mercoledì 14 febbraio 2007

l’Unità 14.2.07
La sottile linea rossa spezzata dalle spranghe
di Enrico Fierro


TRENT’ANNI FA l’aggressione a Luciano Lama durante un comizio all’Università di Roma. Quattro testimoni raccontano il 17 febbraio 1977 dalla parte di chi tirava le pietre e da quella di chi, invece, le pietre le prese in faccia

Quel giorno è un giorno di quelli che vorresti cancellare dai ricordi. Anche dopo trent’anni. Perché quel 17 febbraio 1977, in Piazza della Minerva, a San Lorenzo, cuore popolare e irrequieto di Roma, morì un’idea e nacque un mostro.
Ore 10 del mattino. Cielo gonfio. Area plumbea. Università occupata dai tetri «autonomi» e dagli irriverenti «indiani metropolitani». L’attacco al cuore dello Stato (che è «borghese» e come tale si abbatte ma non si cambia) e una irritante creatività: in mezzo una marea di giovani. Ragazzi e ragazze, molti fuorisede, moltissimi provenienti dal Sud. Soldi pochi, idee tante, furori e speranze giovanili. Il Pci non è più all’opposizione ma è ancora «un partito di lotta», che però sta al governo. Nel senso che sostiene l’esecutivo guidato da Giulio Andreotti ma non ha ministri.
Da giorni San Lorenzo è in fiamme. A via Dei Volsci si progetta la rivoluzione armata. Dentro l’Università okkupata (con la K, come Kossiga che è il ministro dell’Interno) non entra nessuno.
Le indiscrezioni dell’epoca, che diventano cronaca e poi inevitabilmente storia, ci dicono che fu il rettore Ruberti a chiedere l’intervento dei sindacati e del Partito comunista. Invito accolto. Ci furono riunioni, anche riservate, infine la decisione: entriamo all’Università. E con Luciano Lama, il grande leader del Sindacato. Uomo popolarissimo, tra i capi della Resistenza, leader vero in un tempo in cui i leader non li nominava la tv.
Il segretario della Cgil arriva scortato da un robusto servizio d’ordine di lavoratori. Nei cortili dell’Università - nei pressi dell’Istituto di Chimica - gli «indiani» hanno preparato un finto comizio con un pupazzo che raffigura Lama. Volano sberleffi. Si ride. Ancora per poco. Lama è in piedi su un «Dodge rosso», il mitico camion che ha accompagnato tutte le manifestazioni di Pci e Cgil da Porta San Paolo a San Giovanni. «Cari compagni e care compagne. Studenti...». Volano fischi. Palloncini pieni di vernice rossa. Sputi. Spintoni. Bulloni. Mani giovani impugnano chiavi inglesi. Mani ruvide di lavoratori aste di bandiere.
Testimonianza di un ragazzo che c’era, ed era dall’altra parte del «Dodge» a tirare pietre, conservata nello sterminato archivio del web: «Della giornata in cui Lama fu cacciato dall’università io ho un ricordo molto brutto. Mi é rimasta nella mente un’immagine: un compagno del movimento che durante il fuggi-fuggi del servizio d’ordine del Pci aveva in mano un martello e ha cominciato a rincorrere uno di quelli del servizio d’ordine del Pci, poi si è fermato, è tornato indietro, si è messo a piangere e si è abbracciato con dei compagni. È stato un momento di psicosi collettiva... ».
Testimonianza di chi invece le pietre le prese in faccia. Esterino Montino, oggi è senatore della Repubblica. «Quel 17 febbraio avevo 29 anni ed ero un giovane consigliere regionale del Pci. Allora la Federazione romana era diretta da Paolo Ciofi, Luigi Petroselli era il segretario regionale. Ho un ricordo terribile di quella giornata. Sì, fummo cacciati dall’università. Io che venivo dalle lotte operaie ero diventato la controparte, il nemico. Certo, fu giusto organizzare quella manifestazione con Lama, dovevamo riaffermare il diritto ad una università aperta a tutti. Ma non capimmo, nessuno di noi all’epoca capì che si era rotto qualcosa tra noi, il Pci, e una parte importante della gioventù italiana. Quelli che fischiavano in Piazza della Minerva non erano solo autonomi. Ma erano ragazzi che nel ’75 e nel ’76 ci avevano fatto vincere. Ci avevano dato una forza straordinaria e quel giorno ci isolavano. Più ci avvicinavamo ad un percorso istituzionale, più ci allontanavamo da loro. No, quel giorno a lanciare pietre e a scontrarsi con operai, impiegati, insegnanti, non c’erano solo autonomi già sulla sottile linea di confine col terrorismo, ma giovani, con le loro idee, le loro speranze, e soprattutto il loro malessere. La verità è che non capimmo...».
Non solo futuri brigatisti in piazza quel giorno, ma anche gruppi della sinistra estrema (extraparlamentare si diceva allora). Critici in modo duro verso il Pci, ma destinati «a fare da cuscinetto tra i sindacati e gli autonomi». Frase di Silvio Di Francia, oggi assessore alla Cultura nella giunta Veltroni, ieri dentro Lotta continua e i Collettivi universitari. «Quel 17 febbraio lo ricordo come il giorno dell’amarezza. In molti gestirono quell’evento con una mentalità militare. Rioccupare l’università, resistere, cacciare i comunisti. Questi erano i termini della questione. Fin dalla sera prima avevamo cercato di convincere il Pci e la Cgil a non fare quella manifestazione con Lama. Cercammo di evitare lo scontro ma fummo tutti travolti. La sera, poi, arrivarono i blindati di Cossiga e il Pci, dal canto suo, scatenò la caccia all’uomo. Senza capire che c’era una profonda differenza tra la parte creativa del movimento - sempre in polemica con quelli di autonomia - e l’ala militarista. Insomma, volevamo fare il nostro Sessantotto e finì male. Eravamo una generazione fragile. Il ’77 fu l’anno della modernità rotta, ci fu la lunga stagione del terrorismo, poi il riflusso, gli anni Ottanta e il craxismo, ma quell’anno nacque qualcosa a Roma che aprì una speranza. L’estate romana, il cinema a Massenzio...».
E i giornali? Come raccontarono quel giorno? «I giornali - ricorda Sergio Criscuoli, nel ’77 cronista de l’Unità, oggi caporedattore del Tg3 al servizio esteri -, soprattutto quelli di sinistra, si divisero». Sergio è quel signore dalla barba ben curata che per anni ha letto la rassegna stampa notturna al Tg3. Gli leggiamo due titoli di prima pagina. Repubblica: «La rabbia studentesca esplode all’Università», occhiello, «Il comizio di Lama scatena gravi incidenti tra gli autonomi e i comunisti». L’Unità (allora «organo»): «Ferma condanna dell’aggressione squadristica di Roma», occhiello, «L’ignobile attacco contro la manifestazione del sindacato e degli studenti».
«Guarda che riscriverei quel pezzo uguale. Perché quel giorno era un po’ tutto annunciato, il copione era già scritto, da una parte e dall’altra. Gli autonomi volevano attaccare Lama, il servizio d’ordine del Pci e del sindacato sapeva bene di affrontare una situazione pesante, ma non poteva fare diversamente. Si trattava di esercitare un diritto. La verità è che gli autonomi volevano creare una frattura tra studenti e mondo del lavoro. Come raccontai quella giornata? Adottando la tecnica dell’alberello...».
Prego? «Ma sì, mi misi dietro un albero per ripararmi e per poter osservare meglio la scena. Sapevo che sarebbe scoppiato l’inferno. E fu un pugno nello stomaco, la conferma della deriva militare ed extralegale di una parte del movimento. Lo scontro di piazza serviva come momento catalizzatore per quelle forze che si stavano organizzando per la lotta armata. Il linguaggio dei pezzi dell’Unità non era appropriato, ma per difetto, non certo per eccesso. Perché era difficile non sentire dietro le cose che vedevi (la gente armata e non solo di spranghe ma anche di pistole) il sapore dello squadrismo, che non era fascista, ma ne mutuava i metodi. Nel pomeriggio ero fuori dalla Sapienza con altri colleghi, gli autonomi erano dentro e sparavano, le pallottole ci fischiavano sulla testa. Ricordo le lunghe discussioni con Silvana Mazzocchi e con Carlo Rivolta. Ne abbiamo parlato per anni, ci siamo divisi, anche in modo doloroso. C’era chi, come noi, vedeva in quella giornata una prova generale di guerra civile, e chi credeva che il movimento potesse essere l’antidoto al dilagare della violenza terroristica. Ferite che si sono trascinate per anni...».
17 febbraio 1997, il giorno in cui due mondi non seppero parlarsi. Nella loro incomunicabilità si perse una generazione divorata dal mostro del terrorismo.

l’Unità 14.2.07
ARCHIVI Un articolo di Laura Ingrao che, quel giorno, era in piazza Minerva insieme agli studenti
Che rabbia vedere quei ragazzi contro i ragazzi
di Laura Ingrao


Questo resoconto «di prima mano» di Laura Ingrao uscì su Paese Sera, ed è stato ripubblicato da Chiara Ingrao nel suo libro Soltanto una vita (Baldini Castoldi Dalai).

Tutto è stato raccontato; più o meno è sotto come lo avete raccontato. Ma quando ci si ritrova in mezzo, tutto sembra ancora più incredibile, assurdo, ha le dimensioni di uno strano giocare in cui ci può scappare il morto e il morto puoi essere anche tu. Tutti quei lunghi bastoni, mattoni, pezzi di marmo che volavano letteralmente, diretti all’impazzata contro un raggruppamento vasto e cordiale di ragazzi e ragazze, di sindacalisti, di giovani e meno giovani, appariva come qualche cosa di così totalmente assurdo che stravolgeva ogni tuo concetto, formatosi attraverso anni di esperienza tue e degli altri, di «scontro di piazza». Era d’altronde evidente che i due o trecento «armati» costituivano un gruppo con una tecnica non improvvisata, carica di un compito prestabilito di «scontro fisico», diretto in modo preciso a offendere, ferire, possibilmente mortificare una qualsiasi espressione di democrazia organizzata, a scompigliare perciò, una «manifestazione», sentita in sé e per sé come qualcosa di odioso, qualcosa da distruggere nel suo scarno rituale, fatto di un palco, di un microfono, di un discorso, di gente che ascolta. I ragazzi (solo studenti?) che con spranghe, coltelli, sampietrini, legni usati come dardi e vernici aggredivano la forte e composta presenza intorno, a Lama e ai sindacati, recitavano, in forma quasi allucinante, una loro «battaglia di strada»: strana battaglia tra inermi convenuti per «non battersi» e squadre impegnate in scorribande feroci. Faceva rabbia ritirarsi, ma faceva anche rabbia pensare di poter essere colpiti da quegli assurdi «nemici». Nemici di chi? Nemici di tutto evidentemente.(...)
Forse di ognuno di quei ragazzi come gli altri, giubbotti, sciarpe, capelli corti o lunghi, berretti di lana colorata e jeans, in quei ragazzi che obiettivamente si muovevano come se davanti a loro non ci fossero studenti e operai ma «nemici da distruggere», forse in ciascuno di quei ragazzi di cui Pasolini parlava con profetica angoscia, si nasconde una disperazione, una esperienza già maturata di esclusione da «tutto»?.
Forse. Ma sono egualmente figli della soffocante periferia romana, pendolari del Sud, studenti, lavoratori sottocosto o candidati disoccupati anche quegli altri che non hanno cercato lo scontro fisico e più tardi vedo stravolti, furibondi, le ragazze che piangono umiliate, le ragazze e i ragazzi che, disciplinatamente, non hanno portato con sé neppure una chiave inglese in saccoccia, che sono lì, davanti ai giornali e alla vicina Federazione comunista, a discutere, a riflettere, a pensare al domani.
Scrivo nel pomeriggio di questo orrendo giovedì grasso, in cui, tra l’altro, gli occupanti avevano giorni fa programmato di fare «una festa». So che a questa festa dovevano andare studenti e studentesse anche delle medie a cantare canzoni e a beffare tutti, a chiudersi per qualche ora in quella «coperta di Linus» che è per tanti lo stare insieme in uno spazio tutto loro (o che immaginano tutto loro). Ma a quest’ora l’università di Roma è già stata sgomberata e il telegiornale ne porta le immagini tristissime di ogni operazione del genere, insieme alle ambigue mezze verità della ricostruzione dei fatti. Quel che ho visto questa mattina mi fa pensare con amarezza estrema ai colleghi insegnanti ammazzati a Piazza della Loggia, durante una assemblea sindacale; ed è tristissimo. Sono insegnante da molti anni: se sono stata stamattina all’Università; se a 50 anni suonati ho «fatto» il 68, è perché, in qualche modo, come si dice, «sono tutti miei figli». Ho cercato di capirli, ma soprattutto di fare la strada con loro, imparare da loro: da quelli che hanno le famiglie repressive e noiose, da quelli che cambiano pelle e la fanno cambiare. Mi è molto difficile oggi, per non dire impossibile, capire dal di dentro quel che è successo.

