l’Unità 14.2.07
La sottile linea rossa spezzata dalle spranghe
di Enrico FierroTRENT’ANNI FA l’aggressione a Luciano Lama durante un comizio all’Università di Roma. Quattro testimoni raccontano il 17 febbraio 1977 dalla parte di chi tirava le pietre e da quella di chi, invece, le pietre le prese in faccia Quel giorno è un giorno di quelli che vorresti cancellare dai ricordi. Anche dopo trent’anni. Perché quel 17 febbraio 1977, in Piazza della Minerva, a San Lorenzo, cuore popolare e irrequieto di Roma, morì un’idea e nacque un mostro.
Ore 10 del mattino. Cielo gonfio. Area plumbea. Università occupata dai tetri «autonomi» e dagli irriverenti «indiani metropolitani». L’attacco al cuore dello Stato (che è «borghese» e come tale si abbatte ma non si cambia) e una irritante creatività: in mezzo una marea di giovani. Ragazzi e ragazze, molti fuorisede, moltissimi provenienti dal Sud. Soldi pochi, idee tante, furori e speranze giovanili. Il Pci non è più all’opposizione ma è ancora «un partito di lotta», che però sta al governo. Nel senso che sostiene l’esecutivo guidato da Giulio Andreotti ma non ha ministri.
Da giorni San Lorenzo è in fiamme. A via Dei Volsci si progetta la rivoluzione armata. Dentro l’Università okkupata (con la K, come Kossiga che è il ministro dell’Interno) non entra nessuno.
Le indiscrezioni dell’epoca, che diventano cronaca e poi inevitabilmente storia, ci dicono che fu il rettore Ruberti a chiedere l’intervento dei sindacati e del Partito comunista. Invito accolto. Ci furono riunioni, anche riservate, infine la decisione: entriamo all’Università. E con Luciano Lama, il grande leader del Sindacato. Uomo popolarissimo, tra i capi della Resistenza, leader vero in un tempo in cui i leader non li nominava la tv.
Il segretario della Cgil arriva scortato da un robusto servizio d’ordine di lavoratori. Nei cortili dell’Università - nei pressi dell’Istituto di Chimica - gli «indiani» hanno preparato un finto comizio con un pupazzo che raffigura Lama. Volano sberleffi. Si ride. Ancora per poco. Lama è in piedi su un «Dodge rosso», il mitico camion che ha accompagnato tutte le manifestazioni di Pci e Cgil da Porta San Paolo a San Giovanni. «Cari compagni e care compagne. Studenti...». Volano fischi. Palloncini pieni di vernice rossa. Sputi. Spintoni. Bulloni. Mani giovani impugnano chiavi inglesi. Mani ruvide di lavoratori aste di bandiere.
Testimonianza di un ragazzo che c’era, ed era dall’altra parte del «Dodge» a tirare pietre, conservata nello sterminato archivio del web: «Della giornata in cui Lama fu cacciato dall’università io ho un ricordo molto brutto. Mi é rimasta nella mente un’immagine: un compagno del movimento che durante il fuggi-fuggi del servizio d’ordine del Pci aveva in mano un martello e ha cominciato a rincorrere uno di quelli del servizio d’ordine del Pci, poi si è fermato, è tornato indietro, si è messo a piangere e si è abbracciato con dei compagni. È stato un momento di psicosi collettiva... ».
Testimonianza di chi invece le pietre le prese in faccia. Esterino Montino, oggi è senatore della Repubblica. «Quel 17 febbraio avevo 29 anni ed ero un giovane consigliere regionale del Pci. Allora la Federazione romana era diretta da Paolo Ciofi, Luigi Petroselli era il segretario regionale. Ho un ricordo terribile di quella giornata. Sì, fummo cacciati dall’università. Io che venivo dalle lotte operaie ero diventato la controparte, il nemico. Certo, fu giusto organizzare quella manifestazione con Lama, dovevamo riaffermare il diritto ad una università aperta a tutti. Ma non capimmo, nessuno di noi all’epoca capì che si era rotto qualcosa tra noi, il Pci, e una parte importante della gioventù italiana. Quelli che fischiavano in Piazza della Minerva non erano solo autonomi. Ma erano ragazzi che nel ’75 e nel ’76 ci avevano fatto vincere. Ci avevano dato una forza straordinaria e quel giorno ci isolavano. Più ci avvicinavamo ad un percorso istituzionale, più ci allontanavamo da loro. No, quel giorno a lanciare pietre e a scontrarsi con operai, impiegati, insegnanti, non c’erano solo autonomi già sulla sottile linea di confine col terrorismo, ma giovani, con le loro idee, le loro speranze, e soprattutto il loro malessere. La verità è che non capimmo...».
Non solo futuri brigatisti in piazza quel giorno, ma anche gruppi della sinistra estrema (extraparlamentare si diceva allora). Critici in modo duro verso il Pci, ma destinati «a fare da cuscinetto tra i sindacati e gli autonomi». Frase di Silvio Di Francia, oggi assessore alla Cultura nella giunta Veltroni, ieri dentro Lotta continua e i Collettivi universitari. «Quel 17 febbraio lo ricordo come il giorno dell’amarezza. In molti gestirono quell’evento con una mentalità militare. Rioccupare l’università, resistere, cacciare i comunisti. Questi erano i termini della questione. Fin dalla sera prima avevamo cercato di convincere il Pci e la Cgil a non fare quella manifestazione con Lama. Cercammo di evitare lo scontro ma fummo tutti travolti. La sera, poi, arrivarono i blindati di Cossiga e il Pci, dal canto suo, scatenò la caccia all’uomo. Senza capire che c’era una profonda differenza tra la parte creativa del movimento - sempre in polemica con quelli di autonomia - e l’ala militarista. Insomma, volevamo fare il nostro Sessantotto e finì male. Eravamo una generazione fragile. Il ’77 fu l’anno della modernità rotta, ci fu la lunga stagione del terrorismo, poi il riflusso, gli anni Ottanta e il craxismo, ma quell’anno nacque qualcosa a Roma che aprì una speranza. L’estate romana, il cinema a Massenzio...».
E i giornali? Come raccontarono quel giorno? «I giornali - ricorda Sergio Criscuoli, nel ’77 cronista de l’Unità, oggi caporedattore del Tg3 al servizio esteri -, soprattutto quelli di sinistra, si divisero». Sergio è quel signore dalla barba ben curata che per anni ha letto la rassegna stampa notturna al Tg3. Gli leggiamo due titoli di prima pagina. Repubblica: «La rabbia studentesca esplode all’Università», occhiello, «Il comizio di Lama scatena gravi incidenti tra gli autonomi e i comunisti». L’Unità (allora «organo»): «Ferma condanna dell’aggressione squadristica di Roma», occhiello, «L’ignobile attacco contro la manifestazione del sindacato e degli studenti».
