NEUROSCIENZE
Dalla retina al cervello la realtà è immediata
In un lavoro pubblicato su «Nature Neuroscience» un'équipe di ricercatori della Facoltà di Psicologia dell'Università San Raffaele di Milano, guidata da Concetta Morrone, in collaborazione con colleghi di St. Louis Missouri, della Fondazione Stella Maris di Pisa e del Cnr di Firenze guidati da David Burr, e con colleghi australiani, dimostra che il nostro sistema visivo costruisce molto presto una mappa oggettiva del mondo circostante e non, come si sarebbe supposto, una mappa basata sulle proiezioni soggettive sulla nostra retina.
L'espressione «molto presto», in questo caso, ha una misura precisa: appena due o tre connessioni neuronali a valle della retina. La dottoressa Sofia Crespi del San Raffaele spiega il succo di questa scoperta. «E' noto — dice — che ogni immagine retinica viene vista in parallelo da più di 50 "schermi cerebrali" che la scindono nelle diverse componenti e ne studiano, separatamente, i differenti aspetti quali la forma, il colore, la profondità e il movimento. Nel cervello dell'uomo, ma anche della scimmia, sono dunque presenti innumerevoli mappe dette in gergo "retinotopiche", nelle quali cellule nervose spazialmente vicine ricevono informazioni da altre cellule nervose che sono anch'esse contigue nella retina: mappe topografiche che indicano dunque una specializzazione funzionale di quel pezzetto di corteccia cerebrale».
L'area cerebrale dove viene codificata l'informazione sul movimento degli stimoli visivi è la corteccia medio-temporale, abbreviata in MT. Quest'area dista solo poche stazioni di connessione nervosa dall'area corticale che per prima riceve l'informazione visiva ed effettua un'analisi preliminare, ma altamente specializzata, delle caratteristiche del movimento.
Concetta Morrone e David Burr spiegano perché i loro risultati sono sorprendenti: «E' sorprendente scoprire come il cervello, già dopo due o tre sinapsi dalla retina, riesca a liberarsi dell'architettura che connette ogni neurone a gruppi di fotorecettori specifici e costruisca una rappresentazione, una "telecamera", che non è più solidale con gli occhi ma col mondo esterno. Fino ad oggi si è pensato che quest'area fosse organizzata secondo una mappa retinotopica. Ora abbiamo invece dimostrato che questa regione, nella specie umana, organizza la sua attività in una mappa che riproduce le posizioni spaziali del mondo esterno anche secondo un codice di tipo spaziotopico».
Il metodo da loro adottato è la risonanza magnetica funzionale. Il soggetto sperimentale, sdraiato nello scanner della risonanza, osservava su uno schermo degli stimoli di movimento piccoli ma sufficienti a generare una risposta forte da parte dell'area MT. Precedenti esperimenti avevano dimostrato che tale regione è sensibile alla posizione spaziale di questi stimoli di movimento, ma solo quando lo stimolo viene proiettato in particolari regioni del campo visivo. Si è così potuto mostrare che la risposta dell'area MT rimaneva coerente con la posizione dello stimolo di movimento sullo schermo (si noti bene, sullo schermo, cioè nel mondo esterno) e non sulla retina. I deficit nella percezione del movimento, nella costruzione di una rappresentazione spaziale del mondo e nell'orientamento nello spazio che mostrano i pazienti con la malattia di Alzheimer, potrebbero essere, quindi, ricondotti ad una disfunzione dell'area MT.
A meno di quattro passi (neuronali) dalla pura soggettività già siamo immersi nello spazio oggettivo. Diffidiamo, quindi, di coloro che invitano a rannicchiarsi nelle nostre sensazioni immediate per trovare il vero. Le neuroscienze cognitive mostrano, una volta di più, che per noi è subito realtà. E' il reale che è immediato, mentre il soggettivo è una costruzione sempre piuttosto malcerta.
il Riformista 20.2.07
Nevrosi. Una sconfitta per il repressivo Nicolas
Gli psichiatri francesi la spuntano su Sarko La polizia non può schedare i malati di mente
di Livia Profeti
Con una netta rivendicazione della propria identità professionale gli psichiatri francesi hanno conseguito un’importante vittoria sul governo. Dopo un braccio di ferro durato mesi e grazie a uno sciopero che ha raggiunto la quota di partecipazione del 75%, il 13 febbraio scorso il ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy, candidato della destra alle future presidenziali, si è visto costretto a ritirare la sezione sulla malattia mentale contenuta nel progetto di legge sulla sicurezza, in discussione in Parlamento.
La nuova normativa presentata, di impronta genericamente repressiva, inseriva nel vasto calderone delle più varie misure contro la delinquenza anche alcune norme sui ricoveri psichiatrici obbligatori, rafforzando i poteri del sindaco rispetto a quello dei medici e creando uno schedario nazionale delle persone ospedalizzate.
Gli psichiatri, appoggiati dagli altri professionisti del settore, dalle organizzazioni dei familiari e dall’opposizione di sinistra, si sono ribellati al provvedimento ritenendo che la sola presenza di aspetti psichiatrici in un testo sulla delinquenza creasse il presupposto per un ritorno indietro in quel percorso di stampo illuminista che, da più di 200 anni, cerca di separare malattia mentale e criminalità.
Lo scontro si inserisce nell’ambito di un dibattito, in piedi dal 2001, sulla revisione dell’attuale legge francese sulla malattia mentale, varata nel 1990 con un’impostazione antipsichiatrica. Una legge che, nata con l’intenzione di chiudere i manicomi lager e togliere alla malattia mentale lo stigma sociale, come la nostra legge 180 si è però scontrata con le tante difficoltà che la malattia mentale comporta, a partire dal rifiuto della cura che è tipico proprio dei suoi casi più gravi. Anche gli psichiatri francesi sono quindi convinti della necessità di una sua revisione, ma pretendono che ciò avvenga in un quadro sanitario e non in quello di una legge sulla sicurezza.
