lunedì 19 febbraio 2007

Repubblica 19.2.07
"Neanche con la guerra fredda tanti soldati Usa in Italia"
Giordano: sì al confronto con Parisi sulla Difesa
intervista di Umberto Rosso


ROMA - Il governo, «e soprattutto un governo di centrosinistra deve ascoltare i movimenti che sono uno degli ingredienti della nostra democrazia». Il giorno dopo la grande manifestazione di Vicenza il ministro Fabio Mussi, leader della sinistra Ds, traccia una linea che non si discosta molto da quella di Rifondazione comunista. Ma soprattutto dichiara aperte le ostilità in vista del congresso della Quercia che dovrà pronunciarsi sulla nascita del partito democratico. E torna a minacciare la scissione.
Con toni inaspettamente duri Mussi lancia un attacco frontale al segretario Piero Fassino, contro il quale si è candidato per contrastare il progetto del Pd. «Mi ricordo che Occhetto - dice il ministro presentando ieri mattina al teatro Valle la sua mozione - dovette fare le valigie, e anche in fretta, per aver ottenuto il 16,7 per cento. Noi oggi siamo qui a celebrare i successi di un segretario che ci ha portato al 17 per cento». Insomma il partito, secondo Mussi (affiancato ieri da altri dirigenti della stessa mozione, come Cesare Salvi, Peppino Caldarola e Valdo Spini), come in un «gigantesco gioco dell´oca, è tornato al punto di partenza». Dunque il segretario ha fallito e il suo progetto, quello del Pd, è perdente.
Parole che non potevano passare sotto silenzio. E infatti qualche ora dopo arriva la replica risentita di via Nazionale, affidata al coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca, che chiede «da parte di tutti un maggiore rispetto per il lavoro svolto in questi anni», ricordando dopo la sconfitta del 2001 i Ds hanno vinto «tutte le competizioni elettorali». Un lavoro che è merito di tanti, certo, «ma anche, e in primo luogo, del segretario e del gruppo dirigente dei Ds». «Non è una questione di rispetto ma di dissenso» controreplica Carlo Leoni della minoranza diessina.
Ma l´impressione è che questa sia solo l´inizio di una battaglia congressuale che si annuncia avvelenata. Perché la posta in gioco, come ha ricordato Mussi ieri, è il via libera o il congelamento del partito democratico. «Noi vogliamo andare al congresso per vincerlo - dice il leader del correntone tra gli applausi dei suoi - e questo vuol dire ottenere la forza sufficiente per fermare il treno», perché noi «vogliamo restare dentro al campo del socialismo europeo». Dunque Fassino non si illuda. Se il segretario è convinto che alla fine tutti i Ds seguiranno il vertice nel Pd, Mussi gli ricorda che la scissione è tutt´altro che scongiurata. Non a caso lui già lancia un appello «ai molti che vengono dalla crisi del Partito socialista e a chi viene dal Pci», proponendo una riunificazione della sinistra.
«Io ti metto in guardia Piero, l´adesione a un nuovo partito è libera. Il bravo giocatore di scacchi - avverte il ministro - deve prevedere anche le 4 o 5 mosse successive, altrimenti rischia di perdere la partita». Mussi ne ha anche per D´Alema, che sostiene che il Pd deve andare oltre. «Anche io dico che dobbiamo andare oltre, ma per me vuol dire un po´ più a sinistra, non un po´ più a destra». Intanto c´è già qualcuno, come Caldarola, che si dice pronto a lasciare la Quercia: «Se vince la mozione Fassino io me ne vado e mi metto a disposizione di una costituente riformista e socialista».

Repubblica 19.2.07
Il leader della sinistra rilancia la scissione.
Quercia, l'affondo di Mussi "Fassino hai fallito, non ti seguo"
di Lavinia Rivara


ROMA - Il governo, «e soprattutto un governo di centrosinistra deve ascoltare i movimenti che sono uno degli ingredienti della nostra democrazia». Il giorno dopo la grande manifestazione di Vicenza il ministro Fabio Mussi, leader della sinistra Ds, traccia una linea che non si discosta molto da quella di Rifondazione comunista. Ma soprattutto dichiara aperte le ostilità in vista del congresso della Quercia che dovrà pronunciarsi sulla nascita del partito democratico. E torna a minacciare la scissione.
Con toni inaspettamente duri Mussi lancia un attacco frontale al segretario Piero Fassino, contro il quale si è candidato per contrastare il progetto del Pd. «Mi ricordo che Occhetto - dice il ministro presentando ieri mattina al teatro Valle la sua mozione - dovette fare le valigie, e anche in fretta, per aver ottenuto il 16,7 per cento. Noi oggi siamo qui a celebrare i successi di un segretario che ci ha portato al 17 per cento». Insomma il partito, secondo Mussi (affiancato ieri da altri dirigenti della stessa mozione, come Cesare Salvi, Peppino Caldarola e Valdo Spini), come in un «gigantesco gioco dell´oca, è tornato al punto di partenza». Dunque il segretario ha fallito e il suo progetto, quello del Pd, è perdente.
Parole che non potevano passare sotto silenzio. E infatti qualche ora dopo arriva la replica risentita di via Nazionale, affidata al coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca, che chiede «da parte di tutti un maggiore rispetto per il lavoro svolto in questi anni», ricordando dopo la sconfitta del 2001 i Ds hanno vinto «tutte le competizioni elettorali». Un lavoro che è merito di tanti, certo, «ma anche, e in primo luogo, del segretario e del gruppo dirigente dei Ds». «Non è una questione di rispetto ma di dissenso» controreplica Carlo Leoni della minoranza diessina.
Ma l´impressione è che questa sia solo l´inizio di una battaglia congressuale che si annuncia avvelenata. Perché la posta in gioco, come ha ricordato Mussi ieri, è il via libera o il congelamento del partito democratico. «Noi vogliamo andare al congresso per vincerlo - dice il leader del correntone tra gli applausi dei suoi - e questo vuol dire ottenere la forza sufficiente per fermare il treno», perché noi «vogliamo restare dentro al campo del socialismo europeo». Dunque Fassino non si illuda. Se il segretario è convinto che alla fine tutti i Ds seguiranno il vertice nel Pd, Mussi gli ricorda che la scissione è tutt´altro che scongiurata. Non a caso lui già lancia un appello «ai molti che vengono dalla crisi del Partito socialista e a chi viene dal Pci», proponendo una riunificazione della sinistra.
«Io ti metto in guardia Piero, l´adesione a un nuovo partito è libera. Il bravo giocatore di scacchi - avverte il ministro - deve prevedere anche le 4 o 5 mosse successive, altrimenti rischia di perdere la partita». Mussi ne ha anche per D´Alema, che sostiene che il Pd deve andare oltre. «Anche io dico che dobbiamo andare oltre, ma per me vuol dire un po´ più a sinistra, non un po´ più a destra». Intanto c´è già qualcuno, come Caldarola, che si dice pronto a lasciare la Quercia: «Se vince la mozione Fassino io me ne vado e mi metto a disposizione di una costituente riformista e socialista».

Corriere della Sera 19.2.07
Attacco a Fassino: «Occhetto fece le valigie con il suo 16%»
Mussi: «I Ds sono diventati forza marginale»
Il ministro «No al Partito democratico. L'alternativa è la riunificazione della sinistra».


ROMA - «I Ds sono diventati un gigantesco gioco dell'oca in cui si è tornati al punto di partenza. Occhetto con il suo 16 per cento dovette fare le valigie mentre ora si celebrano i successi di un segretario che ci fa fare il 17,2 per cento». È stato durissimo l'attacco di Fabio Mussi al segretario dei Ds, Piero Fassino, durante la presentazione della mozione 'A sinistra, per il socialismo europeo', al Teatro valle di Roma. Il ministro dell'Università e della Ricerca ha messo in allerta il leader della Quercia: «Siamo diventati una forza marginale del Paese, siamo oggi un partito degli eletti. Nelle nostre sezioni si discute di più delle liste che della situazione in Medio Oriente».
SINISTRA UNITARIA - Mussi ha poi ribadito la sua opposizione alla nascita del Partito democratico. «Dobbiamo vincere il congresso, no al partito democratico e no al manifesto presentato nei giorni scorsi». L'alternativa, dice Mussi, potrebbe essere la riunificazione della sinistra. «Non è scontato - osserva il ministro - che la sinistra in Italia debba essere divisa. Se continua a essere divisa, per lei è la rovina. Si può trovare una prospettiva unitaria per i molti che vengono dalla crisi del Partito socialista e per chi viene dal Pci». Ma che può coinvolgere anche una sinistra nuova, i movimenti nati negli ultimi anni. «Le logiche di nicchia o di trincea - insiste il leader della sinistra Ds - di chi difende il proprio 2% o il 2,1% non lasceranno sopravvissuti. Bisogna rimetterci tutti in discussione e riaprire la prospettiva di un grande partito di sinistra, di ispirazione socialista».
«PIU' RISPETTO» - A Mussi risponde Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria nazionale dei Democratici di sinistra. «Il congresso dei Ds è l'occasione per un confronto libero e democratico su come costruire in Italia una grande forza riformatrice che svolga la stessa funzione politica e copra lo stesso spazio elettorale che in Europa è esercitato dai grandi partiti socialisti». «La trasformazione dell'Ulivo in un soggetto politico democratico e riformista - prosegue l'esponente della Quercia - risponde a questa esigenza: dare all'Italia quella forza riformatrice di cui ha bisogno». «Le proposte presentate da Mussi non mi pare vadano oltre un aggiustamento del quadro esistente. Quanto alle affermazioni sui risultati elettorali e sul ruolo dei Ds - sostiene Migliavacca - occorre da parte di tutti un maggiore rispetto per il lavoro svolto in questi anni. Un lavoro che dopo la sconfitta del 2001 ha visto i Ds vincere tutte le competizioni elettorali ed essere protagonisti della ricostruzione dell'Ulivo e del centrosinistra. Un lavoro che è merito di tanti - conclude - ma anche, e in primo luogo, del segretario e del gruppo dirigente dei Ds».

domenica 18 febbraio 2007

il manifesto 18.2.07
1977, perché non si fermò la deriva violenta?
di Massimo Scalia


