1906 decise di scrivere a Freud, inaugurando così un rapporto triangolare che sarebbe stato determinante per entrambi i colleghi nonché per la storia della psicoanalisi». E ancora Loe Kann, una delle tante pazienti donne di Sigmund, con in più il fatto che fosse la moglie di Ernest Jones, colui il quale per primo fece conoscere la nuova scienza in Inghilterra. E ancora, Helene Deutsch, una delle prime psicanaliste, icona del femminismo del Novecento, eppure anche lei figlia e discepola del gran misogino. E poi Alix Strachey e Joan Riviére, ambasciatrici di Freud in Inghilterra; Hilda Doolittle e Melanie Klein, donne famose e altre sconosciute, uno sterminato universo femminile che ruota intorno al sole di Sigmund, e ci sarà un motivo se «negli ultimi decenni di vita, Freud allacciò rapporti di amicizia soprattutto con le donne».
Forse perché erano loro le più pronte e le più bisognose di sposare una rivoluzione culturale che aprì la strada al terremoto sociale e mentale che ha spazzato via la famiglia tradizionale, lasciando solo macerie ogni giorno più fragili. O forse perché, ambasciatrice e portatrice di una modernità in cui l’occidente non riesce a fermare (o non vuole) la sua ineluttabile femminilizzazione, è nelle donne che la psicoanalisi e il suo padre trovarono la loro origine e il loro destino.

Liberazione 8.2.07
Washington (Rice) e Vaticano (Ruini) vogliono silurare il governo Prodi
di Rina Gagliardi


Offensiva convergente delle due ”Grandi Potenze”. Condoleeza non gradisce la politica estera dell’Italia e non si accontenta di Vicenza
L’ambasciatore Usa insolentisce D’Alema. Monsignor Ruini, con toni da Pio IX, pretende la testa dell’ex-amico Prodi che considera un traditore

Il disegno è chiaro e passa per un patto di ferro tra due grandi poteri: il Vaticano e il governo americano. Per capirci: Sua eminenza il cardinale Camillo Ruini e Condoleeza Rice faranno di tutto, da qui ai prossimi due mesi, per far cadere il governo Prodi. Al quale, ad ogni modo, hanno già palesemente “dichiarato guerra”. Questa “informazione” o, se preferite, questa tesi circola da vari giorni nei palazzi della politica - una sorta di allarmato tam tam, sostenuto da figure diverse e tutte credibili, cioè nient’affatto dedite alla fantapolitica e per nulla afflitte dalla sindrome del “Grande Complotto”. E dunque? Dunque, noi non possiamo garantirvi che si tratti di una notizia certa, o di una verità politica dimostrata. Non dubitiamo invece della sua credibilità. Proviamo perciò ad analizzarla attraverso le cronache di queste giornate, e qualche spunto di riflessione.

Politica estera. Che stia calando il grande freddo tra Italia e Stati Uniti d’America, e che nel mirino di Washington sia finito soprattutto il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, è ormai sotto gli occhi di tutti. I tempi del “bye bye Condy” sembrano appartenere ad un’atra stagione, quando il governo americano è sembrato incassare con relativo fair play il ritiro dall’Iraq e l’iniziativa sul Libano: due scelte che certo non sono mai particolarmente piaciute all’amministrazione di Washington, ma che forse, lì per lì, sono state considerate lo “scotto” necessario da pagare al nuovo governo appena insediato, e all’affermazione di una strategia almeno dotata dell’apparenza del multilateralismo. Via via, nel corso dei mesi, la politica estera italiana ha assunto agli occhi nordamericani un pericoloso e crescente livello di autonomia, sia per il suo marcato europeismo, sia per la sua porzione “filoaraba”, sia, anche, per quella che sin da luglio è stata percepita come una scelta di disimpegno (di disimpegno militare) dal fronte afghano. Non è certo un caso che Prodi non abbia a tutt’oggi messo in calendario, come è tradizione dei presidenti del Consiglio italiani, un viaggio nella capitale americana. Per quanto nessuno possa mettere in dubbio la sua collocazione, o i suoi sentimenti, occidentali, anzi occidentalissimi, per quanto egli abbia deciso di autorità il raddoppio della base Usa di Vicenza, Prodi resta per gli americani un politico di profilo europeo. Un leader poco affidabile. Un alleato che ha in testa più gli accordi con la Cina che non la realizzazione di un rapporto di fedele soggezione agli Stati Uniti. Non è da escludere che, avvertendo attorno a se questo clima di sfiducia, il nostro premier abbia deciso, sul Dal Molin, di compiere un vero e proprio “gesto di ubbidienza”, coartando una parte importante della sua coalizione proprio allo scopo di rassicurare il segretario di Stato e di guadagnarsi un gallone di affidabilità. Ma in tutta evidenza a Condoleeza Rice questo gesto non è bastato: pochi giorni dopo, la risposta è stata la lettera a “Repubblica”dei sei ambasciatori amici degli Usa, una interferenza sulla sovranità nazionale italiana così smaccata e pesante da non avere precedenti.