La questione è cruciale perché la malattia mentale è in crescita nei paesi occidentali e, come testimoniato dagli studi della Ue e dell’Oms, sta diventando uno dei principali problemi della sanità pubblica. Le due metodologie più diffuse per il trattamento dei disturbi psichici, l’antipsichiatria e l’organicismo, non hanno evidentemente impostato la ricerca nella giusta direzione perché altrimenti, come per qualsiasi altra patologia per la quale sia stata individuata la cura, i numeri sarebbero diminuiti e non aumentati. Questa considerazione epidemiologicamente ovvia, vale però solo per coloro che ritengono che la malattia mentale sia una questione medica, uno statuto per esempio rifiutato dall’antipsichiatria, per la quale essa non è una patologia da curare ma una «diversità» della quale «prendersi cura».
In Italia, il dibattito sul trattamento pubblico della malattia mentale è piuttosto fermo, paralizzato tra le proposte di destra in stile sarkozyano e l’eccessivo arroccamento della sinistra dietro i modelli noti, dei quali non si vuole discutere l’impostazione teorica. In questo quadro pare muoversi il cocktail di farmaci e filosofia proposto, con il nome di «psichiatria a misura d’uomo», da Umberto Galimberti su Repubblica del 12 febbraio. Strenuo sostenitore della consulenza filosofica, per la cui diffusione dirige la collana «Pratiche filosofiche» dell’editrice Apogeo del gruppo Feltrinelli, per Galimberti il «prendersi cura» assume il significato specifico di terapia filosofica esistenzialista. Con il suo La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica del 2005 egli aveva già posto la Daseins-analyse come unico piano teorico possibile in questo ambito, con gli ovvi riferimenti ad Heidegger, Binswanger e soprattutto Jaspers, figura paradigmatica di medico che si è fatto filosofo. Ora propone alla psichiatria organicista e ai suoi «utilissimi» farmaci di umanizzarsi, imparando dalla psichiatria fenomenologica le «diverse modalità della sofferenza esistenziale», comunque ineliminabile.
Dunque psicofarmaci e filosofia. La proposta di Galimberti sembra curiosamente ignorare sia l’allarme sociale sul crescente abuso di psicofarmaci ormai somministrati a partire dalla più tenera età, sia il fatto che la psichiatria fenomenologica è già da trent’anni, con la legge Basaglia, la base teorica della psichiatria italiana. Se questa è la risposta della filosofia italiana alla tragedia della malattia mentale in aumento, allora, «ormai solo un medico ci può salvare!». E non un dio, come diceva Heidegger.
il Riformista 20.2.07
EDITORIALE
A sei mesi dal varo
L’indulto ha fatto centro. Sconfitti i catastrofisti
Con tono dialogante e costruttivo, per niente polemico, consigliamo a tutti gli avversari dell’indulto, compresi i malpancisti dell’Unione, la lettura del rapporto, curato da Claudio Sarzotti dell’università di Torino, che ieri il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi ha presentato in una conferenza stampa. Si tratta del primo bilancio effettuato a sei mesi dal varo di quel provvedimento. E i risultati, a fronte della campagna catastrofistica scatenatasi dopo l’indulto, sono sorprendentemente positivi. Un dato più di tutti: su circa 25 mila detenuti scarcerati solamente l’11 per cento è rientrato in carcere. Insomma, un tasso di recidiva, come lo chiamano gli esperti, bassissimo. Praticamente niente se confrontato con il tasso di coloro che escono invece dopo aver scontato interamente la pena, cioè il 68 per cento. Non solo: i dati forniti da Manconi sfatano anche un altro mito perché il tasso di recidiva degli italiani “indultati” è superiore a quello degli immigrati. Non a caso, il sottosegretario ha citato l’infamante campagna preventiva contro il presunto mostro di Erba, il marito tunisino di Raffaella Castagna.
Proseguendo: il secondo reato più diffuso tra quelli che sono rientrati in carcere riguarda violazioni alla legge sulla droga, la Giovanardi-Fini. Ed è per questo che Manconi ha annunciato che l’abrogazione di questa legge, insieme con la Bossi-Fini sull’immigrazioni e la ex-Cirielli, libererà persone che «dovrebbero essere altrove, non in carcere». Calcolando poi che grazie all’indulto oggi la popolazione carceraria è sotto le 40mila unità, rispetto a una capienza regolamentare di 42mila. Insomma, nelle carceri finalmente si respira e tutto questo contribuisce a fare dell’Italia un paese civile.