l’Unità 14.2.07
Vaticano. Storiche Ingerenze
di Vittorio Emiliani


Siamo un Paese a laicità limitata? In effetti, la presenza del papa a Roma ha sempre condizionato in modo assai più stringente che altrove la politica interna, anche più che nella (una volta) cattolicissima Spagna. Nei giorni scorsi si sono spesso rievocati il «Non possumus» e il «Non expedit» (1874) papali che tanto a lungo hanno tenuto lontani i cattolici dall'impegno democratico.
E li hanno tenuti lontani proprio nei decenni di costruzione dello Stato unitario. Oppure si è rievocata la continua commistione fra fede e politica praticata da papa Pacelli dopo la nascita della Repubblica italiana. Per concludere che non c'è molto di nuovo in tal senso sotto il sole di Roma.
Certo, erano anni che non sentivamo così pressante, quotidiano, martellante l'intervento vaticano nelle vicende di casa nostra. Troppo facile rispondere a questo allarme che la Chiesa cattolica ha sempre agito così, andando, anche in tempi recenti, ben al di là della riconosciuta libertà di richiamare i fedeli ai principii fondamentali della fede. Fu così, certamente, durante il papato di Pio XII che, ossessionato, fin dagli anni del primo dopoguerra in cui era stato Nunzio in Germania, dall'incombente pericoloso «rosso», concorse potentemente ad alzare con tutte le forze del collateralismo cattolico la «diga al comunismo». Facilitato in ciò anche dalla sciagurata scelta (più di Nenni che di Togliatti, in verità) del Fronte Popolare con un'unica lista. Il papa divenne quindi uno dei protagonisti del trionfo democristiano del 18 aprile 1948, assieme alle parrocchie (ragazzino, ricordo bene i cappellani e i parroci direttamente impegnati in campagna elettorale), ai Comitati civici, all'Azione cattolica, alla Fuci, alla Coldiretti e alla Dc naturalmente. La quale tuttavia era nata come «partito dei cattolici» (e non cattolico), quindi con un impianto laico, e svolse anche allora, con Alcide De Gasperi, un ruolo fondamentale, oggi ampiamente riconosciuto, di mediazione politica a tutto campo. Quando infatti, nel 1952, il Vaticano pretese, purtroppo con un don Luigi Sturzo invecchiato e lontano dalle impostazioni originarie, di piegare la Dc ad un listone con la destra neofascista alle comunali di Roma, la risposta del partito fu negativa e la diede lo stesso De Gasperi. Il quale, del resto, già nel '48, pur avendo la maggioranza assoluta dei seggi in uno dei due rami del Parlamento, volle dare vita a governi di coalizione coi tre partiti laici, Psdi, Pri e Pli.
Gli anni '50 furono anni difficili per il laicismo in Italia, la presenza della Chiesa era capillare e spesso arcaica, la censura cinematografica e teatrale era occhiuta, a volte asfissiante, socialisti e comunisti risultavano ancora scomunicati, nell'agosto del 1956 il vescovo di Prato, monsignor Pietro Fiordelli, bollò in una lettera pubblica al parroco due fedeli uniti soltanto civilmente come «pubblici peccatori e concubini» escludendoli dai riti e dai sacramenti. Fu uno scandalo clamoroso. Ma ve ne fu un altro all'incontrario allorché su querela dello sposo, Mauro Bellandi, il vescovo pratese venne condannato, sia pure ad una ammenda di 40.000 lire, e vi fu chi ne prese le difese, fra cui il Corriere della Sera. Eppure la Dc coltivava da qualche anno un dialogo coi socialisti preparando la cosiddetta «apertura a sinistra». Al Congresso del Psi di Venezia del 1957 si verificò un fatto del tutto insolito e inatteso: il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Roncalli, rivolse infatti ai congressisti un manifesto di saluto che stupì. Poco tempo prima egli aveva duramente condannato una possibile intesa veneta fra Dc e Psi provocando la fine del giornale democristiano che l'aveva sostenuta, Il Popolo del Veneto. Era un primo segnale di apertura al dialogo quel manifesto? Lo era. Tant'è che Roma intervenne subito perché il patriarca ritrattasse. Come avvenne.
Del resto, ancora nel 1959, il gesuita padre Antonio Messineo sosteneva su Civiltà cattolica che l'apertura a sinistra «urta contro un preciso e insuperabile divieto della morale», ammissibile soltanto come «scelta del male minore per evitare il male maggiore». Da escludersi però in caso di accordo col Psi, partito di tradizione, oltre tutto, orgogliosamente laica. Come ben sottolinea Giuseppe Tamburrano nel suo volume su Cronaca e storia del centrosinistra (BUR, 1990), il coro della stampa cattolica - oltre che di quella confindustriale - contro possibili intese fra Dc e Psi era presso che unanime e lo stesso papa Giovanni XXIII, almeno prima del 1960, nei primi due anni di pontificato, «ruppe con l'indirizzo pacelliano (...) con molta prudenza e direi lentezza». Mentre le gerarchie si mantenevano del tutto allineate alle vecchie posizioni, a cominciare dallo stesso «amletico cardinale Montini» (la definizione, privata, è dello stesso Roncalli) il quale, in materia, fu molto reciso nel ribadire la sua conformità «ai ripetuti avvertimenti della sede apostolica». La strategia di Giovanni XXIII mutò in modo netto con l'enciclica «Mater et Magistra» in cui ai cattolici venne riconosciuta una concreta autonomia in politica e con la susseguente «Pacem in terris», enciclica sociale, economica, definita «keynesiana» dagli osservatori anglosassoni. L'apertura del Concilio Vaticano II esigeva, del resto, la rivalutazione del ruolo pastorale della Chiesa e dei suoi vescovi. E tuttavia la parte più conservatrice delle gerarchie si espresse in modo pesante (il cardinale Ottaviani parlò di «vergognoso baratto») quando la Dc decise l'alleanza coi socialisti. Ma al timone c'era Aldo Moro il quale poteva assicurare all'interno e all'esterno che «l'autonomia è la nostra assunzione di responsabilità (...) morale e politica».
Il cammino di quel primo centrosinistra sarebbe stato fecondo e insieme assai travagliato, col drammatico luglio 1964, dove peraltro la Chiesa non ebbe ruolo primario, lo ebbero le forze economiche tese ad indebolire (come accadde) il riformismo del centrosinistra, in materia di politica economica e di urbanistica. Con un sindacato, la Cgil, che, dal lato opposto, all'epoca respingeva la proposta del ministro socialista Antonio Giolitti di «moderare» al 12 per cento le rivendicazioni salariali. Certo, la Chiesa non poteva vedere con favore la riforma sanitaria che potenziava e modernizzava strutture pubbliche subalterne da secoli alla rete privata e quindi anche religiosa. Analogo discorso valeva per la scuola pubblica rispetto a quella confessionale. Fu tuttavia il finanziamento statale, preteso dalle forze cattoliche per le scuole materne, per lo più religiose, a creare «l'incidente» sul quale si ebbe la tormentata e decisiva crisi di governo del 1964.
Durante il pontificato di Paolo VI, papa problematico, inquieto, colto, le occasioni di grave frizione furono date soprattutto dalla legislazione sulla famiglia e in particolare dalla legge sul divorzio proposta da un liberale, Antonio Baslini, e da un socialista, Loris Fortuna, quest'ultimo anche con tessera radicale, sospinti più dalla pubblica opinione che dai partiti (radicali a parte). Essa passò in Parlamento nel dicembre del 1970 fra polemiche molto accese. La Democrazia Cristiana pensò a lungo di poterla modificare agitando lo spauracchio del referendum abrogativo e anzi gettandolo più volte sul tavolo delle trattative sia per il governo che per la presidenza della Repubblica. Il Pci temeva il referendum, allarmato da una irreversibile rottura dei rapporto coi cattolici. Poi, quando Amintore Fanfani, sospinto dalle gerarchie ecclesiastiche (con più di una crepa, era contrario, ad esempio, il cardinale Pellegrino, arcivescovo di Torino), si gettò nella mischia, la sinistra fu unita, insieme alle forze laiche, radicali, dello stesso dichiarato e coraggioso dissenso cattolico, nel sostenere le ragioni del NO. Che ebbero dagli italiani un sostegno inaspettatamente forte e deciso. In età avanzata Fanfani, col quale ebbi occasione di numerosi incontri privati, manifestò scetticismo e anche ironia su quella sua scelta di campo referendaria.
L'altro momento di ingerenza diretta del papato nella vita politica italiana fu certamente quello del voto parlamentare e poi del referendum sulla legge per l'interruzione di maternità. Giovanni Paolo II, di cui si tendono a sfumare certi aspetti sessuofobi e misogini (quasi che Benedetto XVI sia piovuto da altri mondi), apparve con la solennità delle grandi occasioni, impugnando il pastorale, dalla loggia centrale di San Pietro per invocare una pronuncia popolare contro la legislazione sull'aborto. Invano anche stavolta, perché italiane e italiani convalidarono a grande maggioranza quella civile, sofferta legislazione.
Quindi, gli atteggiamenti di questi giorni di papa Ratzinger, dei cardinali, dei vescovi non rappresentano una grande novità, purtroppo, sotto il sole di Roma. Rappresentano il segno di una continuità in comportamenti lontani dall'evolversi della società e in conseguenti, palesi ingerenze nella vita politica italiana. Nella cui scena manca, purtroppo, il «partito dei cattolici», con la sua natura laica, con la sua cultura della autonomia nella responsabilità, mentre gli altri partiti sono presenze indebolite, o caricature di partiti come Forza Italia il cui leader, divorziato e risposato, «difende i valori della famiglia» in senso cattolico. Probabilmente al plurale.
E Casini guarda soltanto all'immediato, alla possibilità di far cadere sui Dico il governo Prodi, senza la vista lunga di Moro e di altri. Tutto si gioca nel contingente, nel brevissimo periodo, mentre la Chiesa si arrocca a difesa della unicità dei matrimonii religiosi che quest'anno nella stessa Roma, di cui è vicario il pontefice, sono calati del 20 per cento. Pensare di frenare o, addirittura, di fermare questa crisi profonda e lontana entrando, o rientrando, pesantemente in politica non sembra per niente saggio. È possibile che crei, per reazione, una ripresa di consapevolezza dei valori laici dello Stato democratico moderno. Non se ne può più di vivere in uno Stato a laicità, e quindi a sovranità, limitata.

Repubblica 14.2.07
Se la Chiesa sfida la Costituzione
di Stefano Rodotà


È ormai evidente che le gerarchie ecclesiastiche hanno deciso di collocare i loro interventi e le loro iniziative in una dimensione che va ben al di là del legittimo esercizio della libertà d´espressione e dell´altrettanto legittimo esercizio del loro magistero. Giudicano i nostri tempi con una drammaticità che fa loro concludere che solo una presenza diretta, non tanto nella società, ma nella sfera propriamente politica, può rendere possibile il raggiungimento dei loro obiettivi. E così espongono anche i loro comportamenti ad un giudizio analogo a quello che dev´essere pronunciato sull´azione di qualsiasi soggetto politico.
Benedetto XVI ha affermato in modo perentorio che «nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto con il diritto naturale». Ed ha aggiunto che non si possono ignorare «norme inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore o dal consenso degli Stati, ma precedono la legge umana e per questo non ammettono deroghe da parte di nessuno». Di rincalzo, il Presidente della Commissione Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, da almeno dieci anni protagonista indiscusso del corso politico della Chiesa, ha annunciato una nota ufficiale con la quale verrà indicato il modo in cui i cattolici, e i parlamentari in primo luogo, dovranno comportarsi di fronte al disegno di legge sui "diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi", i cosiddetti "Dico". Così, in un colpo solo, viene aperto un conflitto con il Governo, affermata la sovranità limitata del Parlamento, azzerata la Costituzione.
Le parole sono chiare. Se nessuna legge può sovvertire la norma indicata dal Creatore per la famiglia, la legittima approvazione del disegno di legge sui Dico diviene un atto "sovversivo" del Governo. Se i parlamentari cattolici devono votare secondo le indicazioni della Chiesa, viene cancellata la norma costituzionale che prevede la loro libertà da ogni "vincolo di mandato" e l´autonomia e la sovranità del Parlamento devono cedere di fronte ad istruzioni provenienti da autorità esterne. Se non sono ammesse leggi che non corrispondono al diritto naturale, la tavola dei valori non è più quella che si ritrova nella Costituzione, ma quella indicata da una legge naturale i cui contenuti sono definiti esclusivamente dalla Chiesa.
Il crescendo dei toni e delle iniziative, nell´ultimo periodo soprattutto, rendevano prevedibile questa conclusione, peraltro annunciata dal "Non possumus" proclamato qualche giorno fa. Viene così clamorosamente confermata l´analisi che aveva colto nella linea della Chiesa l´intento di realizzare molto di più di un provvisorio allineamento della politica su una particolare posizione definita dalle gerarchie ecclesiastiche, di cui i parlamentari cattolici divenivano il braccio secolare. L´obiettivo era ed è assai più ambizioso: una vera "revisione costituzionale", volta a sostituire il patto tra i cittadini fondato sulla Costituzione repubblicana con un vincolo derivante dalla gerarchia di valori fissata una volta per tutte dalla Chiesa attraverso una sua versione autoritaria del diritto naturale (non dimentichiamo, infatti, che il diritto naturale conosce anche molte altre versioni, comprese quelle che non prevedono proprio la famiglia tra le istituzioni discendenti da tale diritto). Viene così travolto anche l´articolo 7 della Costituzione che, disciplinando i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, stabilisce che questi due enti sono, "ciascuno nel proprio ordine", "indipendenti e sovrani". Nel momento in cui la Chiesa proclama che vi sono "norme inderogabili e cogenti" che non possono essere affidate alla volontà del legislatore, nega in queste materie l´autonomia e l´indipendenza dello Stato e sostituisce la propria sovranità a quella delle istituzioni pubbliche. Il patto costituzionale tra Chiesa e Stato viene infranto, quasi denunciato unilateralmente.
Questo è il quadro istituzionale e politico disegnato con assoluta nettezza dai molti interventi vaticani. Un quadro di rotture e di conflitti, davvero sovversivo delle regole costituzionali, con una delegittimazione a tutto campo delle iniziative di Governo e Parlamento che trasgrediscano ciò che la Chiesa, unilateralmente, stabilisce come "inderogabile e cogente". Sapranno le istituzioni dello Stato rendersi conto di quel che sta accadendo? Non devono ritrovare solo l´orgoglio della propria funzione, ma il senso profondo della loro missione, la stessa loro ragion d´essere, che ne fa il luogo di tutti i cittadini, credenti e non credenti, comunque liberi e degni d´essere rispettati in ogni loro convinzione, e in ogni caso fedeli, come devono essere, alla Costituzione e ai suoi valori.

