martedì 20 febbraio 2007

Corriere della Sera 20.2.07
NEUROSCIENZE
Dalla retina al cervello la realtà è immediata


In un lavoro pubblicato su «Nature Neuroscience» un'équipe di ricercatori della Facoltà di Psicologia dell'Università San Raffaele di Milano, guidata da Concetta Morrone, in collaborazione con colleghi di St. Louis Missouri, della Fondazione Stella Maris di Pisa e del Cnr di Firenze guidati da David Burr, e con colleghi australiani, dimostra che il nostro sistema visivo costruisce molto presto una mappa oggettiva del mondo circostante e non, come si sarebbe supposto, una mappa basata sulle proiezioni soggettive sulla nostra retina.
L'espressione «molto presto», in questo caso, ha una misura precisa: appena due o tre connessioni neuronali a valle della retina. La dottoressa Sofia Crespi del San Raffaele spiega il succo di questa scoperta. «E' noto — dice — che ogni immagine retinica viene vista in parallelo da più di 50 "schermi cerebrali" che la scindono nelle diverse componenti e ne studiano, separatamente, i differenti aspetti quali la forma, il colore, la profondità e il movimento. Nel cervello dell'uomo, ma anche della scimmia, sono dunque presenti innumerevoli mappe dette in gergo "retinotopiche", nelle quali cellule nervose spazialmente vicine ricevono informazioni da altre cellule nervose che sono anch'esse contigue nella retina: mappe topografiche che indicano dunque una specializzazione funzionale di quel pezzetto di corteccia cerebrale».
L'area cerebrale dove viene codificata l'informazione sul movimento degli stimoli visivi è la corteccia medio-temporale, abbreviata in MT. Quest'area dista solo poche stazioni di connessione nervosa dall'area corticale che per prima riceve l'informazione visiva ed effettua un'analisi preliminare, ma altamente specializzata, delle caratteristiche del movimento.
Concetta Morrone e David Burr spiegano perché i loro risultati sono sorprendenti: «E' sorprendente scoprire come il cervello, già dopo due o tre sinapsi dalla retina, riesca a liberarsi dell'architettura che connette ogni neurone a gruppi di fotorecettori specifici e costruisca una rappresentazione, una "telecamera", che non è più solidale con gli occhi ma col mondo esterno. Fino ad oggi si è pensato che quest'area fosse organizzata secondo una mappa retinotopica. Ora abbiamo invece dimostrato che questa regione, nella specie umana, organizza la sua attività in una mappa che riproduce le posizioni spaziali del mondo esterno anche secondo un codice di tipo spaziotopico».
Il metodo da loro adottato è la risonanza magnetica funzionale. Il soggetto sperimentale, sdraiato nello scanner della risonanza, osservava su uno schermo degli stimoli di movimento piccoli ma sufficienti a generare una risposta forte da parte dell'area MT. Precedenti esperimenti avevano dimostrato che tale regione è sensibile alla posizione spaziale di questi stimoli di movimento, ma solo quando lo stimolo viene proiettato in particolari regioni del campo visivo. Si è così potuto mostrare che la risposta dell'area MT rimaneva coerente con la posizione dello stimolo di movimento sullo schermo (si noti bene, sullo schermo, cioè nel mondo esterno) e non sulla retina. I deficit nella percezione del movimento, nella costruzione di una rappresentazione spaziale del mondo e nell'orientamento nello spazio che mostrano i pazienti con la malattia di Alzheimer, potrebbero essere, quindi, ricondotti ad una disfunzione dell'area MT.
A meno di quattro passi (neuronali) dalla pura soggettività già siamo immersi nello spazio oggettivo. Diffidiamo, quindi, di coloro che invitano a rannicchiarsi nelle nostre sensazioni immediate per trovare il vero. Le neuroscienze cognitive mostrano, una volta di più, che per noi è subito realtà. E' il reale che è immediato, mentre il soggettivo è una costruzione sempre piuttosto malcerta.

il Riformista 20.2.07
Nevrosi. Una sconfitta per il repressivo Nicolas
Gli psichiatri francesi la spuntano su Sarko La polizia non può schedare i malati di mente
di Livia Profeti


Con una netta rivendicazione della propria identità professionale gli psichiatri francesi hanno conseguito un’importante vittoria sul governo. Dopo un braccio di ferro durato mesi e grazie a uno sciopero che ha raggiunto la quota di partecipazione del 75%, il 13 febbraio scorso il ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy, candidato della destra alle future presidenziali, si è visto costretto a ritirare la sezione sulla malattia mentale contenuta nel progetto di legge sulla sicurezza, in discussione in Parlamento.
La nuova normativa presentata, di impronta genericamente repressiva, inseriva nel vasto calderone delle più varie misure contro la delinquenza anche alcune norme sui ricoveri psichiatrici obbligatori, rafforzando i poteri del sindaco rispetto a quello dei medici e creando uno schedario nazionale delle persone ospedalizzate.
Gli psichiatri, appoggiati dagli altri professionisti del settore, dalle organizzazioni dei familiari e dall’opposizione di sinistra, si sono ribellati al provvedimento ritenendo che la sola presenza di aspetti psichiatrici in un testo sulla delinquenza creasse il presupposto per un ritorno indietro in quel percorso di stampo illuminista che, da più di 200 anni, cerca di separare malattia mentale e criminalità.
Lo scontro si inserisce nell’ambito di un dibattito, in piedi dal 2001, sulla revisione dell’attuale legge francese sulla malattia mentale, varata nel 1990 con un’impostazione antipsichiatrica. Una legge che, nata con l’intenzione di chiudere i manicomi lager e togliere alla malattia mentale lo stigma sociale, come la nostra legge 180 si è però scontrata con le tante difficoltà che la malattia mentale comporta, a partire dal rifiuto della cura che è tipico proprio dei suoi casi più gravi. Anche gli psichiatri francesi sono quindi convinti della necessità di una sua revisione, ma pretendono che ciò avvenga in un quadro sanitario e non in quello di una legge sulla sicurezza.
La questione è cruciale perché la malattia mentale è in crescita nei paesi occidentali e, come testimoniato dagli studi della Ue e dell’Oms, sta diventando uno dei principali problemi della sanità pubblica. Le due metodologie più diffuse per il trattamento dei disturbi psichici, l’antipsichiatria e l’organicismo, non hanno evidentemente impostato la ricerca nella giusta direzione perché altrimenti, come per qualsiasi altra patologia per la quale sia stata individuata la cura, i numeri sarebbero diminuiti e non aumentati. Questa considerazione epidemiologicamente ovvia, vale però solo per coloro che ritengono che la malattia mentale sia una questione medica, uno statuto per esempio rifiutato dall’antipsichiatria, per la quale essa non è una patologia da curare ma una «diversità» della quale «prendersi cura».
In Italia, il dibattito sul trattamento pubblico della malattia mentale è piuttosto fermo, paralizzato tra le proposte di destra in stile sarkozyano e l’eccessivo arroccamento della sinistra dietro i modelli noti, dei quali non si vuole discutere l’impostazione teorica. In questo quadro pare muoversi il cocktail di farmaci e filosofia proposto, con il nome di «psichiatria a misura d’uomo», da Umberto Galimberti su Repubblica del 12 febbraio. Strenuo sostenitore della consulenza filosofica, per la cui diffusione dirige la collana «Pratiche filosofiche» dell’editrice Apogeo del gruppo Feltrinelli, per Galimberti il «prendersi cura» assume il significato specifico di terapia filosofica esistenzialista. Con il suo La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica del 2005 egli aveva già posto la Daseins-analyse come unico piano teorico possibile in questo ambito, con gli ovvi riferimenti ad Heidegger, Binswanger e soprattutto Jaspers, figura paradigmatica di medico che si è fatto filosofo. Ora propone alla psichiatria organicista e ai suoi «utilissimi» farmaci di umanizzarsi, imparando dalla psichiatria fenomenologica le «diverse modalità della sofferenza esistenziale», comunque ineliminabile.
Dunque psicofarmaci e filosofia. La proposta di Galimberti sembra curiosamente ignorare sia l’allarme sociale sul crescente abuso di psicofarmaci ormai somministrati a partire dalla più tenera età, sia il fatto che la psichiatria fenomenologica è già da trent’anni, con la legge Basaglia, la base teorica della psichiatria italiana. Se questa è la risposta della filosofia italiana alla tragedia della malattia mentale in aumento, allora, «ormai solo un medico ci può salvare!». E non un dio, come diceva Heidegger.

il Riformista 20.2.07
EDITORIALE
A sei mesi dal varo
L’indulto ha fatto centro. Sconfitti i catastrofisti


Con tono dialogante e costruttivo, per niente polemico, consigliamo a tutti gli avversari dell’indulto, compresi i malpancisti dell’Unione, la lettura del rapporto, curato da Claudio Sarzotti dell’università di Torino, che ieri il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi ha presentato in una conferenza stampa. Si tratta del primo bilancio effettuato a sei mesi dal varo di quel provvedimento. E i risultati, a fronte della campagna catastrofistica scatenatasi dopo l’indulto, sono sorprendentemente positivi. Un dato più di tutti: su circa 25 mila detenuti scarcerati solamente l’11 per cento è rientrato in carcere. Insomma, un tasso di recidiva, come lo chiamano gli esperti, bassissimo. Praticamente niente se confrontato con il tasso di coloro che escono invece dopo aver scontato interamente la pena, cioè il 68 per cento. Non solo: i dati forniti da Manconi sfatano anche un altro mito perché il tasso di recidiva degli italiani “indultati” è superiore a quello degli immigrati. Non a caso, il sottosegretario ha citato l’infamante campagna preventiva contro il presunto mostro di Erba, il marito tunisino di Raffaella Castagna.
Proseguendo: il secondo reato più diffuso tra quelli che sono rientrati in carcere riguarda violazioni alla legge sulla droga, la Giovanardi-Fini. Ed è per questo che Manconi ha annunciato che l’abrogazione di questa legge, insieme con la Bossi-Fini sull’immigrazioni e la ex-Cirielli, libererà persone che «dovrebbero essere altrove, non in carcere». Calcolando poi che grazie all’indulto oggi la popolazione carceraria è sotto le 40mila unità, rispetto a una capienza regolamentare di 42mila. Insomma, nelle carceri finalmente si respira e tutto questo contribuisce a fare dell’Italia un paese civile.

L’Unità 20.2.07
Indulto, nessuna «invasione» criminale: e a tornare a delinquere di più sono gli italiani


Dei 25.694 ex detenuti usciti dal carcere grazie all’indulto varato il 31 luglio scorso, sono soltanto 2.855 (l’11,11%) quelli che sono tornati in cella dopo essere stati arrestati per un altro reato. Un tasso di recidiva infinitamente più basso rispetto a quello «fisiologico», calcolato dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in un preoccupante 68%. È questo il dato più importante della ricerca presentata ieri dal ministero della Giustizia a sei mesi dall’approvazione dell’indulto. Un dato che assieme a quello dei reati commessi nel secondo semestre del 2006 (1.310.888 contro 1.308.113 dello stesso periodo del 2005) smentisce le tante voci che avevano denunciato «l’allarme sociale» causato dall’atto di clemenza approvato dal Parlamento. I dati presentati ieri e elaborati dall’università di Torino, inoltre, sfatano il luogo comune secondo il quale sarebbero i detenuti stranieri i criminali più incalliti: a tornare a delinquere sono stati infatti più gli italiani (12,28% di quelli usciti grazie all’indulto) che non gli extracomunitari (10,59%), dei queli 1 su 5 è rientrato in carcere unicamente per la violazione della legge «Bossi-Fini». «Un bilancio estremamente confortante», ha spiegato il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, «dati positivi soprattutto se paragonati a quelli dell’indulto del 1990: allora furono scarcerate 10 mila persone ma, dopo solo un anno, la popolazione penitenziaria era aumentata di altrettante unità». Oggi, invece, sei mesi dopo il varo, nei penitenziari italiani ci sono 39.827 detenuti, vale a dire 980 in più rispetto allo scorso agosto quando le carceri italiane rischiavano di esplodere, con oltre 60 mila detenuti a fronte di una capienza di 42 mila posti. «Ma l’indulto da solo non può portare a una riforma del sistema penitenziario - spiegato Manconi - Servono infatti tre riforme: l’abrogazione della “Bossi-Fini” sull’immigrazione su cui stiamo lavorando, l’abrogazione della legge “Fini-Giovardi” sulle droghe e l’abrogazione della “ex Cirielli” sulla recidiva».
Oltre ai 25.694 ex detenuti usciti dal carcere (di cui 2.855 rientrati), l’indulto ha riguardato anche 17.290 persone che scontavano la pena in misura alternativa alla detenzione. Di questi, la ricerca condotta dall’Università di Torino ha preso in esame un campione di 5.869 adulti: 352 (pari al 6%) sono tornati in carcere. Il numero dei rientri in carcere è pressoché stabili e, ad eccezione dei primi tre mesi, si aggira sui 500 al mese. A beneficiare del provvedimento di clemenza sono state nella grande maggioranza (80,22%) persone tra i 25 e i 44 anni. Fra le regioni in cui più alta è stata la recidiva delle persone “indultate” la Campania (15,38%), la Liguria (14,72%), la Toscana (14,26%), e l’Emilia Romagna (13,23%). Fra le percentuali più bassa, quelle del Molise (2,55%) e Basilicata (4,64%). ma.so.