Si è parlato poco, a sinistra, del '77. Probabilmente per un certo perbenismo: un movimento non brillante come il '68, di esso molto più fastidioso - la cacciata di Lama dall'Università di Roma, l'invasione della Bologna di Zangheri - e, assai peggio, prodromico degli anni di piombo. Lo ha fatto col suo libro Lucia Annunziata suscitando un dibattito rispetto al quale mi sembra opportuno stabilire alcuni punti. Una domanda attraversa il libro della Annunziata: perché Lotta Continua, i suoi dirigenti non scesero in campo per fermare la deriva violenta? L'interrogativo è mal posto, come si dice nelle teorie scientifiche, per almeno due ragioni.
La prima è che gli fa velo una sorta di continuismo nella lettura della storia, non certo quello di destra che pretende che i rapitori di Dozier siano i nipoti di Togliatti, ma quello in qualche modo speculare di sinistra che non coglie il farsi degli eventi come successione di rotture più o meno intense o più o meno drammatiche. C'è un main stream che fluisce con le lotte di massa, le conquiste o le batoste del movimento operaio; e, al timone, i gruppi dirigenti. Però una qualche rottura bisogna pur attribuirla a una situazione così turbolenta.
Non è un caso allora che 1977.L'ultima foto di famiglia venga chiosato, correttamente, come l'uccisione del «padre Pci» da parte del movimento. Ma la rottura era già avvenuta nel triennio '69-71, con il formarsi di nuovi gruppi politici (tra i quali il manifesto) per i quali lo scontro è direttamente col Pci, il più grande partito comunista dell'Occidente capitalistico, e per l'egemonia sul movimento operaio; basti pensare all'autunno caldo del '69. Nonostante i tentativi del segretario Enrico Berlinguer, pur nell'asprezza del conflitto, di mantenere aperta una comunicazione.
Nel '77 invece l'opposizione parlamentare è ridotta a una rappresentanza di pochi percento, la politica e il paese stanno vivendo una crisi profonda. E il movimento che nasce rompe subito con i «gruppi» della sinistra sessantottina, e viene immediatamente percepito dal Pci come un nemico - i «diciannovisti» - contro cui esercitare un'azione «giacobina». A questo esorta Asor Rosa dall'Unità del 13 febbraio: quattro giorni dopo Lama viene alla Sapienza. Il sanpietrino in mano, il fronteggiarsi con l'amico, anzi, il «compagno» del sindacato, le lacrime relative, i consigli di fabbrica delle Flm che avvoltolano le bandiere e se ne vanno, il volto livido di Lama che tronca il comizio e fugge perché anche il servizio d'ordine, persino Ughetto, si è scompaginato non sono la «scena del crimine»; sono, casomai, una «dissacrazione» nello stile del '77.
Nessuna uccisione quindi. Restano allora, nei gorghi del main stream, i gruppi dirigenti. Perché quello di Lotta Continua non si è mosso contro la violenza? E qui, la seconda ragione, assai semplice. Nell'assemblea di Roma del luglio del '76 Lotta Continua aveva anticipato l'esito che sarebbe stato «formalizzato» pochi mesi dopo, a novembre, a Rimini: lo scioglimento. Lotta Continua non c'era più e i suoi dirigenti nazionali più noti non partecipavano al '77, lo osservavano dall'esterno o ai margini. Drammatica la condizione di quei militanti di Lotta Continua che, senza più partito e senza più padre - alcuni si erano immediatamente inventati come «indiani metropolitani» - , costituivano la platea delle assemblee del '77. Fascinati dagli atteggiamenti dell'Autonomia e, al tempo stesso, irresoluti, per residuo orgoglio politico, a dissolversi in essa.
Fu, all'interno del movimento, una contesa ininterrotta tra chi, pur non praticando la clandestinità, affermava che le Br erano «compagni che sbagliano, ma poi neanche troppo» e chi sempre si contrapponeva inventando per ogni manifestazione slogan, percorsi e obiettivi che non si risolvessero nel cul de sac della P38. Perché non ci fu solo Bologna; e l'11 marzo a Roma non fu davvero l'assalto all'armeria di via Giulia. Chi non ricorda a piazza Venezia il far west delle due file di pistoleri, una inginocchiata, che «proteggevano» il corteo a cinquanta metri dai poliziotti in assetto di battaglia per impedire l'accesso al Corso? O quel sussurro forte di numeri a terna che si lanciavano i gruppetti clandestini lungo il percorso? O il «volume di fuoco» a ponte Margherita?
Chi si oppose a tutto questo dall' interno del movimento dovette farlo su due fronti: la repressione di Cossiga - i ridicoli tentativi di infiltrazione (e gli infiltrati veri da «altri»), Giorgiana Masi, Roma e Milano militarizzate - e le «teorizzazioni». Non c'è dubbio che a Roma come a Milano o Bologna il movimento esprimesse in qualche modo i bisogni delle decine di migliaia di «non garantiti» che riusciva a «convocare» nelle manifestazioni, in una prefigurazione delle trasformazioni sociali in qualche misura già allora in atto. Ma dal demenziale «Polonia/Bologna» alle «macchine desideranti» e tutto il ciarpame dei nouveaux philosophes, il «bisognismo» - anche quello di Agnes Heller - diventava benzina per i gruppuscoli «combattenti» in cerca di soldati nelle platee degli sperduti.
L'esito di quel contrasto non fu disprezzabile. Il due dicembre a Porta San Paolo erano in trentamila quelli del movimento che corsero ad accogliere gli oltre centomila metalmeccanici che venivano a Roma. Certo, un omaggio all'illusione di un rapporto diretto con la «classe» per eccellenza contro lo Stato borghese, ma anche una spaccatura netta con i duemila rimasti dentro l'università con i loro «bisogni». Ma tutte queste cose si perderanno come lacrime nella pioggia.

Repubblica 18.2.07
Pacifismo pluralista in salsa vicentina
di Eugenio Scalfari


Cinquanta, ottanta, centomila? Qualcuno degli organizzatori, ad un certo punto del corteo, si è lasciato andare ad una stima-record: 200 mila presenze alla manifestazione vicentina. Francamente esagerato, ma certo erano tantissimi. Anche i vicentini erano molti, ma quelli venuti da fuori molti di più. E la sinistra radicale più numerosa di quella riformista.
Violenze nessuna. Qualche cartello (presto rimosso) in favore dei "compagni che sbagliano", cioè degli arrestati in odore di terrorismo.
Insomma un corteo pluralista quanto altri mai, perché in quei sei chilometri della circonvallazione di Vicenza si giocavano contemporaneamente molte partite. Vediamo quali.
Anzitutto la partita dei pacifisti senza se e senza ma, per i quali anche la bandiera dell´Onu non conta un fico secco come giustificazione e motivazione delle missioni militari. Quel tipo di pacifisti c´era a Vicenza; diciamo quelli personificati da Dario Fo e Franca Rame. Ma il pacifismo del 2007 non è più quello che nel 2002 riempì le piazze di tutta Europa, da Madrid e Barcellona a Londra, a Berlino, ad Amsterdam, a Bruxelles, a Stoccolma, a Roma, Milano, Napoli, arrivando a cifre percentuali di oltre il 90 per cento nei sondaggi d´opinione europei.
Quello era un pacifismo mirato e il suo bersaglio era la guerra preventiva di Bush in Iraq che infatti si è rivelata una catastrofe e trasformata in un pantano. Era un pacifismo saggio con una meta realistica e concreta.
Quello di oggi è piuttosto utopico e generico. Non vuole l´allargamento della base americana a Vicenza e forse ha dalla sua buonissime ragioni per non volerlo, ma si è mescolato con un altro tipo di pacifismo che ha colto la base Usa più come un pretesto che come un vero obiettivo.
Si ispira piuttosto al vecchio slogan ideologico "yankees go home", americani fuor dalle balle. Possiamo organizzare cento cortei in altrettante città italiane, ma se quello fosse lo slogan credo che non raccoglierebbe più del 10 per cento dei consensi e forse molto meno.
Da questo punto di vista la manifestazione di ieri sarebbe stata assai più significativa se a farla fossero stati i soli vicentini. La trasferta pacifista ha in qualche modo manipolato Vicenza e messo in seconda fila il dissenso civico sulla questione della base. Certo, il governo dovrà rivedere alcune modalità urbanistiche e negoziarle. Ma non credo che andrà oltre questo.

Un´altra partita era quella tra sinistra radicale e riformisti. Giordano e Diliberto (tra l´altro in competizione tra loro per vedere chi meglio rappresenta la sinistra-doc) escono rafforzati dalla gita vicentina?
Con Giordano personalmente mi trovo d´accordo su molte cose. Apprezzo anche la funzione di filtro e di raccordo che quelle formazioni politiche esercitano nei vari movimenti contestativi ai quali cercano di fornire un "fumus" di rappresentanza parlamentare e addirittura governativa.
Ma onestamente debbo dire che nel corteo vicentino erano più ospiti che padroni di casa. Non c´era nessun padrone di casa in quella manifestazione. Neppure Epifani che pure aveva mobilitato una parte cospicua della sua organizzazione. Ma niente a che vedere con i Trentin e i Lama di piazza San Giovanni e i Cofferati del Circo Massimo e non parlo del numero delle presenze ma della compattezza degli animi e della chiarezza degli obiettivi.
Ieri si dimostrava contro la base americana ma anche contro la presenza militare italiana in Afghanistan. Il vecchio slogan "dimmi con chi vai e ti dirò chi sei" ieri era inapplicabile. L´ex sindaco democristiano di Vicenza e attuale capogruppo regionale dell´Ulivo, Achille Variati, ha qualche cosa a che fare con Franca Rame e con i centri sociali più scalmanati? E Franca Rame ha a che fare con Di Pietro il cui partito l´ha fatta eleggere al Senato? O con i leghisti "celoduristi" che pure erano presenti nel corteo? Il segretario della Fiom si sentiva a suo agio con Epifani e il segretario della Cgil era in armonia con i Cobas che marciavano alla testa del corteo dei "duri"?
Troppe partite si sono intrecciate ieri a Vicenza, con la conseguenza che non ne è stata portata a termine quasi nessuna. Salvo quella del questore che si era impegnato a tutelare l´ordine pubblico in una situazione di particolare difficoltà e c´è pienamente riuscito.
Il questore di Vicenza, i millecinquecento uomini ai suoi ordini, i vigili urbani del Comune e, a Roma, il ministro dell´Interno hanno vinto la loro difficile partita insieme al servizio d´ordine della Cgil e alla compostezza delle decine di migliaia dei partecipanti.
Quanto a Prodi, ne esce paradossalmente rafforzato. Rifondazione che mobilita la sua gente pacifista e che tra una settimana voterà il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan è la prova che Prodi è inaffondabile, governa e non galleggia. Sembra un paradosso ma non lo è. Da Vicenza questo è tutto ed è parecchio.
* * *
Però la città del Palladio per chi ha la mia età richiama anche un altro genere di ricordi, di nuovo tornati di rilevante attualità. Parlo della grande provincia bianca, feudo negli anni Cinquanta-Settanta della Dc, delle diocesi più potenti, delle cooperative bianche, delle banche popolari, d´un predominio organizzativo e culturale saldissimo.
Di quella lunga fase di egemonia è rimasto assai poco a Vicenza e in tutto il Nordest, salvo un senso di separatezza che ha consentito un forte insediamento della Lega nel triangolo con Verona e Treviso.
Il Veneto rispetto a com´era fino a vent´anni fa si è secolarizzato più rapidamente di qualsiasi altra regione italiana. Se c´è una terra di missione dove l´episcopato dovrebbe cimentare le proprie capacità pastorali è proprio lì, nelle terre venete uscite ormai dalle "dande" di Santa Romana Chiesa alla scoperta del buon vivere, dei piccoli piaceri della provincia italiana e della sua vocazione internazionale.
Qui la Chiesa è ancora massicciamente presente con il suo radicato temporalismo economico ma le coscienze non sono più sotto la sua tutela e la Vandea bianca è scomparsa. Bossi è in declino, il berlusconismo è ancora vigile ma in perdita di velocità. I veneti sono "in ricerca", ma neppure loro sanno dire di che cosa.
Io capisco perché l´episcopato italiano è preoccupato. Lo si comprende bene guardando proprio il Nordest, il miracolo del Nordest con al centro l´impresa, il lavoro, il valore, i segni materiali della ricchezza.
La Chiesa teme che tra ricchezza e laicizzazione del vivere vi sia un rapporto diretto. Per questo pensa di dover aumentare la presa sulle istituzioni pubbliche: non riuscendo più a controllare l´evoluzione del costume, spera di supplire a questa lacuna controllando le leggi.
Quando la Chiesa inclina dalla pastoralità alla temporalità, questo è un segnale di debolezza. L´ala martiniana dell´episcopato italiano ha compreso questo segnale di debolezza e cerca di invertirne il corso che i ruiniani invece spingono avanti con irruenza.
Quando Rosy Bindi dice di amare una Chiesa che parli di Dio coglie il centro della questione. Non è infatti con le norme di leggi che si argina la crisi della famiglia che soffre soprattutto per il fatto d´essersi ridotta ad una coppia o al triangolo di cui il figlio unico rappresenta il punto di riferimento esclusivo.
In società composte da "single" o da famiglie cellulari, la religiosità boccheggia e l´intera Europa diventa per i preti terra di missione. La vera patria della cattolicità si è spostata verso il Sud del mondo, America Latina e Africa. In queste condizioni un Papa tedesco e per di più teologo è stato probabilmente un errore della Chiesa che sembra ormai arroccata in una battaglia di retroguardia guidata dalla parte temporalistica dell´episcopato e da una pattuglia di atei devoti che coltivano obiettivi esclusivamente politici.
Per un laico fa senso assistere ad una fenomenologia così scadente e rivolta all´indietro. Si vorrebbe che la Chiesa parlasse dei valori dello spirito e non fosse dominata da una sorta di ossessione sessuofobica che finisce col discriminare i più deboli: le coppie non abbienti, etero e omosessuali che siano. Le coppie benestanti non hanno bisogno della reversibilità della pensione o dell´assistenza sanitaria o degli alimenti e se ne infischiano dei divieti alla procreazione assistita se necessario vanno all´estero e pagano i medici di tasca propria. C´è un profumo di classismo all´inverso nell´opposizione della Cei ai Dico.
Ma la cosa più singolare l´ha detta appena ieri Benedetto XVI denunciando la pressione di potenti "lobbies" che vorrebbero ridurre al silenzio la voce della Chiesa. Incredibile. La Cei del cardinal Ruini si sta muovendo da anni come la più potente delle "lobbies" e il Papa protesta contro supposti gruppi di pressione che vorrebbero confiscarne il diritto ad esprimersi.
Chi sarebbero questi lobbisti? Oscar Luigi Scalfaro? Il vescovo Plotti? Il cardinal Silvestrini? Il cardinal Tettamanzi? Pietro Scoppola? I giornali di cultura laica?
Infine: si dice Oltretevere che le prescrizioni della Cei ai parlamentari sulle modalità della legislazione non costituiscono ingerenze e quindi non c´è ragione di chiamare in causa il Concordato.
Ebbene, quali sono dunque le ingerenze ipoteticamente definibili come tali? Può qualche cattolicante in servizio permanente effettivo darcene un esempio? Oppure dobbiamo pensare che qualunque cosa faccia e dica la Cei, non esiste mai ingerenza nei confronti dello Stato mentre ovviamente il reciproco non è vero?
Coraggio: a noi basta un solo esempio tanto per poter fissare un limite sia pur piccolo all´attivismo illimitato del Vaticano nei confronti di uno Stato definito sovrano purché si rassegni ad essere etero diretto dal Papa e dai vescovi da lui nominati.
l'Unità 18.2.07
Vicenza, l'invasione arcobaleno: oltre 120mila contro la base
Giordano a Prodi: questa è la tua gente