L’Unità 20.2.07
Indulto, nessuna «invasione» criminale: e a tornare a delinquere di più sono gli italiani
Dei 25.694 ex detenuti usciti dal carcere grazie all’indulto varato il 31 luglio scorso, sono soltanto 2.855 (l’11,11%) quelli che sono tornati in cella dopo essere stati arrestati per un altro reato. Un tasso di recidiva infinitamente più basso rispetto a quello «fisiologico», calcolato dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in un preoccupante 68%. È questo il dato più importante della ricerca presentata ieri dal ministero della Giustizia a sei mesi dall’approvazione dell’indulto. Un dato che assieme a quello dei reati commessi nel secondo semestre del 2006 (1.310.888 contro 1.308.113 dello stesso periodo del 2005) smentisce le tante voci che avevano denunciato «l’allarme sociale» causato dall’atto di clemenza approvato dal Parlamento. I dati presentati ieri e elaborati dall’università di Torino, inoltre, sfatano il luogo comune secondo il quale sarebbero i detenuti stranieri i criminali più incalliti: a tornare a delinquere sono stati infatti più gli italiani (12,28% di quelli usciti grazie all’indulto) che non gli extracomunitari (10,59%), dei queli 1 su 5 è rientrato in carcere unicamente per la violazione della legge «Bossi-Fini». «Un bilancio estremamente confortante», ha spiegato il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, «dati positivi soprattutto se paragonati a quelli dell’indulto del 1990: allora furono scarcerate 10 mila persone ma, dopo solo un anno, la popolazione penitenziaria era aumentata di altrettante unità». Oggi, invece, sei mesi dopo il varo, nei penitenziari italiani ci sono 39.827 detenuti, vale a dire 980 in più rispetto allo scorso agosto quando le carceri italiane rischiavano di esplodere, con oltre 60 mila detenuti a fronte di una capienza di 42 mila posti. «Ma l’indulto da solo non può portare a una riforma del sistema penitenziario - spiegato Manconi - Servono infatti tre riforme: l’abrogazione della “Bossi-Fini” sull’immigrazione su cui stiamo lavorando, l’abrogazione della legge “Fini-Giovardi” sulle droghe e l’abrogazione della “ex Cirielli” sulla recidiva».
Oltre ai 25.694 ex detenuti usciti dal carcere (di cui 2.855 rientrati), l’indulto ha riguardato anche 17.290 persone che scontavano la pena in misura alternativa alla detenzione. Di questi, la ricerca condotta dall’Università di Torino ha preso in esame un campione di 5.869 adulti: 352 (pari al 6%) sono tornati in carcere. Il numero dei rientri in carcere è pressoché stabili e, ad eccezione dei primi tre mesi, si aggira sui 500 al mese. A beneficiare del provvedimento di clemenza sono state nella grande maggioranza (80,22%) persone tra i 25 e i 44 anni. Fra le regioni in cui più alta è stata la recidiva delle persone “indultate” la Campania (15,38%), la Liguria (14,72%), la Toscana (14,26%), e l’Emilia Romagna (13,23%). Fra le percentuali più bassa, quelle del Molise (2,55%) e Basilicata (4,64%). ma.so.
L’Unità 20.2.07
Indulto, solo l'11% torna in cella
di Paola Zanca
«Elementi di razionalità per un buon uso dell'indulto». Li chiamano così i dati della prima indagine a sei mesi dal decreto che ha "svuotato" le carceri e scatenato il malcontento di buona parte dell'opinione pubblica. La ricerca presentata lunedì al ministero di Grazia e Giustizia e condotta dall'Università di Torino in collaborazione con il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, tira il primo bilancio a sei mesi dal provvedimento voluto dal governo Prodi lo scorso luglio, e racconta che non è andata poi così male.
Quello che emerge, è un quadro molto meno allarmante di quella che era ormai opinione diffusa: gli indultati sono tornati a delinquere. In realtà, l'indagine sulla popolazione carceraria tornata in libertà dimostra che la percentuale dei detenuti che è già rientrata in carcere si aggira intorno all'11%. Per dirla in numeri, sugli oltre 25 mila detenuti che hanno beneficiato del decreto voluto dal ministro Mastella - a cui vanno sommati altri 17 mila che grazie all'indulto non hanno dovuto scontare misure alternative al carcere - meno di 3 mila hanno di nuovo varcato i cancelli delle carceri italiane. Un tasso di recidiva nettamente inferiore a quello registrato mediamente da chi compie reati, e che si attesta su percentuali che superano il 60% dei casi.
Un risultato che soddisfa il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, soprattutto se paragonato a quanto era avvenuto a seguito del precedente indulto, nel 1990. Diciassette anni fa, a soli dodici mesi dall'approvazione del provvedimento, le carceri italiane erano tornate ad essere sovraffollate come un tempo, rendendo vano il decreto che doveva migliorare le condizioni di vita dei reclusi: «Oggi - sottolinea Manconi - possiamo ritenerci soddisfatti perché è migliorata la vivibilità delle nostre carceri: non solo a favore dei detenuti, ma anche di tutti gli agenti di polizia penitenziaria che in carcere lavorano».
Ma il passo successivo, sono le riforme. «Ora - aggiunge Manconi - si può pensare ad una riforma del sistema penitenziario, che senza l'indulto non sarebbe stata possibile». Certo, non basterà la riforma delle norme sulla carcerazione se prima non verranno modificate alcune leggi che hanno affollato le prigioni italiane: dall'ex Cirielli sulla recidiva, alla legge sulle droghe voluta da Fini e Giovanardi, fino alla legge sull'immigrazione, visto che la stragrande maggioranza degli stranieri recidivi risulta colpevole solo di aver violato le norme in materia di permesso di soggiorno stabilite dalla Bossi-Fini.