«Guarda che riscriverei quel pezzo uguale. Perché quel giorno era un po’ tutto annunciato, il copione era già scritto, da una parte e dall’altra. Gli autonomi volevano attaccare Lama, il servizio d’ordine del Pci e del sindacato sapeva bene di affrontare una situazione pesante, ma non poteva fare diversamente. Si trattava di esercitare un diritto. La verità è che gli autonomi volevano creare una frattura tra studenti e mondo del lavoro. Come raccontai quella giornata? Adottando la tecnica dell’alberello...».
Prego? «Ma sì, mi misi dietro un albero per ripararmi e per poter osservare meglio la scena. Sapevo che sarebbe scoppiato l’inferno. E fu un pugno nello stomaco, la conferma della deriva militare ed extralegale di una parte del movimento. Lo scontro di piazza serviva come momento catalizzatore per quelle forze che si stavano organizzando per la lotta armata. Il linguaggio dei pezzi dell’Unità non era appropriato, ma per difetto, non certo per eccesso. Perché era difficile non sentire dietro le cose che vedevi (la gente armata e non solo di spranghe ma anche di pistole) il sapore dello squadrismo, che non era fascista, ma ne mutuava i metodi. Nel pomeriggio ero fuori dalla Sapienza con altri colleghi, gli autonomi erano dentro e sparavano, le pallottole ci fischiavano sulla testa. Ricordo le lunghe discussioni con Silvana Mazzocchi e con Carlo Rivolta. Ne abbiamo parlato per anni, ci siamo divisi, anche in modo doloroso. C’era chi, come noi, vedeva in quella giornata una prova generale di guerra civile, e chi credeva che il movimento potesse essere l’antidoto al dilagare della violenza terroristica. Ferite che si sono trascinate per anni...».
17 febbraio 1997, il giorno in cui due mondi non seppero parlarsi. Nella loro incomunicabilità si perse una generazione divorata dal mostro del terrorismo.
l’Unità 14.2.07
ARCHIVI Un articolo di Laura Ingrao che, quel giorno, era in piazza Minerva insieme agli studenti
Che rabbia vedere quei ragazzi contro i ragazzi
di Laura IngraoQuesto resoconto «di prima mano» di Laura Ingrao uscì su Paese Sera, ed è stato ripubblicato da Chiara Ingrao nel suo libro Soltanto una vita (Baldini Castoldi Dalai).Tutto è stato raccontato; più o meno è sotto come lo avete raccontato. Ma quando ci si ritrova in mezzo, tutto sembra ancora più incredibile, assurdo, ha le dimensioni di uno strano giocare in cui ci può scappare il morto e il morto puoi essere anche tu. Tutti quei lunghi bastoni, mattoni, pezzi di marmo che volavano letteralmente, diretti all’impazzata contro un raggruppamento vasto e cordiale di ragazzi e ragazze, di sindacalisti, di giovani e meno giovani, appariva come qualche cosa di così totalmente assurdo che stravolgeva ogni tuo concetto, formatosi attraverso anni di esperienza tue e degli altri, di «scontro di piazza». Era d’altronde evidente che i due o trecento «armati» costituivano un gruppo con una tecnica non improvvisata, carica di un compito prestabilito di «scontro fisico», diretto in modo preciso a offendere, ferire, possibilmente mortificare una qualsiasi espressione di democrazia organizzata, a scompigliare perciò, una «manifestazione», sentita in sé e per sé come qualcosa di odioso, qualcosa da distruggere nel suo scarno rituale, fatto di un palco, di un microfono, di un discorso, di gente che ascolta. I ragazzi (solo studenti?) che con spranghe, coltelli, sampietrini, legni usati come dardi e vernici aggredivano la forte e composta presenza intorno, a Lama e ai sindacati, recitavano, in forma quasi allucinante, una loro «battaglia di strada»: strana battaglia tra inermi convenuti per «non battersi» e squadre impegnate in scorribande feroci. Faceva rabbia ritirarsi, ma faceva anche rabbia pensare di poter essere colpiti da quegli assurdi «nemici». Nemici di chi? Nemici di tutto evidentemente.(...)
Forse di ognuno di quei ragazzi come gli altri, giubbotti, sciarpe, capelli corti o lunghi, berretti di lana colorata e jeans, in quei ragazzi che obiettivamente si muovevano come se davanti a loro non ci fossero studenti e operai ma «nemici da distruggere», forse in ciascuno di quei ragazzi di cui Pasolini parlava con profetica angoscia, si nasconde una disperazione, una esperienza già maturata di esclusione da «tutto»?.
Forse. Ma sono egualmente figli della soffocante periferia romana, pendolari del Sud, studenti, lavoratori sottocosto o candidati disoccupati anche quegli altri che non hanno cercato lo scontro fisico e più tardi vedo stravolti, furibondi, le ragazze che piangono umiliate, le ragazze e i ragazzi che, disciplinatamente, non hanno portato con sé neppure una chiave inglese in saccoccia, che sono lì, davanti ai giornali e alla vicina Federazione comunista, a discutere, a riflettere, a pensare al domani.
Scrivo nel pomeriggio di questo orrendo giovedì grasso, in cui, tra l’altro, gli occupanti avevano giorni fa programmato di fare «una festa». So che a questa festa dovevano andare studenti e studentesse anche delle medie a cantare canzoni e a beffare tutti, a chiudersi per qualche ora in quella «coperta di Linus» che è per tanti lo stare insieme in uno spazio tutto loro (o che immaginano tutto loro). Ma a quest’ora l’università di Roma è già stata sgomberata e il telegiornale ne porta le immagini tristissime di ogni operazione del genere, insieme alle ambigue mezze verità della ricostruzione dei fatti. Quel che ho visto questa mattina mi fa pensare con amarezza estrema ai colleghi insegnanti ammazzati a Piazza della Loggia, durante una assemblea sindacale; ed è tristissimo. Sono insegnante da molti anni: se sono stata stamattina all’Università; se a 50 anni suonati ho «fatto» il 68, è perché, in qualche modo, come si dice, «sono tutti miei figli». Ho cercato di capirli, ma soprattutto di fare la strada con loro, imparare da loro: da quelli che hanno le famiglie repressive e noiose, da quelli che cambiano pelle e la fanno cambiare. Mi è molto difficile oggi, per non dire impossibile, capire dal di dentro quel che è successo.
l’Unità 14.2.07
Vaticano. Storiche Ingerenze
di Vittorio EmilianiSiamo un Paese a laicità limitata? In effetti, la presenza del papa a Roma ha sempre condizionato in modo assai più stringente che altrove la politica interna, anche più che nella (una volta) cattolicissima Spagna. Nei giorni scorsi si sono spesso rievocati il «Non possumus» e il «Non expedit» (1874) papali che tanto a lungo hanno tenuto lontani i cattolici dall'impegno democratico.
