giovedì 22 febbraio 2007

l'Unità 22.2.07
Lo sgambetto dell’eterno Belzebù
Senatori a vita, pendolo della maggioranza. Decisive le astensioni di Andreotti e Pininfarina
di Simone Collini


LA MAGGIORANZA BATTUTA? Qualcuno parla di asse Vaticano-Confindustria, qualcuno di rivincita di «Belzebù», qualcuno di pasticcio all’interno dell’Unione e qualcuno, ma solo nel centrodestra, di trappola riuscita alla Casa delle libertà. Come che sia,
anche questa volta i senatori a vita sono stati determinanti. In negativo, però. Sono stati i voti di Giulio Andreotti e Sergio Pininfarina di astensione (che al Senato equivale a contrario) a non far raggiungere il quorum necessario (160 voti) alla mozione di sostegno al governo. Se anche i due “dissidenti” Fernando Rossi e Franco Turigliatto avessero votato e avessero votato sì, ci sarebbe stato un pareggio (160 favorevoli, 160 tra no e astensione) ma la maggioranza non avrebbe comunque raggiunto il quorum (a quel punto salito a 161). E allora, cos’è successo? È successo che all’ora di pranzo i gruppi dell’Unione fanno i conti così: «155 nostri, più Ciampi sì, Levi Montalcini sì, Colombo sì, Andreotti sì, tra poco arriva anche Pininfarina, sì anche lui...». Insomma 160 voti, sufficienti nonostante il no annunciato da Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro bloccato a letto dall’influenza.
Conti senza l’oste? Non proprio, perché Andreotti lo aveva detto la sera prima del voto che avrebbe votato sì, anche se voleva prima sentire il discorso di D’Alema. E poi, dopo averlo sentito, a metà mattina interviene per dire che nella relazione del ministro degli Esteri trova «il dato positivo della continuità della politica estera» e auspica «un accordo» sull’ordine del giorno presentato dal leghista Roberto Calderoli, nel quale si fa cenno proprio alla «continuità». E poi? Poi ci sono gli interventi in aula, c’è la replica di D’Alema, l’Udc che annuncia l’astensione, Calderoli che ritira la mozione e infine c’è il voto, a questo punto su due documenti: quello dell’Unione e quello presentato dallo stesso Andreotti in cui si sollecita la liberazione dei soldati israeliani rapiti l’estate scorsa. Andreotti vede approvare praticamente all’unanimità la sua mozione (315 sì) e poi contribuisce ad affossare quella della maggioranza. Qualcuno dice che si è preso una rivincita per la bocciatura come presidente del Senato. Qualcuno parla di un più complesso disegno politico, non privo di collegamenti con la distinzione dell’Udc rispetto al resto della Cdl. Nel frattempo è successa anche un’altra cosa.
Poco dopo le 14 compare in aula Pininfarina, che non si vedeva a Palazzo Madama dal maggio scorso, quando votò la fiducia al governo Prodi. Chi lo ha convinto a venire? La Cdl, prima del voto, sostiene che sono state le pressioni del centrosinistra (in particolare di Piero Fassino); dopo il voto, si compiace di aver vinto con «la nostra arma segreta» (Renato Schifani dixit). Come che sia, Pininfarina entra in aula, si trattiene qualche momento a parlare con Cossiga e poi viene fatto sedere ai banchi di Forza Italia dai senatori Aldo Scarabosio e Roberto Antonione. Valerio Zanone, liberale e amico di vecchia data dell’ex presidente di Confindustria, prova ad avvicinarsi ma i parlamentari di Forza Italia glielo impediscono. Marini dichiara aperta la votazione. Zanone vede la lucina bianca sul tabellone in corrispondenza del posto del senatore a vita. «Ma cosa fai!», gli dice l’esponente della Margherita tentando ancora una volta di avvicinarlo. È qui che scoppia il putiferio. I senatori di Forza Italia fanno muro e intanto iniziano a urlare contro Zanone, a lanciargli addosso giornali appallottolati e altro. Chiusa la votazione. Marini legge il risultato, la Cdl esulta.
L’aula si svuota, Zanone assicura: «Pininfarina mi ha manifestato prima del voto la sua determinazione di votare a favore e mi ha invitato a sedere accanto a lui. Non avendo trovato una accoglienza garbata da parte dei senatori di Fi che lo circondavano, sono ritornato al mio banco abituale, ma della intenzione di voto del senatore Pininfarina è testimone con altri il senatore di Fi Scarabosio che, se è persona d’onore, non può certo smentire ciò che ha sentito». I testimoni rimangono silenti, in compenso Cossiga interviene per attaccare Zanone: «Prima di convertirsi alla carica di segretario del Partito liberale era già stato un giovane libertario che sfilava con il viso coperto con il fazzoletto rosso. Lo ricordo bene quando era ministro dell’Interno». Replica Zanone: «Forse Cossiga mi confonde con qualcun altro. Sono liberale dall’età di 18 anni e quando lui era ministro dell’Interno io ero già in Parlamento». Intanto Prodi va al Quirinale a presentare le dimissioni.