Musica a tutto volume e danze in stile brasiliano. Il corteo è pacifico, allegro e multicolore. In una Vicenza avvolta da un sole primaverile, è partita alle 14, con mezz'ora di anticipo, la manifestazione contro il raddoppio della base Usa. Migliaia di manifestanti arrivati in città fin dalle prime ore del mattino. Non è ancora chiaro quante persone partecipano alla manifestazione che si svolge nella città del Palladio. Alle 15 e 40, una stima della questura, parla già di 50mila persone. Ma per i manifestanti la cifra è molto riduttiva. Gli organizzatori confermano: «Abbiamo superato ampiamente le centomila persone». Cinzia Bottene, uno dei portavoce del comitato 'No Dal Molin' precisa: «La testa del corteo è quasi arrivata alla fine del percorso e la coda che non riesce ancora a muoversi. E c'è, inoltre, uno spezzone di 20mila persone che deve ancora muoversi». Bottene ha poi ribadito il carattere assolutamente pacifico della manifestazione. «La città è completamente abbracciata dalla gente, ci sono migliaia di vicentini che stanno proteggendo la città da un futuro che non vogliamo». Michele De Palma, responsabile di Rifondazione per l'organizzazione della manifestazione di Vicenza, parla di 200mila partecipanti.

Quello che è certo è che Il clima è sereno, allegro, festoso. E molto partecipato. tanto che il corteo in certi punti, più che sfilare, spinge. Le strette strade di Vicenza, almeno quelle del percorso, non riescono a contenere i manifestanti e i grandi camion con sopra le amplificazioni, quindi in certi momenti, seppur del tutto involontaria, la manifestazione si trasforma in una ressa con le persone che cercano di trovare un piccolo spazio vitale.

Insomma: un corteo pacifico, anche se un po' faticoso. Così, nonostante allarmismi vari, i negozi sono rimasti aperti, anche se alcuni (forse) tireranno giù la saracinesca nel pomeriggio. «Sarà una giornata faticosa, ma ci sono tutti i presupposti per ritenere che assisteremo ad una manifestazione tranquilla» ha detto anche il questore di Vicenza Dario Rotondi. La manifestazione inoltre dovrebbe essere controllata, oltre che dalle forze dell'ordine, e dall'autodisciplina dei manifestanti, anche, a quanto si apprende, da 1.500 militanti della Cgil giunti appositamente dall'Emilia Romagna.

Il primo corteo, quello che si e mosso dal presidio fisso davanti all´aeroporto, è partito senza problemi verso le 11, aperto dalle donne e da uno striscione con scritto «Il futuro è nelle nostre mani. Giunta Hullweck, governo Prodi resisteremo un minuto in più».

In piazza, non solo Prc, Verdi e Pdci ma anche la Margherita, investita a Vicenza da una vera e propria ribellione (auto-sospesa l'intera direzione provinciale) che dice, per bocca capogruppo a Palazzo Trissino, Marino Quaresimin che «porterà bandiere del partito, dell'Unione e della pace». «Noi - dice l'esponente Dl, già sindaco di Vicenza - siamo convinti che esistono ancora soluzioni alternative per il Dal Molin».

Tra i Ds vi sarà il senatore Cesare Salvi secondo il quale la decisione di Prodi «va rivista». Il vice-presidente del Senato è fiducioso sull'esito della giornata: «In Italia vi sono state tante manifestazioni per la pace tranquille, se vi saranno oggi elementi di disturbo andranno isolati, il movimento di Vicenza ha dimostrato di non essere eversivo ed ha posto due questioni concrete: la popolazione non è stata coinvolta nella decisione che non può calare dall'alto, occorre fare chiarezza sull'effettivo uso futuro della base».


Lo spettacolo di Dario Fo
dario fo a vicenza, 17 febbraio, foto ansa
Il corteo si è concluso in Campo Marzo intorno alle 18,30 con una canzone di Dario Fo dedicata al vescovo di Vicenza favorevole all'allargamento della base Usa. Il premio Nobel, accompagnato dalla moglie Franca Rame, ha ricordato i 13 miliardi di euro che lo Stato italiano spenderà per acquisto, trasporto, assemblaggio e manutenzione degli aerei militari «Fighter Distructor» prodotti dalla Lockheed, azienda protagonista di un clamoroso episodio di corruzione degli Anni '70. Lo spettacolo musicale è proseguito con un concerto dei "Pancreas".

Il premio Nobel con la sua solita verve, tra battute e canzoni, ha tenuto uno show che è durato una mezzora. Fo si è concesso alla piazza senza risparmiarsi. Ma l'attacco più deciso è stato nei confronti dei politici, di destra e di sinistra, «che sono abbioccati sull'idea che bisogna servire il più forte». E poi ancora, rivolto a quelli che avevano paventato scontri: «Quelli che pensavano che oggi a Vicenza ci sarebbe stato il disastro, stasera avranno le lacrime agli occhi». Dopo la classe politica italiana, è stata la volta del governo americano a essere presi di mira. «Non accettiamo dal governo americano è che si senta la potenza unica nel mondo - ha concluso - non accettiamo che dispongano della terra dove siamo nati».

«Vorrei che Prodi chiedesse scusa ai vicentini perché qui non stiamo parlando di un semplice allargamento ma di una base nuova», ha detto Franca Rame. Accanto al marito, ha anche sottolineato che «non si può mentire alla gente». La Rame sfilava reggendo uno striscione di protesta, attorniata dalle bandiere della pace.

venerdì 16 febbraio 2007

Repubblica 16.2.07
Qual è il destino della coppia
L'offensiva della Chiesa e le ragioni dei laici
Dalle nozze legali alle unioni di fatto. Così cambia un rapporto
Analisi della struttura della famiglia tra storia e natura
di René Girard


È sempre esistito il matrimonio? E in quali forme? Io non conosco esempi, prima della nostra epoca, di una possibilità di definire il matrimonio in modo diverso che come unione tra i due sessi. Ma penso che non ce ne siano proprio perché in ogni tempo e luogo si è considerato come assolutamente acquisito il fatto che il matrimonio leghi l´uomo e la donna. Il problema non si è mai posto fino ad oggi. Secondo una tradizione universalmente accettata, il matrimonio è un legame che produce figli, e che si stabilisce quindi tra individui di sesso opposto. Il resto è guardato come "non naturale", proprio nel senso filosofico del termine: contrario alla natura. Dal punto di vista della Chiesa cattolica, da quello del suo pensiero e della sua filosofia, nati da San Tommaso d´Aquino e dal tomismo, il matrimonio è riservato alla forma della coppia considerata "naturale". E´ ovvio, in tal senso, che i cattolici siano ostili a qualsiasi misura che possa condurre al matrimonio tra omosessuali.
La Chiesa sostiene che lo Stato non dovrebbe giustificare questo percorso. La soluzione proposta dai Pacs, o da quelli che gli italiani chiamano i Dico, consiste nel concedere alle coppie di fatto, omosessuali inclusi, una serie di vantaggi giuridici, ma senza usare ancora la parola "matrimonio". E´ proprio questo, invece, che in Francia, dove i Pacs sono in vigore, reclamano gli omosessuali, non soddisfatti di poter disporre soltanto dei Pacs. La richiesta arriva dagli omosessuali radicali, che vorrebbero essere considerati normali, sopprimendo la nozione di "norma" nel diritto. La Chiesa cattolica rifiuta tutto questo, reputando necessarie le abitudini giuridiche, fondate dai cristiani nell´ambito del diritto. In un paese come l´Italia, dove i cattolici sono particolarmente numerosi, e dove finora non ci sono stati neppure i Pacs, la Chiesa si oppone a tutti gli stadi dell´itinerario, dai Pacs in avanti.
Oggi l´omosessualità è entrata più o meno nella normalità, come all´epoca del declino dell´Impero Romano. Però adesso c´è un elemento in più: gli omosessuali vorrebbero dare alla loro unione uno stato di legalità. E´ questo l´aspetto completamente nuovo. In epoche in cui l´omosessualità diveniva socialmente molto rilevante, come alla fine dell´Impero Romano, furono adottate misure legali a favore degli omosessuali? Da parte loro ci furono mai richieste in tal senso? Il fatto che il matrimonio sia un vincolo stabilito per unire persone di sesso diverso si è forse modificato perché in quel periodo storico gli omosessuali erano numerosi? A me non risulta.
Non sto a chiedermi se il fatto che oggi si discuta su questo punto sia sintomo di una superiorità o di un´inferiorità morale. Mi limito a parlare della situazione storica, senza dare giudizi, perché bisogna interrogarsi sul piano storico per provare a definire ciò di cui si parla. E per quanto io sappia, quello che si sta verificando ora non ha alcun precedente né termine di confronto, o perché la volontà di unione legale tra persone dello stesso sesso non è mai esistita, o perché non è mai stata registrata. Sappiamo che ci sono state società arcaiche tolleranti verso l´omosessualità. Ma non era altro che questo: tolleranza. Non progetto di legalizzazione del vincolo.
Oggi da una parte c´è la Chiesa cattolica che vuole mantenere sia la forma che la sostanza vigenti in passato. Dall´altra c´è chi si oppone e chi no. In Francia, per esempio, non sono solo i cristiani a essere contrari al matrimonio omosessuale, ma anche alcuni politici moderati, che non parlano in nome del cristianesimo, e che vorrebbero modificare il meno possibile il diritto tradizionale in materia, riconoscendo che la nozione di sesso esiste, che nel matrimonio è irrinunciabile e che tutto questo è sempre stato vero. Intanto negli Stati Uniti una forte maggioranza preme contro il cambiamento della definizione di matrimonio, e quest´opposizione già contribuì alla sconfitta dei democratici all´epoca dell´elezione di Bush. D´altra parte in molti stati moderni si assiste a una presa di posizione a favore dei Pacs.
A volte mi chiedo se invece non sia proprio il cristianesimo, o meglio una prospettiva cristiana molto radicale, a rifiutare certe vecchie definizioni. Oggi un elemento supplementare nella discussione arriva dal fatto che ci sono teologi favorevoli all´omosessualità, i quali si oppongono alla condanna di Paolo nell´Epistola ai Romani, dove gli omosessuali vengono collocati tra i fornicatori. Naturalmente la Chiesa non accetta il punto di vista di quei teologi. E´ stato Paolo a offrire per primo un punto di vista cristiano nei confronti dell´omosessualità, senza considerare affatto gli omosessuali come peccatori eccezionali. Li ha semplicemente posti tra i portatori di disordine, come gli adulteri. Fornicatori come altri.
Ma il centro del discorso sono i figli. A partire dal momento in cui si dà agli omosessuali il diritto di avere bambini, diventa impossibile rifiutare loro i diritti dei genitori, perché si farebbe un torto ai figli. Giuridicamente non si può negare ai bambini, che non sono responsabili di nulla, di avere genitori uguali a quelli degli altri. E se si danno agli omosessuali i diritti delle persone sposate, è impossibile escluderli giuridicamente dal matrimonio. La nostra civiltà sembra avere imboccato tale direzione. Considerando l´evoluzione dei costumi, si può supporre che si proseguirà su questa strada fino alla fine, a meno che non si verifichi una vera e propria rivoluzione nella politica e nei costumi della nostra società.
(Testo raccolto da Leonetta Bentivoglio)

Repubblica 16.2.07
IL PUNTO DI VISTA DELL'ANTROPOLOGIA SUI LEGAMI DI PARENTELA
COME LA FAMIGLIA CAMBIA NELLA STORIA
Passato. Nelle società tradizionali di altre culture la coppia è inserita in un sistema complesso di reti di reciprocità
di Franco La Cecla