Repubblica 14.2.07
Bertinotti difende il sindacato "Unità di popolo contro le Br"
di Silvio Buzzanca


ROMA - Il sindacato è stato determinate nella lotta per sconfiggere il terrorismo degli Anni 70. E oggi, come allora, serva l´unità di tutte le forze per battere le rinate Brigate Rosse. Fausto Bertinotti, all´ora di cena e dagli schermi del Tg1, spezza una lancia a favore della Cgil, bersagliata per tutta la giornata dalla Cdl con l´accusa più o meno esplicita di connivenza con i terroristi. Accusa accompagnata con quella a Rifondazione e ai partiti della sinistra radicale di creare con le loro lotte un clima adatto all´attività dei brigatisti. A cominciare dalla prossima manifestazione di Vicenza.
Parole gravi, tanto che il presidente della Camera sente il bisogno di ricordare come negli Anni di Piombo «il sindacato ha avuto forse il compito più difficile nella lotta al terrorismo, quello di prosciugare l´acqua in cui nuotavano i terroristi. Lo ha fatto con grande coraggio e grande determinazione». Un ragionamento che il presidente della Camera conclude con un invito alla «mobilitazione delle coscienze contro il terrorismo e per bandire la violenza» e a ricreare la stessa «unità di popolo che fu decisiva per sconfiggere il terrorismo».
Parole che sembrano un tentativo di ricondurre a ragione un dibattito molto aspro. Soprattutto a destra. Nonostante Franco Giordano, segretario di Rifondazione, assicuri: «La nostra condanna del terrorismo è netta. Considero assolutamente indebito ogni collegamento tra gli arresti e la manifestazione di Vicenza, che sarà grande, libera e democratica». Ma la polemica non si placa. Per il momento si salva Prodi che dall´India si limita a congratularsi con magistrati e investigatori, dice che è stato dato «un colpo duro, spero anzi letale » alle Br. E alla domanda sul link fra gli arresti e Vicenza, risponde: «Questi gruppi sono stati presi; quindi basta. Questa è una grande soddisfazione».
In Italia invece la Cdl attacca. Prima La Loggia e la Bertolini lamentano che dall´Unione non è arrivata la solidarietà al "bersaglio" Berlusconi. Quando arriva da parte di Veltroni, Lusetti e altri, il tiro si sposta sulla criminalizzazione del Cavaliere come fattore scatenante del possibile attentato. Lainati rievoca un discorso di Angius che replica piccato. Po tocca al coordinatore Bondi che dice: «La sinistra estrema parla ancora il linguaggio della lotta totale a vari livelli con un´intensità per cui la violazione della legge e l´assassinio politico possono diventare l´atto più coerente e definitivo».
Nel tritacarne entra la Cgil. «La novità rispetto al passato è che le nuove Br oggi hanno solidi riferimenti nella Cgil ed in alcuni partiti della sinistra», azzarda Ronconi, Udc. Nel migliore dei casi si gira intorno al tema. «Non vorremmo che si sottovalutasse il grado di infiltrazione nella Cgil», dice il segretario del Pri Nucara. Nel peggiore, Gasparri, dice che «la sinistra esalta i cattivi maestri e arma nuovi alunni». E alla fine si arriva a Vietti, Udc, che spiega: «Chi soffia sul fuoco del conflitto sociale deve porsi responsabilmente anche il problema degli effetti destabilizzanti che ne possono derivare». Ma l´Unione respinge al mittente sia l´attacco alla Cgil, sia la criminalizzazione del dissenso. «I tentativi di strumentalizzazione messi in atto da alcuni rappresentanti della Cdl sono davvero incredibili e squallidi», dice Alfonso Pecoraro Scanio. Anna Finocchiaro replica alla Cdl che «la storia ha già sconfitto da molto tempo l´equazione secondo cui la sinistra sia produttrice delle Br». E Dario Franceschini aggiunge: «Non facciamo confusione, non si può fare nessun collegamento anche con le frange più estremiste del panorama politico italiano».

Repubblica 14.2.07
"C´è solo il disprezzo assoluto"
Foa: rivivo stagioni del passato, odio i brigatisti di ieri e di oggi
Ma per il padre nobile della sinistra, ex leader Fiom, il disagio sociale non va criminalizzato
di Goffredo De Marchis


ROMA - Vittorio Foa è nella sua casa di Formia. Ha 97 anni, ne ha vissuti otto nelle carceri fasciste, altri in Parlamento, altri ancora dietro una cattedra universitaria. È il padre nobile della sinistra al quale si rivolgono i leader per raccontare ai ragazzi la storia con una presenza, una faccia che ha attraversato tutto il secolo scorso. E infatti esordisce: «Sono troppo vecchio per l´attualità». Ma ha ascoltato i telegiornali, attraverso i resoconti dei giornali ha potuto ricostruire la mappa di queste nuove Brigate rosse: ex terroristi, sindacalisti, operai. Anche giovani, incredibilmente attratti da un mostro ormai vecchio di trent´anni. «Davvero non so da dove cominciare - sospira, ma sempre con quel tono vigoroso, da ex leader del sindacato - . Odiavo i brigatisti di allora e odio quelli di oggi». È stato nella Fiom nell´immediato dopoguerra, nel ‘55 ne è diventato segretario nazionale. Oggi la sigla dei metalmeccanici della Cgil è in prima pagina perché molti degli arrestati vengono da lì, da quel gruppo. È vero che lui ha sempre cercato di focalizzare anche «il disagio sociale, un disagio che non va criminalizzato». Ma la recrudescenza che emerge dagli atti dell´inchiesta davvero fatica a incasellarla in una categoria di analisi. «Guardi, non credo ci sia molto da ragionare su questo fenomeno. Non ha senso. Per le persone coinvolte posso avere solamente parole di dis-prez-zo. Disprezzo assoluto», scandisce al telefono.
Odiare chi odia. Disprezzare chi è pronto ad accendere la violenza nel nome di «una periferia sociale e culturale» che certo esiste. Già otto anni fa, dopo l´omicidio di Massimo D´Antona, non aveva fatto sconti. «Forse anche nel sindacato - disse Foa, che nello stesso sindacato aveva trascorso una parte della sua lunga vita - occorrerebbero maggiore chiarezza e maggiore durezza». E poi la scoperta di tanti volti giovanissimi: 23 anni, 27 anni... Allora il suo appello aveva come obiettivo proprio le nuove generazioni: «Occupiamoci meno dei vecchi e più dei giovani. Sono in pericolo, dobbiamo metterli in guardia». Certo, oggi sono gruppi sparuti mentre «negli anni ‘70 - è il ricordo del padre nobile della sinistra - il linguaggio della follia era generalizzato». Il che non significa che la follia non si avverta nelle intercettazioni della nuova ondata brigatista. «È un´eco», ammette Foa.
Quando l´ex Prima linea Sergio Segio aveva lanciato l´allarme sulle infiltrazioni terroristiche nel movimento e nel sindacalismo di base, Foa aveva respinto l´accusa, difeso la maturità della sinistra. «Le ambiguità rimangono, ma questa no - disse nel 2003 - . Quello che vedo è una destra pronta a strumentalizzare le lotte sindacali. Mi sembra però una reazione fisiologica». Oggi confermerebbe quel giudizio? Non c´è tempo per chiederglielo. Perché il blitz di lunedì lo ha colto di sorpresa: pedinamenti, prove di fuoco, armi nascoste nell´orto, una lista di bersagli. Non pensava che avrebbe rivisto questo film tragico. «È un effetto perverso della vecchiaia: rivivere stagioni che sembravano superate - spiega dalla casa di Formia -. Adesso voglio saperne di più, ma non credo che ci sia molto da capire. Ripeto: non ha senso. E per chi ha messo in piedi tutto questo io provo solo disprezzo».

Repubblica 14.2.07
Intervista con Giovanni Reale
Così Ratzinger è più uomo che teologo
Non si ama solo un corpo ma la bellezza della sua anima
di Luciana Sica


Papa Ratzinger ha smesso i panni dell´intellettuale astratto, del teologo sofisticato, per proporsi come uomo, interamente calato nell´essenza dell´uomo che è la sua capacità d´amare e di essere amato. Questa è l´opinione di Giovanni Reale, professore di Storia della filosofia antica al San Raffaele, autore di molti saggi importanti, tra cui il celebre manuale con Dario Antiseri, Storia della filosofia occidentale, best seller tradotto in varie lingue, anche in russo: tra i vari riconoscimenti, Reale è piuttosto orgoglioso di vantare anche quello di professor honoris causa a Mosca.
Le va bene la definizione di "cattolico liberale"?
«Sono un cristiano aperto, molto aperto, liberale certamente...».
Come giudica il messaggio del Papa in cui si parla di un atteggiamento erotico di Dio verso l´uomo?
«Il Papa ha voluto ricordare che la religione non è filosofia, non è astrazione, toccando il problema di fondo dell´uomo che è l´amore. Sa cosa diceva Agostino? "Se tu non ami, sei niente". Puoi avere tutto, ma quel tutto che hai è niente, perché è l´amore a consentirti di essere quello che sei, tu sei quel che ami».
Ma nella nozione di eros, è implicita la sensualità, qualcosa di molto corporeo, lei non crede?
«Eros è senz´altro passione d´amore, è una forza acquisitiva che agisce per prendere e far proprio, che nasce dalla mancanza di qualcosa di cui abbiamo bisogno e che ci porta, mediante la bellezza, a salire più in alto... L´aspetto corporeo è solo il punto di partenza: è piccola cosa, ci dice Platone nel Simposio e nel Fedro, perché quando ami il corpo di un altro, ami sempre il bello che c´è in quel corpo».
Non è detto, non è sempre detto.
«Quando ami davvero il corpo di un altro, ami sempre la bellezza della sua anima, questa è la cosa stupefacente. E l´amore "sale" ancora di più quando si amano le opere dell´anima, la conoscenza filosofica che raggiunge l´unione mistica se riesce a cogliere il bello in sé: l´assoluto».
Dunque non è sorprendente che il Papa parli di un eros di Dio nei confronti dell´uomo...
«Dice Ratzinger che l´eros di Dio per l´uomo è insieme totalmente agape, amore cioè puramente donativo: eros e agape si congiungono. La trovo un´affermazione di grandissima importanza, mostra - prima ancora che un intellettuale - un uomo che ha capito profondamente l´amore in tutte le sue sfaccettature, come un´unica realtà che ha diverse dimensioni da non contrapporre».
Il Papa ha parlato anche di un´impossibile autosufficienza dell´uomo, sedotto dalle menzogne del Maligno... Lei trova convincente questo linguaggio?
«Sì, pensi quanto l´uomo è danneggiato dalle promesse illusorie della scienza e della tecnica che dovrebbero risolvere tutti i problemi dell´uomo. È chiaro che non è così, e che certi problemi possono essere risolti solo attraverso l´amore».