l'Unità 22.2.07
Welby, non fu eutanasia. La perizia assolve il medico
Non sono stati i farmaci iniettati dall’anestesista Riccio a provocare la morte del malato di distrofia
Sedativi e sospensione del respiratore sono stati quindi interruzione dell’accanimento terapeutico
di Anna Tarquini


NON FU EUTANASIA, aveva ragione Welby. E né l’anestesista Mario Riccio, né Marco Cappato potranno essere accusati di omicidio per avergli staccato il respiratore. Gli atti che la Procura di Roma si appresta a firmare sono una rivoluzione, una svolta, un
precedente che aprirà la strada a molte altre battaglie. Ieri è stata depositata la perizia che i magistrati che avevano chiesto nel procedimento avviato contro il medico e Cappato e dice che la dose di sedativo iniettata nelle vene di Welby non fu mortale.
È un particolare che segna la differenza. E per sempre. Perché per mesi si è discusso se staccare il respiratore così come chiedeva Welby potesse definirsi eutanasia (cioè un delitto) o fine dell’accanimento terapeutico (cioè un diritto costituzionalmente garantito). E il discrimine passava proprio per quella sostanza che avrebbe addormentato Welby per non farlo soffrire troppo mentre qualcuno lo staccava dalla macchina che lo teneva in vita. Si domandava: morirà per effetto dei barbiturici ingeriti o perché il polmone artificiale smetterà di funzionare? Nel secondo caso, va da sè, sarebbe stato un atto lecito, seppur controverso. Lo avrebbe potuto fare anche Welby, senza coinvolgere altri. Nel secondo no, perché l’eutanasia è appunto provocare attivamente la morte e iniettare un farmaco che causa la morte è eutanasia. E Welby chiedeva di essere aiutato a morire, cioè di essere posto in condizioni di non soffrire con l’aiuto delle medicine. La differenza era tutta qui. E per mesi se ne è discusso, per mesi se ne sono occupati politici e tribunali, medici e preti. Senza soluzione. La risposta che fa la differenza è arrivata ieri sul tavolo dei magistrati che hanno aperto l’inchiesta: i livelli di sedazione nel sangue erano nella norma, Welby è morto perché nessuna macchina si accaniva a tenerlo in vita. Il procuratore Giovanni Ferrara e il pm Gustavo De Marinis avevano chiesto ad un pool di esperti, tra cui la tossicologa Federica Umani Ronchi, di stabilire se la dose di benzodiazepina (un sedativo), fatta scorrere in una flebo nelle vene di Welby, avesse in qualche modo determinato, o meglio fosse stata concausa, del decesso del paziente diventato nei mesi scorsi simbolo della battaglia dei Radicali Italiani, e dell'associazione Luca Coscioni, sulla autodeterminazione e sulla scelta di interrompere o meno una terapia, anche salvavita, come la ventilazione assistita da una macchina. L'esame tossicologico hanno assolto il medico: i livelli della benzodiazepina non sarebbero stati tali da determinare una concausa per il decesso di Welby determinato invece dalla interruzione della ventilazione assistita così come chiesto dal paziente stesso. Adesso si va verso la richiesta di archiviazione che potrà formalmente essere chiesta dai magistrati solo nei prossimi giorni e che segue un analogo adottato dall'Ordine dei Medici di Milano proprio sul comportamento deontologico del dottor Riccio che non fu censurato dall'organismo professionale. «Abbiamo condotto, insieme all'Associazione Luca Coscioni e agli amici Radicali, il nostro impegno per percorrere la strada della legalità» è stato il commento del dottor Riccio. «Non è stata eutanasia, ma interruzione di un trattamento richiesto dal paziente Piergiorgio Welby» ha commentato il presidente dell'ordine dei medici di Cremona, Andrea Bianchi. Aveva ragione lui, e adesso sarà difficile per chi gli ha dato addosso anche da morto, sostenere il contrario.