E li hanno tenuti lontani proprio nei decenni di costruzione dello Stato unitario. Oppure si è rievocata la continua commistione fra fede e politica praticata da papa Pacelli dopo la nascita della Repubblica italiana. Per concludere che non c'è molto di nuovo in tal senso sotto il sole di Roma.
Certo, erano anni che non sentivamo così pressante, quotidiano, martellante l'intervento vaticano nelle vicende di casa nostra. Troppo facile rispondere a questo allarme che la Chiesa cattolica ha sempre agito così, andando, anche in tempi recenti, ben al di là della riconosciuta libertà di richiamare i fedeli ai principii fondamentali della fede. Fu così, certamente, durante il papato di Pio XII che, ossessionato, fin dagli anni del primo dopoguerra in cui era stato Nunzio in Germania, dall'incombente pericoloso «rosso», concorse potentemente ad alzare con tutte le forze del collateralismo cattolico la «diga al comunismo». Facilitato in ciò anche dalla sciagurata scelta (più di Nenni che di Togliatti, in verità) del Fronte Popolare con un'unica lista. Il papa divenne quindi uno dei protagonisti del trionfo democristiano del 18 aprile 1948, assieme alle parrocchie (ragazzino, ricordo bene i cappellani e i parroci direttamente impegnati in campagna elettorale), ai Comitati civici, all'Azione cattolica, alla Fuci, alla Coldiretti e alla Dc naturalmente. La quale tuttavia era nata come «partito dei cattolici» (e non cattolico), quindi con un impianto laico, e svolse anche allora, con Alcide De Gasperi, un ruolo fondamentale, oggi ampiamente riconosciuto, di mediazione politica a tutto campo. Quando infatti, nel 1952, il Vaticano pretese, purtroppo con un don Luigi Sturzo invecchiato e lontano dalle impostazioni originarie, di piegare la Dc ad un listone con la destra neofascista alle comunali di Roma, la risposta del partito fu negativa e la diede lo stesso De Gasperi. Il quale, del resto, già nel '48, pur avendo la maggioranza assoluta dei seggi in uno dei due rami del Parlamento, volle dare vita a governi di coalizione coi tre partiti laici, Psdi, Pri e Pli.
Gli anni '50 furono anni difficili per il laicismo in Italia, la presenza della Chiesa era capillare e spesso arcaica, la censura cinematografica e teatrale era occhiuta, a volte asfissiante, socialisti e comunisti risultavano ancora scomunicati, nell'agosto del 1956 il vescovo di Prato, monsignor Pietro Fiordelli, bollò in una lettera pubblica al parroco due fedeli uniti soltanto civilmente come «pubblici peccatori e concubini» escludendoli dai riti e dai sacramenti. Fu uno scandalo clamoroso. Ma ve ne fu un altro all'incontrario allorché su querela dello sposo, Mauro Bellandi, il vescovo pratese venne condannato, sia pure ad una ammenda di 40.000 lire, e vi fu chi ne prese le difese, fra cui il Corriere della Sera. Eppure la Dc coltivava da qualche anno un dialogo coi socialisti preparando la cosiddetta «apertura a sinistra». Al Congresso del Psi di Venezia del 1957 si verificò un fatto del tutto insolito e inatteso: il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Roncalli, rivolse infatti ai congressisti un manifesto di saluto che stupì. Poco tempo prima egli aveva duramente condannato una possibile intesa veneta fra Dc e Psi provocando la fine del giornale democristiano che l'aveva sostenuta, Il Popolo del Veneto. Era un primo segnale di apertura al dialogo quel manifesto? Lo era. Tant'è che Roma intervenne subito perché il patriarca ritrattasse. Come avvenne.
Del resto, ancora nel 1959, il gesuita padre Antonio Messineo sosteneva su Civiltà cattolica che l'apertura a sinistra «urta contro un preciso e insuperabile divieto della morale», ammissibile soltanto come «scelta del male minore per evitare il male maggiore». Da escludersi però in caso di accordo col Psi, partito di tradizione, oltre tutto, orgogliosamente laica. Come ben sottolinea Giuseppe Tamburrano nel suo volume su Cronaca e storia del centrosinistra (BUR, 1990), il coro della stampa cattolica - oltre che di quella confindustriale - contro possibili intese fra Dc e Psi era presso che unanime e lo stesso papa Giovanni XXIII, almeno prima del 1960, nei primi due anni di pontificato, «ruppe con l'indirizzo pacelliano (...) con molta prudenza e direi lentezza». Mentre le gerarchie si mantenevano del tutto allineate alle vecchie posizioni, a cominciare dallo stesso «amletico cardinale Montini» (la definizione, privata, è dello stesso Roncalli) il quale, in materia, fu molto reciso nel ribadire la sua conformità «ai ripetuti avvertimenti della sede apostolica». La strategia di Giovanni XXIII mutò in modo netto con l'enciclica «Mater et Magistra» in cui ai cattolici venne riconosciuta una concreta autonomia in politica e con la susseguente «Pacem in terris», enciclica sociale, economica, definita «keynesiana» dagli osservatori anglosassoni. L'apertura del Concilio Vaticano II esigeva, del resto, la rivalutazione del ruolo pastorale della Chiesa e dei suoi vescovi. E tuttavia la parte più conservatrice delle gerarchie si espresse in modo pesante (il cardinale Ottaviani parlò di «vergognoso baratto») quando la Dc decise l'alleanza coi socialisti. Ma al timone c'era Aldo Moro il quale poteva assicurare all'interno e all'esterno che «l'autonomia è la nostra assunzione di responsabilità (...) morale e politica».
Il cammino di quel primo centrosinistra sarebbe stato fecondo e insieme assai travagliato, col drammatico luglio 1964, dove peraltro la Chiesa non ebbe ruolo primario, lo ebbero le forze economiche tese ad indebolire (come accadde) il riformismo del centrosinistra, in materia di politica economica e di urbanistica. Con un sindacato, la Cgil, che, dal lato opposto, all'epoca respingeva la proposta del ministro socialista Antonio Giolitti di «moderare» al 12 per cento le rivendicazioni salariali. Certo, la Chiesa non poteva vedere con favore la riforma sanitaria che potenziava e modernizzava strutture pubbliche subalterne da secoli alla rete privata e quindi anche religiosa. Analogo discorso valeva per la scuola pubblica rispetto a quella confessionale. Fu tuttavia il finanziamento statale, preteso dalle forze cattoliche per le scuole materne, per lo più religiose, a creare «l'incidente» sul quale si ebbe la tormentata e decisiva crisi di governo del 1964.