Repubblica 14.2.07
DIO CHE INCONTRA L'EROS
Una frase del pontefice scritta nel Messaggio per la Quaresima
Nell'amore divino non c'è solo "agape" cioè ricerca del bene dell'altro ma anche passione
"L'Onnipotente attende il sì delle sue creature come un giovane sposo"
Due termini della cultura greca già al centro della prima enciclica


CITTA DEL VATICANO. «Dio - disse papa Luciani - è anche Madre». Dio, ha scritto papa Ratzinger nella sua prima enciclica, è Amore. Adesso il papa teologo fa un salto più in là. Dio, afferma nel suo messaggio quaresimale, è anche Eros. Perché «l´Eros fa parte del cuore stesso di Dio». E´ un´immagine audace, che rivela quanto Joseph Ratzinger sia attratto e affascinato dal mistero dell´amore divino e quanto lo incanti quel cuore pulsante della Divinità, cui da teologo tenta di avvicinarsi.
«L´amore di Dio è anche Eros: nell´Antico Testamento - sostiene Benedetto XVI - il Creatore mostra verso il popolo che si è scelto una predilezione che trascende ogni umana motivazione». Agape ed Eros, due termini della cultura greca, erano al centro della sua prima enciclica Deus Caritas Est. Scriveva il papa-teologo che l´esistenza umana ruota intorno all´amore (eros) che cerca la felicita «nell´altro» e all´amore (agape) che si esprime nella cura amorevole «per l´altro». Con questo Ratzinger intendeva chiarire che la fede non disprezza l´eros né la sessualità che prorompe nella ricerca del partner che nel proprio intimo si vuole possedere, ma al tempo stesso il pontefice tedesco voleva far emergere l´esigenza che l´amore trovasse il suo compimento nella donazione reciproca degli sposi. E in questo processo si sarebbe compiuta la parabola luminosa dall´eros-ebrezza che unisce due persone fino alla preoccupazione amorevole nei confronti di tutta la comunità. Dalla coppia alla società.
Questa volta Benedetto XVI afferra il filo di Arianna e lo mette in verticale. E´ il rapporto Uomo-Dio che lo interessa. O meglio l´atteggiamento di Dio verso l´Uomo. Sapevano i mistici che l´uomo può essere afferrato da un amore bruciante per Dio fino a perdersi in esso. E sapevano anche che l´amore di Dio può bruciare e sconvolgere la creatura umana, come testimoniano le grandi mistiche nei loro deliqui segnati da stimmate quasi erotiche.
Però Ratzinger nel suo messaggio è ansioso di sottolineare che l´amore divino non si esaurisce nell´amore paterno, protettivo, ma è proprio un sentimento che si manifesta in una autentica «passione amorosa». Spingendosi così in là, Benedetto XVI ritorna alle fonti della tradizione biblica che ha sempre voluto descrivere i rapporti tra Dio e Israele nei termini di una relazione tra Sposo e Sposa.
Agape, scrive il Papa nel messaggio quaresimale, è «l´amore oblativo di chi ricerca esclusivamente il bene dell´altro». E questo certamente è l´atteggiamento di Dio sin dalla Creazione. Ma, aggiunge il pontefice, l´Eros «denota invece l´amore di chi desidera possedere ciò che gli manca e anela all´unione dell´amato». Ed è questo Dio che anela al rapporto con l´Uomo, che viene evocato potentemente da Ratzinger. Dio non è felice se non entra anche in comunicazione con l´Uomo, sembra dire il pontefice.
Anzi lo afferma a chiare lettere: «L´amore con cui Dio ci circonda è senz´altro agape... ma c´è anche una passione divina». E questo impulso passionale la Bibbia lo «descrive con immagini audaci come quella dell´amore dell´uomo per la donna adultera».
E´ vero, l´Antico Testamento racconta il rapporto tra Dio e il Popolo eletto in tutta la fisicità, la carnalità, la rabbia e il desiderio di una relazione tra Amante e Amata. Ratzinger scandisce: «I testi biblici indicano che l´eros fa parte del cuore stesso di Dio: l´Onnipotente attende il sì delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa». Vengono qui in mente - e certamente sono state presenti al pontefice mentre scriveva il suo messaggio - le immagini trascinanti del Cantico dei Cantici, che la tradizione ebraica e poi cristiana ha sempre visto in una dimensione verticale: il rapporto tra Dio-Amante-Sposo e Israele-Amata-Sposa.
Dice lo Sposo in uno scenario quasi mozartiano: «Di buon mattino andremo nelle vigne, là ti darò le mie carezze». Risponde la Sposa: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, perché forte come la morte è l´amore, tenace come gli inferi è la passione».
Può succedere, però, che i credenti (Israele) non sappiano corrispondere all´amore di Dio. Allora Dio diventa furioso contro la sua Sposa adultera e sono scene violente da Cavalleria rusticana: «Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni - scandisce Dio per bocca del profeta Osea - altrimenti la spoglierò tutta nuda... scoprirò le sue vergogne agli occhi dei suoi amanti... la ridurrò a una sterpaglia».
Per gli ebrei il grande peccato che interrompeva il rapporto Uomo- Dio è l´idolatria. Per Ratzinger è l´egoismo radicale, l´egocentrismo filosofico. «Purtroppo - osserva il Papa - fin dalle sue origini l´umanità, sedotta dal Maligno, si è chiusa all´amore di Dio, nell´illusione di una impossibile autosufficienza». Ma Dio, lo proclamava già Osea, attende con ansia il momento della riappacificazione con la sua Sposa: «La attirerò a me e parlerò al suo cuore».
Per ristabilire il patto, dichiara Ratzinger entrando nel cammino cristiano, Dio ha pagato il prezzo di versare il sangue del Figlio - Cristo: «Nella Croce si manifesta l´eros di Dio per noi. Eros è, infatti, quella forza che non permette all´amante di rimanere se stesso, ma lo spinge a unirsi all´amato». Conclude poeticamente Ratzinger: «Quale più folle eros di quello che ha portato il Figlio di Dio a unirsi a noi fino al punto di soffrire come proprie le conseguenze dei nostri delitti?».
Nella croce il cerchio si chiude. Con amore.

il Riformista 14.2.07
Quando ai cristiani non piaceva il matrimonio
di Luca Mastrantonio


San Valentino è il Babbo Natale degli innamorati. Fenomeno consumistico, feticcio di una religione positiva, presepe in versione cartolina prevertiana. Un Babbo Natale al contrario, però, perché si inizia a crederci quando non si è più tanto bambini, e si inizia a diventare adulti. Scoperto che l'amore non è eterno, si esorcizza questa caducità in diamanti che sono «per sempre», come dice la pubblicità di De Beers, che ha sottratto i preziosi all'usura da baratto dopo la crisi Usa del '29. Ci si vota così a un santo che, in realtà, non esiste più, e forse non è mai realmente esistito, ma è con lui che sono nati gli sms ante-litteram, quei bigliettini d'amore cartacei (le famose “valentine”, bigliettini con versi baciati ABAB e firmati “tuo Valentino”) e forse anche le chat, essendo il nume tutelare degli amori rivelati, in cui perfetti sconosciuti possono conoscere la loro anima gemella. San Valentino ricorda e si confonde, tra l'altro, con il primo divo cinematografico, Valentino Rodolfo, e anche con un famoso stilista italiano, ma meglio non esagerare.
In San Valentino di Francesco Pacifico si racconta di come il marketing - che è l'anima del commercio - e la poesia - che è il marketing dell'anima - abbiano inventato San Valentino. Sulla scorta di quanto Nicola Lagioia ha fatto con il Babbo Natale re-inventato dalla Coca Cola (sempre meglio dell'aranciata dei nazisti). Entrambi volumi usciti nella fortunata collana Memi, curata per Fazi editore da Gabriele Pedullà e Francesco Benigno. Una collana che sta decostruendo - ovvero sottoponendo a indagine storico-letteraria - i miti della fanciullezza, dal Babbo Natale di Lagioia agli alieni di Tommaso Pincio. Permettendo, così, di poter godere ancora della loro aura, per un attimo frainteso. Solo, in maniera più consapevole (alla fine il libro di Pacifico esce in concomitanza con San Valentino, per chi vuole festeggiarlo in stile Derrida) se non addirittura sotto copertura. L'unico modo per poter dire «ti amo» e dire «come dicono i poeti, ti amo». Anche se, a rigor di logica, con San Valentino bisognerebbe dire «ti amo, come vogliono i preti».
Pacifico, che è «scrittore d'amore» - come testimonia, in versione adolescenzial-politica, il suo Caso Vittorio uscito da Minimumfax - è partito alla ricerca delle radici di questo mito, radici che poi si sono rivelate molto aeree, nella tipica invenzione del passato. Ne risulta un libro d'amore anti-romantico, o meglio un libro che decostruisce il romanticismo formato supermarket, offrendo spunti di riflessione sull'attualità, dominata oggi dai Dico, Pacs, matrimoni e derivati. Dall'indagine di Pacifico - ricca di documenti - San Valentino ne esce come una figura più leggendaria che storica, incubata dalla sovrapposizione tra i lupercalia latini - dove si celebrava il mito della fertilità - e un vescovo ternano che tra il II e il III secolo dopo Cristo avrebbe unito i giovani in matrimonio - attività bandita dall'imperatore - e per questo sarebbe stato messo a morte. Niente di più falso, secondo Pacifico, il Santo degli innamorati non è il Santo di Terni. A togliere credibilità storica e sociale al legame tra quel martire e il moderno San Valentino, tra l'altro, Pacifico ricorda al lettore la concezione che i primi cristiani avevano del matrimonio. Molto scettica, se non contraria, come neanche un sostenitore delle unioni di fatto oggi sarebbe: per Sant'Agostino era meglio non sposarsi, mentre San Girolamo, parlando del cielo, sosteneva che «ogni dono di perfezione da lassù discende: dal non esserci nozze». Per i cristiani dell'epoca, ricorda Pacifico, era «un'ossessione pagana l'idea di riprodursi e mettere su famiglia». Insomma, il matrimonio e la famiglia come lari pagani. I primi cristiani, che predicavano castità e astinenza, per guadagnare il regno dei cieli preferivano essere single. Poi tutto cambiò con il medioevo.
San Valentino, comunque, per come lo conosciamo - o disconosciamo - oggi, è, di fatto, un'invenzione inglese dell'era vittoriana. Un feticcio, un santino del focolare in una vasta opera di moralizzazione delle famiglie inglesi la cui vita moderna, nell'ottocento, era logorata dalla rivoluzione industriale. Quindi, ci racconta Pacifico, ogni volta che acquistiamo - per chi lo acquista - un cioccolatino, fosse anche un bacio Perugina - dove il bigliettino riproduce proprio una “valentina” - è un pezzettino di epoca vittoriana. Il suo vero inventore poetico, comunque, fu Chaucher, l'autore inglese dei Canterbury Tales, della seconda metà del 1300, che aveva bisogno di datare una poesia su un raduno di uccellini al cospetto di Afrodite.
Ma San Valentino ebbe il suo boom economico, sociale e morale quando emigrò nel Nuovo mondo, in quell'America puritana dove i legami erano improntati alla serietà più che al romanticismo. E poi l'America era a corto di Santi e di festività in generale: esclusi San Nicola, San Patrizio, e poi il giorno del ringraziamento, il 4 luglio, Halloween e la finale del Superbowl. Attorno alla metà dell'800 inizia a comparire il Valentine day. Fino a ibridarsi, cinematograficamente e consumisticamente con Rodolfo Valentino. L'uomo effeminato (muscoloso ma depilato) amato dalle donne e imitato dagli uomini.
In Italia la festa (consumistica) di San Valentino fu introdotta negli anni '60 del Novecento e, non a caso, la Chiesa cancellò proprio nel '69 San Valentino dal calendario, sostituendolo con i santi Cirillo e Metodio. Nel romanzo Gli sfiorati di Sandro Veronesi, lui sceglie di sposarsi, romanticamente, il giorno di San Valentino e poi, dopo inviti, partecipazioni e tutto, scopre che quel giorno non esiste.

Repubblica 14.2.07
Il cervello "vede" per schemi legati alle zone di luci e ombre
Gli studiosi del Mit: non hanno importanza nasi o bocche ma luci e ombre
Una ricerca scopre nel nostro cervello il segreto del "riconoscimento"
di Claudia Di Giorgio


ROMA - Per gli esseri umani, una delle specie più sociali mai apparse sulla Terra, riconoscere un volto è così importante che c'è una parte del nostro cervello che si è evoluta apposta per individuare esclusivamente le facce: un onore che non ha avuto nessun'altra parte del corpo né alcun altro oggetto.
Ma che cos'è che distingue un volto da qualunque altra cosa, tanto da permetterci di identificarlo anche nelle immagini più sfocate? E come mai, invece, può capitare di vedere una faccia anche dove non c'è?

A queste domande sta dando una sorprendente risposta un gruppo di ricerche, su cui riferiva ieri anche il New York Times, da cui emerge che a far scattare l'attività dei neuroni giro fisiforme (il nome della circonvoluzione cerebrale che riconosce i volti) bastano pochissimi elementi, purché siano disposti nel modo giusto. Questi elementi non sono "due occhi, un naso e una bocca", che sono strutture tutto sommato complesse e ricche di dettagli, ma più semplicemente dei rapporti tra zone in luce e zone in ombra: come il fatto che la bocca si trova nel terzo inferiore del viso, ed è sempre più scura delle guance che le sono accanto, mentre gli occhi sono nel terzo più in alto, e sono più scuri della fronte che sta sopra. Pawan Sinha, direttore del laboratorio di ricognizione visiva del Massachusetts Institute of Technology, ha individuato dodici di questi rapporti, che costituiscono in totale una sorta di modello universale di faccia.

Un banale gioco di macchie, insomma, ma che al nostro cervello (e secondo alcuni studi, anche a quello delle scimmie) è più che sufficiente per vedere una faccia anche in una foto da cui è stato cancellato ogni altro dettaglio. E per vedere facce anche dove facce non ce ne sono affatto, come dimostrano esempi quali la famosa "faccia su Marte", individuata nella regione Cydonia del Pianeta Rosso da vari ufologi; oppure il toast al formaggio con l'immagine della Madonna che una signora della Florida è riuscita a vendere su Internet per la bella cifra di 28.000 dollari; oppure ancora addirittura il volto del diavolo intravisto da alcuni nel fumo che circondava le Torri Gemelle l'11 settembre 2001.

Il bello, infatti, è che la capacità del nostro cervello di ricostruire l'immagine di un volto disponendo solo di pochi tratti cruciali lo rende anche molto più suscettibile agli inganni. Ma secondo Pawan Sinha, che a gennaio è stato premiato dalla National Academy of Sciences proprio per queste ricerche, è un rischio che vale la pena di correre. Le informazioni trasmesse dai volti sono così preziose, dice, che è meglio vederne uno dove non c'è che non riconoscerlo quando c'è davvero.