L’Unità 20.2.07
Indulto, solo l'11% torna in cella
di Paola Zanca

«Elementi di razionalità per un buon uso dell'indulto». Li chiamano così i dati della prima indagine a sei mesi dal decreto che ha "svuotato" le carceri e scatenato il malcontento di buona parte dell'opinione pubblica. La ricerca presentata lunedì al ministero di Grazia e Giustizia e condotta dall'Università di Torino in collaborazione con il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, tira il primo bilancio a sei mesi dal provvedimento voluto dal governo Prodi lo scorso luglio, e racconta che non è andata poi così male.
Quello che emerge, è un quadro molto meno allarmante di quella che era ormai opinione diffusa: gli indultati sono tornati a delinquere. In realtà, l'indagine sulla popolazione carceraria tornata in libertà dimostra che la percentuale dei detenuti che è già rientrata in carcere si aggira intorno all'11%. Per dirla in numeri, sugli oltre 25 mila detenuti che hanno beneficiato del decreto voluto dal ministro Mastella - a cui vanno sommati altri 17 mila che grazie all'indulto non hanno dovuto scontare misure alternative al carcere - meno di 3 mila hanno di nuovo varcato i cancelli delle carceri italiane. Un tasso di recidiva nettamente inferiore a quello registrato mediamente da chi compie reati, e che si attesta su percentuali che superano il 60% dei casi.
Un risultato che soddisfa il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, soprattutto se paragonato a quanto era avvenuto a seguito del precedente indulto, nel 1990. Diciassette anni fa, a soli dodici mesi dall'approvazione del provvedimento, le carceri italiane erano tornate ad essere sovraffollate come un tempo, rendendo vano il decreto che doveva migliorare le condizioni di vita dei reclusi: «Oggi - sottolinea Manconi - possiamo ritenerci soddisfatti perché è migliorata la vivibilità delle nostre carceri: non solo a favore dei detenuti, ma anche di tutti gli agenti di polizia penitenziaria che in carcere lavorano».
Ma il passo successivo, sono le riforme. «Ora - aggiunge Manconi - si può pensare ad una riforma del sistema penitenziario, che senza l'indulto non sarebbe stata possibile». Certo, non basterà la riforma delle norme sulla carcerazione se prima non verranno modificate alcune leggi che hanno affollato le prigioni italiane: dall'ex Cirielli sulla recidiva, alla legge sulle droghe voluta da Fini e Giovanardi, fino alla legge sull'immigrazione, visto che la stragrande maggioranza degli stranieri recidivi risulta colpevole solo di aver violato le norme in materia di permesso di soggiorno stabilite dalla Bossi-Fini.
«Le statistiche servono per assumere decisioni politiche», esordisce uno degli studiosi che ha condotto la ricerca, il prof. Claudio Sarzotti, nel disegnare il quadro della popolazione carceraria italiana: un quadro che vede delinquere soprattutto gli uomini di età compresa tra i 25 e i 44 anni. Niente di stupefacente, se non il fatto che i più recidivi risultano essere i ragazzi dai 18 ai 20 anni. Senza alternative, insomma, si ritorna in carcere. Sconfitto con i numeri il luogo comune del "disastro indulto", ora, la vera battaglia è quella contro «gli effetti criminogeni del circuito carcerario», come li chiama Ettore Ferrara, capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria: «Siamo in presenza di un'occasione straordinaria che non dobbiamo lasciarci sfuggire - spiega Ferrara - Ora abbiamo delle carceri vivibili, dove si può lavorare per superare l'idea dei luoghi di detenzione come scuole di specializzazione per il crimine». Il manuale «Per un buon uso dell'indulto» ha messo qualche punto fermo in mezzo alle grida d'allarme, ora c'è molta carta bianca per scrivere nuove regole. Si comincia dalle donne: dopo lo scandalo della rom tenuta nella gabbia degli imputati insieme alle due figlie, Manconi ha annunciato un Consiglio dei ministri che avrà all'ordine del giorno la situazione delle madri detenute.

Repubblica 20.2.07
Il presidente della Camera: "Sono preoccupato, è indispensabile non abbassare la guardia"
"Nella lotta al terrorismo la strada è la non violenza"
Bertinotti: la sinistra non ha fatto abbastanza
intervista di Luigi Contu


Violenza. Il nostro messaggio deve essere chiaro: chi si sceglie la violenza politica si mette fuorigioco, quale che sia la sua causa
Vicenza. Ero sicuro che la manifestazione sarebbe andata bene. I giovani e le famiglie che erano lì sabato dovrebbero essere più ascoltati
Brigate rosse. Negli anni Settanta abbiamo fatto tanto, ma non siamo andati fino in fondo per estirpare il virus dal nostro corpo
Album di famiglia. Ricordo l'articolo della Rossanda sull'album di famiglia della sinistra. Rimasi perplesso, poi capii che aveva ragione. Sono parole ancora valide
Valore della vita. Nella nostra società c'è una svalutazione desolante del valore della vita: penso ai morti sul lavoro, all'ispettore Raciti, a chi perde la vita in autostrada
Marxismo e Islam. Ci vuole un'ideologia forte per prendere le armi. L'ultima è stata il marxismo. Anche la religione ispira attentati. Ma guai a dire: Islam uguale terrorismo

Presidente Bertinotti, lei che negli anni 70 è stato tra coloro i quali hanno combattuto il terrorismo e poi è diventato leader di un partito neo comunista, che cosa ha provato quando ha appreso che in Italia ci sono ancora terroristi pronti a fare la rivoluzione?
«Ho avuto un brivido. Ho pensato che negli anni ´70 abbiamo fatto tanto, tantissimo per sconfiggere le Brigate Rosse storiche. Ma non abbastanza. Purtroppo, non siamo andati fino in fondo, non siamo riusciti ad estirpare del tutto il virus del terrorismo dal nostro corpo».
È concepibile che in un paese civile e progredito sia considerato lecito uccidere per un obiettivo politico?
«Purtroppo nella società c´è una svalutazione desolante e terrificante del valore della vita. Penso ai quattro morti al giorno nei luoghi di lavoro, a chi perde la vita in autostrada, ai caduti delle forze dell´ordine come l´ispettore Raciti, alla strage di Erba. Forme diverse che hanno in comune uno smarrimento generale derivato da una profonda crisi del mondo in cui viviamo».
Dare la colpa ai mali della società è stato in passato un alibi per chi definiva i brigatisti "compagni che sbagliano". Secondo lei i nuovi terroristi sono soltanto un fenomeno residuale, marginale?
«Credo che oggi le condizioni politiche e sociali del nostro paese siano profondamente diverse. Penso che quella stagione di lotta armata sia irripetibile. Ma ciò non significa affatto che la scoperta di questo nuovo nucleo di brigatisti possa essere sottovalutato. Sono molto preoccupato. È indispensabile non abbassare la guardia».
Rossana Rossanda fu la prima intellettuale di sinistra ad affermare che i terroristi avevano le loro radici politiche e culturali nel vostro campo. La lezione di quegli anni è ancora valida?
«Ricordo quei giorni, e quell´articolo. Appena lo lessi rimasi perplesso. Poi compresi che Rossana aveva ragione. Quelle sue parole restano valide oggi. Dobbiamo ricordare che ogni idea forte è esposta al rischio del fondamentalismo. Questo è un terreno su cui può innestarsi una nuova stagione della lotta armata. È innegabile che in Italia il tema del terrorismo resta nella metà del nostro campo. Perciò giudico sbagliato il tentativo di tirare in ballo la destra ed i suoi estremismi. Il nazifascismo, come ha detto il grande Papa Giovanni Paolo II, è stato il male assoluto. E noi dobbiamo fare i conti fino in fondo con la nostra storia».
Non ritiene che per farli bisognerebbe rinunciare al termine "comunismo"?
«Al contrario, penso che la vera sfida sia non abbandonare gli ideali del comunismo, ma ripensarli partendo dalla non violenza, dalla critica radicale degli orrori e degli errori del ‘900. Bisogna avere, inoltre, una diversa concezione del potere, che neghi qualsiasi forma di prevaricazione e di assolutismo. Per chi crede come credo io che non debba cadere nel dimenticatoio, il termine comunismo rappresenta la rivendicazione di una identità radicale».
In nome del quale, però, ci si arma e si progettano omicidi.
«L´uso delle armi e il ricorso alla violenza hanno bisogno di agganciarsi a una idea forte. L´ultima ideologia del ‘900, quella che lo ha attraversato e superato, è l´ideologia marxista. Anche in nome della religione si compiono attentati, ma non per questo è giustificato stabilire una equazione tra Islam e terrorismo. Il problema è che coloro ai quali i brigatisti arbitrariamente fanno riferimento hanno un compito in più, e ne devono essere consapevoli. Ci vuole onestà intellettuale per comprendere che il ritorno delle Br è tanto più probabile quanto più riesce a trovare un retroterra fondamentalista: la possibilità di uccidere viene dall´idea che l´altro è il male, lo stesso concetto con il quale si giustifica la guerra preventiva ».
La sinistra italiana è pronta a questa nuova guerra al terrorismo? Ciò che è stato fatto dal Pci e dal sindacato negli anni di piombo non è più attuale?
«Lo sforzo compiuto in quegli anni ha un grande valore: con l´unità delle forze democratiche e l´impegno delle forze dell´ordine abbiamo sradicato ogni tentazione violenta dal mondo del lavoro. Il terrorismo è stato combattuto politicamente e questo è un terreno che non si deve abbandonare. Ma ora siamo in una nuova fase storica, aperta dal rapimento di Aldo Moro, proseguita con la caduta del muro di Berlino e oggi attraversata dalla complessità della globalizzazione. Dobbiamo fare un passo in più rispetto alla frontiera sulla quale ci eravamo attestati alla fine degli anni di piombo. Ci attende un enorme sforzo culturale: un percorso che a sinistra non tutti hanno cominciato a percorrere».
Qual è la nuova frontiera della lotta al terrorismo?
«È la frontiera delle idee, che impone, una rivoluzione culturale: l´affermazione del principio gandhiano della non violenza. Negli anni di piombo si è tolta l´acqua da cui si alimentavano i terroristi facendo intorno a loro un deserto politico, dimostrando così in modo inequivocabile che il movimento operaio era contro i brigatisti. Oggi quella battaglia si combatte dicendo alle nuove leve della lotta armata che il movimento e il popolo sono non violenti. Sono convinto che la sinistra italiana debba assumere la bandiera della non violenza senza più rinvii ed incertezze . Il terrorismo e la guerra si nutrono di ogni forma che conceda anche il minimo terreno alla prevaricazione. Per questo il nostro messaggio deve essere chiaro: chi si pone sul terreno della violenza politica, quale che sia la nobiltà della causa per cui si batte, si mette fuorigioco. Non esiste, non può più esistere, la violenza giusta. È uno sforzo che devono fare tutti i partiti, tutte le organizzazioni sociali, intervenendo sui comportamenti delle persone, a partire dal linguaggio».
Immagino che da questo punto di vista la manifestazione di Vicenza l´abbia rassicurata. Grande partecipazione, comportamento non violento. Eppure c´era molta preoccupazione, anche tra voi...
«Io non ero preoccupato. Anzi, ero convinto che la manifestazione sarebbe andata bene».
Però ha sentito il bisogno di rivolgere un appello alla non violenza.
«Avendo detto che ci sarei andato se non fossi stato presidente della Camera, mi è sembrato doveroso chiarire come ci sarei stato in quel corteo. Le mie preoccupazioni erano e restano altre».
Quali?
«Mi sembra che ancora una volta un appuntamento così importante sia stato affrontato dalla politica politicante in maniera inadeguata. In alcuni casi ho ascoltato discorsi fermi alle analisi degli anni ´70, in altri parole mirate a trarre vantaggi di parte. Così come per il nuovo terrorismo la classe dirigente del nostro paese mi appare incapace di comprendere la novità di questa fase politica. Queste famiglie, questi giovani che hanno invaso Vicenza dovrebbero essere ascoltati e compresi di più da chi ha il compito di governare e vuole farlo per rendere più giusta la società. Ciascuno di loro, parlo della moltitudine dei partecipanti e non delle culture che sono rannicchiate nelle loro organizzazioni, ha dimostrato di avere in mente, direi nella pelle, l´idea che a un corteo si va semplicemente per affermare le proprie idee, per stare insieme agli altri. È da apprezzare anche il saggio comportamento delle forze dell´ordine. Siamo davanti a un fatto nuovo: si comincia a mettere in discussione la logica dell´amico-nemico. Se si fosse trovata al G8 di Genaova la mia generazione avrebbe potuto avere reazioni capaci di portare ad una strage: invece quel giorno tragico abbiamo visto i giovani, la loro grande maggioranza, tornare alle proprie case senza aggressività. Lì si è visto il primo germe della non violenza, che a Vicenza ha dimostrato la propria vitalità nel binomio pace e partecipazione».
Ma lì è apparso anche il volto antiamericano di alcuni settori della sinistra radicale.
«Non condivido questa analisi. La globalizzazione ha avuto tra i suoi effetti quello di favorire la contaminazione tra le culture: come si fa a pensare che quei giovani siano antiamericani quando consumano tutti i giorni cultura d´oltreoceano ascoltando musica, andando al cinema, leggendo libri. C´è certamente avversione nei confronti del governo Bush, un disaccordo politico totale verso la sua politica, non verso la civiltà statunitense. Il discorso dell´antiamericanismo è datato. Mi ricorda quando ai tempi in cui ero un ragazzo si contrapponeva il chinotto alla Coca Cola. Dietro quella guerra di bevande c´era una avversione ideologica, alimentata dalla divisione del mondo in due blocchi. Oggi chi non beve Coca Cola esprime una protesta contro chi produce sfruttamento e disagio».
Non negherà che in alcuni esponenti della sinistra radicale ci sia una avversione pregiudiziale nei confronti degli Stati Uniti.
«In alcune forze sì, c´è ancora. Ma si tratta di posizioni di nicchia. Il punto è che sebbene non abbia mai allignato nella cultura alta della sinistra italiana, basta ricordare che la celebre collana editoriale Americana è stata portata nel nostro paese da Vittorini, l´antiamericanismo non è stato contrastato quando si produceva negli strati più popolari. Esattamente come è accaduto con lo stalinismo: il Pci ruppe coraggiosamente con il dittatore sovietico, ma poi per alcuni anni tollerò che nella propria base rimanesse un mito. Io stesso, quando diventai segretario di Rifondazione Comunista, dovetti più volte pretendere la rimozione del ritratto di Stalin dalle sezioni dove andavo a parlare. Quelle foto, ora, non ci sono più».