Durante il pontificato di Paolo VI, papa problematico, inquieto, colto, le occasioni di grave frizione furono date soprattutto dalla legislazione sulla famiglia e in particolare dalla legge sul divorzio proposta da un liberale, Antonio Baslini, e da un socialista, Loris Fortuna, quest'ultimo anche con tessera radicale, sospinti più dalla pubblica opinione che dai partiti (radicali a parte). Essa passò in Parlamento nel dicembre del 1970 fra polemiche molto accese. La Democrazia Cristiana pensò a lungo di poterla modificare agitando lo spauracchio del referendum abrogativo e anzi gettandolo più volte sul tavolo delle trattative sia per il governo che per la presidenza della Repubblica. Il Pci temeva il referendum, allarmato da una irreversibile rottura dei rapporto coi cattolici. Poi, quando Amintore Fanfani, sospinto dalle gerarchie ecclesiastiche (con più di una crepa, era contrario, ad esempio, il cardinale Pellegrino, arcivescovo di Torino), si gettò nella mischia, la sinistra fu unita, insieme alle forze laiche, radicali, dello stesso dichiarato e coraggioso dissenso cattolico, nel sostenere le ragioni del NO. Che ebbero dagli italiani un sostegno inaspettatamente forte e deciso. In età avanzata Fanfani, col quale ebbi occasione di numerosi incontri privati, manifestò scetticismo e anche ironia su quella sua scelta di campo referendaria.
L'altro momento di ingerenza diretta del papato nella vita politica italiana fu certamente quello del voto parlamentare e poi del referendum sulla legge per l'interruzione di maternità. Giovanni Paolo II, di cui si tendono a sfumare certi aspetti sessuofobi e misogini (quasi che Benedetto XVI sia piovuto da altri mondi), apparve con la solennità delle grandi occasioni, impugnando il pastorale, dalla loggia centrale di San Pietro per invocare una pronuncia popolare contro la legislazione sull'aborto. Invano anche stavolta, perché italiane e italiani convalidarono a grande maggioranza quella civile, sofferta legislazione.
Quindi, gli atteggiamenti di questi giorni di papa Ratzinger, dei cardinali, dei vescovi non rappresentano una grande novità, purtroppo, sotto il sole di Roma. Rappresentano il segno di una continuità in comportamenti lontani dall'evolversi della società e in conseguenti, palesi ingerenze nella vita politica italiana. Nella cui scena manca, purtroppo, il «partito dei cattolici», con la sua natura laica, con la sua cultura della autonomia nella responsabilità, mentre gli altri partiti sono presenze indebolite, o caricature di partiti come Forza Italia il cui leader, divorziato e risposato, «difende i valori della famiglia» in senso cattolico. Probabilmente al plurale.
E Casini guarda soltanto all'immediato, alla possibilità di far cadere sui Dico il governo Prodi, senza la vista lunga di Moro e di altri. Tutto si gioca nel contingente, nel brevissimo periodo, mentre la Chiesa si arrocca a difesa della unicità dei matrimonii religiosi che quest'anno nella stessa Roma, di cui è vicario il pontefice, sono calati del 20 per cento. Pensare di frenare o, addirittura, di fermare questa crisi profonda e lontana entrando, o rientrando, pesantemente in politica non sembra per niente saggio. È possibile che crei, per reazione, una ripresa di consapevolezza dei valori laici dello Stato democratico moderno. Non se ne può più di vivere in uno Stato a laicità, e quindi a sovranità, limitata.
Repubblica 14.2.07
Se la Chiesa sfida la Costituzione
di Stefano RodotàÈ ormai evidente che le gerarchie ecclesiastiche hanno deciso di collocare i loro interventi e le loro iniziative in una dimensione che va ben al di là del legittimo esercizio della libertà d´espressione e dell´altrettanto legittimo esercizio del loro magistero. Giudicano i nostri tempi con una drammaticità che fa loro concludere che solo una presenza diretta, non tanto nella società, ma nella sfera propriamente politica, può rendere possibile il raggiungimento dei loro obiettivi. E così espongono anche i loro comportamenti ad un giudizio analogo a quello che dev´essere pronunciato sull´azione di qualsiasi soggetto politico.
Benedetto XVI ha affermato in modo perentorio che «nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto con il diritto naturale». Ed ha aggiunto che non si possono ignorare «norme inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore o dal consenso degli Stati, ma precedono la legge umana e per questo non ammettono deroghe da parte di nessuno». Di rincalzo, il Presidente della Commissione Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, da almeno dieci anni protagonista indiscusso del corso politico della Chiesa, ha annunciato una nota ufficiale con la quale verrà indicato il modo in cui i cattolici, e i parlamentari in primo luogo, dovranno comportarsi di fronte al disegno di legge sui "diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi", i cosiddetti "Dico". Così, in un colpo solo, viene aperto un conflitto con il Governo, affermata la sovranità limitata del Parlamento, azzerata la Costituzione.
Le parole sono chiare. Se nessuna legge può sovvertire la norma indicata dal Creatore per la famiglia, la legittima approvazione del disegno di legge sui Dico diviene un atto "sovversivo" del Governo. Se i parlamentari cattolici devono votare secondo le indicazioni della Chiesa, viene cancellata la norma costituzionale che prevede la loro libertà da ogni "vincolo di mandato" e l´autonomia e la sovranità del Parlamento devono cedere di fronte ad istruzioni provenienti da autorità esterne. Se non sono ammesse leggi che non corrispondono al diritto naturale, la tavola dei valori non è più quella che si ritrova nella Costituzione, ma quella indicata da una legge naturale i cui contenuti sono definiti esclusivamente dalla Chiesa.
Il crescendo dei toni e delle iniziative, nell´ultimo periodo soprattutto, rendevano prevedibile questa conclusione, peraltro annunciata dal "Non possumus" proclamato qualche giorno fa. Viene così clamorosamente confermata l´analisi che aveva colto nella linea della Chiesa l´intento di realizzare molto di più di un provvisorio allineamento della politica su una particolare posizione definita dalle gerarchie ecclesiastiche, di cui i parlamentari cattolici divenivano il braccio secolare. L´obiettivo era ed è assai più ambizioso: una vera "revisione costituzionale", volta a sostituire il patto tra i cittadini fondato sulla Costituzione repubblicana con un vincolo derivante dalla gerarchia di valori fissata una volta per tutte dalla Chiesa attraverso una sua versione autoritaria del diritto naturale (non dimentichiamo, infatti, che il diritto naturale conosce anche molte altre versioni, comprese quelle che non prevedono proprio la famiglia tra le istituzioni discendenti da tale diritto). Viene così travolto anche l´articolo 7 della Costituzione che, disciplinando i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, stabilisce che questi due enti sono, "ciascuno nel proprio ordine", "indipendenti e sovrani". Nel momento in cui la Chiesa proclama che vi sono "norme inderogabili e cogenti" che non possono essere affidate alla volontà del legislatore, nega in queste materie l´autonomia e l´indipendenza dello Stato e sostituisce la propria sovranità a quella delle istituzioni pubbliche. Il patto costituzionale tra Chiesa e Stato viene infranto, quasi denunciato unilateralmente.