«Le statistiche servono per assumere decisioni politiche», esordisce uno degli studiosi che ha condotto la ricerca, il prof. Claudio Sarzotti, nel disegnare il quadro della popolazione carceraria italiana: un quadro che vede delinquere soprattutto gli uomini di età compresa tra i 25 e i 44 anni. Niente di stupefacente, se non il fatto che i più recidivi risultano essere i ragazzi dai 18 ai 20 anni. Senza alternative, insomma, si ritorna in carcere. Sconfitto con i numeri il luogo comune del "disastro indulto", ora, la vera battaglia è quella contro «gli effetti criminogeni del circuito carcerario», come li chiama Ettore Ferrara, capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria: «Siamo in presenza di un'occasione straordinaria che non dobbiamo lasciarci sfuggire - spiega Ferrara - Ora abbiamo delle carceri vivibili, dove si può lavorare per superare l'idea dei luoghi di detenzione come scuole di specializzazione per il crimine». Il manuale «Per un buon uso dell'indulto» ha messo qualche punto fermo in mezzo alle grida d'allarme, ora c'è molta carta bianca per scrivere nuove regole. Si comincia dalle donne: dopo lo scandalo della rom tenuta nella gabbia degli imputati insieme alle due figlie, Manconi ha annunciato un Consiglio dei ministri che avrà all'ordine del giorno la situazione delle madri detenute.
Repubblica 20.2.07
Il presidente della Camera: "Sono preoccupato, è indispensabile non abbassare la guardia"
"Nella lotta al terrorismo la strada è la non violenza"
Bertinotti: la sinistra non ha fatto abbastanza
intervista di Luigi Contu
Violenza. Il nostro messaggio deve essere chiaro: chi si sceglie la violenza politica si mette fuorigioco, quale che sia la sua causa
Vicenza. Ero sicuro che la manifestazione sarebbe andata bene. I giovani e le famiglie che erano lì sabato dovrebbero essere più ascoltati
Brigate rosse. Negli anni Settanta abbiamo fatto tanto, ma non siamo andati fino in fondo per estirpare il virus dal nostro corpo
Album di famiglia. Ricordo l'articolo della Rossanda sull'album di famiglia della sinistra. Rimasi perplesso, poi capii che aveva ragione. Sono parole ancora valide
Valore della vita. Nella nostra società c'è una svalutazione desolante del valore della vita: penso ai morti sul lavoro, all'ispettore Raciti, a chi perde la vita in autostrada
Marxismo e Islam. Ci vuole un'ideologia forte per prendere le armi. L'ultima è stata il marxismo. Anche la religione ispira attentati. Ma guai a dire: Islam uguale terrorismo
Presidente Bertinotti, lei che negli anni 70 è stato tra coloro i quali hanno combattuto il terrorismo e poi è diventato leader di un partito neo comunista, che cosa ha provato quando ha appreso che in Italia ci sono ancora terroristi pronti a fare la rivoluzione?
«Ho avuto un brivido. Ho pensato che negli anni ´70 abbiamo fatto tanto, tantissimo per sconfiggere le Brigate Rosse storiche. Ma non abbastanza. Purtroppo, non siamo andati fino in fondo, non siamo riusciti ad estirpare del tutto il virus del terrorismo dal nostro corpo».
È concepibile che in un paese civile e progredito sia considerato lecito uccidere per un obiettivo politico?
«Purtroppo nella società c´è una svalutazione desolante e terrificante del valore della vita. Penso ai quattro morti al giorno nei luoghi di lavoro, a chi perde la vita in autostrada, ai caduti delle forze dell´ordine come l´ispettore Raciti, alla strage di Erba. Forme diverse che hanno in comune uno smarrimento generale derivato da una profonda crisi del mondo in cui viviamo».
Dare la colpa ai mali della società è stato in passato un alibi per chi definiva i brigatisti "compagni che sbagliano". Secondo lei i nuovi terroristi sono soltanto un fenomeno residuale, marginale?
«Credo che oggi le condizioni politiche e sociali del nostro paese siano profondamente diverse. Penso che quella stagione di lotta armata sia irripetibile. Ma ciò non significa affatto che la scoperta di questo nuovo nucleo di brigatisti possa essere sottovalutato. Sono molto preoccupato. È indispensabile non abbassare la guardia».
Rossana Rossanda fu la prima intellettuale di sinistra ad affermare che i terroristi avevano le loro radici politiche e culturali nel vostro campo. La lezione di quegli anni è ancora valida?
«Ricordo quei giorni, e quell´articolo. Appena lo lessi rimasi perplesso. Poi compresi che Rossana aveva ragione. Quelle sue parole restano valide oggi. Dobbiamo ricordare che ogni idea forte è esposta al rischio del fondamentalismo. Questo è un terreno su cui può innestarsi una nuova stagione della lotta armata. È innegabile che in Italia il tema del terrorismo resta nella metà del nostro campo. Perciò giudico sbagliato il tentativo di tirare in ballo la destra ed i suoi estremismi. Il nazifascismo, come ha detto il grande Papa Giovanni Paolo II, è stato il male assoluto. E noi dobbiamo fare i conti fino in fondo con la nostra storia».
Non ritiene che per farli bisognerebbe rinunciare al termine "comunismo"?
«Al contrario, penso che la vera sfida sia non abbandonare gli ideali del comunismo, ma ripensarli partendo dalla non violenza, dalla critica radicale degli orrori e degli errori del ‘900. Bisogna avere, inoltre, una diversa concezione del potere, che neghi qualsiasi forma di prevaricazione e di assolutismo. Per chi crede come credo io che non debba cadere nel dimenticatoio, il termine comunismo rappresenta la rivendicazione di una identità radicale».
In nome del quale, però, ci si arma e si progettano omicidi.
«L´uso delle armi e il ricorso alla violenza hanno bisogno di agganciarsi a una idea forte. L´ultima ideologia del ‘900, quella che lo ha attraversato e superato, è l´ideologia marxista. Anche in nome della religione si compiono attentati, ma non per questo è giustificato stabilire una equazione tra Islam e terrorismo. Il problema è che coloro ai quali i brigatisti arbitrariamente fanno riferimento hanno un compito in più, e ne devono essere consapevoli. Ci vuole onestà intellettuale per comprendere che il ritorno delle Br è tanto più probabile quanto più riesce a trovare un retroterra fondamentalista: la possibilità di uccidere viene dall´idea che l´altro è il male, lo stesso concetto con il quale si giustifica la guerra preventiva ».