L’Unità 20.2.07
E il perdente radicale creò il terrorismo
di Bruno Gravagnuolo


In genere si dice «terrorismo», e si pensa di aver detto tutto, quando vogliamo indicare la follia ideologica che non fa distinzione tra nemico combattente e civili inermi. O quando ci si riferisce a progetti maniacali di guerre civili in società democratiche, sorretti dall’epica del gesto esemplare. Che lo si chiami Eta militare, islamismo radicale, Sendero luminoso, oppure nuove Br, il terrorismo non cambia, nella precezione del senso comune. E se ne conclude che in tutti questi casi c’è un’ideologia regressiva all’opera. Una mentalità arcaica che sopravvive in gruppi ristretti, e che li spinge ad agire in nome di illusorie certezze vincenti, dottrinarie, religiose o profetiche.
Difficilmente ci sfiora un’altra ipotesi. Che i terroristi non vogliano affatto vincere, e che viceversa vogliano perdere. E che addirittura alla sconfitta affidino la loro vittoria. All’autodistruzione diffusiva, capace di sancire «l’invincibilità». In fondo è un’idea molto semplice e non del tutto inedita, specie per quel che concerne i kamikaze arabi, la cui psicologia hanno analizzato in tanti.
Mancava una diagnosi più accurata, globale e psicologica del fenomeno. E mancava la parola giusta per descriverlo. Una parola semplice e innovativa, che nonché principio analitico, è oggi anche titolo di un saggio, con l’ambizione di nominare una «figura» protagonista del mondo globale: Il perdente radicale (Einaudi, pp 73, tr. di Emilio Picco, euro 8). L’autore è un poeta e un saggista, Hans Magnus Enzensberger, che oltre a essere figura di spicco della cultura tedesca, mostra di fatto maggiore capacità inventiva di tanti sociologi. Laddove congiunge intuizione vissuta, sapere storico e antenne sul presente. Il tutto proprio nella descrittiva del Radikal Verlier, che in quanto « uomo del terrore» assomma in sé paesaggio e caratteristiche estese.
Il perdente radicale viene di lontano, diciamo da fine ottocento, poi si «fissa» con la seconda guerra mondiale, e infine si frastaglia nel moderno terrorismo, incluso il microterrorismo dei folli e inspiegabili massacri, che sconvolgono famiglie, vicinati, scuole e tranquille comunità. Dunque dagli anarco-nichilisti europei, ai kamikaze giapponesi, ai terroristi irlandesi (più politici), agli islamisti, fino ai massacratori della porta accanto. Il primo tratto che colpisce è il dato «scenico». Infatti il delitto plurimo e improvviso, piccolo o grande, politico o no, deve trascinare e ipnotizzare la platea. Fare testo. Ammaestrare. E quanto più i media possono veicolarlo, tanto più il terrore «outing» paga. Dunque modernità esemplare del terrore, che sconvolge e rende insicuro il «pubblico» - fatto di nemici dichiarati o di indifferenti - e che raggiunge il diapason nella reazione a catena mondiale di gesti apocalittici come quelli delle Twin Towers.
Già, ma il movente? Nell’analisi di Enzesberger è unico, in grande o piccola scala, fatti gli adeguati aggiustamenti. Ed è nient’altro che l’autodisprezzo di sé dei «perdenti», scaricato sui presunti vincenti, per punirli e rivendicare una superiorità in extremis. Doppia molla quindi. Autopunizione per essere un «perdente», e «identificazione con l’aggressore» (vero o fittizio) per punirlo a sua volta, trascinandolo a fondo: «È colpa mia, è affar mio, ma per colpa degli altri». Due affermazioni che non si elidono, ma si potenziano a vicenda. Insomma una sorta di autoaffermazione di sé, nella morte inflitta e autoinflitta. Che all’insegna del freudiano «istinto di morte» contraddice l’istinto di autoconservazione, e arriva a ribadirlo in chiave autodistruttiva. Semplificando si potrebbe dire che è il «muoia Sansone con tutti i Filistei». Senonché la novità sta nel fatto che il nostro mondo è popolato di milioni di «perdenti radicali». Disseminati sul pianeta e nascosti nei pori delle nostre società affluenti. Perdenti bombardati dal contrasto tra miseria reale del quotidiano e iridescenza del consumo di massa. E che alla fine scaricano la frustrazione dell’esclusione patita come colpa, nella pratica ritualizzata dell’istinto di morte. Per autosantificarsi, diventare protagonisti, magari senza giungere al suicidio, ma incosciamente rasentandolo di continuo, con l’esibizione narcisistica della violenza. Ed è un discorso che vale per gli ultrà, per gli omicidi folli, e anche per islamisti e nuove br. Con la variante «fideistica» in questi ultimi due casi. A sublimare la morte con l’illusorietà di un sacrificio giusto, utile, o viatico di onnipotenza ultraterrena.
Lo schema funziona. Con un’unica obiezione a Enzesberger però. Non è vero che l’Islam con le sue arretratezze «coraniche» e le sue frustrazioni storiche si presti più di altre culture a tutto questo. Le culture evolvono, e il mondo arabo, a differenza di altri contesti, è stato a lungo inchiodato alle sue «frustrazioni» anche in ragione della sua posizione strategica ed energetica. Senza dire che la guerra teologica di Bush ha moltiplicato i «perdenti radicali». A danno di tutti. Ma di ciò Enzesberger alla fine è ben più che consapevole.

L’Unità 20.2.07
L’anima di un Paese violento
di Ferdinando Camon


Ma che popolo siamo? Anzi: siamo un popolo? Un popolo è unito intorno a qualcosa, una tradizione, un valore, un sentimento, noi che cosa ci unisce? Una volta si diceva: la famiglia, il clan, il calcio, la televisione, il condominio. Non è più così. Nella famiglia i figli sono contro i padri, nel clan una famiglia va contro l’altra, nel calcio il tifo è una guerra aperta contro la società, nel condominio si ammazzano vicino con vicino.
Gli orrendi fattacci di Catania non mostrano tifosi contro tifosi (questi ci sono sempre stati), ma tifosi contro lo Stato, contro la polizia, contro la società, contro tutti. I mostruosi cartelli con svastiche e caratteri runici che appaiono nei nostri stadi sono una maledizione contro la propria razza, visto che li alzano italiani contro italiani: come se il gruppo che li scrive avesse il potere di trasumanar i suoi membri, rigenerarli, trasportarli al di là del bene e del male, la meschina morale degli uomini normali. Il tifo è ormai la passione nella quale si riconoscono gli anti-sistema, che odiano ogni legge. È una passione tragica, sacrificale e autosacrificale. Spacca le città e le famiglie.
Una volta, mezzo secolo fa, si parlava del calcio come spettacolo estetico per le masse: l’élite va per musei, si diceva, e il popolo va per stadi. E adesso? Ma quale spettacolo estetico! Il tifoso gode non se il portiere avversario prende un gol, ma se resta in coma per uno scontro, se va all’ospedale per tre mesi, se un attaccante si rompe tibia e perone. E non se i tifosi avversari restano ammutoliti per la sconfitta, ma se vengono massacrati a bastonate, bruciati nelle auto. La voglia di spaccare tutto spacca le famiglie: la polizia indaga per scoprire i teppisti assassini, e scopre che c’è qualche figlio di poliziotti. A casa si parlerà della mattanza: con chi sta il padre, con chi sta il figlio? Il padre ha un collega morto, il figlio ha un nemico in meno.
Ma non è un problema di Catania: a Catania è esplosa la canea, ma a Piacenza e a Livorno han fatto eco le scritte sui muri. Rozze e criptiche, come la morale barbarica da cui provengono. Se il pestaggio è il reato, le scritte sui muri sono l'incitazione e l'apologia, che stanno al reato come le valli di Comacchio alle anguille. La disgregazione del popolo, il senso che niente più ci unisce, non viene solo dalle città appena nominate: a Caserta c’è rimasto un cadavere in strada dopo una banale lite per uno stop non rispettato. Il diverbio s’è impennato di colpo, finché uno dei due è rientrato in auto a prendere una pistola e ha sparato due colpi: ammazzato l’uomo che stava di fronte, ferita sua figlia, che gli stava dietro. In auto aveva anche un coltello. Ma è la dotazione per i viaggi, questa? Pistola, proiettili, coltelli? Il viaggio in auto come una caccia grossa?
Il delitto più gratuito è comunque quello di Riccione. Qui la donna rimasta uccisa faceva un lavoro che automaticamente colleghiamo alla simpatia: addestrava delfini. Uno di quei lavori che subito pensi: chi lo fa ama il mondo, perciò noi amiamo lui. Ma la donna teneva in casa due cani e un gatto, e l’inquilino di sotto dava di matto appena li sentiva. Non le ha dato una coltellata, gliene ha date venti. Il codice è stupido: guarda se c’è un omicidio, e stabilisce la pena. Ma un omicidio può essere una frazione di secondo. Venti coltellate sono un tempo enorme. Soltanto uno che è fuori del tempo può reggere una durata del genere. Fuori del tempo, fuori del mondo, via con la testa. Lo speriamo per lui. A monte di questi delitti abbiamo altri delitti, anche quelli recenti: di strada, di stadio, di condominio. Uno chiama l’altro. Uno causa l’altro. Uno si autogiustifica con l’altro.
Durante il sequestro Moro, il presidente degli psicanalisti italiani, Cesare Musatti, aveva notato un fatto curioso: aveva una decina di pazienti in analisi, e tutti, di telegiornale in telegiornale, diventavano sempre più nevrotici, nei sogni, nei desideri. Secondo Musatti, anche loro, come le Brigate Rosse, «alzavano il tiro». Bene: i delitti che si ripetono in questi giorni, assurdi e bestiali, stanno a indicare che la nevrosi del nostro popolo «alza il tiro».

Il Messaggero 20.2.07
Fu un patto per difendersi dalla Rivoluzione
I “Lateranensi” servirono a Stato e Chiesa per esorcizzare i principi del 1789
di Daniele Menozzi*


I Patti Lateranensi hanno segnato l’11 febbraio 1929 una data periodizzante nella storia dei rapporti tra chiesa e stato in Italia. La costruzione dell’unità nazionale era infatti avvenuta in aspro contrasto con il papato romano, che, dopo aver perso nel 1860-61 territori detenuti da circa un millennio, nel 1870 era stato costretto a ritirarsi entro le mura leonine in seguito alla proclamazione di Roma capitale del novo regno. Ma la ragione del conflitto non stava solo nella perdita di una sovranità territoriale che Pio IX ed i suoi successori giudicavano indispensabile alla libertà di esercizio del ministero apostolico. Altrettanto grave appariva ai loro occhi che quel mutamento si fosse verificato sotto l’egida di un governo che realizzava un ordinamento politico di tipo liberale, costituzionale, laico, separatista. In tal modo si palesava che la “rivoluzione” – lo scardinamento della tradizionale società cristiana iniziato nel 1789 a Parigi – non si arrestava: era arrivata in Italia, anzi persino a Roma, con tutta la carica distruttiva che la cultura cattolica del tempo attribuiva alla “moderna civiltà”. Il nuovo ordinamento non poteva perciò essere riconosciuto: esso era in opposizione a quell’organizzazione della vita collettiva che la chiesa da tempo indicava come modello ideale. Seguì, tra l’altro, con il ”non expedit“ l’imposizione ai cattolici italiani di non occuparsi di politica e anche se lentamente le grandi trasformazioni sociali del paese misero il laicato credente in grado di tutelare anche sul piano politico – ad esempio tramite il partito di don Sturzo - gli interessi ecclesiastici, soltanto in seguito all’avvento del fascismo la frattura apertasi con l’unificazione nazionale si sarebbe sanata. Allora, alla base dell’incontro tra stato e chiesa, non ci fu solo l’interesse di Mussolini ad acquisire prestigio internazionale e consenso interno. Vi era anche la consapevolezza della chiesa che si era davanti ad un regime che si poneva in antitesi a quei valori della modernità (libertà civili e politiche, democrazia, laicità, ecc.) che la “rivoluzione” aveva portato in Italia nell’Ottocento. Al di là delle singole misure e dei privilegi che stato e chiesa si scambiavano reciprocamente, al fondo dell’accordo del 1929 stava la “reazione” – comune a chiesa e fascismo – contro una visione “moderna” della convivenza civile. Non a caso Pio XI acclamò i Patti come l’atto che poneva salutarmente fine in Italia ai “disordinamenti liberali”. Proprio per questa ragione si pose all’indomani del crollo del regime e della nascita della Repubblica il problema della loro compatibilità con il nuovo assetto democratico dello stato.E’ noto che Pio XII volle che i rappresentanti della DC s’impegnassero per inserire i Patti nella nuova Costituzione ed è nota l’accondiscendenza (forte era il timore per la fine della “pace religiosa” nel paese) mostrata, soprattutto dal PCI, alle loro richieste. Ma si previde un meccanismo di revisione. Dopo diversi infruttuosi tentativi, nel 1984 si giunse alla stipula del nuovo concordato. E’ indubbio che il nuovo testo è aperto in diversi punti ai principi pluralistici della modernità. In esso sono tuttavia restati ampi privilegi per l’istituzione ecclesiastica (ad esempio in materia di insegnamento, di assistenza, di finanziamento). Inoltre fin dall’inizio la CEI ha rivendicato che in alcune materie non trattate (matrimonio e famiglia) era disponibile ad intese ulteriori, rivendicando peraltro l’autorità di fissarne i principii direttivi. Ma i dubbi che solleva anche il nuovo accordo si situano altrove. Storicamente la chiesa in età contemporanea si è dotata dello strumento concordatario – a partire da quello con Napoleone del 1801 – con uno scopo ben preciso: finita la società cristiana, occorreva garantirsi in quel dato contesto le migliori condizioni giuridiche, per poter operare al fine di restaurare le basi cristiane della convivenza civile, ponendo così fine agli istituti moderni nati dalla Rivoluzione francese. Anche nel testo del 1984, pur con tutte le sue aperture, diversi indizi mostrano che a questa prospettiva, da parte ecclesiastica, non si è ancora rinunciato.
* Docente di storia contemporanea alla Normale di Pisa




Repoubblica on line 20.2.07
Nacque dopo appena 21 settimane
ora sta bene e può tornare a casa

Dimessa da un ospedale della Florida la piccola che ha battuto il record dei parti prematuri
Amillia quando è venuta alla luce pesava 280 grammi ed era lunga circa 25 centimetri

MIAMI - E' appena nata e ha già battuto un record. Amillia Sonja Taylor sarà dimessa oggi da un ospedale della Florida, il Baptist Children's Hospital, diventando la neonata sopravvissuta al parto più prematuro di cui si abbia conoscenza. La piccola ha visto la luce con un taglio cesareo dopo appena ventuno settimane e sei giorni trascorsi nell'utero materno, contro le 37-40 richieste da una gravidanza normale. Un conteggio a prova di errore, visto che è stata concepita in vitro dai genitori Eddie e Sonja Taylor, che ha del prodigioso. Molti manuali di pediatria danno infatti vicine allo zero le possibilità di sopravvivere a un parto al di sotto delle 23 settimane di gestazione.

Al momento della nascita, lo scorso 24 ottobre, la bimba pesava poco più di 280 grammi ed era lunga circa 25 centimetri. Un corpicino grande più o meno come una bambola "Barbie" che ha fatto temere il peggio ai medici dell'ospedale dove è stata tenuta a lungo in incubatrice. "Non eravamo affatto ottimisti, ma ci ha smentiti tutti", ha commentato il dottor William Smalling. Al momento del parto Amillia presentava infatti problema respiratori, una piccola emorragia cerebrale e disturbi digestivi. Difficoltà che avendo superato i primi delicati mesi non dovrebbero però creare complicazioni pericolose sul lungo periodo.