(14 febbraio 2007)

martedì 13 febbraio 2007

l'Unità 13.2.07
«La Chiesa va contro il Concordato»
Rodotà: i Dico sono una risposta civile a un bisogno diffuso
di Maria Zegarelli


L’ATTACCO Il Concordato tra Stato e Chiesa «è stato messo in discussione dalla Chiesache vuole esercitare sovranità anche sullo Stato italiano». Il costituzionali-
sta Stefano Rodotà commenta così le ultime dichiarazioni del Papa e del Cardinale Camillo Ruini che ieri hanno di nuovo serrato le fila contro il ddl governativo che regola le unioni civili, i «Dico». «Si è aperto un conflitto - dice Rodotà -. Hanno aperto un conflitto dichiarato con il governo della Repubblica, il Parlamento e la nostra Carta Costituzionale. Dichiarare sovversivo un disegno di legge votato dal Consiglio dei ministri vuol dire aprire un conflitto con il nostro Stato. Cosa ulteriormente accentuata dall'atto di indirizzo che Ruini ha detto di voler emanare ai cattolici, compresi quindi anche i parlamentari, che devono quindi abbandonare la loro fedeltà alla Costituzione per la religione». Un’ingerenza quella Oltretevere che non ha precedenti, almeno dai tempi del divorzio e del referendum sull’aborto. Secondo il professore «i Dico sono una risposta civile a un bisogno diffuso della società e il legislatore deve tener conto delle esigenze della società, non delle sue convinzioni personali». E la Chiesa, che può «legittimamente esprimere la sua opinione», non può condizionare l’operato del parlamentare chiamato a votare leggi «dirette a tutti i cittadini». Rodotà è netto nel commentare le ultime prese di posizione di Cei e Vaticano parlando davanti alla telecamere del Tg3, ma già ieri mattina aveva a lungo parlato dei Dico davanti a una platea di giovani studenti, docenti universitari e delle scuole medie superiori, riuniti nell’Aula Magna della Sapienza di Roma in occasione del convegno «Convivenza Civile - tra dignità e rispetto delle regole».
Non risparmia critiche al ddl, a partire dall’acronimo scelto, «segno di cattiva capacità di comunicazione, che si presta a tutta una serie di battute che potevano essere evitate. O dall’«idea della raccomandata, una di quelle bizzarrie che dovrebbero essere spiegate», dice riferendosi alla comunicazione all’altro convivente che secondo il ddl governativo può avvenire tramite lettera. Ma a parte queste notazioni, il professore va dritto al cuore della questione: le convivenze sono un dato di fatto, un fenomeno «che non può essere costituzionalmente ignorato». Affianco a lui c’è Giovanni Maria Flik, ex ministro della Giustizia attuale vice presidente della Corte Costituzionale. Che annuisce e rispondendo a una domanda sul ddl sulle unioni civili, dice: «Non posso esprimermi sulla legge per l’incarico che rivesto anche se ho una mia opinione al riguardo». Rodotà fa riferimento alle sentenze emesse dalla Consulta - che hanno riconosciuto diritti ai conviventi - e i dati del Comune di Roma dai quali risulta che c’è stato un crollo di matrimoni civili e religiosi, scavalcati ormai dal numero di convivenze. «Non si possono ignorare fenomeni e cambiamenti così importanti della società». E fa bene la Chiesa a dire la sua, «è legittimo», ma uno Stato «deve occuparsi dei diritti dei cittadini, di tutti i cittadini». E ricorda la cerimonia di commemorazione delle vittime della strage di Nassiriya: Adele Parrillo, compagna di Stefano Rolla, il regista morto mentre girava un documentario nella base colpita dai terroristi, «non è stata invitata perché era convivente e non coniuge». Questo vuole dire, ad esempio, il vuoto normativo sulle unioni civili.

l'Unità 13.2.07
Dico, Ruini prepara il «sacro monito»
Il presidente delle Cei annuncia una nota vincolante
per i cattolici. Ratzinger: quella legge mina la famiglia
di Roberto Monteforte


CONTRO I «DI.CO» la linea è quella «intransigente». La Chiesa ha scelto. Non siamo al «non expedit» di Pio IX, ma rischia di andarci molto vicino. Quel disegno di legge sulle coppie di fatto è ritenuto un pericolo grave per la famiglia, per i giovani e per la società, in
netto contrasto con la legge naturale. Così ieri il Papa in persona ha spiegato il perché di questa intransigenza. «Nessuna legge fatta dall’uomo può sovvertire il disegno del Creatore» ha scandito ricevendo in udienza privata i partecipanti al convegno internazionale organizzato dall’Ateneo Lateranense proprio sul diritto naturale. Un discorso complesso che è partito da una premessa: «Vi sono norme che precedono qualsiasi legge umana» e che «non ammettono interventi in deroga da parte di nessuno». Per Papa Ratzinger è la legge naturale, con le sue «applicazioni concrete» sul fronte della difesa della vita umana dal suo inizio alla sua fine naturale e del matrimonio, «il solo valido baluardo contro l'arbitrio del potere o l'inganno della manipolazione ideologica». Un codice morale valido per tutti gli uomini. Spiega e sprona il Papa: «È la vera garanzia offerta a ognuno per poter vivere libero e rispettato nella propria dignità». Rinnova la sua critica all’uomo di oggi che «ha dimenticato che non tutto ciò che è scientificamente fattibile è anche eticamente lecito».
Questa è la premessa. L’obiettivo è la difesa della famiglia tradizionale, minacciata da normative che introducono uguali diritti alle coppie di fatto eterosessuali e omosessuali. Richiama il Concilio Vaticano II a difesa dell’istituto del matrimonio, «stabile per ordinamento divino». Nessuna legge fatta da uomini «può sovvertire la norma fatta dal Creatore senza che la società venga drammaticamente ferita in quella che è il suo fondamento basilare». Dimenticarlo, ha ammonito il pontefice, significa «indebolire la famiglia e penalizzare i figli». Non nomina né i Pacs, né i Di.co. Ma a chi e cosa si riferisce quando esorta i legislatori a promuovere le legge umana e a non «trasformare i diritti in interessi privati o in desideri che stridono con la legge naturale»? Lo ribadisce: «La legge naturale è il solo valido baluardo contro l'arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica». «La prima preoccupazione per tutti e particolarmente per chi ha responsabilità pubblica», conclude,- è che «possa progredire la coscienza morale di tutti».
È in piena sintonia con Papa Ratzinger il magnifico rettore della pontificia università Lateranense, monsignore Rino Fisichella. «Alcuni vorrebbero che restassimo in silenzio per emarginarci dal mondo» afferma nel suo saluto al pontefice nella Sala Clementina. Sferra il suo attacco. Sotto tiro secolarizzazione, relativismo e quella «crisi» della riflessione teologica, filosofica e giuridica, «sui problemi connessi alla Legge naturale», che prese avvio negli anni 60. «Ha portato ai nostri giorni anche diversi Parlamenti a promulgare leggi in netto contrasto con la legge naturale e per ciò stesso indegni di ordinamenti giuridici che possano essere di garanzia per tutti i cittadini» afferma veemente. Parole dure, di chi si presenta come pronto a guidare le truppe a difesa della legge naturale violata.
Ma la notizia la dà il presidente della Cei, cardinale Camillo Ruini. Sul «Di.co» è in arrivo «una parola meditata e impegnativa» da parte della Cei. Sarà rivolta a «coloro che accolgono il magistero della Chiesa». Preannuncia che sarà «chiarificatrice per tutti». Un documento «ufficiale» dei vescovi, quindi, che dopo un’analisi del testo di legge, conterrà indicazioni di comportamento «vincolanti», per tutti i cattolici. Compresi quelli impegnati in politica nei due schieramenti. I riferimenti, anche recenti, non mancano. Vi sono i pronunciamenti della Congregazione per la Dottrina della fede con le «note dottrinali» dell’allora cardinale Ratzinger, prefetto dell’ex Sant’Uffizio. La Chiesa si rivolge alla singola persona. Indica comportamenti da tenere. Richiama l’obbligo a seguire le indicazioni del magistero. In alcuni casi sino all’obiezione di coscienza. Ma dovrebbe pure rispettare l’autonomia dei politici nelle loro scelte «pubbliche». Non dovrebbero contenere «sanzioni». Per un credente ha già un forte valore morale essere considerato «non in piena comunione» con la Chiesa.
Che l’annuciata «nota» Cei avrà i suoi effetti politici è sicuro. Li staranno misurando Ruini ed i suoi collaboratori. Il prossimo 19 febbraio, anniversario della revisionedel l Concordato, all’ambasciata italiana presso la Santa Sede si terrà il tradizionale incontro tra rappresentati della Santa Sede e le massime autorità italiane. Nello spirito della collaborazione e del rispetto reciproco.

l'Unità 13.2.07
A ROMA Una commemorazione del filosofo
Nel nome di Giordano Bruno

Sabato 17 l’Associazione nazionale del Libero pensiero organizza (con il patrocinio del Comune di Roma e l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Centro Internazionale di Studi Bruniani Giovanni Aquilecchia) una giornata di commemorazione Nel nome di Giordano Bruno. Libertà ed autodeterminazione: valori laici. Alle 16,30 in piazza Campo de’ Fiori di Roma - dove il pensatore venne bruciato vivo il 17 febbraio 1600 - verranno deposte corone ai piedi della statua che campeggia al centro della piazza. Seguiranno gli interventi di: Bruno Segre, presidente dell’Associazione del Libero pensiero, Maria Mantello, Giulio Giorello, Federico Coen, Nuccio Ordine. Marianna Arbìa, Marialivia Franceschini, Fabiola Perna, Camilla Scrugli, Arianna Zapelloni Pavia e Carlotta Spizzichino leggeranno brani dalle opere di Giordano Bruno.

Repubblica 13.2.07
Enrico Boselli, leader Sdi: siamo un paese a sovranità limitata
"Concordato violato allora meglio abolirlo"
La Chiesa elimini il divieto per i preti di candidarsi alle elezioni. E Ruini si presenti
I Patti Lateranensi, la religione a scuola, non hanno più senso: porrò il problema agli alleati del centrosinistra
di Cludio Tito


ROMA - «Chiederò al governo e all´Unione di muoversi per abolire il Concordato». Dopo l´ultimo affondo contro i "Dico" sferrato dal Papa e dal presidente della Cei, Camillo Ruini, Enrico Boselli imbocca la strada dello scontro frontale. Mettendo in discussione persino i Patti lateranensi, che disciplinano i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa da quasi 80 anni. «Ormai - scandisce il segretario dello Sdi - non hanno più senso».
Perché le parole di Ruini l´hanno colpita così tanto?
«Sono rimasto impressionato da un fatto: perché non è stata usata la stessa forza quando è stata approvata una legge ben più aperta della nostra in Spagna? O in Francia? O in Germania? Solo quando il problema lo affrontano il governo e il Parlamento italiano, scatta questa campagna formidabile».
Secondo lei perché?
«Perché si pensa che l´Italia sia un paese a sovranità limitata».
Quindi c´è anche un movente politico?
«Bisognerebbe chiederlo a Mastella, a Rutelli, ai teodem».
Teme che l´obiettivo della Cei sia il governo Prodi?
«Non credo. Però mi colpisce che questa campagna non tocca temi etici ma solo la possibilità di andare a trovare in ospedale il convivente o di subentrare nel contratto di affitto. Vedo addirittura mons. Fisichella che si appella ai parlamentari cattolici perché non votino la legge».
Quali sono le possibili conseguenze?
«Guardi, queste prese di posizione, questi veti, questi ammonimenti delle gerarchie ecclesiastiche rappresentano un vero e proprio strappo del Concordato. Che, come tutti sanno, stabilisce la non ingerenza della Chiesa negli affari dello Stato».
Una violazione del Concordato?
«Sì. E allora c´è un´unica strada: quel Patto non è più accettabile in una società come la nostra. Nessuno vuol togliere alla Chiesa la libertà di parola. È legittimo che prenda posizione, difenda i suoi principi. Però non si può nascondere che da questo derivino due effetti: la violazione del Concordato e il fatto che lo Stato non può continuare a concedere i tanti privilegi previsti dallo stesso Concordato. In Italia non c´è più la religione di Stato».
Lei parla di una abolizione?
«Certo. Questo è un Paese aperto. Il principio di fondo dei Patti Lateranensi non è più attuale. Non c´è ragione che l´insegnamento della religione cattolica venga svolto dalle scuole pubbliche con i soldi pubblici, o che il fisco trasferisca l´8 per 1000 o che gli immobili della Chiesa siano esentati dall´Ici».
Presenterà una proposta di legge?
«Non è materia da proposta di legge. Porrò, però, il problema agli alleati e al governo. Solo un cieco non vede che il Concordato non serve più».
Secondo lei si è già aperto un conflitto con il governo?
«È evidente. Nel momento in cui si calpestano i diritti dei rappresentanti del popolo ad adempiere il loro mandato, comunque si apre un conflitto. Ricordo poi che Ruini in passato aveva già contestato alcune leggi regionali».
Quindi?
«Quando la Cei decide di entrare nella vita pubblica, nel dibattito tra i partiti, deve sapere che, appunto, diventa parte. E nessuno può limitare le risposte o le critiche».
Cioè i vescovi italiani si stanno muovendo come un partito?
«Mi auguro che la Chiesa elimini il divieto per i preti di candidarsi alle elezioni. E mi auguro che lo stesso Ruini si candidi. Così potrà far valere meglio le sue idee. E in maniera più corretta».