A sua volta, la replica del ministro degli Esteri non ha molti precedenti, per la sua secchezza e per il suo tono: D’Alema, forse, sa che si sono esauriti tutti i margini del bon ton. Gli Stati Uniti pretendono non il semplice rifinanziamento della missione italiana a Kabul, non una nuda e cruda conferma, ma il suo congruo rafforzamento, in vista della annunciata offensiva di primavera dei taliban e in vista di una guerra nella quale si giocano la loro residua credibilità. La partita, come si capisce, è tutta politica - ma anche molto simbolica. E quello che Washington pensa di D’Alema l’ha detto a chiare lettere, ieri sul “Corriere della Sera”, l’ex ambasciatore Secchia: ha detto che D’Alema è un uomo che «non capisce dove sono i suoi amici», che è segnato dalla sua storia nella sinistra radicale, che «se fosse per lui oggi ci sarebbe ancora l’Unione Sovietica». Quando mai un ex diplomatico, peraltro molto vicino al presidente Bush, ha parlato con tanta violenza di un membro eminente del governo di un paese amico?
“I Pacs”. Anche questo è un fronte più che pubblico. Le autorità vaticane hanno da settimane scatenato non una campagna, ma una crociata, contro la moderatissima proposta sulle unioni civili prospettata con una mozione alla Camera. Ci si sono messi tutti, dalle prediche domenicali di Ratzinger, ai cardinali con gli incubi di Satana. Fino al “non possumus” del giornale dei vescovi, che ha il sinistro sapore del sillabo di Pio IX e del peggior clericalismo neotemporalistico: come se avesse senso oggi dettare allo Stato italiano le leggi che può fare e quelle che non può fare. Dunque, i pacs, se così si può dire, sono anche un cavallo ruffiano, uno strumento, un pretesto: il cardinal Ruini, che gestisce in toto la politica della chiesa cattolica, mira in realtà a sgambettare il governo Prodi e l’Unione, ai suoi occhi così zeppi di laicisti e di comunisti. E’ noto che Sua eminenza, tanto legato a Prodi d’aver celebrato il suo matrimonio, considerò la sua discesa in campo, nel ’96, a capo di uno schieramento di centrosinistra, un vero e proprio tradimento. Che abbia deciso di fargliela pagare, anche sul piano personale? Mancano solo tre mesi al pensionamento del cardinale e alla nomina del nuovo presidente della Cei (si dice, speriamo sia vero, che sarà più pastore e meno intrigante). Il tempo stringe, perciò sale a mille la pressione sui politici e parlamentari cattolici, perciò i teodem alzano i toni, anzi strillano, come hanno fatto ieri, annunciando il loro “non possumus”, che va dai pacs alla messa in discussione del testamento biologico.
“Conclusione provvisoria”. La cronaca quotidiana forse non conferma il sospetto del Grande Complotto, ma di sicuro accredita l’inasprimento dell’offensiva vaticana e nordamericana contro il governo dell’Unione. Un’aggressività che si produce in contemporanea e che sfrutta tutte le contraddizioni che sono già presenti nella coalizione e concorre a produrne di nuove. Una coincidenza? Forse. Quel che è sicuro, è che sembra essere tornati ai tempi dell’ambasciatrice Luce e del pontificato di Pio XII e che, oltreoceano e oltretevere, si vorrebbe terremotare il quadro politico ben oltre le speranze e le volontà dello stesso Berlusconi (una crisi di governo in tempi rapidi, magari nuove elezioni, non convengono oggi al Cavaliere: metterebbero comunque in pole position il suo ex alleato Casini). Invece, logorare l’Unione, anzi frantumarla e seppellirla, cacciare Prodi e D’Alema, andare ad un anno e mezzo o due di governo neocentrista, riformare la legge elettorale nel senso indicato dai referendari, ovvero nel senso di recidere per la sinistra radicale e per Rifondazione comunista ogni vera possibilità di rappresentanza, inaugurare, insomma, la terza Repubblica: ecco il programma che, chissà, Camillo può avere spiegato a Condy, e che comunque va realizzato ora, non tra un anno. Non passerà, ne siamo sicuri. Ma, se il cardinale ce lo consente, è davvero diabolico.