La neonata, che nel frattempo è cresciuta fino a misurare quasi 65 centimetri per due chilogrammi di peso, nei prossimi giorni dovrà continuare a prendere dell'ossigeno e il suo apparato respiratorio sarà tenuto costantemente sotto controllo, ma potrà essere nutrita normalmente, con il biberon.

lunedì 19 febbraio 2007

Repubblica 19.2.07
"Neanche con la guerra fredda tanti soldati Usa in Italia"
Giordano: sì al confronto con Parisi sulla Difesa
intervista di Umberto Rosso


ROMA - Il governo, «e soprattutto un governo di centrosinistra deve ascoltare i movimenti che sono uno degli ingredienti della nostra democrazia». Il giorno dopo la grande manifestazione di Vicenza il ministro Fabio Mussi, leader della sinistra Ds, traccia una linea che non si discosta molto da quella di Rifondazione comunista. Ma soprattutto dichiara aperte le ostilità in vista del congresso della Quercia che dovrà pronunciarsi sulla nascita del partito democratico. E torna a minacciare la scissione.
Con toni inaspettamente duri Mussi lancia un attacco frontale al segretario Piero Fassino, contro il quale si è candidato per contrastare il progetto del Pd. «Mi ricordo che Occhetto - dice il ministro presentando ieri mattina al teatro Valle la sua mozione - dovette fare le valigie, e anche in fretta, per aver ottenuto il 16,7 per cento. Noi oggi siamo qui a celebrare i successi di un segretario che ci ha portato al 17 per cento». Insomma il partito, secondo Mussi (affiancato ieri da altri dirigenti della stessa mozione, come Cesare Salvi, Peppino Caldarola e Valdo Spini), come in un «gigantesco gioco dell´oca, è tornato al punto di partenza». Dunque il segretario ha fallito e il suo progetto, quello del Pd, è perdente.
Parole che non potevano passare sotto silenzio. E infatti qualche ora dopo arriva la replica risentita di via Nazionale, affidata al coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca, che chiede «da parte di tutti un maggiore rispetto per il lavoro svolto in questi anni», ricordando dopo la sconfitta del 2001 i Ds hanno vinto «tutte le competizioni elettorali». Un lavoro che è merito di tanti, certo, «ma anche, e in primo luogo, del segretario e del gruppo dirigente dei Ds». «Non è una questione di rispetto ma di dissenso» controreplica Carlo Leoni della minoranza diessina.
Ma l´impressione è che questa sia solo l´inizio di una battaglia congressuale che si annuncia avvelenata. Perché la posta in gioco, come ha ricordato Mussi ieri, è il via libera o il congelamento del partito democratico. «Noi vogliamo andare al congresso per vincerlo - dice il leader del correntone tra gli applausi dei suoi - e questo vuol dire ottenere la forza sufficiente per fermare il treno», perché noi «vogliamo restare dentro al campo del socialismo europeo». Dunque Fassino non si illuda. Se il segretario è convinto che alla fine tutti i Ds seguiranno il vertice nel Pd, Mussi gli ricorda che la scissione è tutt´altro che scongiurata. Non a caso lui già lancia un appello «ai molti che vengono dalla crisi del Partito socialista e a chi viene dal Pci», proponendo una riunificazione della sinistra.
«Io ti metto in guardia Piero, l´adesione a un nuovo partito è libera. Il bravo giocatore di scacchi - avverte il ministro - deve prevedere anche le 4 o 5 mosse successive, altrimenti rischia di perdere la partita». Mussi ne ha anche per D´Alema, che sostiene che il Pd deve andare oltre. «Anche io dico che dobbiamo andare oltre, ma per me vuol dire un po´ più a sinistra, non un po´ più a destra». Intanto c´è già qualcuno, come Caldarola, che si dice pronto a lasciare la Quercia: «Se vince la mozione Fassino io me ne vado e mi metto a disposizione di una costituente riformista e socialista».

Repubblica 19.2.07
Il leader della sinistra rilancia la scissione.
Quercia, l'affondo di Mussi "Fassino hai fallito, non ti seguo"
di Lavinia Rivara


ROMA - Il governo, «e soprattutto un governo di centrosinistra deve ascoltare i movimenti che sono uno degli ingredienti della nostra democrazia». Il giorno dopo la grande manifestazione di Vicenza il ministro Fabio Mussi, leader della sinistra Ds, traccia una linea che non si discosta molto da quella di Rifondazione comunista. Ma soprattutto dichiara aperte le ostilità in vista del congresso della Quercia che dovrà pronunciarsi sulla nascita del partito democratico. E torna a minacciare la scissione.
Con toni inaspettamente duri Mussi lancia un attacco frontale al segretario Piero Fassino, contro il quale si è candidato per contrastare il progetto del Pd. «Mi ricordo che Occhetto - dice il ministro presentando ieri mattina al teatro Valle la sua mozione - dovette fare le valigie, e anche in fretta, per aver ottenuto il 16,7 per cento. Noi oggi siamo qui a celebrare i successi di un segretario che ci ha portato al 17 per cento». Insomma il partito, secondo Mussi (affiancato ieri da altri dirigenti della stessa mozione, come Cesare Salvi, Peppino Caldarola e Valdo Spini), come in un «gigantesco gioco dell´oca, è tornato al punto di partenza». Dunque il segretario ha fallito e il suo progetto, quello del Pd, è perdente.
Parole che non potevano passare sotto silenzio. E infatti qualche ora dopo arriva la replica risentita di via Nazionale, affidata al coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca, che chiede «da parte di tutti un maggiore rispetto per il lavoro svolto in questi anni», ricordando dopo la sconfitta del 2001 i Ds hanno vinto «tutte le competizioni elettorali». Un lavoro che è merito di tanti, certo, «ma anche, e in primo luogo, del segretario e del gruppo dirigente dei Ds». «Non è una questione di rispetto ma di dissenso» controreplica Carlo Leoni della minoranza diessina.
Ma l´impressione è che questa sia solo l´inizio di una battaglia congressuale che si annuncia avvelenata. Perché la posta in gioco, come ha ricordato Mussi ieri, è il via libera o il congelamento del partito democratico. «Noi vogliamo andare al congresso per vincerlo - dice il leader del correntone tra gli applausi dei suoi - e questo vuol dire ottenere la forza sufficiente per fermare il treno», perché noi «vogliamo restare dentro al campo del socialismo europeo». Dunque Fassino non si illuda. Se il segretario è convinto che alla fine tutti i Ds seguiranno il vertice nel Pd, Mussi gli ricorda che la scissione è tutt´altro che scongiurata. Non a caso lui già lancia un appello «ai molti che vengono dalla crisi del Partito socialista e a chi viene dal Pci», proponendo una riunificazione della sinistra.
«Io ti metto in guardia Piero, l´adesione a un nuovo partito è libera. Il bravo giocatore di scacchi - avverte il ministro - deve prevedere anche le 4 o 5 mosse successive, altrimenti rischia di perdere la partita». Mussi ne ha anche per D´Alema, che sostiene che il Pd deve andare oltre. «Anche io dico che dobbiamo andare oltre, ma per me vuol dire un po´ più a sinistra, non un po´ più a destra». Intanto c´è già qualcuno, come Caldarola, che si dice pronto a lasciare la Quercia: «Se vince la mozione Fassino io me ne vado e mi metto a disposizione di una costituente riformista e socialista».

Corriere della Sera 19.2.07
Attacco a Fassino: «Occhetto fece le valigie con il suo 16%»
Mussi: «I Ds sono diventati forza marginale»
Il ministro «No al Partito democratico. L'alternativa è la riunificazione della sinistra».


ROMA - «I Ds sono diventati un gigantesco gioco dell'oca in cui si è tornati al punto di partenza. Occhetto con il suo 16 per cento dovette fare le valigie mentre ora si celebrano i successi di un segretario che ci fa fare il 17,2 per cento». È stato durissimo l'attacco di Fabio Mussi al segretario dei Ds, Piero Fassino, durante la presentazione della mozione 'A sinistra, per il socialismo europeo', al Teatro valle di Roma. Il ministro dell'Università e della Ricerca ha messo in allerta il leader della Quercia: «Siamo diventati una forza marginale del Paese, siamo oggi un partito degli eletti. Nelle nostre sezioni si discute di più delle liste che della situazione in Medio Oriente».
SINISTRA UNITARIA - Mussi ha poi ribadito la sua opposizione alla nascita del Partito democratico. «Dobbiamo vincere il congresso, no al partito democratico e no al manifesto presentato nei giorni scorsi». L'alternativa, dice Mussi, potrebbe essere la riunificazione della sinistra. «Non è scontato - osserva il ministro - che la sinistra in Italia debba essere divisa. Se continua a essere divisa, per lei è la rovina. Si può trovare una prospettiva unitaria per i molti che vengono dalla crisi del Partito socialista e per chi viene dal Pci». Ma che può coinvolgere anche una sinistra nuova, i movimenti nati negli ultimi anni. «Le logiche di nicchia o di trincea - insiste il leader della sinistra Ds - di chi difende il proprio 2% o il 2,1% non lasceranno sopravvissuti. Bisogna rimetterci tutti in discussione e riaprire la prospettiva di un grande partito di sinistra, di ispirazione socialista».
«PIU' RISPETTO» - A Mussi risponde Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria nazionale dei Democratici di sinistra. «Il congresso dei Ds è l'occasione per un confronto libero e democratico su come costruire in Italia una grande forza riformatrice che svolga la stessa funzione politica e copra lo stesso spazio elettorale che in Europa è esercitato dai grandi partiti socialisti». «La trasformazione dell'Ulivo in un soggetto politico democratico e riformista - prosegue l'esponente della Quercia - risponde a questa esigenza: dare all'Italia quella forza riformatrice di cui ha bisogno». «Le proposte presentate da Mussi non mi pare vadano oltre un aggiustamento del quadro esistente. Quanto alle affermazioni sui risultati elettorali e sul ruolo dei Ds - sostiene Migliavacca - occorre da parte di tutti un maggiore rispetto per il lavoro svolto in questi anni. Un lavoro che dopo la sconfitta del 2001 ha visto i Ds vincere tutte le competizioni elettorali ed essere protagonisti della ricostruzione dell'Ulivo e del centrosinistra. Un lavoro che è merito di tanti - conclude - ma anche, e in primo luogo, del segretario e del gruppo dirigente dei Ds».

domenica 18 febbraio 2007

il manifesto 18.2.07
1977, perché non si fermò la deriva violenta?
di Massimo Scalia


Si è parlato poco, a sinistra, del '77. Probabilmente per un certo perbenismo: un movimento non brillante come il '68, di esso molto più fastidioso - la cacciata di Lama dall'Università di Roma, l'invasione della Bologna di Zangheri - e, assai peggio, prodromico degli anni di piombo. Lo ha fatto col suo libro Lucia Annunziata suscitando un dibattito rispetto al quale mi sembra opportuno stabilire alcuni punti. Una domanda attraversa il libro della Annunziata: perché Lotta Continua, i suoi dirigenti non scesero in campo per fermare la deriva violenta? L'interrogativo è mal posto, come si dice nelle teorie scientifiche, per almeno due ragioni.
La prima è che gli fa velo una sorta di continuismo nella lettura della storia, non certo quello di destra che pretende che i rapitori di Dozier siano i nipoti di Togliatti, ma quello in qualche modo speculare di sinistra che non coglie il farsi degli eventi come successione di rotture più o meno intense o più o meno drammatiche. C'è un main stream che fluisce con le lotte di massa, le conquiste o le batoste del movimento operaio; e, al timone, i gruppi dirigenti. Però una qualche rottura bisogna pur attribuirla a una situazione così turbolenta.
Non è un caso allora che 1977.L'ultima foto di famiglia venga chiosato, correttamente, come l'uccisione del «padre Pci» da parte del movimento. Ma la rottura era già avvenuta nel triennio '69-71, con il formarsi di nuovi gruppi politici (tra i quali il manifesto) per i quali lo scontro è direttamente col Pci, il più grande partito comunista dell'Occidente capitalistico, e per l'egemonia sul movimento operaio; basti pensare all'autunno caldo del '69. Nonostante i tentativi del segretario Enrico Berlinguer, pur nell'asprezza del conflitto, di mantenere aperta una comunicazione.
Nel '77 invece l'opposizione parlamentare è ridotta a una rappresentanza di pochi percento, la politica e il paese stanno vivendo una crisi profonda. E il movimento che nasce rompe subito con i «gruppi» della sinistra sessantottina, e viene immediatamente percepito dal Pci come un nemico - i «diciannovisti» - contro cui esercitare un'azione «giacobina». A questo esorta Asor Rosa dall'Unità del 13 febbraio: quattro giorni dopo Lama viene alla Sapienza. Il sanpietrino in mano, il fronteggiarsi con l'amico, anzi, il «compagno» del sindacato, le lacrime relative, i consigli di fabbrica delle Flm che avvoltolano le bandiere e se ne vanno, il volto livido di Lama che tronca il comizio e fugge perché anche il servizio d'ordine, persino Ughetto, si è scompaginato non sono la «scena del crimine»; sono, casomai, una «dissacrazione» nello stile del '77.
Nessuna uccisione quindi. Restano allora, nei gorghi del main stream, i gruppi dirigenti. Perché quello di Lotta Continua non si è mosso contro la violenza? E qui, la seconda ragione, assai semplice. Nell'assemblea di Roma del luglio del '76 Lotta Continua aveva anticipato l'esito che sarebbe stato «formalizzato» pochi mesi dopo, a novembre, a Rimini: lo scioglimento. Lotta Continua non c'era più e i suoi dirigenti nazionali più noti non partecipavano al '77, lo osservavano dall'esterno o ai margini. Drammatica la condizione di quei militanti di Lotta Continua che, senza più partito e senza più padre - alcuni si erano immediatamente inventati come «indiani metropolitani» - , costituivano la platea delle assemblee del '77. Fascinati dagli atteggiamenti dell'Autonomia e, al tempo stesso, irresoluti, per residuo orgoglio politico, a dissolversi in essa.
Fu, all'interno del movimento, una contesa ininterrotta tra chi, pur non praticando la clandestinità, affermava che le Br erano «compagni che sbagliano, ma poi neanche troppo» e chi sempre si contrapponeva inventando per ogni manifestazione slogan, percorsi e obiettivi che non si risolvessero nel cul de sac della P38. Perché non ci fu solo Bologna; e l'11 marzo a Roma non fu davvero l'assalto all'armeria di via Giulia. Chi non ricorda a piazza Venezia il far west delle due file di pistoleri, una inginocchiata, che «proteggevano» il corteo a cinquanta metri dai poliziotti in assetto di battaglia per impedire l'accesso al Corso? O quel sussurro forte di numeri a terna che si lanciavano i gruppetti clandestini lungo il percorso? O il «volume di fuoco» a ponte Margherita?
Chi si oppose a tutto questo dall' interno del movimento dovette farlo su due fronti: la repressione di Cossiga - i ridicoli tentativi di infiltrazione (e gli infiltrati veri da «altri»), Giorgiana Masi, Roma e Milano militarizzate - e le «teorizzazioni». Non c'è dubbio che a Roma come a Milano o Bologna il movimento esprimesse in qualche modo i bisogni delle decine di migliaia di «non garantiti» che riusciva a «convocare» nelle manifestazioni, in una prefigurazione delle trasformazioni sociali in qualche misura già allora in atto. Ma dal demenziale «Polonia/Bologna» alle «macchine desideranti» e tutto il ciarpame dei nouveaux philosophes, il «bisognismo» - anche quello di Agnes Heller - diventava benzina per i gruppuscoli «combattenti» in cerca di soldati nelle platee degli sperduti.
L'esito di quel contrasto non fu disprezzabile. Il due dicembre a Porta San Paolo erano in trentamila quelli del movimento che corsero ad accogliere gli oltre centomila metalmeccanici che venivano a Roma. Certo, un omaggio all'illusione di un rapporto diretto con la «classe» per eccellenza contro lo Stato borghese, ma anche una spaccatura netta con i duemila rimasti dentro l'università con i loro «bisogni». Ma tutte queste cose si perderanno come lacrime nella pioggia.