Repubblica 13.2.07
Le nuove famiglie
Nozze in calo, è boom di coppie di fatto
Sono 500.000, 10 anni fa erano la metà. Bimbi, il 15% nasce fuori dal matrimonio
Aumentano le separazioni, quasi due coppie su dieci si lasciano
In ventotto capoluoghi del Centro Nord le cerimonie civili superano quelle religiose
Ci si sposa sempre più tardi e aumentano le coppie con uno dei due sposi stranieri
di Maria Novella De Luca


ROMA - Un mutamento inarrestabile. Impermeabile a qualunque appello di fede o di ideologia. Così e basta. La famiglia italiana sta cambiando, sovvertendo tutte le regole, polverizzando le tradizioni consolidate. Le coppie disertano il matrimonio, ancor più se religioso, diventano miste, multietniche, mentre l´insieme è sempre più piccolo, in case c´è un figlio, massimo due. Amatissimi però. Una famiglia che mal sopporta l´usura del tempo e dei sentimenti, e se non va più, poche lacrime, ci si lascia, separazioni e divorzi sono in aumento esponenziale. Arriva tempestiva la fotografia Istat delle coppie italiane ai tempi dei Pacs, anzi dei Dico, e le statistiche dimostrano che se i matrimoni ormai sono soltanto 250 mila l´anno, le coppie di fatto sono oltre 500 mila (riferito però soltanto alle coppie eterosessuali, fa notare l´Arcigay), i bimbi nati da "libere unioni" sono il 15% del totale delle nascite, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa. È vero, la situazione italiana è ancora molto diversa dal resto d´Europa, ma quello che colpisce, sottolinea l´Istat, è «la rapidità del cambiamento». Ecco, voce per voce, la rivoluzione della famiglia made in Italy.
MATRIMONI: Secondo i dati rilevati presso gli uffici di Stato civile dei Comuni, nel 2005 sono stati celebrati poco più di 250 mila matrimoni. Un numero in continua diminuzione dal 1972, anno in cui si sono registrate poco meno di 419 mila nozze. Il 32,4% di tutti i matrimoni viene celebrato con rito civile. Il 56% degli sposi scelgono il regime patrimoniale di separazione dei beni,
COPPIE DI FATTO: Nel 2005 erano oltre 500 mila le coppie di fatto, «un fenomeno in rapida espansione - scrive l´Istat - solo 10 anni infatti fa erano meno della metà, anche se in Italia le libere unioni non sono ancora così frequenti come in altri paesi europei».
UN PAESE DIVISO IN DUE: Sul fronte famiglia però l´Italia è un paese nettamente diviso in due, con il Nord e il Centro sempre più lontani dal matrimonio (3,8 matrimoni su 1000 abitanti) e il Sud che conserva le tradizioni (4,9 matrimoni per 1.000 abitanti nel 2005. In ben 28 capoluoghi del Centro Nord i matrimoni civili superano poi quelli religiosi.
I FIGLI FUORI DEL MATRIMONIO: "Punta dell´iceberg" del fenomeno delle libere unioni, è l´incidenza di bambini nati al di fuori del matrimonio, attualmente intorno al 15%, cioè quasi 80 mila nati all´anno, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa, quando questo valore era pari all´8%.
CI SI SPOSA PIU´ TARDI: Alle prime nozze i maschi hanno un´età media di circa 32 anni e le spose di quasi 30 anni, 4 anni in più dell´età che avevano in media i loro genitori al primo matrimonio.
COPPIE MISTE - Le coppie in cui uno dei due sposi o entrambi sono di cittadinanza straniera sono il 12,5% (2005): erano solo il 4,8% dieci anni fa. Gli uomini italiani che sposano una cittadina straniera scelgono nel 49% dei casi donne dell´Europa centro-orientale, e nel 21% donne dell´America centro-meridionale. Le donne italiane mostrano una preferenza per gli uomini di origine nordafricana (23% dei matrimoni).
DIVORZI E SEPARAZIONI. Gli ultimi dati disponibili, riferiti al 2004, parlano di oltre 80 mila separazioni l´anno e più di 45 mila divorzi. In media su 100 coppie che si sposano, 15 divorziano. Eppure, in tanti ci riprovano. Oggi in quasi il 10% dei matrimoni almeno uno degli sposi è alla sua seconda esperienza.

Corriere della Sera 13.2.07
Dico, quel limite grave nelle regole per le coppie
di Luigi Manconi


Caro direttore, è toccato a me, un anno e mezzo fa, scrivere quelle parti del programma politico-elettorale dell'Unione, dedicate ai «nuovi diritti»: temi assai delicati, e controversi, come il testamento biologico, la tutela delle persone private della libertà e, appunto, la questione — che solo in Italia assume una così alta intensità emotiva e simbolica — del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto.
Dopo una tribolata discussione, all'interno della commissione per il programma, questo è il testo che ne risultò: «Le unioni civili come riconoscimento giuridico di una forma di relazione capace di assicurare prerogative e facoltà e di garantire reciprocità nei diritti e nei doveri. (...) Al fine di definire natura e qualità di tale forma di unione, non è dirimente il genere dei contraenti e il loro orientamento sessuale; va considerato, piuttosto, il sistema di relazioni (amicali, sentimentali, assistenziali, di mutualità e di reciprocità) — la sua stabilità e la sua intenzionalità — quale criterio qualificante la scelta dell'unione».
Questo testo venne fatto proprio (nel corso del seminario di San Martino del 5 e 6 dicembre 2005) da Romano Prodi e dai segretari dei partiti del centrosinistra. Ma, evidentemente, quella formulazione sembrò eccessivamente audace e venne sottoposta a revisione: così che, nel programma definitivo dell'Unione, si parlava del «riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle coppie di fatto», e si dichiarava che «al fine di definire natura e qualità di una unione di fatto, non è dirimente il genere dei conviventi né il loro orientamento sessuale».
Pertanto, il disegno di legge sui Dico, appena approvato dal Consiglio dei ministri, corrisponde puntualmente — va detto — a quanto previsto dal programma definitivo del centrosinistra. Contiene, già nella prima riga, una clausola — giuridicamente formalizzata e tutelata — contro la discriminazione di natura sessuale (e questo, nel nostro ordinamento e nella nostra società, non è poco: anzi, è tantissimo). E riconosce, poi, diritti e facoltà e attribuisce doveri ai membri di una coppia convivente.
Certo, la differenza rispetto al primo testo (quello del dicembre del 2005), e alla proposta di legge che presentammo dodici anni fa, è assai significativa. Diritti e doveri, nel disegno di legge del governo, fanno capo ai singoli individui e non alla coppia, non più considerata — in questo testo — come autonoma forma di relazione. Personalmente, lo ritengo un grave limite. Riconoscerli alla coppia, quei diritti e quei doveri, non avrebbe significato, in alcun modo, «equiparare» ogni tipo di convivenza al matrimonio (religioso o civile): e nemmeno istituire una sorta di «nozze di serie B» (come, in un tripudio di strepitoso analfabetismo politico-giuridico, si sente dire a proposito dei Dico, in queste ore).
Avrebbe significato, invece, il riconoscimento di forme di convivenza non coincidenti con il matrimonio e, tuttavia, degne di tutela pubblica. Tali perché, quelle coppie di fatto, possono essere connotate da vincoli affettivi e solidali, reciprocità e mutualità, intenti comuni e progetti condivisi. E, dunque, da un' istanza anche morale. Questo, i rapporti di forza (ideali e ideologici) oggi vigenti in Italia, non consentono di riconoscerlo e formalizzarlo in una legge. In questo quadro, i Dico rappresentano un realistico punto di partenza. Un buon punto di partenza.

il Riformista 13.2.07
Ecco perché non starò nel Partito democratico
di Emanuele Macaluso


C’è o no una ragione per definirsi socialisti e c’è una differenza tra il riformismo socialista e gli altri riformismi, cattolico e liberal-democratico? La questione non è nominalistica ma di sostanza politica. La discussione fu già fatta dopo la svolta della Bolognina e la nascita del Pds. La scelta di un nome richiama infatti una storia, una tradizione, dei valori che l’hanno contrassegnata, una politica che qualifica la realtà in cui viviamo. Altrimenti non si capisce perché fu cambiato il nome del Pci e dopo la svolta fu respinta la proposta di Natta, Ingrao, Tortorella e altri di chiamarci «comunisti democratici». Era la sostanza politica che quel sostantivo richiamava che veniva respinta. Tuttavia in quell’occasione non fu accettato il nome che richiamava il socialismo europeo. In ogni caso, però, il nuovo partito si qualificava con una parola che indicava una storia e un progetto politico: «Democratici di sinistra». Oggi si vuole abolire la parola «sinistra». Non ha alcun significato? Se non è essenziale, perché abolirla?
Ma torniamo alle ragioni del socialismo democratico. Se, ad esempio, il partito del Congresso indiano di Sonia Gandhi ha sentito l’esigenza di stare nell’Internazionale socialista, un motivo ci sarà pure. Penso che le ragioni di quell’adesione vadano ricercate nel fatto che gli enormi problemi posti dalla globalizzazione non possono essere affrontati né con il negazionismo dei no-global né con un’adesione acritica. In questo mondo che cambia, la storia, i valori e i programmi del socialismo democratico emergono con grande forza. La questione sociale nella globalizzazione può e deve essere la nuova frontiera del socialismo democratico. I cui valori e programmi in Europa sono riemersi negli anni in cui il vento della rivoluzione conservatrice sembrava che dovesse spazzare via le conquiste sociali, a partire da quel welfare novecentesco, che è stato difeso, rinnovato, aggiornato proprio dal socialismo democratico, attraverso un nuovo “compromesso” tra sviluppo economico e istanze sociali, che guardasse al futuro e alle nuove generazioni. Ed è stato proprio il socialismo democratico a fornire risposte laiche e incisive alla domanda di nuovi diritti sollecitati dalla modernità e dal progresso scientifico, attingendo a quei valori che si ritrovano in una storia in cui il rispetto della persona e le libertà individuali (come il culto) si sono coniugate sempre con l’interesse generale e la laicità dello Stato.
Su questi temi (welfare, diritti) la revisione critica e il rinnovamento del socialismo europeo hanno portato soluzioni più avanzate della “novità”, tutta italiana, proposta col cosiddetto Partito democratico. Non ne faccio una questione ideologica ma politica: rileggendolo, non cambierei una sola virgola del giudizio che la settimana scorsa ho espresso sul documento del segretario Fassino. Nel frattempo, il rito congressuale dei Ds presenta davvero poche novità: una mozione firmata da tanti e da tante sponde, un grande assemblaggio attorno al segretario come vuole la tradizione comunista. C’è di tutto. Ci sono anche le firme di compagni che con me hanno condiviso tante battaglie politiche nell’area riformista, anche quella per la fondazione e la redazione della rivista che non a caso chiamammo Le nuove ragioni del socialismo. Ci sono momenti in cui una persona è chiamata a prendere decisioni individuali che coinvolgono la propria storia. Rispetto le scelte diverse dalle mie quando non sono frutto di interessati opportunismi. Per quel che mi riguarda non starò in un partito che non appartenga al socialismo europeo (non «negli ambiti»). E non in nome di un’appartenenza a una storia, quella della sinistra in cui milito da 66 anni (anche se per me ha un significato e un valore), ma per il ruolo che esso, il socialismo democratico, è chiamato a svolgere in Europa e nel mondo.

Repubblica on line 13.2.07
Il Papa: "L'amore di Dio è anche eros
Gesù ne è la rivelazione più sconvolgente"


CITTA' DEL VATICANO - "L'amore di Dio è anche eros: nell'Antico Testamento il Creatore dell'Universo mostra verso il popolo che si è scelto una predilezione che trascende ogni umana motivazione": lo sottolinea Benedetto XVI, nel Messaggio per la Quaresima 2007. Un tema già affrontato dal Papa nella sua prima enciclica la "Deus caritas est", nella quale si distinguevano le due componenti dell'amore: l'agape che "indica l'amore oblativo di chi ricerca esclusivamente il bene dell'altro", e l'eros che "denota invece l'amore di chi desidera possedere ciò che gli manca ed anela all'unione con l'amato".
Nel documento pubblicato oggi, Benedetto XVI ribadisce che se "l'amore con cui Dio ci circonda è senz'altro agape", c'è anche una "passione divina" che la Bibbia descrive "con immagini audaci come quella dell'amore dell'uomo per una donna adultera". "Questi testi biblici - afferma - indicano che l'eros fa parte del cuore stesso di Dio: l'Onnipotente attende il sì delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa".
"Purtroppo - osserva però il Pontefice - fin dalle sue origini l'umanità, sedotta dalle menzogne del Maligno, si è chiusa all'amore di Dio, nell'illusione di una impossibile autosufficienza".
"Ripiegandosi su se stesso - scrive ancora Joseph Ratzinger - Adamo si è allontanato da quella fonte della vita che è Dio stesso, ed è diventato il primo di quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la vita".
Nel suo messaggio, il Papa teologo ricorda che "Dio, però, non si è dato per vinto, anzi il no dell'uomo è stato come la spinta decisiva che l'ha indotto a manifestare il suo amore in tutta la sua forza redentrice". "
"E' Gesù - conclude - la rivelazione più sconvolgente dell'amore di Dio, un amore in cui eros e agape, lungi dal contrapporsi, si illuminano a vicenda. Sulla Croce è Dio stesso che mendica l'amore della sua creatura: Egli ha sete dell'amore di ognuno di noi".