La sinistra italiana è pronta a questa nuova guerra al terrorismo? Ciò che è stato fatto dal Pci e dal sindacato negli anni di piombo non è più attuale?
«Lo sforzo compiuto in quegli anni ha un grande valore: con l´unità delle forze democratiche e l´impegno delle forze dell´ordine abbiamo sradicato ogni tentazione violenta dal mondo del lavoro. Il terrorismo è stato combattuto politicamente e questo è un terreno che non si deve abbandonare. Ma ora siamo in una nuova fase storica, aperta dal rapimento di Aldo Moro, proseguita con la caduta del muro di Berlino e oggi attraversata dalla complessità della globalizzazione. Dobbiamo fare un passo in più rispetto alla frontiera sulla quale ci eravamo attestati alla fine degli anni di piombo. Ci attende un enorme sforzo culturale: un percorso che a sinistra non tutti hanno cominciato a percorrere».
Qual è la nuova frontiera della lotta al terrorismo?
«È la frontiera delle idee, che impone, una rivoluzione culturale: l´affermazione del principio gandhiano della non violenza. Negli anni di piombo si è tolta l´acqua da cui si alimentavano i terroristi facendo intorno a loro un deserto politico, dimostrando così in modo inequivocabile che il movimento operaio era contro i brigatisti. Oggi quella battaglia si combatte dicendo alle nuove leve della lotta armata che il movimento e il popolo sono non violenti. Sono convinto che la sinistra italiana debba assumere la bandiera della non violenza senza più rinvii ed incertezze . Il terrorismo e la guerra si nutrono di ogni forma che conceda anche il minimo terreno alla prevaricazione. Per questo il nostro messaggio deve essere chiaro: chi si pone sul terreno della violenza politica, quale che sia la nobiltà della causa per cui si batte, si mette fuorigioco. Non esiste, non può più esistere, la violenza giusta. È uno sforzo che devono fare tutti i partiti, tutte le organizzazioni sociali, intervenendo sui comportamenti delle persone, a partire dal linguaggio».
Immagino che da questo punto di vista la manifestazione di Vicenza l´abbia rassicurata. Grande partecipazione, comportamento non violento. Eppure c´era molta preoccupazione, anche tra voi...
«Io non ero preoccupato. Anzi, ero convinto che la manifestazione sarebbe andata bene».
Però ha sentito il bisogno di rivolgere un appello alla non violenza.
«Avendo detto che ci sarei andato se non fossi stato presidente della Camera, mi è sembrato doveroso chiarire come ci sarei stato in quel corteo. Le mie preoccupazioni erano e restano altre».
Quali?
«Mi sembra che ancora una volta un appuntamento così importante sia stato affrontato dalla politica politicante in maniera inadeguata. In alcuni casi ho ascoltato discorsi fermi alle analisi degli anni ´70, in altri parole mirate a trarre vantaggi di parte. Così come per il nuovo terrorismo la classe dirigente del nostro paese mi appare incapace di comprendere la novità di questa fase politica. Queste famiglie, questi giovani che hanno invaso Vicenza dovrebbero essere ascoltati e compresi di più da chi ha il compito di governare e vuole farlo per rendere più giusta la società. Ciascuno di loro, parlo della moltitudine dei partecipanti e non delle culture che sono rannicchiate nelle loro organizzazioni, ha dimostrato di avere in mente, direi nella pelle, l´idea che a un corteo si va semplicemente per affermare le proprie idee, per stare insieme agli altri. È da apprezzare anche il saggio comportamento delle forze dell´ordine. Siamo davanti a un fatto nuovo: si comincia a mettere in discussione la logica dell´amico-nemico. Se si fosse trovata al G8 di Genaova la mia generazione avrebbe potuto avere reazioni capaci di portare ad una strage: invece quel giorno tragico abbiamo visto i giovani, la loro grande maggioranza, tornare alle proprie case senza aggressività. Lì si è visto il primo germe della non violenza, che a Vicenza ha dimostrato la propria vitalità nel binomio pace e partecipazione».
Ma lì è apparso anche il volto antiamericano di alcuni settori della sinistra radicale.
«Non condivido questa analisi. La globalizzazione ha avuto tra i suoi effetti quello di favorire la contaminazione tra le culture: come si fa a pensare che quei giovani siano antiamericani quando consumano tutti i giorni cultura d´oltreoceano ascoltando musica, andando al cinema, leggendo libri. C´è certamente avversione nei confronti del governo Bush, un disaccordo politico totale verso la sua politica, non verso la civiltà statunitense. Il discorso dell´antiamericanismo è datato. Mi ricorda quando ai tempi in cui ero un ragazzo si contrapponeva il chinotto alla Coca Cola. Dietro quella guerra di bevande c´era una avversione ideologica, alimentata dalla divisione del mondo in due blocchi. Oggi chi non beve Coca Cola esprime una protesta contro chi produce sfruttamento e disagio».
Non negherà che in alcuni esponenti della sinistra radicale ci sia una avversione pregiudiziale nei confronti degli Stati Uniti.