Repubblica 18.2.07
Pacifismo pluralista in salsa vicentina
di Eugenio Scalfari


Cinquanta, ottanta, centomila? Qualcuno degli organizzatori, ad un certo punto del corteo, si è lasciato andare ad una stima-record: 200 mila presenze alla manifestazione vicentina. Francamente esagerato, ma certo erano tantissimi. Anche i vicentini erano molti, ma quelli venuti da fuori molti di più. E la sinistra radicale più numerosa di quella riformista.
Violenze nessuna. Qualche cartello (presto rimosso) in favore dei "compagni che sbagliano", cioè degli arrestati in odore di terrorismo.
Insomma un corteo pluralista quanto altri mai, perché in quei sei chilometri della circonvallazione di Vicenza si giocavano contemporaneamente molte partite. Vediamo quali.
Anzitutto la partita dei pacifisti senza se e senza ma, per i quali anche la bandiera dell´Onu non conta un fico secco come giustificazione e motivazione delle missioni militari. Quel tipo di pacifisti c´era a Vicenza; diciamo quelli personificati da Dario Fo e Franca Rame. Ma il pacifismo del 2007 non è più quello che nel 2002 riempì le piazze di tutta Europa, da Madrid e Barcellona a Londra, a Berlino, ad Amsterdam, a Bruxelles, a Stoccolma, a Roma, Milano, Napoli, arrivando a cifre percentuali di oltre il 90 per cento nei sondaggi d´opinione europei.
Quello era un pacifismo mirato e il suo bersaglio era la guerra preventiva di Bush in Iraq che infatti si è rivelata una catastrofe e trasformata in un pantano. Era un pacifismo saggio con una meta realistica e concreta.
Quello di oggi è piuttosto utopico e generico. Non vuole l´allargamento della base americana a Vicenza e forse ha dalla sua buonissime ragioni per non volerlo, ma si è mescolato con un altro tipo di pacifismo che ha colto la base Usa più come un pretesto che come un vero obiettivo.
Si ispira piuttosto al vecchio slogan ideologico "yankees go home", americani fuor dalle balle. Possiamo organizzare cento cortei in altrettante città italiane, ma se quello fosse lo slogan credo che non raccoglierebbe più del 10 per cento dei consensi e forse molto meno.
Da questo punto di vista la manifestazione di ieri sarebbe stata assai più significativa se a farla fossero stati i soli vicentini. La trasferta pacifista ha in qualche modo manipolato Vicenza e messo in seconda fila il dissenso civico sulla questione della base. Certo, il governo dovrà rivedere alcune modalità urbanistiche e negoziarle. Ma non credo che andrà oltre questo.

Un´altra partita era quella tra sinistra radicale e riformisti. Giordano e Diliberto (tra l´altro in competizione tra loro per vedere chi meglio rappresenta la sinistra-doc) escono rafforzati dalla gita vicentina?
Con Giordano personalmente mi trovo d´accordo su molte cose. Apprezzo anche la funzione di filtro e di raccordo che quelle formazioni politiche esercitano nei vari movimenti contestativi ai quali cercano di fornire un "fumus" di rappresentanza parlamentare e addirittura governativa.
Ma onestamente debbo dire che nel corteo vicentino erano più ospiti che padroni di casa. Non c´era nessun padrone di casa in quella manifestazione. Neppure Epifani che pure aveva mobilitato una parte cospicua della sua organizzazione. Ma niente a che vedere con i Trentin e i Lama di piazza San Giovanni e i Cofferati del Circo Massimo e non parlo del numero delle presenze ma della compattezza degli animi e della chiarezza degli obiettivi.
Ieri si dimostrava contro la base americana ma anche contro la presenza militare italiana in Afghanistan. Il vecchio slogan "dimmi con chi vai e ti dirò chi sei" ieri era inapplicabile. L´ex sindaco democristiano di Vicenza e attuale capogruppo regionale dell´Ulivo, Achille Variati, ha qualche cosa a che fare con Franca Rame e con i centri sociali più scalmanati? E Franca Rame ha a che fare con Di Pietro il cui partito l´ha fatta eleggere al Senato? O con i leghisti "celoduristi" che pure erano presenti nel corteo? Il segretario della Fiom si sentiva a suo agio con Epifani e il segretario della Cgil era in armonia con i Cobas che marciavano alla testa del corteo dei "duri"?
Troppe partite si sono intrecciate ieri a Vicenza, con la conseguenza che non ne è stata portata a termine quasi nessuna. Salvo quella del questore che si era impegnato a tutelare l´ordine pubblico in una situazione di particolare difficoltà e c´è pienamente riuscito.
Il questore di Vicenza, i millecinquecento uomini ai suoi ordini, i vigili urbani del Comune e, a Roma, il ministro dell´Interno hanno vinto la loro difficile partita insieme al servizio d´ordine della Cgil e alla compostezza delle decine di migliaia dei partecipanti.
Quanto a Prodi, ne esce paradossalmente rafforzato. Rifondazione che mobilita la sua gente pacifista e che tra una settimana voterà il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan è la prova che Prodi è inaffondabile, governa e non galleggia. Sembra un paradosso ma non lo è. Da Vicenza questo è tutto ed è parecchio.
* * *
Però la città del Palladio per chi ha la mia età richiama anche un altro genere di ricordi, di nuovo tornati di rilevante attualità. Parlo della grande provincia bianca, feudo negli anni Cinquanta-Settanta della Dc, delle diocesi più potenti, delle cooperative bianche, delle banche popolari, d´un predominio organizzativo e culturale saldissimo.
Di quella lunga fase di egemonia è rimasto assai poco a Vicenza e in tutto il Nordest, salvo un senso di separatezza che ha consentito un forte insediamento della Lega nel triangolo con Verona e Treviso.
Il Veneto rispetto a com´era fino a vent´anni fa si è secolarizzato più rapidamente di qualsiasi altra regione italiana. Se c´è una terra di missione dove l´episcopato dovrebbe cimentare le proprie capacità pastorali è proprio lì, nelle terre venete uscite ormai dalle "dande" di Santa Romana Chiesa alla scoperta del buon vivere, dei piccoli piaceri della provincia italiana e della sua vocazione internazionale.
Qui la Chiesa è ancora massicciamente presente con il suo radicato temporalismo economico ma le coscienze non sono più sotto la sua tutela e la Vandea bianca è scomparsa. Bossi è in declino, il berlusconismo è ancora vigile ma in perdita di velocità. I veneti sono "in ricerca", ma neppure loro sanno dire di che cosa.
Io capisco perché l´episcopato italiano è preoccupato. Lo si comprende bene guardando proprio il Nordest, il miracolo del Nordest con al centro l´impresa, il lavoro, il valore, i segni materiali della ricchezza.
La Chiesa teme che tra ricchezza e laicizzazione del vivere vi sia un rapporto diretto. Per questo pensa di dover aumentare la presa sulle istituzioni pubbliche: non riuscendo più a controllare l´evoluzione del costume, spera di supplire a questa lacuna controllando le leggi.
Quando la Chiesa inclina dalla pastoralità alla temporalità, questo è un segnale di debolezza. L´ala martiniana dell´episcopato italiano ha compreso questo segnale di debolezza e cerca di invertirne il corso che i ruiniani invece spingono avanti con irruenza.
Quando Rosy Bindi dice di amare una Chiesa che parli di Dio coglie il centro della questione. Non è infatti con le norme di leggi che si argina la crisi della famiglia che soffre soprattutto per il fatto d´essersi ridotta ad una coppia o al triangolo di cui il figlio unico rappresenta il punto di riferimento esclusivo.
In società composte da "single" o da famiglie cellulari, la religiosità boccheggia e l´intera Europa diventa per i preti terra di missione. La vera patria della cattolicità si è spostata verso il Sud del mondo, America Latina e Africa. In queste condizioni un Papa tedesco e per di più teologo è stato probabilmente un errore della Chiesa che sembra ormai arroccata in una battaglia di retroguardia guidata dalla parte temporalistica dell´episcopato e da una pattuglia di atei devoti che coltivano obiettivi esclusivamente politici.
Per un laico fa senso assistere ad una fenomenologia così scadente e rivolta all´indietro. Si vorrebbe che la Chiesa parlasse dei valori dello spirito e non fosse dominata da una sorta di ossessione sessuofobica che finisce col discriminare i più deboli: le coppie non abbienti, etero e omosessuali che siano. Le coppie benestanti non hanno bisogno della reversibilità della pensione o dell´assistenza sanitaria o degli alimenti e se ne infischiano dei divieti alla procreazione assistita se necessario vanno all´estero e pagano i medici di tasca propria. C´è un profumo di classismo all´inverso nell´opposizione della Cei ai Dico.
Ma la cosa più singolare l´ha detta appena ieri Benedetto XVI denunciando la pressione di potenti "lobbies" che vorrebbero ridurre al silenzio la voce della Chiesa. Incredibile. La Cei del cardinal Ruini si sta muovendo da anni come la più potente delle "lobbies" e il Papa protesta contro supposti gruppi di pressione che vorrebbero confiscarne il diritto ad esprimersi.
Chi sarebbero questi lobbisti? Oscar Luigi Scalfaro? Il vescovo Plotti? Il cardinal Silvestrini? Il cardinal Tettamanzi? Pietro Scoppola? I giornali di cultura laica?
Infine: si dice Oltretevere che le prescrizioni della Cei ai parlamentari sulle modalità della legislazione non costituiscono ingerenze e quindi non c´è ragione di chiamare in causa il Concordato.
Ebbene, quali sono dunque le ingerenze ipoteticamente definibili come tali? Può qualche cattolicante in servizio permanente effettivo darcene un esempio? Oppure dobbiamo pensare che qualunque cosa faccia e dica la Cei, non esiste mai ingerenza nei confronti dello Stato mentre ovviamente il reciproco non è vero?
Coraggio: a noi basta un solo esempio tanto per poter fissare un limite sia pur piccolo all´attivismo illimitato del Vaticano nei confronti di uno Stato definito sovrano purché si rassegni ad essere etero diretto dal Papa e dai vescovi da lui nominati.
l'Unità 18.2.07
Vicenza, l'invasione arcobaleno: oltre 120mila contro la base
Giordano a Prodi: questa è la tua gente


Musica a tutto volume e danze in stile brasiliano. Il corteo è pacifico, allegro e multicolore. In una Vicenza avvolta da un sole primaverile, è partita alle 14, con mezz'ora di anticipo, la manifestazione contro il raddoppio della base Usa. Migliaia di manifestanti arrivati in città fin dalle prime ore del mattino. Non è ancora chiaro quante persone partecipano alla manifestazione che si svolge nella città del Palladio. Alle 15 e 40, una stima della questura, parla già di 50mila persone. Ma per i manifestanti la cifra è molto riduttiva. Gli organizzatori confermano: «Abbiamo superato ampiamente le centomila persone». Cinzia Bottene, uno dei portavoce del comitato 'No Dal Molin' precisa: «La testa del corteo è quasi arrivata alla fine del percorso e la coda che non riesce ancora a muoversi. E c'è, inoltre, uno spezzone di 20mila persone che deve ancora muoversi». Bottene ha poi ribadito il carattere assolutamente pacifico della manifestazione. «La città è completamente abbracciata dalla gente, ci sono migliaia di vicentini che stanno proteggendo la città da un futuro che non vogliamo». Michele De Palma, responsabile di Rifondazione per l'organizzazione della manifestazione di Vicenza, parla di 200mila partecipanti.

Quello che è certo è che Il clima è sereno, allegro, festoso. E molto partecipato. tanto che il corteo in certi punti, più che sfilare, spinge. Le strette strade di Vicenza, almeno quelle del percorso, non riescono a contenere i manifestanti e i grandi camion con sopra le amplificazioni, quindi in certi momenti, seppur del tutto involontaria, la manifestazione si trasforma in una ressa con le persone che cercano di trovare un piccolo spazio vitale.

Insomma: un corteo pacifico, anche se un po' faticoso. Così, nonostante allarmismi vari, i negozi sono rimasti aperti, anche se alcuni (forse) tireranno giù la saracinesca nel pomeriggio. «Sarà una giornata faticosa, ma ci sono tutti i presupposti per ritenere che assisteremo ad una manifestazione tranquilla» ha detto anche il questore di Vicenza Dario Rotondi. La manifestazione inoltre dovrebbe essere controllata, oltre che dalle forze dell'ordine, e dall'autodisciplina dei manifestanti, anche, a quanto si apprende, da 1.500 militanti della Cgil giunti appositamente dall'Emilia Romagna.

Il primo corteo, quello che si e mosso dal presidio fisso davanti all´aeroporto, è partito senza problemi verso le 11, aperto dalle donne e da uno striscione con scritto «Il futuro è nelle nostre mani. Giunta Hullweck, governo Prodi resisteremo un minuto in più».

In piazza, non solo Prc, Verdi e Pdci ma anche la Margherita, investita a Vicenza da una vera e propria ribellione (auto-sospesa l'intera direzione provinciale) che dice, per bocca capogruppo a Palazzo Trissino, Marino Quaresimin che «porterà bandiere del partito, dell'Unione e della pace». «Noi - dice l'esponente Dl, già sindaco di Vicenza - siamo convinti che esistono ancora soluzioni alternative per il Dal Molin».

Tra i Ds vi sarà il senatore Cesare Salvi secondo il quale la decisione di Prodi «va rivista». Il vice-presidente del Senato è fiducioso sull'esito della giornata: «In Italia vi sono state tante manifestazioni per la pace tranquille, se vi saranno oggi elementi di disturbo andranno isolati, il movimento di Vicenza ha dimostrato di non essere eversivo ed ha posto due questioni concrete: la popolazione non è stata coinvolta nella decisione che non può calare dall'alto, occorre fare chiarezza sull'effettivo uso futuro della base».


Lo spettacolo di Dario Fo
dario fo a vicenza, 17 febbraio, foto ansa
Il corteo si è concluso in Campo Marzo intorno alle 18,30 con una canzone di Dario Fo dedicata al vescovo di Vicenza favorevole all'allargamento della base Usa. Il premio Nobel, accompagnato dalla moglie Franca Rame, ha ricordato i 13 miliardi di euro che lo Stato italiano spenderà per acquisto, trasporto, assemblaggio e manutenzione degli aerei militari «Fighter Distructor» prodotti dalla Lockheed, azienda protagonista di un clamoroso episodio di corruzione degli Anni '70. Lo spettacolo musicale è proseguito con un concerto dei "Pancreas".

Il premio Nobel con la sua solita verve, tra battute e canzoni, ha tenuto uno show che è durato una mezzora. Fo si è concesso alla piazza senza risparmiarsi. Ma l'attacco più deciso è stato nei confronti dei politici, di destra e di sinistra, «che sono abbioccati sull'idea che bisogna servire il più forte». E poi ancora, rivolto a quelli che avevano paventato scontri: «Quelli che pensavano che oggi a Vicenza ci sarebbe stato il disastro, stasera avranno le lacrime agli occhi». Dopo la classe politica italiana, è stata la volta del governo americano a essere presi di mira. «Non accettiamo dal governo americano è che si senta la potenza unica nel mondo - ha concluso - non accettiamo che dispongano della terra dove siamo nati».