Cos´è il matrimonio? Cos´è la famiglia? Matrimonio e famiglia sono forme sociale naturali, universali? A queste domande si può rispondere appellandosi a dei principi, appoggiandosi a delle ideologie, oppure rifacendosi ai fatti empirici, a quello che fino ad oggi conosciamo delle società umane (ed è molto).
L´antropologia, fin dalle sue origini, che affondano in una curiosità comparativa, fondata su una paziente ricerca in luoghi e culture vicine e lontane, ha indagato sulla natura dei legami primari. La parentela, l´apparentarsi è una costante che si rintraccia in tutti i gruppi umani, ma le sue forme sono le più diverse. In culture diverse dalla nostra spesso la filiazione è separata dalla parentela, cioè i genitori biologici non sono coloro che allevano i propri figli. In molte culture sono gli zii, cioè i fratelli della madre a prendersi questo compito – anche da noi esisteva questa istituzione ed ogni tanto riemerge, come notava Lévi-Strauss in occasione della morte di Lady Diana. In quel caso, al funerale, il fratello di lei si era presentato come l´unico possibile tutore di figli. Ci sono culture nel sud della Cina dove la coppia convivente è costituita da fratello e sorella, che hanno "fugaci" visite notturne a persone dell´altro sesso con cui possono generare una prole che viene però allevata da fratello e sorella. Insomma il nucleo familiare, come "casa" non è una forma universale, ci sono società dove non esistono coppie fisse, ci sono famiglie poligamiche nel fondo dell´Amazzonia o in Senegal e ci sono ovviamente famiglie allargate. Siamo noi l´eccezione: la famiglia mononucleare – la solitudine di marito e moglie e dei loro figli - è una invenzione recente. C´è voluto l´avvento del capitalismo e del lavoro salariato che ha distrutto la famiglia allargata che era anche un´entità economica – gli antropologi parlano di "maison" o di "household"- e che ha creato la coppia come la conosciamo oggi. Lo spiegava in un magnifico e introvabile libro, Genere e Sesso, Ivan Illich. Quello che è nuovo è l´idea di un nucleo isolato che dovrebbe farsi carico della formazione della prole. Nelle società tradizionali europee e nelle società "indigene" di altre culture la coppia è inserita in un sistema complesso di reti di reciprocità , in un mondo in cui uomini e donne costituiscono due sfere spesso indipendenti, con lingua, maniere e obblighi differenti. La prole è affidata al gruppo più ampio. Questo consente un´elasticità maggiore della nostra, nella costituzione e nel dissolvimento della coppia stessa. Una società aristocratica e complessa come quella Tuareg ancor oggi consente una frequenza estrema di divorzi – che vengono festeggiati come se fossero matrimoni, cioè nuovi inizi – proprio perché la prole non rimane affidata mai alla singola coppia. Illich diceva che la coppia mononucleare è un mostro di cui nella storia non si era mai sentito parlare prima.
Al fondo di tutta questa materia giace una domanda importante: cos´è che lega le società, cosa fa sì che non si sfaldino? La nostra povera risposta oggi è: la coppia.
La risposta di altre società è sempre stata: un legame che consente il passaggio di sostanze, siano esse liquidi, latte, acqua, lagrime, nutrimento, emozioni, parole, esperienze, visioni, eredità nel senso più ampio e nel senso più specifico. La sostanza che una generazione passa all´altra è simile e diversa dalla sostanza che uomini e donne incontrandosi si scambiano. Si tratta di affetto, di amore, beni, ma soprattutto di "kinship" cioè di un legame di parentela che è una invenzione culturale che cambia da luogo a luogo, ma che è importantissimo. Noi siamo una strana società che privilegia l´amore-passione rispetto al legame di parentela. In moltissime società, anche moderne, come l´India, come il Giappone il matrimonio non corrisponde all´amore-passione, anche se può prevederlo. I matrimoni sono combinati perché il legame sia stabile e non fluttui con i cambiamenti delle emozioni. In India dicono che il loro tipo di matrimonio è come mettere il fuoco sotto una pentola di acqua fredda, mentre il nostro occidentale sarebbe come spegnere il fuoco sotto una pentola di acqua calda. Ed è vero che la nostra società, nonostante i richiami delle Chiese e dei nuovi fondamentalismi fa una fatica enorme a non sfaldarsi continuamente. Oggi la parola coppia è svuotata di gran parte del significato che anche da noi poteva avere fino a vent´anni fa. I Pacs e i Dico e anche i matrimoni tra persone dello stesso sesso affrontano un problema giuridico, legato alla eredità e alla comunanza di beni, ma non affrontano la sostanza impoverita della coppia. Perché in qualunque società il legame tra due persone è qualcosa che crea una circolazione di sostanze da passare ad altre generazioni (altrimenti non ci si "sposa", e nella culture primitive e tradizionali l´amore passione esiste quanto e spesso più che da noi). Se ci si "sposa" è per costituire una "kinship", un legame che consenta il passaggio di sostanze. Una delle sostanze principali in tutte le culture è il genere. Non è un caso che di dica "generare", cioè installare la prole nel genere, in un genere maschile o femminile – ci sono casi di terzo sesso, ma non di terzo genere, sono per lo più casi di uomini considerati culturalmente donne e viceversa. La questione di che tipo di sostanza di genere passano genitori di uno stesso sesso alla propria prole esiste. E´ una domanda imbarazzante per chi si batte oggi per i Pacs o per i Dico, ma occorre rispondervi.
Non basta avocare la creatività di un transgender o di un queer- gender per evitarla. Michel Foucault, che era un omosessuale convinto e praticante, litigava ferocemente con chi pensava che inventare un nuovo genere fosse come fare un happening. Per lui gli omosessuali erano uomini con gusti sessuali differenti.
In Francia è all´interno stesso del dibattito femminista che si è posta la questione. E´ stata Marcela Iacub, una antropologa argentina del diritto, a far notare che non si può parlare tanto di rispetto delle differenze sessuali e poi ignorare l´importanza in una cosa così seria come la generazione della prole. Il fatto è che qui, intorno alla famiglia, si gioca il destino della nostra società, non nel senso che essa sia oggi "degenerata" come vorrebbero alcuni, ma nel senso più specifico che qui non si tratta di diritto individuale, ma di trasformare il diritto perché sia capace di proteggere davvero i legami che le persone producono durante la loro vita. Sappiamo ormai di essere monogami nel presente e poligami nel tempo (il tasso altissimo di separazioni lo dimostra). Perché non accettare di essere una società dai tanti amori che però assicura e protegge i passaggi di sostanza che questi amori producono, figli, parenti acquisiti, amici, beni? E´ possibile, basta fare un passo più avanti della pura politica.

Repubblica 16.2.07
L'ISTITUTO MATRIMONIALE E IL PENSIERO OCCIDENTALE
QUANDO I VALORI DIVENTANO FATTI
di ROBERTO ESPOSITO


Coppia unita da un legame religioso. Unione di due persone finalizzata alla procreazione. Relazione istituzionale regolata da determinati vincoli giuridici e accordi economici: il matrimonio è tutto ciò ed altro ancora. E´ per questa sua collocazione ambivalente tra pubblico e privato, diritto ed economia, sentimento e ragione che esso costituisce oggi uno degli oggetti più problematici del dibattito politico, culturale, religioso. Non solo, ma anche il luogo su cui si scarica una crescente pressione da parte del ceto politico e della società civile, dei media e della Chiesa.
Considerato da molti il nucleo primario della vita di relazione, esso, tuttavia, è inteso diversamente dalle attuali culture contemporanee: come qualcosa di stabile nel corso del tempo, perché strettamente incardinato nella cornice tradizionale del sacramento religioso, oppure come un contenitore sociale temporaneo, all´interno della quale possono transitare situazioni diverse, in ragione dei mutamenti del costume e della diverse opzioni sentimentali e sessuali dei partners. In ognuno di questi casi, tuttavia, il matrimonio resta alla base di quella istituzione più ampia e fornita di rilevanza ancora maggiore che è la famiglia. E´ anzi proprio in rapporto ad essa – alla dimensione verticale costituita dalla presenza dei figli – che il matrimonio, naturalmente situato in una dimensione privata, va assumendo una portata sempre più intensamente politica e anzi, come oggi si dice, decisamente biopolitica.
Intendiamoci: fin dalla sua origine la riflessione politica occidentale ha assegnato un posto di rilievo alla famiglia. Marginalizzata, se non abolita, nel modello della repubblica platonica, a favore di una pubblicizzazione integrale della sfera politica, essa già con Aristotele rientra nella linea genetica che porta dalla dimensione naturale a quella del governo. Riconosciuta anche nel mondo romano come cellula primaria della convivenza, essa allarga progressivamente il proprio ambito di significato, cominciando a rappresentare, oltre che il gruppo ristretto della coppia genitoriale e dei figli, anche l´insieme delle persone che dipendono da una casa – famulus è il servo adibito ai rapporti domestici all´interno della sfera dell´oikos.
Questa integrazione di carattere comunitario, tipica dell´ordine premoderno, si spezza a partire dal XVII secolo, allorché il mondo delle passioni e degli affetti inizia sempre di più a specializzarsi rispetto all´ambito più vasto della ragione economica. Da allora la famiglia, intesa nel senso stretto che ancora adesso conferiamo all´espressione, tende a fuoriuscire dal discorso pubblico per collocarsi in uno spazio strettamente privato. Mentre ancora Hegel riprende, sia pure modificato, il modello aristotelico, individuando nella famiglia il primo elemento di una dialettica che porta alla società civile e poi allo Stato, la tradizione liberale, interessata ad una dimensione essenzialmente individualistica, la ascrive decisamente nell´ambito privato. Se il liberalismo dissolve la struttura familiare nella pluralità discreta degli individui, il marxismo la integra nella composizione di classe – fino a farne, con la scuola di Francoforte, la matrice di una possibile mentalità autoritaria.
Da allora, a partire dagli anni sessanta e settanta, l´istituto del matrimonio diventa l´obiettivo polemico dei movimenti di liberazione, a partire da quello femminista fino a quello omosessuale. In questo modo la famiglia, sia pure per una via molto diversa rispetto a quella classica, torna ad insediarsi all´interno dell´arena politica, finendo per precipitare al centro di aspri scontri ideologici. Prima la battaglia per il divorzio e poi quella per l´aborto segnano, in particolare nel nostro paese dove il radicamento della tradizione cattolica è particolarmente forte, i primi, cospicui, sintomi di una profonda trasformazione culturale, sociale, antropologica. Ma la piena politicizzazione della questione esplode in anni ancora più recenti, quando l´intera estensione del bios viene assunta prepotentemente dentro gli obiettivi e i linguaggi della politica.
Un drammatico annuncio di questo passaggio epocale è già ravvisabile nell´organizzazione degli Stati totalitari – in particolare di quello nazista e fascista – allorché non soltanto la questione della razza, ma anche, più in generale, dei corpi viventi, della loro riproduzione controllata e del loro uso economico-militare, entra a pieno nelle strategie politiche dei governi. L´attenzione ossessiva all´aumento del tasso di popolazione riporta la questione del matrimonio al centro delle preoccupazioni del potere. Mai come in quel caso ogni forma di congiunzione irregolare, o tra individui etnicamente eterogenei, viene scoraggiata, se non punita con la morte, perché non funzionale o contraria alla politica razziale.
Poco o nulla assimila la situazione delle nostre democrazie liberali alla folle eugenetica di quei regimi. Ciò non toglie, tuttavia, che la compenetrazione tra pubblico e privato si fa sempre più stringente. Nel momento in cui la vita biologica – la nascita, la morte, la malattia, la modificazione genetica – diventa il luogo su cui si misurano non solo prospettive culturali alternative, ma anche i rapporti di forza tra gli schieramenti politici, sarebbe impensabile che il matrimonio resti fuori dal conflitto. Sia la sua struttura monogamica, sia il suo assoluto primato rispetto ad altre forme, meno tradizionali, di convivenza, costituiscono il luogo arroventato di uno scontro frontale tra laici e cattolici o, più precisamente tra due diverse interpretazioni del laicismo e del cattolicesimo. Ciò che in tale scontro è in gioco è la sua medesima definizione. Cosa può essere il matrimonio in una società ampiamente secolarizzata, ma ancora bisognosa di saldi legami? Dove, in quale orizzonte di senso, esso può radicarsi in un mondo di individui sempre più soli, ma proprio per questo timorosi di ulteriore disgregazione? Come può rispondere alle sfide aggressive di altre culture politiche e religiose senza perdere i propri valori fondanti, ma senza smarrire i contatti con una società che cambia? Chiunque immagini di fornire risposte semplici, o piattamente rassicuranti, a simili domande è destinato a una cocente delusione nei confronti di una realtà che non si fa ingabbiare in blocchi di senso predefiniti.