D, supplemento di Repubblica 10.2.07 pag.202
La pornografia non è una faccenda sessuale
Risponde Umberto Galimberti


Scrive Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso (Einaudi): “Io desidero il mio desiderio, e l’essere amato non è altro che il suo accessorio”

Sono un pornodipendente in sobrietà. Ho letto con grande interesse la sua intervista sull’ultimo numero di D, relativa a “Le coppie che non fanno più l’amore”, e vorrei portare alla sua attenzione il rapporto tra calo di tensione sessuale e pornodipendenza da Internet. Sono il fondatore e moderatore del gruppo di autoaiuto on line noallapornodipendenza (2.200 iscritti, 11.800 lettere ricevute, un numero non esattamente quantificabile di lettori del gruppo - ma sicuramente molto elevato). Sull’argomento, inoltre, ho creato un sito che ha in media 120 contatti al giorno. E le posso dire con certezza che gli iscritti al gruppo sono solo la punta dell’iceberg di coloro che soffrono di questa patologia. Sulla base di questa larga esperienza e sulla base delle 150.000 lettere ricevute dai gruppi americani simili al nostro, desidero informarla che la più immediata ed evidente conseguenza della pornodipendenza è il calo drastico della tensione sessuale, sia per gli uomini sia per le donne e per gli uomini una insorgente impotenza parziale o totale. La pornodipendenza modifica in modo negativo tutti gli aspetti della vita di un individuo: rapporti di lavoro, capacità di applicazione e attenzione al proprio lavoro, applicazione allo studio, rapporti di amicizia e di amore, progressiva sfiducia in se stessi. Per quanto riguarda l’influenza sulla dinamica sessuale, le conseguenze più significative sono: calo del desiderio sessuale verso il proprio partner; semiimpotenza o impotenza totale all’atto con una persona reale; possibilità di erezione masturbatoria ed eiaculazione solo attraverso la visione di materiale pornografico; condizionamento a guardare i potenziali partner solo ed esclusivamente come oggetti pornografici. Sulla mia esperienza di liberazione ho scritto un libro: Io, pornodipendente (Costa e Nolan). Tutto questo per dirle che sarebbe molto importante che uno studioso come lei trattasse questo argomento.
Vincenzo Ponzi Roma

Nel corso della storia la pornografia ha sempre fatto la sua comparsa, ma con accenti e significati ogni volta diversi. Dal Kamasutra alle iscrizioni egizie, fino agli affreschi di Pompei, scene che oggi definiremmo “pornografiche” erano rappresentate per stimolare il desiderio sessuale in una cultura che esaltava il corpo e l’innocenza del suo gesto, senza intenti trasgressivi e ancor meno sensi di colpa. Fu a partire dal Medioevo che, come ci illustra il teatro di Dario Fo, la sessualità fu caricata di accenti pornografici per esprimere una reazione popolare immediata e trasgressiva all’ordine imposto da un potere quasi sempre imparentato con l’autorità religiosa. Ma fu nel ’500 e nel ’600 che la pornografia fu impiegata esplicitamente per mettere in discussione i meccanismi tradizionali dell’esercizio dell’autorità. Come riferisce Pietro Adamo in La pornografia e i suoi nemici (il Saggiatore): “Scoperti nelle loro vergogne e nella bassezza della loro vita quotidiana, re e regine, preti e vescovi, prefetti e contesse venivano privati non solo dei segni esteriori del potere che stabilivano un rapporto di gerarchia (la pompa, il decoro, i vestiti), ma anche delle giustificazioni ultime della sua legittimità”. Nel ’700, all’uso della pornografia per desacralizzare li potere si affiancò, con il pensiero libertino, la rivendicazione della naturalezza dell’attività sessuale in tutte le sue espressioni, con conseguente critica del matrimonio che limita l’esercizio della sessualità, legittimazione del godimento femminile, rivendicazione di spazi trasgressivi contro una società ritenuta eccessivamente repressiva. Questa fase si chiuse nella seconda metà dell’800 quando la morale sessuale passò sotto la giurisdizione della scienza medica, e tutte le pratiche non indirizzate alla procreazione furono bollate come forme patologiche. Non più solo il peccato come infrazione della legge divina, ma anche la malattia come infrazione delle leggi di natura. Oggi la pornografia dilagante che lei denuncia a me pare un sintomo di debolezza dovuta al fatto che è più facile avere un rapporto col proprio immaginario di quanto non lo sia un rapporto con un’altra persona che toglie al mio gesto ogni sorta di sovranità, perché a limitarlo è la risposta dell’altro. Nel gesto pornografico infatti non si è mai in due, perché uno dei due è ridotto a semplice oggetto del piacere dell’altro con cui non c’è confronto, ma semplicemente uso e abuso. Siccome l’oggettivazione dell’altro, la sua riduzione a cosa, coincide quasi sempre con l’oggettivazione della donna, la pornografia è profondamente maschilista e non fa che riproporre sul registro sessuale la dominanza dell’uomo sulla donna, dell’attivo sul passivo, dove la scena viene progressivamente sottratta alla sessualità per essere consegnata alla dominanza, all’esercizio di potere e in casi estremi alla violenza. A questo punto sarebbe interessante decodificare la “dipendenza pornografica” che lei denuncia e andare a scoprire se, sotteso questa dipendenza, non sia tanto il tema della sessualità, quanto il tema del potere e del dominio che gli “impotenti” (in termini non tanto sessuali, ma psicologici) sono costretti a reiterare per una sorta di coazione a ripetere, perché non dispongono di altri spazi, che non siano quelli segreti della pornografia, per esprimere quella pulsione naturale che è l’affermazione di sé.

lunedì 12 febbraio 2007

l'Unità 12.2.07
Ingerenze vaticane
Nuovi Diritti e Vecchi Divieti
di Carlo Flamigni


Ci sono certamente differenti modi di giudicare una scelta politica, e questo vale anche per la recente proposta del governo che ci è stata presentata con l’orribile nome di «Dico». Il primo modo è quello che si ispira al pragmatismo, che guarda ai risultati concreti. Chi segue questa via, si pone una domanda semplice: era possibile fare di più? Se consideriamo la situazione politica del Paese, la prepotenza di una gran parte del mondo cattolico, l’invadenza dei vescovi la risposta è no, non si poteva far di più.
Lo si capisce anche guardando lo sguardo supplice dei tanti parlamentari che temono di non poter essere rieletti senza il voto delle parrocchie e che implorano un buffetto di approvazione da parte del loro vescovo di riferimento. Ammettiamolo dunque, non si poteva fare di più. Con qualche perplessità sul concetto cattolico di mediazione: cento metri da percorrere, li facciamo tutti noi e loro si lamentano ugualmente.
La manifesta soddisfazione dimostrata dalla senatrice Binetti mi fa però sospettare che esistano altri modi di considerare il problema. So per certo, ad esempio, che esistono persone un po’ meno pragmatiche (e un po’ meno ciniche) che vedono nella proposta del governo una rinuncia - piuttosto dolorosa - a un riconoscimento pubblico che molte coppie di fatto si aspettavano e che, in un recente passato, molti rappresentanti della sinistra che sta governando il Paese si erano impegnati ad ottenere. Secondo costoro, il progetto di legge del governo finisce con l’essere una sintesi molto impoverita di contenuti di un lavoro politico che ha evidentemente trovato difficoltà insuperabili all’interno della coalizione di centro-sinistra, ed è inutile perder tempo a spiegare chi come e perché, questi fatti li conosciamo benissimo.
Mi sembra dunque opportuno che ci chiediamo, a questo punto, quanto siano giustificati tutti questi sgomenti, quanto comprensibili queste paure, quanto irresistibili questi ricatti. Comincio così dall’argomento che mi interessa di più: ci stiamo comportando da Paese laico, o il concetto stesso di laicità, attraverso una serie incredibile di travisamenti, ha assunto significati completamente diversi da quelli nei quali le persone come me hanno sempre creduto?
Scelgo un articolo di Giuseppe Dalla Torre, professore di Diritto Ecclesiastico e rettore della «Lumsa», che trovo negli atti del convegno di studio del Comitato Nazionale di Bioetica organizzato in occasione del suo 15° anniversario. Scrive Dalla Torre: «Certo uno Stato laico non imporrà, con la forza del braccio secolare, un’etica al corpo sociale; ma non potrà fare a meno di tradurre in norme quei valori etici che, alla prova delle regole democratiche, risulteranno diffusi e condivisi nel corpo sociale. In maniera più esplicita si deve dire che le comunità religiose... hanno il diritto, ma dire anche il dovere, di intervenire nello spazio pubblico, quindi politico, proponendo i propri valori, e quindi i propri progetti di società cercando democraticamente di acquisire, intorno ad essi, significativi consensi». Un discorso, se non altro, apprezzabile per la sua chiarezza: poiché noi cattolici siamo più numerosi, le nostre regole morali sono migliori delle vostre e possiamo imporle a tutti. Questa definizione di laicità è esattamente il contrario della mia, e mi piacerebbe molto che su questa peculiare enunciazione intervenissero Viano, Lecaldano, Rodotà, Mori, Giorello e gli altri intellettuali laici che l’articolo di Dalla Torre dovrebbe aver non poco turbato. Dal canto mio, e in attesa di riaprire questa discussione se e quando arriveranno tempi migliori, mi limito a segnalare al professor Dalla Torre che tutte - ma proprio tutte - le inchieste che sono state fatte negli ultimi anni in Italia sui temi che vengono definiti «eticamente sensibili» questa maggioranza cattolica ortodossa non l’hanno proprio registrata, anzi. La maggioranza dei cittadini è invece favorevole alla fecondazione assistita, alla pillola abortiva, al diritto di decidere in merito alla fine della propria esistenza, alla pillola del giorno dopo, alla legge 194 e così via fino ai Pacs: ripeto, per chiarezza, Pacs, non Dico. La sensazione, dunque, è che il Vaticano - e i Cardinali, e i Vescovi, e i professori di Diritto Ecclesiatico - abbiano tutto il diritto di difendere le proprie idee e di parlare in nome della propria fede, ma dovrebbero risparmiarci i ragionamenti sulla democrazia e le ipotesi sulle maggioranze. La sensazione è che le loro possibili maggioranze vengano ottenute commerciando, in modo piuttosto truffaldino, in Parlamento, e che non abbiano niente a che fare con il Paese. D’altra parte ricordo che alcuni anni orsono l’allora cardinale Ratzinger, in una intervista a «Repubblica», ammise che la secolarizzazione del Paese aveva comportato un forte perdita di popolarità e di consensi del mondo cattolico, che non poteva essere più considerato maggioranza; ed è di pochi giorni or sono un editoriale di Ezio Mauro nel quale questi stessi eventi vengono esaminati alla luce del nuovo atteggiamento “bellicoso” del Vaticano, volontà di prevaricazione secondo alcuni, servizio secondo altri.
È però legittimo chiedersi, giunti a questo punto, dove in effetti stiano le ragioni “forti” del non possumus della Chiesa cattolica. Per un cattolico, il matrimonio è un sacramento, un atto sacro, un “pegno della fede”; per lo Stato, il matrimonio è un contratto, un istituto giuridico mediante il quale si dà forma legale all’unione tra due persone (per ora di un uomo e di una donna) che stabiliscono di vivere in comunione (di vita, di beni, di interessi) anche in ordine alla formazione di una famiglia. E la famiglia è l’insieme delle persone legate tra loro da un rapporto di convivenza, di parentela e di affinità. A me sembra che lo Stato abbia già richiamato a sé il diritto di definire questo istituto, di stabilirne le regole e i privilegi, assicurandogli oltre tutto una assoluta autonomia nei confronti di sacramenti e di sacralità. Che c’è di male, che c’è di nuovo nel fatto che lo stesso Stato che ha elaborato una prima definizione di matrimonio e di famiglia decida oggi di modificarla tenendo conto degli importanti mutamenti ai quali sono andate incontro le consuetudini sociali? Che c’è di strano, che c’è di immorale nel fatto che tante nuove differenti famiglie stiano cercando di far udire la propria voce, indicando insieme alle proprie sofferenze e ai propri disagi anche la capacità di assumersi l’insieme delle responsabilità che caratterizzano le unioni familiari tradizionali? E ai cittadini (ai cittadini, non ai preti) che chiedono allo Stato sulla base di quali garanzie si accinge a fare certe determinate scelte, lo Stato può rispondere che le garanzie sono tutte lì, nella capacità di queste nuove famiglie di assumersi specifiche responsabilità. Forse che questa dichiarazione di intenti ha un peso diverso dal giuramento fatto davanti a Dio o dalla promessa fatta davanti al sindaco?
Il significato delle parole, è bene ricordarlo, cambia nel tempo, restare appesi alla semantica del passato è sbagliato e perdente. Un genitore non è più, o non è più soltanto, colui che trasferisce il proprio patrimonio genetico al figlio ma è anche colui che promette di essere vicino al bambino che nascerà e si impegna a rispondere alle sue domande e ai suoi bisogni. Non è anche questa una versione molto nobile e dignitosa di genitore?
Anche le abitudini sociali cambiano, e cambiano rapidamente e radicalmente. Negli Stati Uniti - Paese adorato per certe sue prepotenze, ignorato per molte sue debolezze - nel 1992 oltre 6 milioni di bambini venivano cresciuti ed educati da genitori omosessuali, con ottimi risultati a sentire l’American Psychological Association e l’American Society for Reproductive Medicine. Secondo Machelle Seibel, direttore di uno dei più importanti giornali scientifici americani, le coppie omosessuali americane stanno cercando sicurezza per la loro vita comune all’interno di istituzioni riconosciute e protette e per questo si battono per ottenere leggi che consentano loro di sposarsi: quando riescono a farlo, si dimostrano straordinariamente consapevoli delle responsabilità acquisite e si confermano ottimi educatori di figli propri e adottati. Gli eterosessuali, dal canto loro, preferiscono dedicarsi allo hooking-up, il che significa uscire alla sera senza un appuntamento preciso e fare sesso con il primo venuto “per conoscerlo meglio”. Il risultato è che diminuiscono non solo i matrimoni, ma anche le coppie di fatto e la nascita del primo figlio subisce continui rinvii. Chiediamoci dunque: siamo certi che abbiamo ben capito cosa sta accadendo nel mondo? Siamo certi dell’utilità degli strumenti della fede per interpretare e proteggere?
Quando leggo certe dichiarazioni della Cei («il testo normativo... minaccia di incidere pesantemente... sul futuro della nostra società nazionale) mi chiedo se sia in realtà possibile un dialogo, o se la propensione di una certa parte del mondo cattolico non sia invece quella di considerare con affetto e tenerezza la vecchia signora che, guardando al passato, afferma con fierezza «domo mansi, lanam feci», non ho mai lasciato la casa, ho trascorso gli anni a fare la calza. E il desiderio di ragionare con loro di diritti individuali, chissà perché, si dissolve.