«In alcune forze sì, c´è ancora. Ma si tratta di posizioni di nicchia. Il punto è che sebbene non abbia mai allignato nella cultura alta della sinistra italiana, basta ricordare che la celebre collana editoriale Americana è stata portata nel nostro paese da Vittorini, l´antiamericanismo non è stato contrastato quando si produceva negli strati più popolari. Esattamente come è accaduto con lo stalinismo: il Pci ruppe coraggiosamente con il dittatore sovietico, ma poi per alcuni anni tollerò che nella propria base rimanesse un mito. Io stesso, quando diventai segretario di Rifondazione Comunista, dovetti più volte pretendere la rimozione del ritratto di Stalin dalle sezioni dove andavo a parlare. Quelle foto, ora, non ci sono più».
L’Unità 20.2.07
E il perdente radicale creò il terrorismo
di Bruno Gravagnuolo
In genere si dice «terrorismo», e si pensa di aver detto tutto, quando vogliamo indicare la follia ideologica che non fa distinzione tra nemico combattente e civili inermi. O quando ci si riferisce a progetti maniacali di guerre civili in società democratiche, sorretti dall’epica del gesto esemplare. Che lo si chiami Eta militare, islamismo radicale, Sendero luminoso, oppure nuove Br, il terrorismo non cambia, nella precezione del senso comune. E se ne conclude che in tutti questi casi c’è un’ideologia regressiva all’opera. Una mentalità arcaica che sopravvive in gruppi ristretti, e che li spinge ad agire in nome di illusorie certezze vincenti, dottrinarie, religiose o profetiche.
Difficilmente ci sfiora un’altra ipotesi. Che i terroristi non vogliano affatto vincere, e che viceversa vogliano perdere. E che addirittura alla sconfitta affidino la loro vittoria. All’autodistruzione diffusiva, capace di sancire «l’invincibilità». In fondo è un’idea molto semplice e non del tutto inedita, specie per quel che concerne i kamikaze arabi, la cui psicologia hanno analizzato in tanti.
Mancava una diagnosi più accurata, globale e psicologica del fenomeno. E mancava la parola giusta per descriverlo. Una parola semplice e innovativa, che nonché principio analitico, è oggi anche titolo di un saggio, con l’ambizione di nominare una «figura» protagonista del mondo globale: Il perdente radicale (Einaudi, pp 73, tr. di Emilio Picco, euro 8). L’autore è un poeta e un saggista, Hans Magnus Enzensberger, che oltre a essere figura di spicco della cultura tedesca, mostra di fatto maggiore capacità inventiva di tanti sociologi. Laddove congiunge intuizione vissuta, sapere storico e antenne sul presente. Il tutto proprio nella descrittiva del Radikal Verlier, che in quanto « uomo del terrore» assomma in sé paesaggio e caratteristiche estese.
Il perdente radicale viene di lontano, diciamo da fine ottocento, poi si «fissa» con la seconda guerra mondiale, e infine si frastaglia nel moderno terrorismo, incluso il microterrorismo dei folli e inspiegabili massacri, che sconvolgono famiglie, vicinati, scuole e tranquille comunità. Dunque dagli anarco-nichilisti europei, ai kamikaze giapponesi, ai terroristi irlandesi (più politici), agli islamisti, fino ai massacratori della porta accanto. Il primo tratto che colpisce è il dato «scenico». Infatti il delitto plurimo e improvviso, piccolo o grande, politico o no, deve trascinare e ipnotizzare la platea. Fare testo. Ammaestrare. E quanto più i media possono veicolarlo, tanto più il terrore «outing» paga. Dunque modernità esemplare del terrore, che sconvolge e rende insicuro il «pubblico» - fatto di nemici dichiarati o di indifferenti - e che raggiunge il diapason nella reazione a catena mondiale di gesti apocalittici come quelli delle Twin Towers.
Già, ma il movente? Nell’analisi di Enzesberger è unico, in grande o piccola scala, fatti gli adeguati aggiustamenti. Ed è nient’altro che l’autodisprezzo di sé dei «perdenti», scaricato sui presunti vincenti, per punirli e rivendicare una superiorità in extremis. Doppia molla quindi. Autopunizione per essere un «perdente», e «identificazione con l’aggressore» (vero o fittizio) per punirlo a sua volta, trascinandolo a fondo: «È colpa mia, è affar mio, ma per colpa degli altri». Due affermazioni che non si elidono, ma si potenziano a vicenda. Insomma una sorta di autoaffermazione di sé, nella morte inflitta e autoinflitta. Che all’insegna del freudiano «istinto di morte» contraddice l’istinto di autoconservazione, e arriva a ribadirlo in chiave autodistruttiva. Semplificando si potrebbe dire che è il «muoia Sansone con tutti i Filistei». Senonché la novità sta nel fatto che il nostro mondo è popolato di milioni di «perdenti radicali». Disseminati sul pianeta e nascosti nei pori delle nostre società affluenti. Perdenti bombardati dal contrasto tra miseria reale del quotidiano e iridescenza del consumo di massa. E che alla fine scaricano la frustrazione dell’esclusione patita come colpa, nella pratica ritualizzata dell’istinto di morte. Per autosantificarsi, diventare protagonisti, magari senza giungere al suicidio, ma incosciamente rasentandolo di continuo, con l’esibizione narcisistica della violenza. Ed è un discorso che vale per gli ultrà, per gli omicidi folli, e anche per islamisti e nuove br. Con la variante «fideistica» in questi ultimi due casi. A sublimare la morte con l’illusorietà di un sacrificio giusto, utile, o viatico di onnipotenza ultraterrena.
Lo schema funziona. Con un’unica obiezione a Enzesberger però. Non è vero che l’Islam con le sue arretratezze «coraniche» e le sue frustrazioni storiche si presti più di altre culture a tutto questo. Le culture evolvono, e il mondo arabo, a differenza di altri contesti, è stato a lungo inchiodato alle sue «frustrazioni» anche in ragione della sua posizione strategica ed energetica. Senza dire che la guerra teologica di Bush ha moltiplicato i «perdenti radicali». A danno di tutti. Ma di ciò Enzesberger alla fine è ben più che consapevole.