Repubblica 16.2.07
La sinistra e la zona grigia
di MARIO PIRANI


Si afferma con tranquilla sicurezza: i nuovi brigatisti sono pochi, isolati, psicotici, «quattro sciaguratelli», come se la racconta Ingrao. Per Bertinotti, poi, si tratta, tutt´al più, di una variante delle «esplosioni di violenza che attraversano la società... chi stermina la famiglia, chi ammazza un poliziotto in uno stadio... un fenomeno circoscritto senza forza di propagazione politica». Una volta ancora, come trent´anni orsono, la prima reazione scaramantica di molti guru di sinistra consiste nel negare la gravità dei fatti e il loro senso. Eppure già i primi episodi di solidarietà con gli arrestati, i manifesti diffusi davanti alle sedi sindacali («Terrorista è chi ci affama e fa le guerre non chi lotta a fianco dei popoli»), il tam-tam via internet di alcuni centri sociali («È una provocazione politica della magistratura alla vigilia della manifestazione di Vicenza»), quel manifesto di un candidato sindaco di una lista «resistenza per il comunismo» a Garbagnate nell´hinterland milanese («Sono solidale al 100% con i compagni arrestati di cui chiedo l´immediata liberazione») ci dicono tutt´altro. Quella zona grigia, genericamente simpatizzante, anche se quasi mai esplicitamente complice, che avvolgeva come una nebulosa protettiva i nuclei armati degli anni di piombo, si sta ricreando, anzi ha già una sua consistenza. In essa sono germinate le prime cellule di un possibile terrorismo, anche quelle sgominate prima che passassero all´azione.
Per questo non può bastare, anzi rischia di trasformarsi in un alibi, l´invito generico alla non violenza che viene da autorevoli capi sindacali, l´impegno a non criminalizzare gli avversari, l´adesione ad una specie di galateo linguistico, bastevole a stemperare gli insulti contro lo Ichino di turno. Ed anche il solito e scontato sciopero contro il terrorismo. È vero che andare a fondo sconta scelte dolorose e difficili. Lo sapevano sia Luciano Lama, quando sfidò gli estremisti all´Università, sia Guido Rossa, che fu lasciato solo fino al giorno della morte e trovò assai poca solidarietà quando era vivo.
Certo, l´analisi non può ripercorrere vecchi tracciati diagnostici, anche se vi è una costante temporale significativa: la minaccia terroristica, sia su scala ridotta, come oggi, sia su scala ben più ampia, come negli anni Settanta, si fa sentire ogni qualvolta la sinistra si avvicina a responsabilità di governo o, addirittura, se ne assume il carico. La coincidenza si ferma qui perché le prime br si rifacevano nelle loro fumisterie ideologiche alla Resistenza «tradita» e alla azione armata quale ripresa della lotta conclusasi nel 1945, mentre i nuclei appena individuati cercano le loro radici nel sovversivismo latente, coltivato dalle aree cosiddette antagoniste della società italiana (centri sociali, comitati unitari di base, frange no global, black bloc, ecc.). L´ideologia genericamente espressa da queste aree si articola attorno a due tematiche, fortemente mitizzate fino ad assumere la valenza di icone negative contro cui scagliarsi: I) gli Usa, come «impero del male» da combattere senza se e senza ma, in nome di un antiamericanismo assoluto e totalizzante; II) il precariato come condizione generale del mondo del lavoro (ben al di là delle 700.000 persone che vi sono oggi coinvolte), alienazione che segna il destino comune, determinata dalla globalizzazione fonte di tutte le ingiustizie. Di qui l´aspirazione palingenetica ad un mondo «diverso», l´inaccettabilità di qualsivoglia riformismo, di ogni indispensabile distinzione di giudizio, sia sul piano internazionale che nazionale (Bush o Obama son tutti e due a stelle e strisce, e così qualsiasi riforma del lavoro, si chiami Treu, Biagi o Ichino, è una ignobile trappola padronale, meritevole magari di una pallottola, come accadde con Gino Giugni per lo Statuto dei lavoratori) .
Se non si capisce che il problema politico nasce dalla condiscendenza e dalla voluta contiguità con le aree che esprimono tutto ciò, le condanne contro la minaccia terroristica o le ipocrite dissociazioni da chi, marciando assieme, grida «10, 100, 1000 Nassiriya» o la solidarietà compunta verso il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, quando viene vilipeso non servono a nulla. Nel momento che si organizzano, come da tempo pratica la Fiom, manifestazioni e azioni di lotta comuni con i sostenitori di simili farneticazioni ideologiche, nel momento in cui, come sabato prossimo a Vicenza, la Cgil veneta si presenta con gli Scalzone e i «disubbidienti» di Casarini (mentre i dirigenti Cisl e Uil del Veneto sono sotto scorta) non ci si meravigli se giovani delegati sindacali finiscano per confondere le sigle e magari qualcuno si presti a subire il fascino di un´azione armata che si presenta come logica conseguenza di certi slogan. Questo non vuol dire – sia ben chiaro – che i gruppi cosiddetti antagonistici perseguano il terrorismo ma che sulla base della loro predicazione irrealistica e della contrapposizione schematica amico-nemico germoglia la suggestione che ha probabilmente convertito quegli otto militanti della Fiom, finiti in prigione, fortunatamente prima di poter colpire.
Cogliendo con acutezza la pericolosità della piattaforma del «partito comunista politico-militare», rivelata in seguito agli arresti, Loris Campetti sul «Manifesto» di ieri ha scritto: «È realistico pensare che chi operava nel sindacato e insieme progettava azioni terroristiche, ritenesse necessaria ma insufficiente la prima battaglia (quella sindacale, ndr) e dunque che si dovesse procedere anche lungo un altro sentiero. Ma non avevano detto che le due strade non si incontrano, anzi l´una cancella l´altra? Certo, ma forse non nella mente delirante di chi avrebbe fatto tale scelta».
Un interrogativo che dovrebbero porsi in primo luogo i dirigenti della Fiom ma anche quelli della Cgil, se non vogliono ridurre Lama e Rossa a due santini davanti ai quali genuflettersi una tantum. Una riflessione cui sollecitare anche Fausto Bertinotti, il quale ha avuto sì il grande e coraggioso merito di fare della non violenza la propria bandiera, scontrandosi con il 40% del suo partito, ma che altresì, nell´abbracciare con speranza ecumenica i movimenti alternativi, sia pure per guidarli verso approdi riformistici più avanzati, ha probabilmente allargato troppo le braccia. Col pericolo di aver aperto la porta di una pericolosa convivenza non solo al berciante Caruso ma anche a qualche più silenzioso militante «a doppia faccia».

l’Unità 16.2.07
Per due giorni a meditare con i monaci
Il presidente della Camera sul Monte Athos


Non potrà andare a Vicenza, come vorrebbe fare se non fosse presidente della Camera, ma almeno tra i monaci del Monte Athos sì. Fausto Bertinotti, fresco reduce da un lungo tour sudamericano, ha deciso di concedersi un’esperienza ascetica: un weekend di meditazione e riflessione, forse anche di preghiera, tra incensi, canti e litanie, con i monaci del Monte Athos, la comunità monastica nel Nord-est della Grecia che ha oltre mille anni di vita e che dipende amministrativamente dallo Stato greco, ma spiritualmente dal Patriarcato ecumenico ortodosso di Istanbul. Tra il 23 ed il 24 febbraio il presidente della Camera, con un seguito «molto ristretto», trascorrerà due giorni tra i monaci di questa repubblica teocratica greco-ortodossa esclusivamente maschile. Visiterà tre dei 20 antichi monasteri della zona: Meghisti Lavra, Vatopedi e Simonos Petra. E per due giorni parteciperà alla vita comunitaria dei monaci: comprese le preghiere, le meditazioni, i pasti frugali. E una notte la trascorrerà in una delle celle piccole e scomode che caratterizzano questi monasteri. L’Athos è meta di molte personalità politiche che regolarmente vi si recano in visita o in pellegrinaggio privato, come il principe Carlo d’Inghilterra, il presidente russo Vladimir Putin.
La scelta del luogo, per Bertinotti, non è casuale. Da quando si è insediato alla presidenza di Montecitorio è stato protagonista di un percorso di attenzione ai temi religiosi in chiave ecumenica. Proprio nelle prime settimane del suo mandato, l’ex segretario di Rc aveva proposto la creazione alla Camera di uno spazio interconfessionale per la preghiera e la meditazione religiosa, in aggiunta alla cappella di San Gregorio Nazianzieno, dove ogni mattina viene celebrata la Messa. A Vicolo Valdina, Bertinotti ha promosso un incontro interreligioso, a cui ha partecipato con il rabbino capo di Roma Di Segni, l’Arcivescovo Rino Fisichella, Gaetano Sottile delle Chiese riformate, ed Abdellah Redouane, segretario generale del Centro culturale islamico. Proprio in quell’occasione aveva proposto la creazione di uno spazio interconfessionale, auspicando l’approvazione di una legge sulla libertà religiosa.

l'Unità 16.2.07
Riviste. «Marxismo oggi»
Rileggere insieme Marx e Freud


A un secolo e mezzo dalla nascita di Siegmund Freud, Marxismo oggi, rivista quadrimestrale di cultura politica, dedica un ampio dossier (che verrà presentato domani, sabato, a Milano, dalle ore 9.30, presso l’associazione Punto rosso in via Guglielmo Pepe) al rapporto tra il padre della psicoanalisi e Marx, dossier introdotto da una presentazione di Mario Vegetti, che sottolinea più che la distanza (terreno di confronto negli ultimi decenni, indicando le differenze tanto fra ambiti epistemologi quanto fra pratiche sociali) i «punti comuni»: «la criticità propria sia dell’approccio marxista sia di quello psicoanalitico al mondo, la comune consapevolezza della complessità dei dispositivi sociali e di potere che governano la formazione e la conformazione del soggetto umano, il carattere di teorie e pratiche di emancipazione che avvicina marxismo e psicoanalisi...».
Il numero «freudiano» di Marxismo oggi contiene scritti di Adriano Voltolin (che lo ha «organizzato») a proposito della lettura di Marx da parte di Freud, di Sergio Marsicano (le due antropologie a confronto), Mario Cirlà (bisogni materiali e spirituali nella società della tecnica), Alessandro Studer (da Marx a Freud, alle letture «cinematografiche» della società, tra Bunuel e Matrix), Franco Romanò (la soggettività alienata) ed Enzo Morpurgo («un’ipotesi sessantottesca del Sessantotto»).

l'Unità 16.2.07
Il servizio d’ordine della Cgil e il caso Vicenza


Egregio direttore,
sull'Unità del 15 febbraio viene riferita, in un riquadro in terza pagina dal titolo «Il retroscena - La richiesta alla Cgil: serve il vostro servizio d'ordine», una notizia destituita di ogni fondamento. Non è vero, infatti, che il ministro dell'Interno Giuliano Amato abbia avuto nei giorni scorsi «diversi colloqui telefonici» con il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani che, dunque, in nessun modo gli ha fornito «ampie assicurazioni sulla presenza in strada del servizio d'ordine del sindacato di Corso d'Italia».
Cordiali saluti,
Carmen Carlucci

Portavoce del Segretario generale della Cgil

Prendo atto delle parole della portavoce del segretario generale della Cgil. Tuttavia lo stesso ministro dell’Interno Giuliano Amato, come riferito anche dall’agenzia Ansa, ieri ha spiegato che a Vicenza «non ci sarebbe un servizio d’ordine di 1.500 persone della Cgil se le mie preoccupazioni non fossero anche le loro».
ma.so.