Questo è il quadro istituzionale e politico disegnato con assoluta nettezza dai molti interventi vaticani. Un quadro di rotture e di conflitti, davvero sovversivo delle regole costituzionali, con una delegittimazione a tutto campo delle iniziative di Governo e Parlamento che trasgrediscano ciò che la Chiesa, unilateralmente, stabilisce come "inderogabile e cogente". Sapranno le istituzioni dello Stato rendersi conto di quel che sta accadendo? Non devono ritrovare solo l´orgoglio della propria funzione, ma il senso profondo della loro missione, la stessa loro ragion d´essere, che ne fa il luogo di tutti i cittadini, credenti e non credenti, comunque liberi e degni d´essere rispettati in ogni loro convinzione, e in ogni caso fedeli, come devono essere, alla Costituzione e ai suoi valori.
Repubblica 14.2.07
Bertinotti difende il sindacato "Unità di popolo contro le Br"
di Silvio BuzzancaROMA - Il sindacato è stato determinate nella lotta per sconfiggere il terrorismo degli Anni 70. E oggi, come allora, serva l´unità di tutte le forze per battere le rinate Brigate Rosse. Fausto Bertinotti, all´ora di cena e dagli schermi del Tg1, spezza una lancia a favore della Cgil, bersagliata per tutta la giornata dalla Cdl con l´accusa più o meno esplicita di connivenza con i terroristi. Accusa accompagnata con quella a Rifondazione e ai partiti della sinistra radicale di creare con le loro lotte un clima adatto all´attività dei brigatisti. A cominciare dalla prossima manifestazione di Vicenza.
Parole gravi, tanto che il presidente della Camera sente il bisogno di ricordare come negli Anni di Piombo «il sindacato ha avuto forse il compito più difficile nella lotta al terrorismo, quello di prosciugare l´acqua in cui nuotavano i terroristi. Lo ha fatto con grande coraggio e grande determinazione». Un ragionamento che il presidente della Camera conclude con un invito alla «mobilitazione delle coscienze contro il terrorismo e per bandire la violenza» e a ricreare la stessa «unità di popolo che fu decisiva per sconfiggere il terrorismo».
Parole che sembrano un tentativo di ricondurre a ragione un dibattito molto aspro. Soprattutto a destra. Nonostante Franco Giordano, segretario di Rifondazione, assicuri: «La nostra condanna del terrorismo è netta. Considero assolutamente indebito ogni collegamento tra gli arresti e la manifestazione di Vicenza, che sarà grande, libera e democratica». Ma la polemica non si placa. Per il momento si salva Prodi che dall´India si limita a congratularsi con magistrati e investigatori, dice che è stato dato «un colpo duro, spero anzi letale » alle Br. E alla domanda sul link fra gli arresti e Vicenza, risponde: «Questi gruppi sono stati presi; quindi basta. Questa è una grande soddisfazione».
In Italia invece la Cdl attacca. Prima La Loggia e la Bertolini lamentano che dall´Unione non è arrivata la solidarietà al "bersaglio" Berlusconi. Quando arriva da parte di Veltroni, Lusetti e altri, il tiro si sposta sulla criminalizzazione del Cavaliere come fattore scatenante del possibile attentato. Lainati rievoca un discorso di Angius che replica piccato. Po tocca al coordinatore Bondi che dice: «La sinistra estrema parla ancora il linguaggio della lotta totale a vari livelli con un´intensità per cui la violazione della legge e l´assassinio politico possono diventare l´atto più coerente e definitivo».
Nel tritacarne entra la Cgil. «La novità rispetto al passato è che le nuove Br oggi hanno solidi riferimenti nella Cgil ed in alcuni partiti della sinistra», azzarda Ronconi, Udc. Nel migliore dei casi si gira intorno al tema. «Non vorremmo che si sottovalutasse il grado di infiltrazione nella Cgil», dice il segretario del Pri Nucara. Nel peggiore, Gasparri, dice che «la sinistra esalta i cattivi maestri e arma nuovi alunni». E alla fine si arriva a Vietti, Udc, che spiega: «Chi soffia sul fuoco del conflitto sociale deve porsi responsabilmente anche il problema degli effetti destabilizzanti che ne possono derivare». Ma l´Unione respinge al mittente sia l´attacco alla Cgil, sia la criminalizzazione del dissenso. «I tentativi di strumentalizzazione messi in atto da alcuni rappresentanti della Cdl sono davvero incredibili e squallidi», dice Alfonso Pecoraro Scanio. Anna Finocchiaro replica alla Cdl che «la storia ha già sconfitto da molto tempo l´equazione secondo cui la sinistra sia produttrice delle Br». E Dario Franceschini aggiunge: «Non facciamo confusione, non si può fare nessun collegamento anche con le frange più estremiste del panorama politico italiano».
Repubblica 14.2.07
"C´è solo il disprezzo assoluto"
Foa: rivivo stagioni del passato, odio i brigatisti di ieri e di oggi
Ma per il padre nobile della sinistra, ex leader Fiom, il disagio sociale non va criminalizzato
di Goffredo De MarchisROMA - Vittorio Foa è nella sua casa di Formia. Ha 97 anni, ne ha vissuti otto nelle carceri fasciste, altri in Parlamento, altri ancora dietro una cattedra universitaria. È il padre nobile della sinistra al quale si rivolgono i leader per raccontare ai ragazzi la storia con una presenza, una faccia che ha attraversato tutto il secolo scorso. E infatti esordisce: «Sono troppo vecchio per l´attualità». Ma ha ascoltato i telegiornali, attraverso i resoconti dei giornali ha potuto ricostruire la mappa di queste nuove Brigate rosse: ex terroristi, sindacalisti, operai. Anche giovani, incredibilmente attratti da un mostro ormai vecchio di trent´anni. «Davvero non so da dove cominciare - sospira, ma sempre con quel tono vigoroso, da ex leader del sindacato - . Odiavo i brigatisti di allora e odio quelli di oggi». È stato nella Fiom nell´immediato dopoguerra, nel ‘55 ne è diventato segretario nazionale. Oggi la sigla dei metalmeccanici della Cgil è in prima pagina perché molti degli arrestati vengono da lì, da quel gruppo. È vero che lui ha sempre cercato di focalizzare anche «il disagio sociale, un disagio che non va criminalizzato». Ma la recrudescenza che emerge dagli atti dell´inchiesta davvero fatica a incasellarla in una categoria di analisi. «Guardi, non credo ci sia molto da ragionare su questo fenomeno. Non ha senso. Per le persone coinvolte posso avere solamente parole di dis-prez-zo. Disprezzo assoluto», scandisce al telefono.