l'Unità 22.2.07
Indagine sul «giallo» dell’autismo
di Cristiana Pulcinelli


INTERVISTA con Cammie McGovern, autrice del mistery Contatto visivo. «Non c’è solo l’autismo e ho cercato di far capire che le forme di isolamento sono molte»

Adam ha nove anni. In un normale giorno di scuola, durante l’ora di ricreazione, sparisce insieme ad Amelia, una sua compagna. Dopo alcune ore viene ritrovato nel bosco che confina con il giardino della scuola, accanto a lui il cadavere di Amelia, uccisa con una coltellata. Il bambino è stato testimone dell’assassinio, ma difficilmente potrà aiutare la polizia: Adam è affetto da autismo e, dopo lo shock, i suoi già rarefatti rapporti con il mondo si chiudono del tutto.
Contatto visivo (Garzanti, pp 314, euro 16,50) è un giallo avvincente, ma è anche un viaggio attraverso un mondo per lo più sconosciuto, quello dell’autismo. L’autrice, Cammie McGovern, è una signora americana dallo sguardo intelligente. Finora aveva scritto racconti pubblicati su riviste e un romanzo inedito in Italia ma che negli Stati Uniti aveva avuto un certo successo. In questo libro, però, per la prima volta è entrato anche un pezzo della sua vita privata: uno dei suoi tre figli è affetto da autismo.
Perché ha scelto il genere «giallo» per raccontare l’autismo?
«Il primo motivo è che i racconti del mistero mi piacciono. Il secondo motivo è che quando hai un bambino affetto da autismo, ti trovi quotidianamente di fronte a un mistero: lui stesso è un mistero che non arrivi a capire».
In realtà, nel libro non c’è solo l’autismo. Tutti i bambini che hanno un ruolo importante sono bambini problematici. Come mai?
«Ho cercato di far capire che le forme di isolamento possono essere molte. Non c’è solo l’autismo, ma molte altre condizioni con cui sono alle prese tante persone».
Esistono delle caratteristiche del comportamento comuni a tutti i bambini affetti da autismo?
«L’autismo non è una malattia sempre uguale a se stessa. È piuttosto un ombrello sotto cui si possono raggruppare forme di disagio diverse. Tuttavia, ci sono aspetti comuni a tutti i bambini autistici. Uno di questi aspetti è l’alterazione dell’esperienza sensoriale: questi bambini possono essere molto sensibili alla luce o ai suoni e reagire in modo eccessivo a questi stimoli. Un altro aspetto è l’alterazione dell’abilità linguistica. Il linguaggio è sempre compromesso, ma non lo è sempre nello stesso modo. Alcuni bambini, ad esempio, parlano moltissimo di fatti che stanno nella loro testa, altri non parlano affatto. Quello che è importante capire però è che questi bambini non sono chiusi in se stessi o disinteressati al mondo, ma piuttosto hanno un’esperienza del mondo diversa dalla nostra».
Esiste una componente genetica della malattia?
«Sicuramente sì, come dimostra il fatto che è più probabile avere un figlio autistico se ne hai già uno affetto da questo disordine. Quale sia questa componente genetica però ancora non si sa. Quello che oggi si pensa è che ci sia una vulnerabilità genetica a certi fattori ambientali scatenanti. I bambini autistici sarebbero particolarmente vulnerabili a tossine presenti nell’ambiente. A volte così vulnerabili che, si dice, il bambino è allergico al mondo. In effetti, molti di questi bambini hanno problemi gastrointestinali cronici. Mio figlio è uno di loro: ricordo che per anni curare il suo danno cerebrale era passato in secondo piano rispetto al problema di fargli assorbire ciò che mangiava».
Nel suo libro ci sono due temi fondamentali: l’incomunicabilità (che non affligge solo il bambino autistico ma anche gli adulti sani), e il bullismo (che nella scuola viene tollerato con gravi danni). Pensa siano collegati?
«Io credo di sì. Negli Stati Uniti, dove il fenomeno del bullismo è diventato un problema importante, sono anche nati dei programmi di comunicazione sociale: si cerca di insegnare ai bambini a esprimere i propri sentimenti verbalmente piuttosto che con la violenza».
Lei ha creato un’associazione no profit che si occupa di bambini disabili. Che cosa fate?
«L’associazione si chiama Whole Children (bambini interi) ed è nata 3 anni e mezzo fa dall’impegno di 5 mamme di bambini disabili. Oggi ci sono più di 300 bambini che vengono da noi. Sono affetti da autismo, ma anche ciechi, sordi, paralitici. Offriamo programmi ricreativi per il pomeriggio e per i fine settimana. Facciamo ginnastica, yoga, corsi di espressione artistica e musicale, falegnameria».
Quanti sono i bambini affetti da autismo?
«Vent’anni fa la probabilità che a un bambino venisse diagnosticato l’autismo era di 1 su 5000. Oggi di 1 su 166. Il fenomeno è cresciuto in modo impressionante».
Cosa vorrebbe che trovasse nel suo libro la mamma di un bambino autistico?
«La storia del libro è anche una storia di speranza. Solo una piccola parte dei bambini autistici guarirà grazie alla terapia. Tuttavia, molti potranno fare progressi notevoli perché le loro possibilità sono straordinarie. Dobbiamo imparare a celebrare le piccole vittorie. Questo vorrei comunicare a una mamma che si trovi nelle mie condizioni».