Corriere della Sera 16.2.07
Rifondazione agli alleati «Ci volete nell'angolo»
«Un progetto politico per fermarci» Giordano teme per l'asse con Prodi
di Maria Teresa Meli


ROMA — E se... E se qualcuno nell'Unione puntasse a drammatizzare la situazione per rompere l'asse tra Romano Prodi e Rifondazione comunista? E se qualcuno nell'Unione puntasse a far saltare il governo mettendo nell'angolo il Prc? Le precisazioni «postume» di Francesco Rutelli e Giuliano Amato non fugano i dubbi dei leader della sinistra radicale.
Per questa ragione i dirigenti di Rifondazione stanno cercando in tutti i modi di evitare che Vicenza si trasformi nella loro Caporetto. Le telefonate tra i vertici del partito e i vertici della polizia, la decisione di non fare il servizio d'ordine alla manifestazione, l'apprensione per il non trascurabile dettaglio che il corteo sfilerà davanti alla Questura di Vicenza, sono tutti elementi che la dicono lunga sull'attenzione con cui il Prc sta preparando questo appuntamento. Ma c'è l'imponderabile. Tanto per dirne una: sarà il sindacato a occuparsi di togliere gli striscioni che inneggiano alla violenza, perché se questo compito venisse affidato alla polizia la possibilità di arrivare agli scontri aumenterebbe. Però anche una rissa tra Fiom e centri sociali costituirebbe un problema di non poco conto.
Perciò si incrociano le dita, si cerca di non acuire le tensioni che già ci sono e di non esasperare i toni nei confronti di chi — Amato e Rutelli, per esempio — sembra voler dar già la croce addosso a Rifondazione.
La situazione è assai delicata. Franco Giordano con i suoi è stato chiarissimo: «Dobbiamo contrastare — ha spiegato ai compagni di partito — il tentativo di costruire dei progetti politici che tendono ad alimentare gli allarmismi. È chiaro che una parte della coalizione, i poteri forti e la stampa hanno tutto l'interesse per amplificare eventuali incidenti. Così, infatti, proverebbero a metterci nell'angolo. Ma io penso che quella di Vicenza sarà una grande manifestazione pacifica che smentirà chi lancia l'allarme». Giordano si dice convinto che in quel di Vicenza non accadrà niente. Ma l'apprensione dentro il Prc è forte. I vertici di Rifondazione comunista sono convinti che la manifestazione possa venir utilizzata in una partita politica, tutta interna al centrosinistra, che nulla ha a che fare con le basi americane e con l'Afghanistan.
«Io penso — spiegava ieri il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena — che alcuni settori dell'Ulivo siano in grande difficoltà. Hanno paura perché ritengono che noi possiamo incidere sulle scelte politiche di questo governo e temono che questo tagli il ramo su cui sono seduti». Ossia? «Per essere più espliciti — osservava ancora il presidente del gruppo di Rifondazione a Palazzo Madama — quest'isterismo dei vari Rutelli è dovuto al fatto che temono di non poter fare la politica che sta bene ai loro referenti economico-sociali. Sono deboli e per questo digrignano i denti, sperando di poter cambiare i rapporti di forza all'interno della maggioranza, e Vicenza per loro sarebbe l'ideale per mettere in atto questo progetto. Ma non si rendono conto che proprio noi cerchiamo di colmare il distacco che separa una parte dell'elettorato di centrosinistra da questo governo».
Non se ne rendono conto? Oppure — e questa è la versione più dietrologica e sussurrata a mezza bocca dentro il Prc — mirano proprio a questo? Cioè a minare le basi del governo? Ieri in Transatlantico c'era chi, come il deputato di Rifondazione comunista Antonello Falomi, faceva il nome di Giuliano Amato come il candidato più accreditato alla successione a Prodi, nel caso in cui l'esecutivo salti. Certo, la dietrologia abbonda nella sinistra e dintorni. Ma ieri mattina nessuno riusciva a dare una risposta non dietrologica all'interrogativo che il sottosegretario all'Economia, Paolo Cento, andava ponendo a qualche collega: «Per quale ragione — osservava l'esponente verde — in una situazione così delicata, dove sui muri appaiono scritte e manifesti di solidarietà ai brigatisti arrestati, invece di cercare di comprendere qual è il modo migliore per far fronte a quel che sta avvenendo, invece di evitare che arrivi il peggio, si va invece allegramente allo scontro?».

Corriere della Sera 16.2.07
GIORGIO CREMASCHI
«Non una, cento Vicenza. E il Prc fuori dal governo non sia tabù»
di Aldo Cazzullo


ROMA — «Se il ministro dell'Interno lancia un allarme alla vigilia di un corteo che secondo me sarà pacifico, un po' mi fa arrabbiare, ma un po' sta facendo il suo mestiere. Però il vicepremier che annuncia una dura repressione mi indigna profondamente. Come mi irrita il presidente del Consiglio, che invita il sindacato a "vigilare di più". Cosa intende Prodi? Si esprima con chiarezza. Non dica le cose a metà. Le dica per intero, o taccia».
Giorgio Cremaschi, segretario dei metalmeccanici della Fiom e leader della corrente di sinistra della Cgil, denuncia «un attacco strumentale al sindacato». E lo vede arrivare «più dal centrosinistra che dalla destra. Considero le parole di Amato pericolose e preoccupanti; ma peggiori sono quelle di Prodi e di Rutelli. Non riguardano il merito della questione; rappresentano una strumentalizzazione politica. Vi sento un'eco della costruzione del partito democratico, come a dire: noi siamo altro, alzeremo una barriera tra i riformisti e la marmaglia, la violenza eversiva sarà il crinale che separerà il grano dal loglio, i buoni dai cattivi. Questo è uno schema falso e inaccettabile. Sarebbe grave escludere i centri sociali, negarne la costituzionalizzazione; perché i centri sociali accolgono emarginati, giovani, migranti. Parlano un linguaggio a volta inaccettabile, peraltro non peggiore di quello dei talk-show politici, ma non hanno nulla a che vedere con il terrorismo. Dovremmo badare a non ricacciarli in un'area eversiva. Invece si sta creando un clima da caccia alle streghe. Una sorta di catena di sant'Antonio in cui uno accusa un altro di essere cattivo, in un progressivo sillogismo che non ostacola ma fa il gioco dei terroristi».
L'analisi di Cremaschi va oltre il tema di questi giorni: il ritorno delle Brigate rosse, il loro proselitismo nel mondo antagonista e nel sindacato, l'allarme alla vigilia della manifestazione di Vicenza. «Il paragone con gli Anni Settanta è del tutto privo di fondamento. Io sono sempre stato comunista, quindi allora ero di "destra", e me le ricordo le assemblee degli studenti a Bologna e poi quelle degli operai a Brescia. La violenza era considerata inevitabile e giusta, i brigatisti potevano contare su vaste simpatie. Ora è diverso. I movimenti che partecipano del fenomeno mondiale definito no global rifiutano esplicitamente il terrorismo». A ricordargli che alcuni dei nuovi brigatisti avevano la tessera della Cgil, Cremaschi dice che il sindacato «reagirà con una campagna che stronchi sul nascere qualsiasi tentazione: il terrorismo è il cancro del sindacato, e fu decisivo nella sconfitta operaia alla fine degli Anni 70. Bene ha fatto la Cgil a espellere Sisi non appena si è dichiarato prigioniero politico. Però altri tra gli arrestati hanno reagito in modo diverso, negando le accuse. Soprattutto, la tentazione del terrorismo non arriva in fabbrica dai movimenti; nasce dall'isolamento degli operai. Ci ripetono di continuo: non contiamo nulla. La loro sfiducia nella politica è tale che ci chiedono di andare in tv ad alzare la voce, di fare gesti clamorosi. È la logica di chi sale sulla gru e minaccia di gettarsi. Altro che criminalizzare i movimenti; il centrosinistra dovrebbe ascoltarli di più, dopo averli così clamorosamente delusi. Contro Berlusconi si erano mossi i girotondini, i pacifisti, i lavoratori. L'Unione li ha ingannati tutti: le leggi di Berlusconi sono sempre lì, le truppe sono ancora in Afghanistan, e si è tentato di rabbonire i lavoratori con frasi tipo "vedrete la busta paga di gennaio!". Purtroppo l'hanno vista».
La critica di Cremaschi non è rivolta solo ai riformisti, ma anche a Bertinotti, con cui è critico da tempo. «Lo dico da semplice iscritto: Rifondazione non ha alcun ruolo di cerniera tra governo e movimenti. Non contribuisce a colmare il vuoto tra rappresentanti e rappresentati. Lo si vede nelle fabbriche, nei cortei, tra gli operai con cui parlo: non credo vengano tutti da me solo perché ho fama di cattivo. Forse siamo troppo piccoli, e in fondo neppure Berlinguer nel '77 riuscì a evitare la frattura tra sinistra e movimenti. Oggi i partiti nella società non esistono più, il sindacato è solo ed è debole, anche se talora ostenta una forza che non ha. Giordano e Diliberto verranno a Vicenza? Non credo che ai manifestanti importi molto. A loro importerebbe che il governo cambiasse una decisione sbagliata. Bertinotti non verrà? Non voglio fare polemiche personali. Ma è tempo che l'uscita di Rifondazione dal governo non sia considerata un tabù. L'unica soluzione è che crescano le proteste dal basso, che le forme di autorganizzazione si moltiplichino: non una ma cento Vicenza. Prima o poi, però, la partecipazione politica e la mediazione andranno ricostruite. Più che a Vicenza, Bertinotti e tutti gli altri politici farebbero bene a prendere anche solo una volta al mese la linea B della metropolitana di Roma, e ascoltare quel che dice la gente».
C'è anche un problema di linguaggio. Berlusconi lamenta un odio pluridecennale da parte della sinistra, Mastella è solidale con lui, Diliberto decisamente no. Cremaschi critica il segretario dei Comunisti italiani. «Io non direi mai di qualsiasi interlocutore che mi fa schifo. Il rispetto in politica è fondamentale. A Diliberto vorrei ricordare l'elegia funebre di Engels in morte di Marx: "Karl aveva moltissimi avversari, ma nessun nemico". Sono agli antipodi di Ichino, ma non lo chiamerei mai traditore; tanto più che non si vede cosa potrebbe aver tradito, visto che l'ha sempre pensata allo stesso modo. Ma anche qui il centrosinistra reagisce in modo strumentale, quando Fassino costruisce un collegamento tra il linguaggio e la violenza. Non è così, tanto più nelle condizioni di oggi». Epifani? «Vedo che finalmente, dopo la timida reazione iniziale si è arrabbiato un po'. Speriamo». Cofferati chiede di fermare le lotte violente. «E io non ho capito a cosa si riferisse. Anche lui, come Prodi, farebbe bene a dire le cose per intero, o a stare zitto».
Sanguineti invece crede ancora alla lotta e pure all'odio di classe. «Sanguineti ha detto male una cosa giusta: la lotta di classe non è finita; ma la combattono solo i padroni, che infatti vincono. I lavoratori sono ormai assuefatti all'ingiustizia: Valletta guadagnava 30 volte più di un operaio; oggi i manager, anche se l'azienda va male, guadagnano 400 volte più dei loro salariati». Lei sarà a Vicenza: come finirà? «La mia sensazione è che non accadrà nulla. Se qualcuno tenterà provocazioni, faremo in modo di allontanarlo». Ci sarà il servizio d'ordine del sindacato? «Sì, ma non facciamone un mito. Non ho nostalgia né del terrorismo degli Anni 70, né dei servizi d'ordine militarizzati».
Giorgio Cremaschi è segretario nazionale della Fiom-Cgil

Corriere della Sera 16.2.07
La fede, le leggi e i peccatori
di Emanuele Severino


Esistono forze — si crede — capaci di trasformare il mondo. Ognuna tende a rafforzare se stessa e indebolire le altre. Il cristianesimo è una di esse; e la Chiesa cattolica è la forma attuale più imponente del cristianesimo. La lotta della Chiesa contro aborto, divorzio, fecondazione artificiale e, ora, contro le misure del governo sui Dico si sviluppa appunto all'interno di quello scontro di forze.
La Chiesa sta dicendo che quelle misure indeboliscono la «famiglia naturale» voluta da Dio. Si tratta allora di rafforzare la «famiglia naturale» e quindi di indebolire ogni convivenza «innaturale».
La Chiesa distingue l'individuo umano dal modo in cui egli pensa. Ma per la Chiesa i diversi contenuti della fede cristiana — uno dei quali è appunto la «famiglia naturale» — sono rafforzati da un'abbondante presenza di cristiani, così come il fuoco è rafforzato da un'abbondante presenza di legna. Si tratta quindi di rendere più abbondante la presenza dei cristiani e sempre più esigua quella dei non cristiani. Un compito arduo (al quale tuttavia essa non può rinunciare) in un tempo in cui, la Chiesa sa bene, i cristiani sono sempre di meno.
Poiché la Chiesa distingue l'individuo dal modo in cui egli pensa, la volontà di ridurre i non cristiani non si esprime più come volontà di annientarli come individui, ma come volontà di annientare i loro errori. Si odia e si combatte il peccato, non il peccatore.
Va detto però che come l'esistenza del cristiano rafforza, per la Chiesa, la fede cristiana, così l'esistenza del peccatore — cioè di quell'individuo che è il peccatore — rafforza il peccato. Non riconoscerlo è incoerenza o malafede. Pertanto, per rafforzare la fede e i cristiani, si dovranno sì annientare i peccati, ma si dovranno anche indebolire i peccatori, la cui esistenza rafforza l'esistenza del peccato come coloro che mettono acqua sulla legna spengono il fuoco e fanno fumo. Difficile, però, stabilire il limite oltre il quale, indebolendo il peccato, si manda all'altro mondo anche il peccatore.
I rapporti tra Chiesa e democrazie moderne sono difficili, perché altra strada, per indebolire il peccatore di cui la Chiesa intende per altro rispettare la vita, la Chiesa non ha se non quella di rendergli la vita difficile: impedendogli di diffondere il proprio modo di pensare e realizzare istituzioni in cui esso si rifletta (si pensi alla scuola pubblica in quanto «laica», e agli interventi medici condannati dalla dottrina cattolica); e impedendogli di avere peso politico e di disporre di finanziamenti che rendano possibile tutto questo. Se la Chiesa non lo facesse sarebbe incoerente. Si tratta, appunto, di indebolire il più possibile il peccato e il peccatore. Che a loro volta non intendono farsi togliere di mezzo e reagiscono.
La democrazia moderna è anch'essa contenuto di una fede, che però rende possibili, senza renderle obbligatorie, leggi che in determinati ambiti, rispettando la Costituzione, consentono a ciascuno di vivere come vuole. La Chiesa, invece, sollecita leggi che, in quegli ambiti, impongano a tutti di vivere secondo i dettami della fede cristiana. È una fola che la Chiesa non debba ingerirsi nella vita dello Stato, ed è democratico l'atteggiamento di parlamentari che votano in un certo modo perché vogliono obbedire alla Chiesa, e che se hanno la maggioranza fanno diventare legge dello Stato le loro convinzioni. Rimane però la differenza, la maggiore democraticità della fede democratica, rispetto alla fede cristiana. (Lo si dice spesso, ma è un discorso che ha forza solo dopo che si sia riconosciuta la legittimità di leggi volute da una maggioranza cattolica). La democrazia non chiude infatti la porta a leggi che, non contrarie alla Costituzione, in certi campi lascino ognuno libero di vivere come vuole: non chiude loro la porta, senza tuttavia imporle, perché non la chiude nemmeno a leggi che, come quelle cattoliche, impongono invece anche ai non credenti, in quei campi, di vivere come essa crede sia giusto vivere