Odiare chi odia. Disprezzare chi è pronto ad accendere la violenza nel nome di «una periferia sociale e culturale» che certo esiste. Già otto anni fa, dopo l´omicidio di Massimo D´Antona, non aveva fatto sconti. «Forse anche nel sindacato - disse Foa, che nello stesso sindacato aveva trascorso una parte della sua lunga vita - occorrerebbero maggiore chiarezza e maggiore durezza». E poi la scoperta di tanti volti giovanissimi: 23 anni, 27 anni... Allora il suo appello aveva come obiettivo proprio le nuove generazioni: «Occupiamoci meno dei vecchi e più dei giovani. Sono in pericolo, dobbiamo metterli in guardia». Certo, oggi sono gruppi sparuti mentre «negli anni ‘70 - è il ricordo del padre nobile della sinistra - il linguaggio della follia era generalizzato». Il che non significa che la follia non si avverta nelle intercettazioni della nuova ondata brigatista. «È un´eco», ammette Foa.
Quando l´ex Prima linea Sergio Segio aveva lanciato l´allarme sulle infiltrazioni terroristiche nel movimento e nel sindacalismo di base, Foa aveva respinto l´accusa, difeso la maturità della sinistra. «Le ambiguità rimangono, ma questa no - disse nel 2003 - . Quello che vedo è una destra pronta a strumentalizzare le lotte sindacali. Mi sembra però una reazione fisiologica». Oggi confermerebbe quel giudizio? Non c´è tempo per chiederglielo. Perché il blitz di lunedì lo ha colto di sorpresa: pedinamenti, prove di fuoco, armi nascoste nell´orto, una lista di bersagli. Non pensava che avrebbe rivisto questo film tragico. «È un effetto perverso della vecchiaia: rivivere stagioni che sembravano superate - spiega dalla casa di Formia -. Adesso voglio saperne di più, ma non credo che ci sia molto da capire. Ripeto: non ha senso. E per chi ha messo in piedi tutto questo io provo solo disprezzo».
Repubblica 14.2.07
Intervista con Giovanni Reale
Così Ratzinger è più uomo che teologo
Non si ama solo un corpo ma la bellezza della sua anima
di Luciana SicaPapa Ratzinger ha smesso i panni dell´intellettuale astratto, del teologo sofisticato, per proporsi come uomo, interamente calato nell´essenza dell´uomo che è la sua capacità d´amare e di essere amato. Questa è l´opinione di Giovanni Reale, professore di Storia della filosofia antica al San Raffaele, autore di molti saggi importanti, tra cui il celebre manuale con Dario Antiseri, Storia della filosofia occidentale, best seller tradotto in varie lingue, anche in russo: tra i vari riconoscimenti, Reale è piuttosto orgoglioso di vantare anche quello di professor honoris causa a Mosca.
Le va bene la definizione di "cattolico liberale"?
«Sono un cristiano aperto, molto aperto, liberale certamente...».
Come giudica il messaggio del Papa in cui si parla di un atteggiamento erotico di Dio verso l´uomo?
«Il Papa ha voluto ricordare che la religione non è filosofia, non è astrazione, toccando il problema di fondo dell´uomo che è l´amore. Sa cosa diceva Agostino? "Se tu non ami, sei niente". Puoi avere tutto, ma quel tutto che hai è niente, perché è l´amore a consentirti di essere quello che sei, tu sei quel che ami».
Ma nella nozione di eros, è implicita la sensualità, qualcosa di molto corporeo, lei non crede?
«Eros è senz´altro passione d´amore, è una forza acquisitiva che agisce per prendere e far proprio, che nasce dalla mancanza di qualcosa di cui abbiamo bisogno e che ci porta, mediante la bellezza, a salire più in alto... L´aspetto corporeo è solo il punto di partenza: è piccola cosa, ci dice Platone nel Simposio e nel Fedro, perché quando ami il corpo di un altro, ami sempre il bello che c´è in quel corpo».
Non è detto, non è sempre detto.
«Quando ami davvero il corpo di un altro, ami sempre la bellezza della sua anima, questa è la cosa stupefacente. E l´amore "sale" ancora di più quando si amano le opere dell´anima, la conoscenza filosofica che raggiunge l´unione mistica se riesce a cogliere il bello in sé: l´assoluto».
Dunque non è sorprendente che il Papa parli di un eros di Dio nei confronti dell´uomo...
«Dice Ratzinger che l´eros di Dio per l´uomo è insieme totalmente agape, amore cioè puramente donativo: eros e agape si congiungono. La trovo un´affermazione di grandissima importanza, mostra - prima ancora che un intellettuale - un uomo che ha capito profondamente l´amore in tutte le sue sfaccettature, come un´unica realtà che ha diverse dimensioni da non contrapporre».
Il Papa ha parlato anche di un´impossibile autosufficienza dell´uomo, sedotto dalle menzogne del Maligno... Lei trova convincente questo linguaggio?
«Sì, pensi quanto l´uomo è danneggiato dalle promesse illusorie della scienza e della tecnica che dovrebbero risolvere tutti i problemi dell´uomo. È chiaro che non è così, e che certi problemi possono essere risolti solo attraverso l´amore».
Repubblica 14.2.07
DIO CHE INCONTRA L'EROS
Una frase del pontefice scritta nel Messaggio per la Quaresima
Nell'amore divino non c'è solo "agape" cioè ricerca del bene dell'altro ma anche passione
"L'Onnipotente attende il sì delle sue creature come un giovane sposo"
Due termini della cultura greca già al centro della prima enciclicaCITTA DEL VATICANO. «Dio - disse papa Luciani - è anche Madre». Dio, ha scritto papa Ratzinger nella sua prima enciclica, è Amore. Adesso il papa teologo fa un salto più in là. Dio, afferma nel suo messaggio quaresimale, è anche Eros. Perché «l´Eros fa parte del cuore stesso di Dio». E´ un´immagine audace, che rivela quanto Joseph Ratzinger sia attratto e affascinato dal mistero dell´amore divino e quanto lo incanti quel cuore pulsante della Divinità, cui da teologo tenta di avvicinarsi.
«L´amore di Dio è anche Eros: nell´Antico Testamento - sostiene Benedetto XVI - il Creatore mostra verso il popolo che si è scelto una predilezione che trascende ogni umana motivazione». Agape ed Eros, due termini della cultura greca, erano al centro della sua prima enciclica Deus Caritas Est. Scriveva il papa-teologo che l´esistenza umana ruota intorno all´amore (eros) che cerca la felicita «nell´altro» e all´amore (agape) che si esprime nella cura amorevole «per l´altro». Con questo Ratzinger intendeva chiarire che la fede non disprezza l´eros né la sessualità che prorompe nella ricerca del partner che nel proprio intimo si vuole possedere, ma al tempo stesso il pontefice tedesco voleva far emergere l´esigenza che l´amore trovasse il suo compimento nella donazione reciproca degli sposi. E in questo processo si sarebbe compiuta la parabola luminosa dall´eros-ebrezza che unisce due persone fino alla preoccupazione amorevole nei confronti di tutta la comunità. Dalla coppia alla società.