Repubblica 12.2.07
Scoprire il dolore dell'anima
Sofferenza mentale: una proposta per una psichiatria a misura d'uomo
di Umberto Galimberti


Eugenio Borgna e Bruno Callieri, tra i maggiori psicopatologi italiani, firmano due saggi sul terribile mondo degli psicotici e dei depressi
I malati hanno bisogno di essere ascoltati e confortati con la parola e non abbandonati ai soli farmaci

Perché la «psichiatria organicista», quella che impiega i farmaci per intenderci, utilissimi, anzi in alcuni casi indispensabili per alleviare le condizioni di chi soffre, non ascolta con una certa continuità e frequenza le parole che sgorgano dalla sofferenza e che riproducono in modo drammatico le condizioni d'esistenza di ciascuno di noi, e in modo vertiginoso alcuni abissi che solo l'arte, la poesia, la musica, la mistica fanno dischiudere, chiedendo spesso il sacrificio dell'artista, del poeta, del musicista, del mistico?
Solo la «psichiatria fenomenologica», che in Italia non si insegna in nessuna scuola di specializzazione, si presta a questo ascolto, per andare incontro alla speranza di chi soffre, sciogliere i vissuti di colpa che incatenano, perforare i muri della solitudine quando nessuna parola la raggiunge, nessun gesto la incrina, fino a quel taedium vitae che tutti, per brevi attimi, avvertiamo come nausea dell'esistenza.
Perché non avviene un'integrazione di questi due orientamenti psichiatrici? Perché la pratica farmacologica sopprime l'ascolto, disumanizza l'uomo, riducendolo ad un «caso» da rubricare in quei quadri nosologici, dove è l'efficacia del farmaco a decidere la diagnosi, mettendo a tacere tutte le parole del dolore che la follia urla e le nostre anime sussurrano. E così disimpariamo il vocabolario emozionale, anche se sappiamo che tutte le parole dimenticate diventano opachi silenzi del cuore, che aprono quei percorsi bui e insospettati di cui ci accorgiamo solo quando approdano a gesti tragici.
Perché la follia sta diventando solo una faccenda «medica» e non più un evento «umano»? Perché la categoria della «malattia» deve occupare tutto lo spazio, fino a oscurare la profonda parentela che esiste tra l'eccesso dell'anima e la sua normale condizione? Perché subito un medico o un farmaco quando la malinconia di un adolescente o la sua angoscia, almeno all'inizio, stanno implorando solo un po' di ascolto? Davvero non abbiamo più fiducia in uno sguardo comprensivo, in una parola che sa corrispondere all'abisso della disperazione? Davvero non abbiamo più tempo in quest'epoca che ci vuole tutti insensatamente gioiosi, e se non riusciamo, almeno mascherati da quella fredda razionalità che non lascia trasparire nessun moto d'anima?
E allora se proprio nessuno ci ascolta, se noi stessi, complici di questa mancata comunicazione, imbocchiamo quella strada che ci porta a tacitare l'anima, per poi offrirci, disarmati, alle sue profonde perturbazioni che neppure sappiamo più riconoscere e tantomeno nominare, se il silenzio intorno a noi e dentro di noi s'è fatto cupo e buio, apriamo un luogo di conoscenza, una terra amica, dove possiamo constatare che le «malattie dell'anima», prima che una faccenda medica o farmacologica, sono condizioni comuni dell'esistenza umana, che i poeti, prima e meglio degli psichiatri, sanno descrivere in tutta la loro abissalità.
Perché i poeti, come ci ricorda Heidegger, sono «i più arrischianti», i più vicini, quando non i più inoltrati negli scenari della follia, dove la condizione umana è descritta fino a quei limiti dove può estendersi e implorare ascolto, accoglienza, ri-conoscenza.
A partire da queste considerazioni propongo agli psichiatri (perché non racchiudano subito la follia nelle mura spesse e opache della malattia) e a tutti noi (per non cancellare fino a dimenticare del tutto le parole dell'anima) due importanti contributi della psichiatria fenomenologica. Uno di Eugenio Borgna Come in uno specchio oscuramente (Feltrinelli, pagg. 230, euro 16), l'altro di Bruno Callieri, Corpo, esistenze, mondi (Edizioni Universitarie Roma, pagg. 320, euro 25). Si tratta dei due maggiori psicopatologi italiani che dall'alto della loro biografia e pratica clinica si espongono in questi libri, raccontando per la prima volta i loro incontri con l'esperienza psicotica a cui si sono offerti, come ospiti ad un tempo stranieri e insieme compartecipi, a quei mondi che oscillano tra realtà e delirio, in uno spazio coartato dall´angoscia o dilatato nel buio senza confine e senza fondo della depressione malinconica, alla ricerca di un senso, dove anche le forme più sgangherate di follia, riflettono le aree tematiche raggiunte dai vertici della poesia, o segretate nelle pieghe della nostra anima di cui non abbiamo più cura.
Seguendo l'intuizione di Brentano, Eugenio Borgna legge la follia come «la sorella sfortunata della poesia». E perciò le esperienze di vita e di morte nelle considerazioni filosofiche di Simon Weil, la malinconia sfibrata e oscura di Emily Dickinson e di Ingeborg Bachmann che si fa musica in Franz Schubert, l'angoscia che soffoca e però trova parola in Georg Trakl ed espressione in Francis Bacon, il destino di dolore è scacco esistenziale di Van Gogh, nelle cui esperienze artistiche trova espressione l'angoscia psicotica, sono quello specchio dove, talvolta oscuramente, talvolta con toni abbaglianti, la condizione esistenziale di noi tutti trova un suo riflesso, una sua descrizione, che la psichiatria organicista trascura, mentre la psichiatria fenomenologica raccoglie per offrirla a chiunque voglia conoscere quanto è segretato nella propria anima, ma mai, per fortuna, definitivamente sepolto.
C'è infatti una creatività sempre incistata nella follia, c'è un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente abitiamo, c'è un desiderio di espandere orizzonti fino alla vertigine del senza-confine, c'è la perla della conchiglia, come vuole l'immagine di Jaspers là dove scrive che: «Lo spirito creativo dell'artista, pur condizionato dall'evolversi di una malattia, è al di là dell'opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell'opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita».
Proprio perché ascolta, invece di tacitare immediatamente il linguaggio della follia con il farmaco, Eugenio Borgna riesce a individuare e a descrivere nel suo libro le differenze tra le connotazioni maschili e femminili dell'anoressia nella sua immersione in un presente divorato dal desiderio narcisistico di un corpo «altro» da quello che si ha, i diversi modi maschili e femminili di vivere la tristezza vitale della depressione e di immaginare la morte volontaria come ultimo orizzonte di una speranza divenuta impossibile. E ancora, riconoscere i volti dell'angoscia nelle differenti risonanze maschili e femminili di vivere gli sconvolgimenti emozionali e le metamorfosi relazionali, dove, come in uno specchio è dato cogliere, oscuramente, quel che è in ciascuno di noi, perché ciascuno di noi, anche se non si accorge, è quotidianamente impegnato ad armonizzare le dissonanze tra il mondo della ragione e il mondo della follia che ci abita.
E a proposito di «mondi» Bruno Callieri descrive con la sensibilità del fenomenologo, da cui si tiene distante la psichiatria organicista, il mondo della vita che ha per soggetto l'esistenza con i suoi vissuti e non l'organismo a cui la pratica medica ha ridotto la nozione di «corpo». Infatti, quando in gioco è la sofferenza dell'esistenza, rapportarsi a un «apparato organico» come fa la medicina o a un «apparato psichico» come fa la psicologia è diverso dal rapportarsi fenomenologicamente a un corpo vivente che dispone di una sua esperienza e di un suo mondo.
Organicamente mi appariranno tensioni nervose e contrazioni muscolari, psicologicamente le dinamiche di quell'energia che Freud ha chiamato «libido», in nessuno dei due casi mi apparirà una successione di esperienze, perché sia l'apparato organico, sia l'apparato psichico sono senza mondo e senza quell'intenzionalità che si dispiega nel desiderio, nel timore, nella speranza e nella disperazione per le cose del mondo.
A questo punto, pensare di comprendere meglio l'esperienza di un corpo vivente che abita un mondo, scindendolo nell'impersonalità dei due sistemi, uno organico e uno psichico, che per definizione non hanno un mondo, perché sono costruiti sui modelli concettuali ricavati dalla fisica e dalla biologia, significa non rendersi conto di quanto sia assurdo tentare di comprendere persone con procedimenti di spersonalizzazione.
Se infatti la follia, come ci ricorda Bruno Callieri, è la scissione nell'uomo, la sua lontananza dagli altri, la sua estraneità al mondo, come si può pensare di guarire applicando una dottrina i cui principi sono l'esatta riproduzione delle componenti della follia? Come si può pensare di condurre all'unità dell'esistenza un uomo «a pezzi», servendosi di una dottrina che non ha mai conosciuto l'unità, ma sempre e solo la giustapposizione dei «pezzi»?
Se è vero, come dice Heidegger che «il linguaggio parla», termini come psico-fisico, psico-somatico, bio-psico-logico, psico-pato-logico, psico-sociale dicono che la psicologia non ha mai conosciuto l'unità dell'esistenza, ma solo la composizione delle parti che la scienza ha già consegnato ai vari sistemi. Il suo sforzo di ricostruzione, come ci ricorda Laing, assomiglia «allo sforzo disperato dello schizofrenico per ricomporre il suo io e il suo mondo disgregati».
Quando la psichiatria organicista presterà ascolto alla psichiatria fenomenologica e imparerà a conoscere le «diverse modalità» della sofferenza esistenziale che non ha organi specifici di riferimento? E soprattutto quando noi, tutti noi, presteremo attenzione all'urlo straziante del folle o al suo muto silenzio, dal momento che non possiamo ignorare che la sua disperazione solo per intensità e frequenza differisce dalla nostra? «Noi siamo un colloquio» diceva Hölderlin dall'abisso della sua follia, e allora incominciamo a parlare e ad ascoltare prima di tacitare o mentre attenuiamo l'urlo o il silenzio con un farmaco. Del resto già Kafka annotava che «scrivere una ricetta è facile, ma ascoltare la sofferenza è molto, molto più difficile».

Repubblica on line 12.2.07
Sono ormai 500.000 le unioni libere. E l'incidenza delle nascite all'interno di queste famiglie è del 15%, il doppio rispetto a 10 anni fa
Istat, aumentano le coppie di fatto e i figli nati fuori dal matrimonio


ROMA - In Italia le coppie di fatto sono in continuo aumento, un fenomeno al quale corrisponde una diminuzione dei matrimoni. Non solo: sono sempre di più le coppie di fatto che scelgono di avere dei figli. L'incidenza dei bambini nati al di fuori del matrimonio, attesta l'Istat nell'indagine 'Il matrimonio in Italia: un'istituzione in mutamento', è attualmente intorno al 15 per cento, cioè quasi 80.000 nati all'anno, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa, quando questo valore era pari all'8 per cento.
"Questo fenomeno - spiega l'Istat - va interpretato nel quadro più generale delle trasformazioni dei comportamenti familiari. Sono infatti sempre più numerose le coppie, ormai oltre 500.000, che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio".
Nel 2005 sono stati celebrati poco più di 250.000 matrimoni. Rapportato al '72 il numero presenta un vistosissimo calo: infatti in quell'anno ne vennero celebrati 419.000.
Oltre alla tendenza a vivere la vita di coppia senza contrarre matrimonio, si è rafforzata nel 2005 (anno di riferimento dell'indagine) la tendenza a posticipare l'età delle nozze per chi invece continua a fare questa scelta: attualmente infatti gli sposi alle prime nozze hanno un'età media che è intorno ai 32 anni e le spose quasi 30, quattro anni in più dell'età che avevano in media i genitori al primo matrimonio.