L’Unità 20.2.07
L’anima di un Paese violento
di Ferdinando Camon
Ma che popolo siamo? Anzi: siamo un popolo? Un popolo è unito intorno a qualcosa, una tradizione, un valore, un sentimento, noi che cosa ci unisce? Una volta si diceva: la famiglia, il clan, il calcio, la televisione, il condominio. Non è più così. Nella famiglia i figli sono contro i padri, nel clan una famiglia va contro l’altra, nel calcio il tifo è una guerra aperta contro la società, nel condominio si ammazzano vicino con vicino.
Gli orrendi fattacci di Catania non mostrano tifosi contro tifosi (questi ci sono sempre stati), ma tifosi contro lo Stato, contro la polizia, contro la società, contro tutti. I mostruosi cartelli con svastiche e caratteri runici che appaiono nei nostri stadi sono una maledizione contro la propria razza, visto che li alzano italiani contro italiani: come se il gruppo che li scrive avesse il potere di trasumanar i suoi membri, rigenerarli, trasportarli al di là del bene e del male, la meschina morale degli uomini normali. Il tifo è ormai la passione nella quale si riconoscono gli anti-sistema, che odiano ogni legge. È una passione tragica, sacrificale e autosacrificale. Spacca le città e le famiglie.
Una volta, mezzo secolo fa, si parlava del calcio come spettacolo estetico per le masse: l’élite va per musei, si diceva, e il popolo va per stadi. E adesso? Ma quale spettacolo estetico! Il tifoso gode non se il portiere avversario prende un gol, ma se resta in coma per uno scontro, se va all’ospedale per tre mesi, se un attaccante si rompe tibia e perone. E non se i tifosi avversari restano ammutoliti per la sconfitta, ma se vengono massacrati a bastonate, bruciati nelle auto. La voglia di spaccare tutto spacca le famiglie: la polizia indaga per scoprire i teppisti assassini, e scopre che c’è qualche figlio di poliziotti. A casa si parlerà della mattanza: con chi sta il padre, con chi sta il figlio? Il padre ha un collega morto, il figlio ha un nemico in meno.
Ma non è un problema di Catania: a Catania è esplosa la canea, ma a Piacenza e a Livorno han fatto eco le scritte sui muri. Rozze e criptiche, come la morale barbarica da cui provengono. Se il pestaggio è il reato, le scritte sui muri sono l'incitazione e l'apologia, che stanno al reato come le valli di Comacchio alle anguille. La disgregazione del popolo, il senso che niente più ci unisce, non viene solo dalle città appena nominate: a Caserta c’è rimasto un cadavere in strada dopo una banale lite per uno stop non rispettato. Il diverbio s’è impennato di colpo, finché uno dei due è rientrato in auto a prendere una pistola e ha sparato due colpi: ammazzato l’uomo che stava di fronte, ferita sua figlia, che gli stava dietro. In auto aveva anche un coltello. Ma è la dotazione per i viaggi, questa? Pistola, proiettili, coltelli? Il viaggio in auto come una caccia grossa?
Il delitto più gratuito è comunque quello di Riccione. Qui la donna rimasta uccisa faceva un lavoro che automaticamente colleghiamo alla simpatia: addestrava delfini. Uno di quei lavori che subito pensi: chi lo fa ama il mondo, perciò noi amiamo lui. Ma la donna teneva in casa due cani e un gatto, e l’inquilino di sotto dava di matto appena li sentiva. Non le ha dato una coltellata, gliene ha date venti. Il codice è stupido: guarda se c’è un omicidio, e stabilisce la pena. Ma un omicidio può essere una frazione di secondo. Venti coltellate sono un tempo enorme. Soltanto uno che è fuori del tempo può reggere una durata del genere. Fuori del tempo, fuori del mondo, via con la testa. Lo speriamo per lui. A monte di questi delitti abbiamo altri delitti, anche quelli recenti: di strada, di stadio, di condominio. Uno chiama l’altro. Uno causa l’altro. Uno si autogiustifica con l’altro.
Durante il sequestro Moro, il presidente degli psicanalisti italiani, Cesare Musatti, aveva notato un fatto curioso: aveva una decina di pazienti in analisi, e tutti, di telegiornale in telegiornale, diventavano sempre più nevrotici, nei sogni, nei desideri. Secondo Musatti, anche loro, come le Brigate Rosse, «alzavano il tiro». Bene: i delitti che si ripetono in questi giorni, assurdi e bestiali, stanno a indicare che la nevrosi del nostro popolo «alza il tiro».