Questa volta Benedetto XVI afferra il filo di Arianna e lo mette in verticale. E´ il rapporto Uomo-Dio che lo interessa. O meglio l´atteggiamento di Dio verso l´Uomo. Sapevano i mistici che l´uomo può essere afferrato da un amore bruciante per Dio fino a perdersi in esso. E sapevano anche che l´amore di Dio può bruciare e sconvolgere la creatura umana, come testimoniano le grandi mistiche nei loro deliqui segnati da stimmate quasi erotiche.
Però Ratzinger nel suo messaggio è ansioso di sottolineare che l´amore divino non si esaurisce nell´amore paterno, protettivo, ma è proprio un sentimento che si manifesta in una autentica «passione amorosa». Spingendosi così in là, Benedetto XVI ritorna alle fonti della tradizione biblica che ha sempre voluto descrivere i rapporti tra Dio e Israele nei termini di una relazione tra Sposo e Sposa.
Agape, scrive il Papa nel messaggio quaresimale, è «l´amore oblativo di chi ricerca esclusivamente il bene dell´altro». E questo certamente è l´atteggiamento di Dio sin dalla Creazione. Ma, aggiunge il pontefice, l´Eros «denota invece l´amore di chi desidera possedere ciò che gli manca e anela all´unione dell´amato». Ed è questo Dio che anela al rapporto con l´Uomo, che viene evocato potentemente da Ratzinger. Dio non è felice se non entra anche in comunicazione con l´Uomo, sembra dire il pontefice.
Anzi lo afferma a chiare lettere: «L´amore con cui Dio ci circonda è senz´altro agape... ma c´è anche una passione divina». E questo impulso passionale la Bibbia lo «descrive con immagini audaci come quella dell´amore dell´uomo per la donna adultera».
E´ vero, l´Antico Testamento racconta il rapporto tra Dio e il Popolo eletto in tutta la fisicità, la carnalità, la rabbia e il desiderio di una relazione tra Amante e Amata. Ratzinger scandisce: «I testi biblici indicano che l´eros fa parte del cuore stesso di Dio: l´Onnipotente attende il sì delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa». Vengono qui in mente - e certamente sono state presenti al pontefice mentre scriveva il suo messaggio - le immagini trascinanti del Cantico dei Cantici, che la tradizione ebraica e poi cristiana ha sempre visto in una dimensione verticale: il rapporto tra Dio-Amante-Sposo e Israele-Amata-Sposa.
Dice lo Sposo in uno scenario quasi mozartiano: «Di buon mattino andremo nelle vigne, là ti darò le mie carezze». Risponde la Sposa: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, perché forte come la morte è l´amore, tenace come gli inferi è la passione».
Può succedere, però, che i credenti (Israele) non sappiano corrispondere all´amore di Dio. Allora Dio diventa furioso contro la sua Sposa adultera e sono scene violente da Cavalleria rusticana: «Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni - scandisce Dio per bocca del profeta Osea - altrimenti la spoglierò tutta nuda... scoprirò le sue vergogne agli occhi dei suoi amanti... la ridurrò a una sterpaglia».
Per gli ebrei il grande peccato che interrompeva il rapporto Uomo- Dio è l´idolatria. Per Ratzinger è l´egoismo radicale, l´egocentrismo filosofico. «Purtroppo - osserva il Papa - fin dalle sue origini l´umanità, sedotta dal Maligno, si è chiusa all´amore di Dio, nell´illusione di una impossibile autosufficienza». Ma Dio, lo proclamava già Osea, attende con ansia il momento della riappacificazione con la sua Sposa: «La attirerò a me e parlerò al suo cuore».
Per ristabilire il patto, dichiara Ratzinger entrando nel cammino cristiano, Dio ha pagato il prezzo di versare il sangue del Figlio - Cristo: «Nella Croce si manifesta l´eros di Dio per noi. Eros è, infatti, quella forza che non permette all´amante di rimanere se stesso, ma lo spinge a unirsi all´amato». Conclude poeticamente Ratzinger: «Quale più folle eros di quello che ha portato il Figlio di Dio a unirsi a noi fino al punto di soffrire come proprie le conseguenze dei nostri delitti?».
Nella croce il cerchio si chiude. Con amore.
il Riformista 14.2.07
Quando ai cristiani non piaceva il matrimonio
di Luca MastrantonioSan Valentino è il Babbo Natale degli innamorati. Fenomeno consumistico, feticcio di una religione positiva, presepe in versione cartolina prevertiana. Un Babbo Natale al contrario, però, perché si inizia a crederci quando non si è più tanto bambini, e si inizia a diventare adulti. Scoperto che l'amore non è eterno, si esorcizza questa caducità in diamanti che sono «per sempre», come dice la pubblicità di De Beers, che ha sottratto i preziosi all'usura da baratto dopo la crisi Usa del '29. Ci si vota così a un santo che, in realtà, non esiste più, e forse non è mai realmente esistito, ma è con lui che sono nati gli sms ante-litteram, quei bigliettini d'amore cartacei (le famose “valentine”, bigliettini con versi baciati ABAB e firmati “tuo Valentino”) e forse anche le chat, essendo il nume tutelare degli amori rivelati, in cui perfetti sconosciuti possono conoscere la loro anima gemella. San Valentino ricorda e si confonde, tra l'altro, con il primo divo cinematografico, Valentino Rodolfo, e anche con un famoso stilista italiano, ma meglio non esagerare.
In
San Valentino di Francesco Pacifico si racconta di come il marketing - che è l'anima del commercio - e la poesia - che è il marketing dell'anima - abbiano inventato San Valentino. Sulla scorta di quanto Nicola Lagioia ha fatto con il Babbo Natale re-inventato dalla Coca Cola (sempre meglio dell'aranciata dei nazisti). Entrambi volumi usciti nella fortunata collana Memi, curata per Fazi editore da Gabriele Pedullà e Francesco Benigno. Una collana che sta decostruendo - ovvero sottoponendo a indagine storico-letteraria - i miti della fanciullezza, dal Babbo Natale di Lagioia agli alieni di Tommaso Pincio. Permettendo, così, di poter godere ancora della loro aura, per un attimo frainteso. Solo, in maniera più consapevole (alla fine il libro di Pacifico esce in concomitanza con San Valentino, per chi vuole festeggiarlo in stile Derrida) se non addirittura sotto copertura. L'unico modo per poter dire «ti amo» e dire «come dicono i poeti, ti amo». Anche se, a rigor di logica, con San Valentino bisognerebbe dire «ti amo, come vogliono i preti».