«Vorrei che Prodi chiedesse scusa ai vicentini perché qui non stiamo parlando di un semplice allargamento ma di una base nuova», ha detto Franca Rame. Accanto al marito, ha anche sottolineato che «non si può mentire alla gente». La Rame sfilava reggendo uno striscione di protesta, attorniata dalle bandiere della pace.

venerdì 16 febbraio 2007

Repubblica 16.2.07
Qual è il destino della coppia
L'offensiva della Chiesa e le ragioni dei laici
Dalle nozze legali alle unioni di fatto. Così cambia un rapporto
Analisi della struttura della famiglia tra storia e natura
di René Girard


È sempre esistito il matrimonio? E in quali forme? Io non conosco esempi, prima della nostra epoca, di una possibilità di definire il matrimonio in modo diverso che come unione tra i due sessi. Ma penso che non ce ne siano proprio perché in ogni tempo e luogo si è considerato come assolutamente acquisito il fatto che il matrimonio leghi l´uomo e la donna. Il problema non si è mai posto fino ad oggi. Secondo una tradizione universalmente accettata, il matrimonio è un legame che produce figli, e che si stabilisce quindi tra individui di sesso opposto. Il resto è guardato come "non naturale", proprio nel senso filosofico del termine: contrario alla natura. Dal punto di vista della Chiesa cattolica, da quello del suo pensiero e della sua filosofia, nati da San Tommaso d´Aquino e dal tomismo, il matrimonio è riservato alla forma della coppia considerata "naturale". E´ ovvio, in tal senso, che i cattolici siano ostili a qualsiasi misura che possa condurre al matrimonio tra omosessuali.
La Chiesa sostiene che lo Stato non dovrebbe giustificare questo percorso. La soluzione proposta dai Pacs, o da quelli che gli italiani chiamano i Dico, consiste nel concedere alle coppie di fatto, omosessuali inclusi, una serie di vantaggi giuridici, ma senza usare ancora la parola "matrimonio". E´ proprio questo, invece, che in Francia, dove i Pacs sono in vigore, reclamano gli omosessuali, non soddisfatti di poter disporre soltanto dei Pacs. La richiesta arriva dagli omosessuali radicali, che vorrebbero essere considerati normali, sopprimendo la nozione di "norma" nel diritto. La Chiesa cattolica rifiuta tutto questo, reputando necessarie le abitudini giuridiche, fondate dai cristiani nell´ambito del diritto. In un paese come l´Italia, dove i cattolici sono particolarmente numerosi, e dove finora non ci sono stati neppure i Pacs, la Chiesa si oppone a tutti gli stadi dell´itinerario, dai Pacs in avanti.
Oggi l´omosessualità è entrata più o meno nella normalità, come all´epoca del declino dell´Impero Romano. Però adesso c´è un elemento in più: gli omosessuali vorrebbero dare alla loro unione uno stato di legalità. E´ questo l´aspetto completamente nuovo. In epoche in cui l´omosessualità diveniva socialmente molto rilevante, come alla fine dell´Impero Romano, furono adottate misure legali a favore degli omosessuali? Da parte loro ci furono mai richieste in tal senso? Il fatto che il matrimonio sia un vincolo stabilito per unire persone di sesso diverso si è forse modificato perché in quel periodo storico gli omosessuali erano numerosi? A me non risulta.
Non sto a chiedermi se il fatto che oggi si discuta su questo punto sia sintomo di una superiorità o di un´inferiorità morale. Mi limito a parlare della situazione storica, senza dare giudizi, perché bisogna interrogarsi sul piano storico per provare a definire ciò di cui si parla. E per quanto io sappia, quello che si sta verificando ora non ha alcun precedente né termine di confronto, o perché la volontà di unione legale tra persone dello stesso sesso non è mai esistita, o perché non è mai stata registrata. Sappiamo che ci sono state società arcaiche tolleranti verso l´omosessualità. Ma non era altro che questo: tolleranza. Non progetto di legalizzazione del vincolo.
Oggi da una parte c´è la Chiesa cattolica che vuole mantenere sia la forma che la sostanza vigenti in passato. Dall´altra c´è chi si oppone e chi no. In Francia, per esempio, non sono solo i cristiani a essere contrari al matrimonio omosessuale, ma anche alcuni politici moderati, che non parlano in nome del cristianesimo, e che vorrebbero modificare il meno possibile il diritto tradizionale in materia, riconoscendo che la nozione di sesso esiste, che nel matrimonio è irrinunciabile e che tutto questo è sempre stato vero. Intanto negli Stati Uniti una forte maggioranza preme contro il cambiamento della definizione di matrimonio, e quest´opposizione già contribuì alla sconfitta dei democratici all´epoca dell´elezione di Bush. D´altra parte in molti stati moderni si assiste a una presa di posizione a favore dei Pacs.
A volte mi chiedo se invece non sia proprio il cristianesimo, o meglio una prospettiva cristiana molto radicale, a rifiutare certe vecchie definizioni. Oggi un elemento supplementare nella discussione arriva dal fatto che ci sono teologi favorevoli all´omosessualità, i quali si oppongono alla condanna di Paolo nell´Epistola ai Romani, dove gli omosessuali vengono collocati tra i fornicatori. Naturalmente la Chiesa non accetta il punto di vista di quei teologi. E´ stato Paolo a offrire per primo un punto di vista cristiano nei confronti dell´omosessualità, senza considerare affatto gli omosessuali come peccatori eccezionali. Li ha semplicemente posti tra i portatori di disordine, come gli adulteri. Fornicatori come altri.
Ma il centro del discorso sono i figli. A partire dal momento in cui si dà agli omosessuali il diritto di avere bambini, diventa impossibile rifiutare loro i diritti dei genitori, perché si farebbe un torto ai figli. Giuridicamente non si può negare ai bambini, che non sono responsabili di nulla, di avere genitori uguali a quelli degli altri. E se si danno agli omosessuali i diritti delle persone sposate, è impossibile escluderli giuridicamente dal matrimonio. La nostra civiltà sembra avere imboccato tale direzione. Considerando l´evoluzione dei costumi, si può supporre che si proseguirà su questa strada fino alla fine, a meno che non si verifichi una vera e propria rivoluzione nella politica e nei costumi della nostra società.
(Testo raccolto da Leonetta Bentivoglio)

Repubblica 16.2.07
IL PUNTO DI VISTA DELL'ANTROPOLOGIA SUI LEGAMI DI PARENTELA
COME LA FAMIGLIA CAMBIA NELLA STORIA
Passato. Nelle società tradizionali di altre culture la coppia è inserita in un sistema complesso di reti di reciprocità
di Franco La Cecla


Cos´è il matrimonio? Cos´è la famiglia? Matrimonio e famiglia sono forme sociale naturali, universali? A queste domande si può rispondere appellandosi a dei principi, appoggiandosi a delle ideologie, oppure rifacendosi ai fatti empirici, a quello che fino ad oggi conosciamo delle società umane (ed è molto).
L´antropologia, fin dalle sue origini, che affondano in una curiosità comparativa, fondata su una paziente ricerca in luoghi e culture vicine e lontane, ha indagato sulla natura dei legami primari. La parentela, l´apparentarsi è una costante che si rintraccia in tutti i gruppi umani, ma le sue forme sono le più diverse. In culture diverse dalla nostra spesso la filiazione è separata dalla parentela, cioè i genitori biologici non sono coloro che allevano i propri figli. In molte culture sono gli zii, cioè i fratelli della madre a prendersi questo compito – anche da noi esisteva questa istituzione ed ogni tanto riemerge, come notava Lévi-Strauss in occasione della morte di Lady Diana. In quel caso, al funerale, il fratello di lei si era presentato come l´unico possibile tutore di figli. Ci sono culture nel sud della Cina dove la coppia convivente è costituita da fratello e sorella, che hanno "fugaci" visite notturne a persone dell´altro sesso con cui possono generare una prole che viene però allevata da fratello e sorella. Insomma il nucleo familiare, come "casa" non è una forma universale, ci sono società dove non esistono coppie fisse, ci sono famiglie poligamiche nel fondo dell´Amazzonia o in Senegal e ci sono ovviamente famiglie allargate. Siamo noi l´eccezione: la famiglia mononucleare – la solitudine di marito e moglie e dei loro figli - è una invenzione recente. C´è voluto l´avvento del capitalismo e del lavoro salariato che ha distrutto la famiglia allargata che era anche un´entità economica – gli antropologi parlano di "maison" o di "household"- e che ha creato la coppia come la conosciamo oggi. Lo spiegava in un magnifico e introvabile libro, Genere e Sesso, Ivan Illich. Quello che è nuovo è l´idea di un nucleo isolato che dovrebbe farsi carico della formazione della prole. Nelle società tradizionali europee e nelle società "indigene" di altre culture la coppia è inserita in un sistema complesso di reti di reciprocità , in un mondo in cui uomini e donne costituiscono due sfere spesso indipendenti, con lingua, maniere e obblighi differenti. La prole è affidata al gruppo più ampio. Questo consente un´elasticità maggiore della nostra, nella costituzione e nel dissolvimento della coppia stessa. Una società aristocratica e complessa come quella Tuareg ancor oggi consente una frequenza estrema di divorzi – che vengono festeggiati come se fossero matrimoni, cioè nuovi inizi – proprio perché la prole non rimane affidata mai alla singola coppia. Illich diceva che la coppia mononucleare è un mostro di cui nella storia non si era mai sentito parlare prima.
Al fondo di tutta questa materia giace una domanda importante: cos´è che lega le società, cosa fa sì che non si sfaldino? La nostra povera risposta oggi è: la coppia.
La risposta di altre società è sempre stata: un legame che consente il passaggio di sostanze, siano esse liquidi, latte, acqua, lagrime, nutrimento, emozioni, parole, esperienze, visioni, eredità nel senso più ampio e nel senso più specifico. La sostanza che una generazione passa all´altra è simile e diversa dalla sostanza che uomini e donne incontrandosi si scambiano. Si tratta di affetto, di amore, beni, ma soprattutto di "kinship" cioè di un legame di parentela che è una invenzione culturale che cambia da luogo a luogo, ma che è importantissimo. Noi siamo una strana società che privilegia l´amore-passione rispetto al legame di parentela. In moltissime società, anche moderne, come l´India, come il Giappone il matrimonio non corrisponde all´amore-passione, anche se può prevederlo. I matrimoni sono combinati perché il legame sia stabile e non fluttui con i cambiamenti delle emozioni. In India dicono che il loro tipo di matrimonio è come mettere il fuoco sotto una pentola di acqua fredda, mentre il nostro occidentale sarebbe come spegnere il fuoco sotto una pentola di acqua calda. Ed è vero che la nostra società, nonostante i richiami delle Chiese e dei nuovi fondamentalismi fa una fatica enorme a non sfaldarsi continuamente. Oggi la parola coppia è svuotata di gran parte del significato che anche da noi poteva avere fino a vent´anni fa. I Pacs e i Dico e anche i matrimoni tra persone dello stesso sesso affrontano un problema giuridico, legato alla eredità e alla comunanza di beni, ma non affrontano la sostanza impoverita della coppia. Perché in qualunque società il legame tra due persone è qualcosa che crea una circolazione di sostanze da passare ad altre generazioni (altrimenti non ci si "sposa", e nella culture primitive e tradizionali l´amore passione esiste quanto e spesso più che da noi). Se ci si "sposa" è per costituire una "kinship", un legame che consenta il passaggio di sostanze. Una delle sostanze principali in tutte le culture è il genere. Non è un caso che di dica "generare", cioè installare la prole nel genere, in un genere maschile o femminile – ci sono casi di terzo sesso, ma non di terzo genere, sono per lo più casi di uomini considerati culturalmente donne e viceversa. La questione di che tipo di sostanza di genere passano genitori di uno stesso sesso alla propria prole esiste. E´ una domanda imbarazzante per chi si batte oggi per i Pacs o per i Dico, ma occorre rispondervi.
Non basta avocare la creatività di un transgender o di un queer- gender per evitarla. Michel Foucault, che era un omosessuale convinto e praticante, litigava ferocemente con chi pensava che inventare un nuovo genere fosse come fare un happening. Per lui gli omosessuali erano uomini con gusti sessuali differenti.
In Francia è all´interno stesso del dibattito femminista che si è posta la questione. E´ stata Marcela Iacub, una antropologa argentina del diritto, a far notare che non si può parlare tanto di rispetto delle differenze sessuali e poi ignorare l´importanza in una cosa così seria come la generazione della prole. Il fatto è che qui, intorno alla famiglia, si gioca il destino della nostra società, non nel senso che essa sia oggi "degenerata" come vorrebbero alcuni, ma nel senso più specifico che qui non si tratta di diritto individuale, ma di trasformare il diritto perché sia capace di proteggere davvero i legami che le persone producono durante la loro vita. Sappiamo ormai di essere monogami nel presente e poligami nel tempo (il tasso altissimo di separazioni lo dimostra). Perché non accettare di essere una società dai tanti amori che però assicura e protegge i passaggi di sostanza che questi amori producono, figli, parenti acquisiti, amici, beni? E´ possibile, basta fare un passo più avanti della pura politica.