giovedì 15 febbraio 2007

Repubblica 15.2.07
L'INTERVISTA
Ingrao: "I terroristi sono dei giovani vecchi". "Non vedo il collegamento con la manifestazione"
"Quei Br sono quattro sciagurati e non tiriamo in ballo Vicenza
di Goffredo De Marchis


ROMA - I brigatisti arrestati nei giorni scorsi li chiama «giovani vecchi». Non solo perché alcuni di loro hanno il capo imbiancato o stempiato, ma soprattutto perché gli sembrano scimmiottare una stagione che non c´è più. «Oggi ci sono problemi globali, mondiali. Questi qui sono chiusi in un recinto molto più piccolo», si stupisce Pietro Ingrao, storico leader del Partito comunista, oggi vicino a Rifondazione. Pacifista, se è possibile qualcosa di più, come paladino, anche durante la guerra fredda, del disarmo. Ma l'allarme su un ritorno del terrorismo non lo condivide del tutto. E non accetta alcun accostamento tra le inchieste sulle nuove Br e la manifestazione di dopodomani a Vicenza contro l'allargamento della base americana.
Ingrao, che idea si è fatto di questi nuovi nuclei rivoluzionari?
«Per il momento quello che vedo sono notizie un po' frammentarie, insufficienti per dare un giudizio completo. Non ho molto chiaro il fenomeno, ma non sono così sicuro che sia una cosa di forte rilievo».
Quindici persone arrestate, armi nascoste, intercettazioni chiarissime. Non è materiale sufficiente per giustificare almeno un'attenzione altissima?
«Non so dare una risposta precisa, voglio approfondire. Ma ciò che davvero mi sorprende è che qui abbiamo a che fare con quattro sciaguratelli quando la partita nel mondo si gioca su elementi ben diversi. Io mi sforzo di comprendere, di trovare un senso a tutto questo, ma non riesco davvero a dare molta importanza ai gruppi che vengono fuori attraverso l'inchiesta della magistratura. Sarà perché ne so veramente poco... Dove vogliono andare a parare, qual è il loro obiettivo più grande, a parte quello certamente mostruoso degli attentati che erano in preparazione? Per questo sono un po' restio a offrire un commento, a ragionare su quello che sta succedendo. I problemi che ci sono su scala mondiale hanno ben altra dimensione rispetto ai confini del piccolo mondo in cui le persone arrestate si stavano muovendo. Questi nuovi terroristi mi sembrano davvero poca cosa».
Il ministro dell'Interno Giuliano Amato, riferendo alla Camera sull'operazione che ha fermato i gruppi terroristici in Veneto, in Lombardia e in Piemonte, ha detto, riferendosi alla manifestazione di sabato a Vicenza: «Chiedo a tutto il Parlamento e alle forze politiche di essere solidali con le forze dell'ordine dimostrando questa solidarietà in un'occasione che altri vorrebbero fosse occasione per saldare spezzoni di ostilità contro la polizia». È giusto fare questo accostamento?
«Ma no, io non vedo il collegamento, tanto più che non riesco a considerare importante, significativo il fenomeno così come emerge in queste prime battute dell'inchiesta».
A Vicenza dunque non ci sono rischi di una degenerazione violenta del corteo?
«Naturalmente, io mi auguro che non sia così. Ma posso dire con certezza che non esiste alcuna correlazione tra il corteo e gli arresti di lunedì. Se dobbiamo avere paura di questi qui in vista di una manifestazione nazionale di quel genere e di quella portata, allora siamo proprio messi male!».
Se la manifestazione sarà pacifica, se non si corrono pericoli di una tempesta in grado di ripercuotersi sul governo, perché non possono andare anche i sottosegretari della sinistra radicale?
«Perché si è fatto un governo tutti insieme. La loro presenza non sarebbe normale. Anzi, sarebbe del tutto singolare, non deve accadere».
Ma allora chi si riconosce nell'Unione dovrebbe rispettare il governo che ha dato il via libera all'allargamento della base. Lei dunque è favorevole al raddoppio?
«Figuriamoci. Per me le basi militari non dovrebbero proprio esistere».

Repubblica 15.2.07
IL RETROSCENA
La richiesta alla Cgil: serve il vostro servizio d'ordine


Impedire ogni infiltrazione violenta nel corteo contro l'allargamento della base Usa di Vicenza. È questo il senso del lavoro che il ministro Amato sta conducendo in vista del corteo di sabato prossimo. Un lavoro che in questa fase è centrato soprattutto sulla prevenzione. La presenza delle forze dell'ordine, infatti, da sola potrebbe non bastare e allora il titolare del Viminale ha scelto la via della cooperazione con partiti, sindacati e associazioni che saranno in piazza il 17 febbraio. Nei giorni scorsi, infatti, Amato ha avuto diversi colloqui telefonici con il segretario della Cgil Guglielmo Epifani che gli ha fornito ampie rassicurazioni sulla presenza in strada del servizio d'ordine del sindacato di Corso Italia. Ma attenzione contro la possibili infiltrazioni dei violenti nel corteo Amato l'ha raccomandata anche ai segretari dei partiti dell'ala pacifista che hanno assicurato la propria presenza a Vicenza. Perché l'allarme a cui ha fatto riferimento ieri il ministro dell'Interno alla Camera è il frutto di alcune informative inviate al Viminale nelle ultime ore, specialmente dopo la tensione generata in alcuni ambienti dagli arresti dei 15 presunti brigatisti. Un allarme ancora più presente dopo l'atto di intimidazinoe subito dal capo della Digos di Padova Lucio Pifferi e dopo i quattro arresti di ieri per «istigazione a delinquere in relazione a fatti di terrorismo». Il pericolo, spiegano al Viminale, è che le ali più estreme del movimento, specialmente quelle orbitanti intorno ai centri sociali del nord est, possano approfittare dell'occasione per cercare lo scontro con le forze dell'ordine, come accaduto in Val di Susa per la mobilitazione No Tav. ma.so.

L’espresso
Terroristi senza futuro
Colloquio con Fausto Bertinotti
di Gigi Riva


Le nuove Br sono un fenomeno isolato. Lontano dalla cultura pacifista dei giovani. E la manifestazione di Vicenza lo dimostrerà. Parla il presidente della Camera. Colloquio con Fausto Bertinotti

Pericoloso, ma circoscritto. Fausto Bertinotti non sottovaluta la capacità omicida dell'ultima leva del terrorismo. Ma sottolinea le differenze sostanziali con gli anni Settanta. Oggi non ha, il fenomeno, una "capacità di propagazione socio-politica" come allora. Può al massimo avere "contiguità con altre forme di violenza". Quelle che si consumano in famiglia o negli stadi. Non è sorpreso di trovare, accanto a vecchi arnesi della lotta armata, le facce imberbi di alcuni ragazzini perché c'è sempre chi può essere attratto "dalla cultura politica disperante e disperata del terrorismo". Ma la generazione "di Seattle e di Genova" esprime piuttosto, nel suo insieme, una "cultura pacifista e non violenta". Cultura che sarà visibile, profetizza, anche il 17 febbraio a Vicenza con una grande manifestazione di massa.

Se non fosse presidente della Camera, ammette, sfilerebbe anche lui. Contro la nuova base americana. Il vestito istituzionale, come confessa in questa intervista con 'L'espresso', lo obbliga "a una modalità di linguaggio diversa dalla mia storia". La parola che maggiormente utilizza durante il lungo colloquio è "compromesso". A cui tutte le anime della maggioranza devono sottostare per evitare quella che considera una "catastrofe" per la sinistra italiana: la caduta di Prodi. Per "tenere" cinque anni bisogna ricorrere al "compromesso", anche quando non sembra facile. Così sull'Afghanistan, così sui Dico. L'urgenza della cronaca chiama a riflettere sulle cellule delle Br sgominate. Da lì si parte.

Presidente Bertinotti, nel 2007, trent'anni dopo, c'è ancora qualcuno che si proclama brigatista ed è in guerra contro lo Stato.
"Penso sia un fenomeno circoscritto. Può essere pericoloso, ma non ha una forza di propagazione socio-politica. Andrebbero invece indagati i possibili legami con esplosioni di violenza che attraversano la società contemporanea di natura diversa fra loro. Manifestazioni criminali che avvengono nella quotidianità. Chi stermina la famiglia, chi ammazza un poliziotto in uno stadio. È possibile una contiguità con queste altre forme di violenza".

Ma non è sorpreso dal fatto che nella rete sgominata al Nord ci fossero dei baby terroristi?
"No, non mi sorprende. C'è sempre qualcuno che può essere attirato dalla cultura disperata e disperante del terrorismo e che si isola dalla propria generazione. Per generazione non intendo l'elemento anagrafico. Ma per capirci, quella generazione, come possiamo chiamarla, di Seattle, di Genova? esprime al contrario una cultura pacifista".

Stando ai primi elementi dell'inchiesta, i nuovi brigatisti il problema del consenso e del proselitismo se lo sono posto. Qualcuno di loro si è mischiato, pare, alla battaglia contro la Tav in Val di Susa.
"Sentivo questi discorsi anche negli anni Settanta. Significa non aver capito nulla di questi movimenti. E allora o lo si dice per strumentalità politica, e non mi piace ma lo capisco, o c'è un elemento di incomprensione fondamentale. Chi mette in relazione le due cose non è mai stato in Val di Susa, non è mai stato in un presidio, non è mai stato in una casa di legno in montagna e non ha sentito le argomentazioni di chi ci abita".

Diversi degli arrestati erano iscritti alla Cgil.
"Tutta la solidarietà a Epifani. La Cgil sa benissimo quello che deve fare. Che è del resto quello che ha sempre fatto. E i brigatisti potevano finire lì come altrove. Noi avevamo Guido Rossa ucciso dai brigatisti, alcuni dei quali erano penetrati nella stessa organizzazione. Perché il terrorismo ha un suo progetto autonomo ed è capace di inquinamenti. Il problema vero è sapere che c'è una irriducibilità totale alla sua causa".

Il 17 febbraio ci sarà la manifestazione a Vicenza contro la base Usa. La vicinanza con Padova ha fatto scattare un allarme.
"Che significa la vicinanza? Chiunque abbia vissuto in ben altro quadro e con ben altra capacità di penetrazione del terrorismo, sa che non significa nulla. Avevamo grandi fabbriche infiltrate da terroristi dove ci sono state le manifestazioni più pacifiche che io conosca".

La manifestazione come può difendersi da eventuali tentativi di infiltrazione?
"Rinnovando la grande tradizione degli anni terribili della lotta al terrorismo. Compito principale delle grandi manifestazioni di massa era proprio quello di prosciugare l'acqua entro cui poteva nuotare il pesce del terrorismo. E quella fu parte decisiva della vittoria di popolo contro l'eversione. Non nego il contributo di magistrati e di forze dell'ordine, c'ero e l'ho visto direttamente. Ma il sindacato e i consigli di fabbrica sono stati decisivi. Tutta questa esperienza può essere ripresa e rinvigorita. Tantopiù perché il terrorismo attuale sta in un quadro che lo isola in partenza".