Pacifico, che è «scrittore d'amore» - come testimonia, in versione adolescenzial-politica, il suo
Caso Vittorio uscito da Minimumfax - è partito alla ricerca delle radici di questo mito, radici che poi si sono rivelate molto aeree, nella tipica invenzione del passato. Ne risulta un libro d'amore anti-romantico, o meglio un libro che decostruisce il romanticismo formato supermarket, offrendo spunti di riflessione sull'attualità, dominata oggi dai Dico, Pacs, matrimoni e derivati. Dall'indagine di Pacifico - ricca di documenti - San Valentino ne esce come una figura più leggendaria che storica, incubata dalla sovrapposizione tra i lupercalia latini - dove si celebrava il mito della fertilità - e un vescovo ternano che tra il II e il III secolo dopo Cristo avrebbe unito i giovani in matrimonio - attività bandita dall'imperatore - e per questo sarebbe stato messo a morte. Niente di più falso, secondo Pacifico, il Santo degli innamorati non è il Santo di Terni. A togliere credibilità storica e sociale al legame tra quel martire e il moderno San Valentino, tra l'altro, Pacifico ricorda al lettore la concezione che i primi cristiani avevano del matrimonio. Molto scettica, se non contraria, come neanche un sostenitore delle unioni di fatto oggi sarebbe: per Sant'Agostino era meglio non sposarsi, mentre San Girolamo, parlando del cielo, sosteneva che «ogni dono di perfezione da lassù discende: dal non esserci nozze». Per i cristiani dell'epoca, ricorda Pacifico, era «un'ossessione pagana l'idea di riprodursi e mettere su famiglia». Insomma, il matrimonio e la famiglia come lari pagani. I primi cristiani, che predicavano castità e astinenza, per guadagnare il regno dei cieli preferivano essere
single. Poi tutto cambiò con il medioevo.
San Valentino, comunque, per come lo conosciamo - o disconosciamo - oggi, è, di fatto, un'invenzione inglese dell'era vittoriana. Un feticcio, un santino del focolare in una vasta opera di moralizzazione delle famiglie inglesi la cui vita moderna, nell'ottocento, era logorata dalla rivoluzione industriale. Quindi, ci racconta Pacifico, ogni volta che acquistiamo - per chi lo acquista - un cioccolatino, fosse anche un bacio Perugina - dove il bigliettino riproduce proprio una “valentina” - è un pezzettino di epoca vittoriana. Il suo vero inventore poetico, comunque, fu Chaucher, l'autore inglese dei
Canterbury Tales, della seconda metà del 1300, che aveva bisogno di datare una poesia su un raduno di uccellini al cospetto di Afrodite.
Ma San Valentino ebbe il suo boom economico, sociale e morale quando emigrò nel Nuovo mondo, in quell'America puritana dove i legami erano improntati alla serietà più che al romanticismo. E poi l'America era a corto di Santi e di festività in generale: esclusi San Nicola, San Patrizio, e poi il giorno del ringraziamento, il 4 luglio, Halloween e la finale del Superbowl. Attorno alla metà dell'800 inizia a comparire il
Valentine day. Fino a ibridarsi, cinematograficamente e consumisticamente con Rodolfo Valentino. L'uomo effeminato (muscoloso ma depilato) amato dalle donne e imitato dagli uomini.
In Italia la festa (consumistica) di San Valentino fu introdotta negli anni '60 del Novecento e, non a caso, la Chiesa cancellò proprio nel '69 San Valentino dal calendario, sostituendolo con i santi Cirillo e Metodio. Nel romanzo
Gli sfiorati di Sandro Veronesi, lui sceglie di sposarsi, romanticamente, il giorno di San Valentino e poi, dopo inviti, partecipazioni e tutto, scopre che quel giorno non esiste.
Repubblica 14.2.07
Il cervello "vede" per schemi legati alle zone di luci e ombre
Gli studiosi del Mit: non hanno importanza nasi o bocche ma luci e ombre
Una ricerca scopre nel nostro cervello il segreto del "riconoscimento"
di Claudia Di GiorgioROMA - Per gli esseri umani, una delle specie più sociali mai apparse sulla Terra, riconoscere un volto è così importante che c'è una parte del nostro cervello che si è evoluta apposta per individuare esclusivamente le facce: un onore che non ha avuto nessun'altra parte del corpo né alcun altro oggetto.
Ma che cos'è che distingue un volto da qualunque altra cosa, tanto da permetterci di identificarlo anche nelle immagini più sfocate? E come mai, invece, può capitare di vedere una faccia anche dove non c'è?
A queste domande sta dando una sorprendente risposta un gruppo di ricerche, su cui riferiva ieri anche il New York Times, da cui emerge che a far scattare l'attività dei neuroni giro fisiforme (il nome della circonvoluzione cerebrale che riconosce i volti) bastano pochissimi elementi, purché siano disposti nel modo giusto. Questi elementi non sono "due occhi, un naso e una bocca", che sono strutture tutto sommato complesse e ricche di dettagli, ma più semplicemente dei rapporti tra zone in luce e zone in ombra: come il fatto che la bocca si trova nel terzo inferiore del viso, ed è sempre più scura delle guance che le sono accanto, mentre gli occhi sono nel terzo più in alto, e sono più scuri della fronte che sta sopra. Pawan Sinha, direttore del laboratorio di ricognizione visiva del Massachusetts Institute of Technology, ha individuato dodici di questi rapporti, che costituiscono in totale una sorta di modello universale di faccia.
Un banale gioco di macchie, insomma, ma che al nostro cervello (e secondo alcuni studi, anche a quello delle scimmie) è più che sufficiente per vedere una faccia anche in una foto da cui è stato cancellato ogni altro dettaglio. E per vedere facce anche dove facce non ce ne sono affatto, come dimostrano esempi quali la famosa "faccia su Marte", individuata nella regione Cydonia del Pianeta Rosso da vari ufologi; oppure il toast al formaggio con l'immagine della Madonna che una signora della Florida è riuscita a vendere su Internet per la bella cifra di 28.000 dollari; oppure ancora addirittura il volto del diavolo intravisto da alcuni nel fumo che circondava le Torri Gemelle l'11 settembre 2001.
Il bello, infatti, è che la capacità del nostro cervello di ricostruire l'immagine di un volto disponendo solo di pochi tratti cruciali lo rende anche molto più suscettibile agli inganni. Ma secondo Pawan Sinha, che a gennaio è stato premiato dalla National Academy of Sciences proprio per queste ricerche, è un rischio che vale la pena di correre. Le informazioni trasmesse dai volti sono così preziose, dice, che è meglio vederne uno dove non c'è che non riconoscerlo quando c'è davvero.
(14 febbraio 2007)