Repubblica 16.2.07
L'ISTITUTO MATRIMONIALE E IL PENSIERO OCCIDENTALE
QUANDO I VALORI DIVENTANO FATTI
di ROBERTO ESPOSITO


Coppia unita da un legame religioso. Unione di due persone finalizzata alla procreazione. Relazione istituzionale regolata da determinati vincoli giuridici e accordi economici: il matrimonio è tutto ciò ed altro ancora. E´ per questa sua collocazione ambivalente tra pubblico e privato, diritto ed economia, sentimento e ragione che esso costituisce oggi uno degli oggetti più problematici del dibattito politico, culturale, religioso. Non solo, ma anche il luogo su cui si scarica una crescente pressione da parte del ceto politico e della società civile, dei media e della Chiesa.
Considerato da molti il nucleo primario della vita di relazione, esso, tuttavia, è inteso diversamente dalle attuali culture contemporanee: come qualcosa di stabile nel corso del tempo, perché strettamente incardinato nella cornice tradizionale del sacramento religioso, oppure come un contenitore sociale temporaneo, all´interno della quale possono transitare situazioni diverse, in ragione dei mutamenti del costume e della diverse opzioni sentimentali e sessuali dei partners. In ognuno di questi casi, tuttavia, il matrimonio resta alla base di quella istituzione più ampia e fornita di rilevanza ancora maggiore che è la famiglia. E´ anzi proprio in rapporto ad essa – alla dimensione verticale costituita dalla presenza dei figli – che il matrimonio, naturalmente situato in una dimensione privata, va assumendo una portata sempre più intensamente politica e anzi, come oggi si dice, decisamente biopolitica.
Intendiamoci: fin dalla sua origine la riflessione politica occidentale ha assegnato un posto di rilievo alla famiglia. Marginalizzata, se non abolita, nel modello della repubblica platonica, a favore di una pubblicizzazione integrale della sfera politica, essa già con Aristotele rientra nella linea genetica che porta dalla dimensione naturale a quella del governo. Riconosciuta anche nel mondo romano come cellula primaria della convivenza, essa allarga progressivamente il proprio ambito di significato, cominciando a rappresentare, oltre che il gruppo ristretto della coppia genitoriale e dei figli, anche l´insieme delle persone che dipendono da una casa – famulus è il servo adibito ai rapporti domestici all´interno della sfera dell´oikos.
Questa integrazione di carattere comunitario, tipica dell´ordine premoderno, si spezza a partire dal XVII secolo, allorché il mondo delle passioni e degli affetti inizia sempre di più a specializzarsi rispetto all´ambito più vasto della ragione economica. Da allora la famiglia, intesa nel senso stretto che ancora adesso conferiamo all´espressione, tende a fuoriuscire dal discorso pubblico per collocarsi in uno spazio strettamente privato. Mentre ancora Hegel riprende, sia pure modificato, il modello aristotelico, individuando nella famiglia il primo elemento di una dialettica che porta alla società civile e poi allo Stato, la tradizione liberale, interessata ad una dimensione essenzialmente individualistica, la ascrive decisamente nell´ambito privato. Se il liberalismo dissolve la struttura familiare nella pluralità discreta degli individui, il marxismo la integra nella composizione di classe – fino a farne, con la scuola di Francoforte, la matrice di una possibile mentalità autoritaria.
Da allora, a partire dagli anni sessanta e settanta, l´istituto del matrimonio diventa l´obiettivo polemico dei movimenti di liberazione, a partire da quello femminista fino a quello omosessuale. In questo modo la famiglia, sia pure per una via molto diversa rispetto a quella classica, torna ad insediarsi all´interno dell´arena politica, finendo per precipitare al centro di aspri scontri ideologici. Prima la battaglia per il divorzio e poi quella per l´aborto segnano, in particolare nel nostro paese dove il radicamento della tradizione cattolica è particolarmente forte, i primi, cospicui, sintomi di una profonda trasformazione culturale, sociale, antropologica. Ma la piena politicizzazione della questione esplode in anni ancora più recenti, quando l´intera estensione del bios viene assunta prepotentemente dentro gli obiettivi e i linguaggi della politica.
Un drammatico annuncio di questo passaggio epocale è già ravvisabile nell´organizzazione degli Stati totalitari – in particolare di quello nazista e fascista – allorché non soltanto la questione della razza, ma anche, più in generale, dei corpi viventi, della loro riproduzione controllata e del loro uso economico-militare, entra a pieno nelle strategie politiche dei governi. L´attenzione ossessiva all´aumento del tasso di popolazione riporta la questione del matrimonio al centro delle preoccupazioni del potere. Mai come in quel caso ogni forma di congiunzione irregolare, o tra individui etnicamente eterogenei, viene scoraggiata, se non punita con la morte, perché non funzionale o contraria alla politica razziale.
Poco o nulla assimila la situazione delle nostre democrazie liberali alla folle eugenetica di quei regimi. Ciò non toglie, tuttavia, che la compenetrazione tra pubblico e privato si fa sempre più stringente. Nel momento in cui la vita biologica – la nascita, la morte, la malattia, la modificazione genetica – diventa il luogo su cui si misurano non solo prospettive culturali alternative, ma anche i rapporti di forza tra gli schieramenti politici, sarebbe impensabile che il matrimonio resti fuori dal conflitto. Sia la sua struttura monogamica, sia il suo assoluto primato rispetto ad altre forme, meno tradizionali, di convivenza, costituiscono il luogo arroventato di uno scontro frontale tra laici e cattolici o, più precisamente tra due diverse interpretazioni del laicismo e del cattolicesimo. Ciò che in tale scontro è in gioco è la sua medesima definizione. Cosa può essere il matrimonio in una società ampiamente secolarizzata, ma ancora bisognosa di saldi legami? Dove, in quale orizzonte di senso, esso può radicarsi in un mondo di individui sempre più soli, ma proprio per questo timorosi di ulteriore disgregazione? Come può rispondere alle sfide aggressive di altre culture politiche e religiose senza perdere i propri valori fondanti, ma senza smarrire i contatti con una società che cambia? Chiunque immagini di fornire risposte semplici, o piattamente rassicuranti, a simili domande è destinato a una cocente delusione nei confronti di una realtà che non si fa ingabbiare in blocchi di senso predefiniti.

Repubblica 16.2.07
La sinistra e la zona grigia
di MARIO PIRANI


Si afferma con tranquilla sicurezza: i nuovi brigatisti sono pochi, isolati, psicotici, «quattro sciaguratelli», come se la racconta Ingrao. Per Bertinotti, poi, si tratta, tutt´al più, di una variante delle «esplosioni di violenza che attraversano la società... chi stermina la famiglia, chi ammazza un poliziotto in uno stadio... un fenomeno circoscritto senza forza di propagazione politica». Una volta ancora, come trent´anni orsono, la prima reazione scaramantica di molti guru di sinistra consiste nel negare la gravità dei fatti e il loro senso. Eppure già i primi episodi di solidarietà con gli arrestati, i manifesti diffusi davanti alle sedi sindacali («Terrorista è chi ci affama e fa le guerre non chi lotta a fianco dei popoli»), il tam-tam via internet di alcuni centri sociali («È una provocazione politica della magistratura alla vigilia della manifestazione di Vicenza»), quel manifesto di un candidato sindaco di una lista «resistenza per il comunismo» a Garbagnate nell´hinterland milanese («Sono solidale al 100% con i compagni arrestati di cui chiedo l´immediata liberazione») ci dicono tutt´altro. Quella zona grigia, genericamente simpatizzante, anche se quasi mai esplicitamente complice, che avvolgeva come una nebulosa protettiva i nuclei armati degli anni di piombo, si sta ricreando, anzi ha già una sua consistenza. In essa sono germinate le prime cellule di un possibile terrorismo, anche quelle sgominate prima che passassero all´azione.
Per questo non può bastare, anzi rischia di trasformarsi in un alibi, l´invito generico alla non violenza che viene da autorevoli capi sindacali, l´impegno a non criminalizzare gli avversari, l´adesione ad una specie di galateo linguistico, bastevole a stemperare gli insulti contro lo Ichino di turno. Ed anche il solito e scontato sciopero contro il terrorismo. È vero che andare a fondo sconta scelte dolorose e difficili. Lo sapevano sia Luciano Lama, quando sfidò gli estremisti all´Università, sia Guido Rossa, che fu lasciato solo fino al giorno della morte e trovò assai poca solidarietà quando era vivo.
Certo, l´analisi non può ripercorrere vecchi tracciati diagnostici, anche se vi è una costante temporale significativa: la minaccia terroristica, sia su scala ridotta, come oggi, sia su scala ben più ampia, come negli anni Settanta, si fa sentire ogni qualvolta la sinistra si avvicina a responsabilità di governo o, addirittura, se ne assume il carico. La coincidenza si ferma qui perché le prime br si rifacevano nelle loro fumisterie ideologiche alla Resistenza «tradita» e alla azione armata quale ripresa della lotta conclusasi nel 1945, mentre i nuclei appena individuati cercano le loro radici nel sovversivismo latente, coltivato dalle aree cosiddette antagoniste della società italiana (centri sociali, comitati unitari di base, frange no global, black bloc, ecc.). L´ideologia genericamente espressa da queste aree si articola attorno a due tematiche, fortemente mitizzate fino ad assumere la valenza di icone negative contro cui scagliarsi: I) gli Usa, come «impero del male» da combattere senza se e senza ma, in nome di un antiamericanismo assoluto e totalizzante; II) il precariato come condizione generale del mondo del lavoro (ben al di là delle 700.000 persone che vi sono oggi coinvolte), alienazione che segna il destino comune, determinata dalla globalizzazione fonte di tutte le ingiustizie. Di qui l´aspirazione palingenetica ad un mondo «diverso», l´inaccettabilità di qualsivoglia riformismo, di ogni indispensabile distinzione di giudizio, sia sul piano internazionale che nazionale (Bush o Obama son tutti e due a stelle e strisce, e così qualsiasi riforma del lavoro, si chiami Treu, Biagi o Ichino, è una ignobile trappola padronale, meritevole magari di una pallottola, come accadde con Gino Giugni per lo Statuto dei lavoratori) .
Se non si capisce che il problema politico nasce dalla condiscendenza e dalla voluta contiguità con le aree che esprimono tutto ciò, le condanne contro la minaccia terroristica o le ipocrite dissociazioni da chi, marciando assieme, grida «10, 100, 1000 Nassiriya» o la solidarietà compunta verso il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, quando viene vilipeso non servono a nulla. Nel momento che si organizzano, come da tempo pratica la Fiom, manifestazioni e azioni di lotta comuni con i sostenitori di simili farneticazioni ideologiche, nel momento in cui, come sabato prossimo a Vicenza, la Cgil veneta si presenta con gli Scalzone e i «disubbidienti» di Casarini (mentre i dirigenti Cisl e Uil del Veneto sono sotto scorta) non ci si meravigli se giovani delegati sindacali finiscano per confondere le sigle e magari qualcuno si presti a subire il fascino di un´azione armata che si presenta come logica conseguenza di certi slogan. Questo non vuol dire – sia ben chiaro – che i gruppi cosiddetti antagonistici perseguano il terrorismo ma che sulla base della loro predicazione irrealistica e della contrapposizione schematica amico-nemico germoglia la suggestione che ha probabilmente convertito quegli otto militanti della Fiom, finiti in prigione, fortunatamente prima di poter colpire.
Cogliendo con acutezza la pericolosità della piattaforma del «partito comunista politico-militare», rivelata in seguito agli arresti, Loris Campetti sul «Manifesto» di ieri ha scritto: «È realistico pensare che chi operava nel sindacato e insieme progettava azioni terroristiche, ritenesse necessaria ma insufficiente la prima battaglia (quella sindacale, ndr) e dunque che si dovesse procedere anche lungo un altro sentiero. Ma non avevano detto che le due strade non si incontrano, anzi l´una cancella l´altra? Certo, ma forse non nella mente delirante di chi avrebbe fatto tale scelta».
Un interrogativo che dovrebbero porsi in primo luogo i dirigenti della Fiom ma anche quelli della Cgil, se non vogliono ridurre Lama e Rossa a due santini davanti ai quali genuflettersi una tantum. Una riflessione cui sollecitare anche Fausto Bertinotti, il quale ha avuto sì il grande e coraggioso merito di fare della non violenza la propria bandiera, scontrandosi con il 40% del suo partito, ma che altresì, nell´abbracciare con speranza ecumenica i movimenti alternativi, sia pure per guidarli verso approdi riformistici più avanzati, ha probabilmente allargato troppo le braccia. Col pericolo di aver aperto la porta di una pericolosa convivenza non solo al berciante Caruso ma anche a qualche più silenzioso militante «a doppia faccia».

l’Unità 16.2.07
Per due giorni a meditare con i monaci
Il presidente della Camera sul Monte Athos


Non potrà andare a Vicenza, come vorrebbe fare se non fosse presidente della Camera, ma almeno tra i monaci del Monte Athos sì. Fausto Bertinotti, fresco reduce da un lungo tour sudamericano, ha deciso di concedersi un’esperienza ascetica: un weekend di meditazione e riflessione, forse anche di preghiera, tra incensi, canti e litanie, con i monaci del Monte Athos, la comunità monastica nel Nord-est della Grecia che ha oltre mille anni di vita e che dipende amministrativamente dallo Stato greco, ma spiritualmente dal Patriarcato ecumenico ortodosso di Istanbul. Tra il 23 ed il 24 febbraio il presidente della Camera, con un seguito «molto ristretto», trascorrerà due giorni tra i monaci di questa repubblica teocratica greco-ortodossa esclusivamente maschile. Visiterà tre dei 20 antichi monasteri della zona: Meghisti Lavra, Vatopedi e Simonos Petra. E per due giorni parteciperà alla vita comunitaria dei monaci: comprese le preghiere, le meditazioni, i pasti frugali. E una notte la trascorrerà in una delle celle piccole e scomode che caratterizzano questi monasteri. L’Athos è meta di molte personalità politiche che regolarmente vi si recano in visita o in pellegrinaggio privato, come il principe Carlo d’Inghilterra, il presidente russo Vladimir Putin.
La scelta del luogo, per Bertinotti, non è casuale. Da quando si è insediato alla presidenza di Montecitorio è stato protagonista di un percorso di attenzione ai temi religiosi in chiave ecumenica. Proprio nelle prime settimane del suo mandato, l’ex segretario di Rc aveva proposto la creazione alla Camera di uno spazio interconfessionale per la preghiera e la meditazione religiosa, in aggiunta alla cappella di San Gregorio Nazianzieno, dove ogni mattina viene celebrata la Messa. A Vicolo Valdina, Bertinotti ha promosso un incontro interreligioso, a cui ha partecipato con il rabbino capo di Roma Di Segni, l’Arcivescovo Rino Fisichella, Gaetano Sottile delle Chiese riformate, ed Abdellah Redouane, segretario generale del Centro culturale islamico. Proprio in quell’occasione aveva proposto la creazione di uno spazio interconfessionale, auspicando l’approvazione di una legge sulla libertà religiosa.

l'Unità 16.2.07
Riviste. «Marxismo oggi»
Rileggere insieme Marx e Freud


A un secolo e mezzo dalla nascita di Siegmund Freud, Marxismo oggi, rivista quadrimestrale di cultura politica, dedica un ampio dossier (che verrà presentato domani, sabato, a Milano, dalle ore 9.30, presso l’associazione Punto rosso in via Guglielmo Pepe) al rapporto tra il padre della psicoanalisi e Marx, dossier introdotto da una presentazione di Mario Vegetti, che sottolinea più che la distanza (terreno di confronto negli ultimi decenni, indicando le differenze tanto fra ambiti epistemologi quanto fra pratiche sociali) i «punti comuni»: «la criticità propria sia dell’approccio marxista sia di quello psicoanalitico al mondo, la comune consapevolezza della complessità dei dispositivi sociali e di potere che governano la formazione e la conformazione del soggetto umano, il carattere di teorie e pratiche di emancipazione che avvicina marxismo e psicoanalisi...».
Il numero «freudiano» di Marxismo oggi contiene scritti di Adriano Voltolin (che lo ha «organizzato») a proposito della lettura di Marx da parte di Freud, di Sergio Marsicano (le due antropologie a confronto), Mario Cirlà (bisogni materiali e spirituali nella società della tecnica), Alessandro Studer (da Marx a Freud, alle letture «cinematografiche» della società, tra Bunuel e Matrix), Franco Romanò (la soggettività alienata) ed Enzo Morpurgo («un’ipotesi sessantottesca del Sessantotto»).

l'Unità 16.2.07
Il servizio d’ordine della Cgil e il caso Vicenza


Egregio direttore,
sull'Unità del 15 febbraio viene riferita, in un riquadro in terza pagina dal titolo «Il retroscena - La richiesta alla Cgil: serve il vostro servizio d'ordine», una notizia destituita di ogni fondamento. Non è vero, infatti, che il ministro dell'Interno Giuliano Amato abbia avuto nei giorni scorsi «diversi colloqui telefonici» con il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani che, dunque, in nessun modo gli ha fornito «ampie assicurazioni sulla presenza in strada del servizio d'ordine del sindacato di Corso d'Italia».
Cordiali saluti,
Carmen Carlucci

Portavoce del Segretario generale della Cgil

Prendo atto delle parole della portavoce del segretario generale della Cgil. Tuttavia lo stesso ministro dell’Interno Giuliano Amato, come riferito anche dall’agenzia Ansa, ieri ha spiegato che a Vicenza «non ci sarebbe un servizio d’ordine di 1.500 persone della Cgil se le mie preoccupazioni non fossero anche le loro».
ma.so.