Il Messaggero 20.2.07
Fu un patto per difendersi dalla Rivoluzione
I “Lateranensi” servirono a Stato e Chiesa per esorcizzare i principi del 1789
di Daniele Menozzi*
I Patti Lateranensi hanno segnato l’11 febbraio 1929 una data periodizzante nella storia dei rapporti tra chiesa e stato in Italia. La costruzione dell’unità nazionale era infatti avvenuta in aspro contrasto con il papato romano, che, dopo aver perso nel 1860-61 territori detenuti da circa un millennio, nel 1870 era stato costretto a ritirarsi entro le mura leonine in seguito alla proclamazione di Roma capitale del novo regno. Ma la ragione del conflitto non stava solo nella perdita di una sovranità territoriale che Pio IX ed i suoi successori giudicavano indispensabile alla libertà di esercizio del ministero apostolico. Altrettanto grave appariva ai loro occhi che quel mutamento si fosse verificato sotto l’egida di un governo che realizzava un ordinamento politico di tipo liberale, costituzionale, laico, separatista. In tal modo si palesava che la “rivoluzione” – lo scardinamento della tradizionale società cristiana iniziato nel 1789 a Parigi – non si arrestava: era arrivata in Italia, anzi persino a Roma, con tutta la carica distruttiva che la cultura cattolica del tempo attribuiva alla “moderna civiltà”. Il nuovo ordinamento non poteva perciò essere riconosciuto: esso era in opposizione a quell’organizzazione della vita collettiva che la chiesa da tempo indicava come modello ideale. Seguì, tra l’altro, con il ”non expedit“ l’imposizione ai cattolici italiani di non occuparsi di politica e anche se lentamente le grandi trasformazioni sociali del paese misero il laicato credente in grado di tutelare anche sul piano politico – ad esempio tramite il partito di don Sturzo - gli interessi ecclesiastici, soltanto in seguito all’avvento del fascismo la frattura apertasi con l’unificazione nazionale si sarebbe sanata. Allora, alla base dell’incontro tra stato e chiesa, non ci fu solo l’interesse di Mussolini ad acquisire prestigio internazionale e consenso interno. Vi era anche la consapevolezza della chiesa che si era davanti ad un regime che si poneva in antitesi a quei valori della modernità (libertà civili e politiche, democrazia, laicità, ecc.) che la “rivoluzione” aveva portato in Italia nell’Ottocento. Al di là delle singole misure e dei privilegi che stato e chiesa si scambiavano reciprocamente, al fondo dell’accordo del 1929 stava la “reazione” – comune a chiesa e fascismo – contro una visione “moderna” della convivenza civile. Non a caso Pio XI acclamò i Patti come l’atto che poneva salutarmente fine in Italia ai “disordinamenti liberali”. Proprio per questa ragione si pose all’indomani del crollo del regime e della nascita della Repubblica il problema della loro compatibilità con il nuovo assetto democratico dello stato.E’ noto che Pio XII volle che i rappresentanti della DC s’impegnassero per inserire i Patti nella nuova Costituzione ed è nota l’accondiscendenza (forte era il timore per la fine della “pace religiosa” nel paese) mostrata, soprattutto dal PCI, alle loro richieste. Ma si previde un meccanismo di revisione. Dopo diversi infruttuosi tentativi, nel 1984 si giunse alla stipula del nuovo concordato. E’ indubbio che il nuovo testo è aperto in diversi punti ai principi pluralistici della modernità. In esso sono tuttavia restati ampi privilegi per l’istituzione ecclesiastica (ad esempio in materia di insegnamento, di assistenza, di finanziamento). Inoltre fin dall’inizio la CEI ha rivendicato che in alcune materie non trattate (matrimonio e famiglia) era disponibile ad intese ulteriori, rivendicando peraltro l’autorità di fissarne i principii direttivi. Ma i dubbi che solleva anche il nuovo accordo si situano altrove. Storicamente la chiesa in età contemporanea si è dotata dello strumento concordatario – a partire da quello con Napoleone del 1801 – con uno scopo ben preciso: finita la società cristiana, occorreva garantirsi in quel dato contesto le migliori condizioni giuridiche, per poter operare al fine di restaurare le basi cristiane della convivenza civile, ponendo così fine agli istituti moderni nati dalla Rivoluzione francese. Anche nel testo del 1984, pur con tutte le sue aperture, diversi indizi mostrano che a questa prospettiva, da parte ecclesiastica, non si è ancora rinunciato.
* Docente di storia contemporanea alla Normale di Pisa
Repoubblica on line 20.2.07
Nacque dopo appena 21 settimane
ora sta bene e può tornare a casa
Dimessa da un ospedale della Florida la piccola che ha battuto il record dei parti prematuri
Amillia quando è venuta alla luce pesava 280 grammi ed era lunga circa 25 centimetri
MIAMI - E' appena nata e ha già battuto un record. Amillia Sonja Taylor sarà dimessa oggi da un ospedale della Florida, il Baptist Children's Hospital, diventando la neonata sopravvissuta al parto più prematuro di cui si abbia conoscenza. La piccola ha visto la luce con un taglio cesareo dopo appena ventuno settimane e sei giorni trascorsi nell'utero materno, contro le 37-40 richieste da una gravidanza normale. Un conteggio a prova di errore, visto che è stata concepita in vitro dai genitori Eddie e Sonja Taylor, che ha del prodigioso. Molti manuali di pediatria danno infatti vicine allo zero le possibilità di sopravvivere a un parto al di sotto delle 23 settimane di gestazione.
Al momento della nascita, lo scorso 24 ottobre, la bimba pesava poco più di 280 grammi ed era lunga circa 25 centimetri. Un corpicino grande più o meno come una bambola "Barbie" che ha fatto temere il peggio ai medici dell'ospedale dove è stata tenuta a lungo in incubatrice. "Non eravamo affatto ottimisti, ma ci ha smentiti tutti", ha commentato il dottor William Smalling. Al momento del parto Amillia presentava infatti problema respiratori, una piccola emorragia cerebrale e disturbi digestivi. Difficoltà che avendo superato i primi delicati mesi non dovrebbero però creare complicazioni pericolose sul lungo periodo.
La neonata, che nel frattempo è cresciuta fino a misurare quasi 65 centimetri per due chilogrammi di peso, nei prossimi giorni dovrà continuare a prendere dell'ossigeno e il suo apparato respiratorio sarà tenuto costantemente sotto controllo, ma potrà essere nutrita normalmente, con il biberon.