Lei non teme disordini e violenze a Vicenza?
"No. Sarà una grande manifestazione di massa, fortemente caratterizzata da elementi di partecipazione e di contrasto di qualunque tentazione di uscire dal terreno della battaglia condivisa. Tanto più grande sarà la partecipazione quanto più farà massa critica contro la violenza e contro espressioni di linguaggio incongrue e non compatibili con le parole d'ordine, le caratteristiche e l'ispirazione pacifista che ne costituisce l'elemento portante".

Lei dove sarà il 17 febbraio?
"Non andrò a Vicenza, se è questo che vuole sapere. Semplicemente perché ho troppo rispetto per la mia collocazione istituzionale".

Altrimenti...
"Altrimenti ci andrei, naturalmente".

Perché condivide in pieno quella lotta?
"Sì. E prendere questa posizione è del tutto compatibile col mio ruolo istituzionale. Anche il presidente del Senato, Franco Marini, si è schierato. La pensa molto diversamente da me, ritiene si debba rispettare un accordo internazionale. Io credo all'opposto che la base sia incompatibile coi problemi di assetto di quel territorio. C'è una specie di incompatibilità e vanno cercate altre soluzioni".

Anche l'attuale governo ha confermato l'impegno con gli americani. Pare difficile tornare indietro.
"Fu così anche a Scanzano (dove il governo Berlusconi aveva deciso di collocare il deposito unico di scorie nucleari, ndr) e il movimento vinse. Come può vincere a Vicenza. Non ci sono impegni presi da un governo che siano, perciò, irrevocabili".

E in che modo può vincere?
"Non si sapeva a Scanzano, prima. Non si sa a Vicenza, adesso. Per fortuna l'esito delle lotte è aperto".

Qualcuno ci dovrebbe rimettere la faccia.
"Non mi piace l'idea militare per la quale quando si determina un conflitto c'è solo una soluzione binaria, o vince l'uno o vince l'altro. È un'idea povera. In realtà in mezzo c'è il compromesso".

Lei cita Scanzano dove parte di chi si ribellava lo faceva contro un governo che sentiva ostile. In questo caso in molti ce l'hanno con un governo amico. E l'ulteriore complicazione per Prodi sta nella possibilità che marcino pure dei sottosegretari.
"Proporrei che si guardasse a Vicenza con un'ottica inedita. Siamo di fronte a una forma di mobilitazione nuova che potremmo chiamare, approssimativamente, comunitaria. Diventa tale quando trascende l'obiettivo specifico e chiama in causa il destino, il futuro di una comunità. Quando la lotta è comunitaria, è dotata di una propria autonomia, si costruisce delle casematte attorno alle quali si consolida, nascono nuove forme di leadership, diverse da quelle tradizionali. Coloro che pensano di metterci il cappello commettono un errore di presunzione di sé e di ignoranza dei movimenti. L'unica cosa da fare è accantonare ogni propensione di guida e mettersi a disposizione. Ecco, così bisogna guardare a Vicenza".

Oltre alla dimensione comunitaria ammetterà che c'è un altro elemento politico cruciale. Riguarda la nostra sovranità e i rapporti internazionali.
"Se ci inoltriamo in questa direzione bisogna fare un discorso più impegnativo. Ma eviterei di assolutizzare. La costruzione della sovranità nazionale avviene all'interno di una crescente autonomia dell'Europa perché si esca da quella condizione di mondo unipolare nella chiave voluta dall'amministrazione Bush. È un processo. Non è che oggi non hai sovranità e domani ce l'hai: si conquistano spazi progressivi. L'ha fatto il governatore Soru in Sardegna. La battaglia contro la base della Maddalena era una vecchia battaglia pacifista. Soru ha vinto quando ha introdotto l'argomento della restituzione al popolo sardo delle sue risorse".

Anche i vicentini usano l'argomento della difesa delle loro risorse. Sono stati offerti, in alternativa, altri luoghi. Perché allora gli americani si sono ostinati con l'aeroporto Dal Molin?
"A volte ci sono ragioni che risultano cattive consigliere".

In questo caso quali?
"Il mio ruolo mi impedisce di dire oltre".

A Vicenza è legata anche la diatriba della maggioranza sulla exit strategy dall'Afghanistan.
"Perché legata? In un caso di scuola si potrebbe benissimo uscire dall'Afghanistan e allargare la base o viceversa".

Al primo volo che partisse dal Dal Molin per Kabul le vicende si legherebbero eccome. Mettendo in difficoltà l'esecutivo. Sulla politica estera c'è una difficoltà oggettiva.
"La politica del governo vive di compromessi tra anime diverse. L'importante è che sia chiara la direzione di marcia. Non la invento io. E quella intrapresa col ritiro delle truppe dall'Iraq, con l'iniziativa in Libano, con l'attenzione verso l'America Latina e altre realtà geopolitiche del mondo. Non ho titolo perché adesso non faccio né il dirigente politico né il ministro, ma posso affermare con serenità che la ricerca del compromesso è la chiave per dare continuità e durata all'azione di governo. Quando viene meno si apre un elemento critico tra le culture pacifiste e il governo e questo toglie energia all'azione del governo stesso".

C'è chi sostiene che Vicenza e l'offensiva della Chiesa sui Dico siano due facce della stessa medaglia. In entrambi i casi è messa in discussione l'autonomia della decisione politica.
"La Chiesa da tempo manifesta una propensione all'intervento. Vorrei spiegarlo con grande compostezza perché non mi piacciono le urla contro l'ingerenza caso per caso. Siamo davanti a una posizione post-conciliare originata, più che da arroganza, da paura. La paura della Chiesa rispetto a questo mondo era stata compressa dal protagonismo di Giovanni Paolo II e dal suo ottimismo della volontà. Adesso torna fuori. E non è che la Chiesa pretenda di guidare la mano del legislatore, dice una cosa più complessa. Riconosce che il legislatore debba avere una sua autonomia, ma dentro un certo limite che è quello della compatibilità con dei principi generali che rispondano a una sorta di morale naturale. Il punto è che il custode di questa morale naturale torna a essere la Chiesa. Questa posizione va contrastata con la ricostruzione di un'autonomia della politica fondata su un proprio apparato culturale. Insomma, il modo di reagire non è difensivo, ma propositivo".

La paura della Chiesa deriva anche dal fatto che si sente minoranza?
"Sì, tanto è vero che per vincere queste battaglie non conta sulla costruzione del consenso, ma sulla rinuncia alla partecipazione. Vedi il caso del referendum sulla procreazione assistita".

Su Afghanistan e Dico potrebbe uscire in Parlamento una maggioranza diversa da quella che appoggia il governo.
"Il governo deve contare sulla sua maggioranza e penso che debba durare cinque anni, perché l'alternativa sarebbe distruttiva, una crisi sarebbe il massacro per la sinistra. La navigazione sarà difficile e i compromessi necessari. Necessari e non esaltanti come una parte del Paese legittimamente si aspetterebbe. Il Paese vorrebbe una grande riforma sociale, ma a questo problema non si risponde caricando sul governo un peso che per questo governo sarebbe insopportabile, bensì ricostruendo nella società un'iniziativa delle forze politiche e dei movimenti".


L’espresso
Dolce il sampietrino del maledetto 77
A sinistra c'è ancora chi flirta con gli irriducibili eredi di quel movimento che aggredì Luciano Lama all'università
di Giampaolo Pansa


Servono gli anniversari? Il trentennale del 1977 è servito a Lucia Annunziata per pubblicare da Einaudi un libro di memoria su quell'anno orrendo. S'intitola '1977. L'ultima foto di famiglia'. Quel che ho capito dall'anticipazione della 'Stampa', il giornale di Lucia, mi fa pensare che sia un lavoro senza reticenze, neppure sul conto dell'autrice. E sulla sua antica militanza in una sinistra che oggi non esiste più. Se non in un pulviscolo di piccoli gruppi, presenti un po' dovunque in Italia: cellule di esaltati, capaci di gesti prepotenti, per fortuna lontani mille miglia dalla geometrica potenza dei loro gemelli di un trentennio fa.

In quel tempo Lucia non era più una ragazzina. Aveva 27 anni e lavorava al 'manifesto'. Il 17 febbraio stava all'università di Roma, nella truppa che aggredì Luciano Lama, andato all'ateneo per un comizio e cacciato dagli autonomi armati di spranghe e di sampietrini, i blocchetti di pietra usati per selciare le strade della capitale. E pure Lucia scagliò il suo bravo sampietrino contro l'odiato Lama. Oggi scrive: "Nell'aria volava di tutto, lanciai il mio, che fece un percorso breve e andò ad atterrare chissà dove". Cacciato Lama, Lucia tornò al 'manifesto'. Nella borsa a tracolla nascondeva un altro blocchetto, ne accarezzava il lato liscio, se lo coccolava: "Ero molto orgogliosa di quella pietra. Aveva avuto il coraggio di volare contro quelli del Pci". Cominciò a mostrarlo ai compagni. Poi intervenne Rossana Rossanda che, infastidita, le sibilò: "Mettilo via!".

Mi ha colpito questo feticismo per il sampietrino. E da vecchio scettico mi sono detto: grazie al cielo, non era una rivoltella, la magica P38. Poi quel passo di Lucia e la sua conclusione ("A me, di Luciano Lama, non fregava assolutamente nulla"), mi hanno spinto a cercare fra le mie carte il racconto che, dieci anni dopo, mi offrì il leader della Cgil. Ripercorrendo con me il tempo delle pietre e delle pistole, in più di un colloquio e poi in un mio libro-intervista pubblicato da Laterza: l'altra faccia della luna rispetto al libro di Lucia.

"Non parlarmi del Settantasette!", mi ripeteva Lama, con una smorfia di disgusto che scheggiava la sua bella faccia da eterno ragazzo, impetuoso e sereno. "Quello fu un anno miserabile, coperto di sangue". Il giovedì 17 febbraio lui era andato all'università per una manifestazione sindacale sulla riforma degli atenei e la disoccupazione giovanile. E lì venne accolto nel modo barbaro che sappiamo. Ma di quella giornata balorda non s'era pentito. A differenza di qualcuno del vertice Pci.

"All'università c'ero andato di mia iniziativa", mi raccontò Lama. "Però nessuno dentro la Cgil e il Pci mi aveva sconsigliato. Anzi, Enrico Berlinguer mi aveva detto di farlo, perché era preoccupato quanto me del disordine e della violenza che dilagavano nelle aule della Sapienza. Poi, quando successe tutto, i miei compagni un po' mi mollarono. Qualcuno mi accusò di aver compiuto un passo falso. Giancarlo Pajetta mi spiegò che m'ero mostrato incauto e che la mossa era stata avventata. Ho avvertito del gelo e mi ha fatto male. Berlinguer mi chiese com'erano andate le cose, mi ascoltò in silenzio, poi replicò: 'Va bene' e nient'altro. Enrico era un tipo schivo, talvolta freddo. Ma quando ti dava una prova d'affetto si capiva che era sincera. Quel giorno non mi diede niente".

A proposito del terrorismo che devastava l'Italia in quell'anno, Lama aggiunse: "Troppi nella Cgil e nel Pci pensavano che il movimento del 77 fosse più o meno simile a quello del 68. Ma non era così. Stava emergendo un grumo di disperazione, d'impotenza, di violenza fine a se stessa". Non vedere e non capire: la sinistra di allora celava dentro di sé questo virus micidiale, capace di stroncare dieci partiti. Con la testa stava ancora negli anni Quaranta. E pensava al fascismo. Alla fine del 1977, nel convocare a Torino una manifestazione per la morte di Carlo Casalegno, ucciso dalle Brigate rosse, la Cgil, la Cisl e la Uil scrivevano sui volantini che s'era trattato di 'terrorismo di stampo fascista'.

Sono cambiate le sinistre di oggi? Certamente sì. Ma non tutte. E non nello stesso modo. Qualcuna nasconde sempre dentro di sé lo stesso virus violento di allora. I tempi sono mutati, l'Italia è molto diversa, una buona metà sta schierata con il centro-destra, emerge un'opinione pubblica moderata che non si fa zittire come avveniva sino a qualche anno fa. Ma sul versante opposto ci sono partiti neo-comunisti che flirtano con gli irriducibili eredi di un movimento scomparso. Debbo essere sincero sino in fondo? Pure nella base dei Ds vedo pulsioni intolleranti nei confronti di chi osa dire o scrivere fuori dalle sacre regole, dettate in un'epoca conclusa e che non tornerà più. Ecco il vero problema di un leader riformista come Piero Fassino. So che lui lo sa. E forse si sta domandando come fare affinché (cito un vecchio detto) il morto non abbia la meglio sul vivo.