Corriere della Sera 16.2.07
Rifondazione agli alleati «Ci volete nell'angolo»
«Un progetto politico per fermarci» Giordano teme per l'asse con Prodi
di Maria Teresa Meli


ROMA — E se... E se qualcuno nell'Unione puntasse a drammatizzare la situazione per rompere l'asse tra Romano Prodi e Rifondazione comunista? E se qualcuno nell'Unione puntasse a far saltare il governo mettendo nell'angolo il Prc? Le precisazioni «postume» di Francesco Rutelli e Giuliano Amato non fugano i dubbi dei leader della sinistra radicale.
Per questa ragione i dirigenti di Rifondazione stanno cercando in tutti i modi di evitare che Vicenza si trasformi nella loro Caporetto. Le telefonate tra i vertici del partito e i vertici della polizia, la decisione di non fare il servizio d'ordine alla manifestazione, l'apprensione per il non trascurabile dettaglio che il corteo sfilerà davanti alla Questura di Vicenza, sono tutti elementi che la dicono lunga sull'attenzione con cui il Prc sta preparando questo appuntamento. Ma c'è l'imponderabile. Tanto per dirne una: sarà il sindacato a occuparsi di togliere gli striscioni che inneggiano alla violenza, perché se questo compito venisse affidato alla polizia la possibilità di arrivare agli scontri aumenterebbe. Però anche una rissa tra Fiom e centri sociali costituirebbe un problema di non poco conto.
Perciò si incrociano le dita, si cerca di non acuire le tensioni che già ci sono e di non esasperare i toni nei confronti di chi — Amato e Rutelli, per esempio — sembra voler dar già la croce addosso a Rifondazione.
La situazione è assai delicata. Franco Giordano con i suoi è stato chiarissimo: «Dobbiamo contrastare — ha spiegato ai compagni di partito — il tentativo di costruire dei progetti politici che tendono ad alimentare gli allarmismi. È chiaro che una parte della coalizione, i poteri forti e la stampa hanno tutto l'interesse per amplificare eventuali incidenti. Così, infatti, proverebbero a metterci nell'angolo. Ma io penso che quella di Vicenza sarà una grande manifestazione pacifica che smentirà chi lancia l'allarme». Giordano si dice convinto che in quel di Vicenza non accadrà niente. Ma l'apprensione dentro il Prc è forte. I vertici di Rifondazione comunista sono convinti che la manifestazione possa venir utilizzata in una partita politica, tutta interna al centrosinistra, che nulla ha a che fare con le basi americane e con l'Afghanistan.
«Io penso — spiegava ieri il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena — che alcuni settori dell'Ulivo siano in grande difficoltà. Hanno paura perché ritengono che noi possiamo incidere sulle scelte politiche di questo governo e temono che questo tagli il ramo su cui sono seduti». Ossia? «Per essere più espliciti — osservava ancora il presidente del gruppo di Rifondazione a Palazzo Madama — quest'isterismo dei vari Rutelli è dovuto al fatto che temono di non poter fare la politica che sta bene ai loro referenti economico-sociali. Sono deboli e per questo digrignano i denti, sperando di poter cambiare i rapporti di forza all'interno della maggioranza, e Vicenza per loro sarebbe l'ideale per mettere in atto questo progetto. Ma non si rendono conto che proprio noi cerchiamo di colmare il distacco che separa una parte dell'elettorato di centrosinistra da questo governo».
Non se ne rendono conto? Oppure — e questa è la versione più dietrologica e sussurrata a mezza bocca dentro il Prc — mirano proprio a questo? Cioè a minare le basi del governo? Ieri in Transatlantico c'era chi, come il deputato di Rifondazione comunista Antonello Falomi, faceva il nome di Giuliano Amato come il candidato più accreditato alla successione a Prodi, nel caso in cui l'esecutivo salti. Certo, la dietrologia abbonda nella sinistra e dintorni. Ma ieri mattina nessuno riusciva a dare una risposta non dietrologica all'interrogativo che il sottosegretario all'Economia, Paolo Cento, andava ponendo a qualche collega: «Per quale ragione — osservava l'esponente verde — in una situazione così delicata, dove sui muri appaiono scritte e manifesti di solidarietà ai brigatisti arrestati, invece di cercare di comprendere qual è il modo migliore per far fronte a quel che sta avvenendo, invece di evitare che arrivi il peggio, si va invece allegramente allo scontro?».

Corriere della Sera 16.2.07
GIORGIO CREMASCHI
«Non una, cento Vicenza. E il Prc fuori dal governo non sia tabù»
di Aldo Cazzullo


ROMA — «Se il ministro dell'Interno lancia un allarme alla vigilia di un corteo che secondo me sarà pacifico, un po' mi fa arrabbiare, ma un po' sta facendo il suo mestiere. Però il vicepremier che annuncia una dura repressione mi indigna profondamente. Come mi irrita il presidente del Consiglio, che invita il sindacato a "vigilare di più". Cosa intende Prodi? Si esprima con chiarezza. Non dica le cose a metà. Le dica per intero, o taccia».
Giorgio Cremaschi, segretario dei metalmeccanici della Fiom e leader della corrente di sinistra della Cgil, denuncia «un attacco strumentale al sindacato». E lo vede arrivare «più dal centrosinistra che dalla destra. Considero le parole di Amato pericolose e preoccupanti; ma peggiori sono quelle di Prodi e di Rutelli. Non riguardano il merito della questione; rappresentano una strumentalizzazione politica. Vi sento un'eco della costruzione del partito democratico, come a dire: noi siamo altro, alzeremo una barriera tra i riformisti e la marmaglia, la violenza eversiva sarà il crinale che separerà il grano dal loglio, i buoni dai cattivi. Questo è uno schema falso e inaccettabile. Sarebbe grave escludere i centri sociali, negarne la costituzionalizzazione; perché i centri sociali accolgono emarginati, giovani, migranti. Parlano un linguaggio a volta inaccettabile, peraltro non peggiore di quello dei talk-show politici, ma non hanno nulla a che vedere con il terrorismo. Dovremmo badare a non ricacciarli in un'area eversiva. Invece si sta creando un clima da caccia alle streghe. Una sorta di catena di sant'Antonio in cui uno accusa un altro di essere cattivo, in un progressivo sillogismo che non ostacola ma fa il gioco dei terroristi».
L'analisi di Cremaschi va oltre il tema di questi giorni: il ritorno delle Brigate rosse, il loro proselitismo nel mondo antagonista e nel sindacato, l'allarme alla vigilia della manifestazione di Vicenza. «Il paragone con gli Anni Settanta è del tutto privo di fondamento. Io sono sempre stato comunista, quindi allora ero di "destra", e me le ricordo le assemblee degli studenti a Bologna e poi quelle degli operai a Brescia. La violenza era considerata inevitabile e giusta, i brigatisti potevano contare su vaste simpatie. Ora è diverso. I movimenti che partecipano del fenomeno mondiale definito no global rifiutano esplicitamente il terrorismo». A ricordargli che alcuni dei nuovi brigatisti avevano la tessera della Cgil, Cremaschi dice che il sindacato «reagirà con una campagna che stronchi sul nascere qualsiasi tentazione: il terrorismo è il cancro del sindacato, e fu decisivo nella sconfitta operaia alla fine degli Anni 70. Bene ha fatto la Cgil a espellere Sisi non appena si è dichiarato prigioniero politico. Però altri tra gli arrestati hanno reagito in modo diverso, negando le accuse. Soprattutto, la tentazione del terrorismo non arriva in fabbrica dai movimenti; nasce dall'isolamento degli operai. Ci ripetono di continuo: non contiamo nulla. La loro sfiducia nella politica è tale che ci chiedono di andare in tv ad alzare la voce, di fare gesti clamorosi. È la logica di chi sale sulla gru e minaccia di gettarsi. Altro che criminalizzare i movimenti; il centrosinistra dovrebbe ascoltarli di più, dopo averli così clamorosamente delusi. Contro Berlusconi si erano mossi i girotondini, i pacifisti, i lavoratori. L'Unione li ha ingannati tutti: le leggi di Berlusconi sono sempre lì, le truppe sono ancora in Afghanistan, e si è tentato di rabbonire i lavoratori con frasi tipo "vedrete la busta paga di gennaio!". Purtroppo l'hanno vista».
La critica di Cremaschi non è rivolta solo ai riformisti, ma anche a Bertinotti, con cui è critico da tempo. «Lo dico da semplice iscritto: Rifondazione non ha alcun ruolo di cerniera tra governo e movimenti. Non contribuisce a colmare il vuoto tra rappresentanti e rappresentati. Lo si vede nelle fabbriche, nei cortei, tra gli operai con cui parlo: non credo vengano tutti da me solo perché ho fama di cattivo. Forse siamo troppo piccoli, e in fondo neppure Berlinguer nel '77 riuscì a evitare la frattura tra sinistra e movimenti. Oggi i partiti nella società non esistono più, il sindacato è solo ed è debole, anche se talora ostenta una forza che non ha. Giordano e Diliberto verranno a Vicenza? Non credo che ai manifestanti importi molto. A loro importerebbe che il governo cambiasse una decisione sbagliata. Bertinotti non verrà? Non voglio fare polemiche personali. Ma è tempo che l'uscita di Rifondazione dal governo non sia considerata un tabù. L'unica soluzione è che crescano le proteste dal basso, che le forme di autorganizzazione si moltiplichino: non una ma cento Vicenza. Prima o poi, però, la partecipazione politica e la mediazione andranno ricostruite. Più che a Vicenza, Bertinotti e tutti gli altri politici farebbero bene a prendere anche solo una volta al mese la linea B della metropolitana di Roma, e ascoltare quel che dice la gente».
C'è anche un problema di linguaggio. Berlusconi lamenta un odio pluridecennale da parte della sinistra, Mastella è solidale con lui, Diliberto decisamente no. Cremaschi critica il segretario dei Comunisti italiani. «Io non direi mai di qualsiasi interlocutore che mi fa schifo. Il rispetto in politica è fondamentale. A Diliberto vorrei ricordare l'elegia funebre di Engels in morte di Marx: "Karl aveva moltissimi avversari, ma nessun nemico". Sono agli antipodi di Ichino, ma non lo chiamerei mai traditore; tanto più che non si vede cosa potrebbe aver tradito, visto che l'ha sempre pensata allo stesso modo. Ma anche qui il centrosinistra reagisce in modo strumentale, quando Fassino costruisce un collegamento tra il linguaggio e la violenza. Non è così, tanto più nelle condizioni di oggi». Epifani? «Vedo che finalmente, dopo la timida reazione iniziale si è arrabbiato un po'. Speriamo». Cofferati chiede di fermare le lotte violente. «E io non ho capito a cosa si riferisse. Anche lui, come Prodi, farebbe bene a dire le cose per intero, o a stare zitto».
Sanguineti invece crede ancora alla lotta e pure all'odio di classe. «Sanguineti ha detto male una cosa giusta: la lotta di classe non è finita; ma la combattono solo i padroni, che infatti vincono. I lavoratori sono ormai assuefatti all'ingiustizia: Valletta guadagnava 30 volte più di un operaio; oggi i manager, anche se l'azienda va male, guadagnano 400 volte più dei loro salariati». Lei sarà a Vicenza: come finirà? «La mia sensazione è che non accadrà nulla. Se qualcuno tenterà provocazioni, faremo in modo di allontanarlo». Ci sarà il servizio d'ordine del sindacato? «Sì, ma non facciamone un mito. Non ho nostalgia né del terrorismo degli Anni 70, né dei servizi d'ordine militarizzati».
Giorgio Cremaschi è segretario nazionale della Fiom-Cgil

Corriere della Sera 16.2.07
La fede, le leggi e i peccatori
di Emanuele Severino


Esistono forze — si crede — capaci di trasformare il mondo. Ognuna tende a rafforzare se stessa e indebolire le altre. Il cristianesimo è una di esse; e la Chiesa cattolica è la forma attuale più imponente del cristianesimo. La lotta della Chiesa contro aborto, divorzio, fecondazione artificiale e, ora, contro le misure del governo sui Dico si sviluppa appunto all'interno di quello scontro di forze.
La Chiesa sta dicendo che quelle misure indeboliscono la «famiglia naturale» voluta da Dio. Si tratta allora di rafforzare la «famiglia naturale» e quindi di indebolire ogni convivenza «innaturale».
La Chiesa distingue l'individuo umano dal modo in cui egli pensa. Ma per la Chiesa i diversi contenuti della fede cristiana — uno dei quali è appunto la «famiglia naturale» — sono rafforzati da un'abbondante presenza di cristiani, così come il fuoco è rafforzato da un'abbondante presenza di legna. Si tratta quindi di rendere più abbondante la presenza dei cristiani e sempre più esigua quella dei non cristiani. Un compito arduo (al quale tuttavia essa non può rinunciare) in un tempo in cui, la Chiesa sa bene, i cristiani sono sempre di meno.
Poiché la Chiesa distingue l'individuo dal modo in cui egli pensa, la volontà di ridurre i non cristiani non si esprime più come volontà di annientarli come individui, ma come volontà di annientare i loro errori. Si odia e si combatte il peccato, non il peccatore.
Va detto però che come l'esistenza del cristiano rafforza, per la Chiesa, la fede cristiana, così l'esistenza del peccatore — cioè di quell'individuo che è il peccatore — rafforza il peccato. Non riconoscerlo è incoerenza o malafede. Pertanto, per rafforzare la fede e i cristiani, si dovranno sì annientare i peccati, ma si dovranno anche indebolire i peccatori, la cui esistenza rafforza l'esistenza del peccato come coloro che mettono acqua sulla legna spengono il fuoco e fanno fumo. Difficile, però, stabilire il limite oltre il quale, indebolendo il peccato, si manda all'altro mondo anche il peccatore.
I rapporti tra Chiesa e democrazie moderne sono difficili, perché altra strada, per indebolire il peccatore di cui la Chiesa intende per altro rispettare la vita, la Chiesa non ha se non quella di rendergli la vita difficile: impedendogli di diffondere il proprio modo di pensare e realizzare istituzioni in cui esso si rifletta (si pensi alla scuola pubblica in quanto «laica», e agli interventi medici condannati dalla dottrina cattolica); e impedendogli di avere peso politico e di disporre di finanziamenti che rendano possibile tutto questo. Se la Chiesa non lo facesse sarebbe incoerente. Si tratta, appunto, di indebolire il più possibile il peccato e il peccatore. Che a loro volta non intendono farsi togliere di mezzo e reagiscono.
La democrazia moderna è anch'essa contenuto di una fede, che però rende possibili, senza renderle obbligatorie, leggi che in determinati ambiti, rispettando la Costituzione, consentono a ciascuno di vivere come vuole. La Chiesa, invece, sollecita leggi che, in quegli ambiti, impongano a tutti di vivere secondo i dettami della fede cristiana. È una fola che la Chiesa non debba ingerirsi nella vita dello Stato, ed è democratico l'atteggiamento di parlamentari che votano in un certo modo perché vogliono obbedire alla Chiesa, e che se hanno la maggioranza fanno diventare legge dello Stato le loro convinzioni. Rimane però la differenza, la maggiore democraticità della fede democratica, rispetto alla fede cristiana. (Lo si dice spesso, ma è un discorso che ha forza solo dopo che si sia riconosciuta la legittimità di leggi volute da una maggioranza cattolica). La democrazia non chiude infatti la porta a leggi che, non contrarie alla Costituzione, in certi campi lascino ognuno libero di vivere come vuole: non chiude loro la porta, senza tuttavia imporle, perché non la chiude nemmeno a leggi che, come quelle cattoliche, impongono invece anche ai non credenti, in quei campi, di vivere come essa crede sia giusto vivere