l'Unità 22.2.07
Il «dono del grembo»: maternità all’inglese
di Carlo Flamigni


La decisione del Governo inglese di consentire alle donne di vendere i propri ovuli per finalità di ricerca ha fatto discutere. Eppure, a differenza di quanto già avviene in altri Paesi i criteri di selezione sono molto rigorosi

Stefano Rodotà ha pubblicato (La Repubblica, 21.2.07) un interessante articolo nel quale esamina i rischi di un possibile (o, meglio ancora, probabile) libero mercato degli oociti, considerato alla luce della decisione del governo britannico di consentire alle donne di vendere i propri ovuli per finalità di ricerca. Come sempre l'analisi di Rodotà è lucida e completa, ma mi dà l'occasione per qualche commento e per rispondere ad alcune critiche, come sempre più maleducate che obiettive, che mi sono state fatte recentemente. Comincio da queste.
La decisione del governo inglese, intanto, non è così brutale come può sembrare a prima vista. L'Inghilterra ha già sperimentato con successo la via del «dono del grembo», che ha consentito ad alcune donne prive dell'utero o affette da malattie incompatibili con una gravidanza di avere un figlio ricorrendo a una «maternità surrogata», cioè all'aiuto di un'altra donna che ha accettato di custodire e crescere un loro embrione nel proprio utero. Nella maggior parte dei paesi nei quali questa maternità surrogata è consentita dalla legge, esiste un vero contratto tra le due donne e la definizione , in sé piuttosto volgare, di affitto d'utero è in realtà molto aderente al vero. Le critiche a questa «cessione temporanea di funzioni organiche» sono state naturalmente molto severe, ma non hanno impedito la comparsa, in varie parti del mondo, di organizzazioni commerciali che provvedono a reclutare le madri portatrici e a garantire (con molti limiti) che le parti tengano fede al contratto.
In questi caso, come è fin troppo evidente, entrambe le donne pagano un prezzo elevato: molti soldi la madre genetica, un po' di salute, un po' di bellezza e un anno complicato da molte possibili difficoltà la madre surrogata, senza contare il rischio concreto di un difficile distacco dalla creatura cresciuta nel grembo. In Inghilterra questo contratto è stato rifiutato e si è preferita la via dell'atto oblativo: può offrirsi come madre portatrice solo una donna che sa dimostrare, con prove insindacabili, di compiere quella scelta per affetto, il che è a dire un parente stretta o un amica di lunga data della madre genetica. Non ho esperienza diretta di questi eventi, che restano pur sempre avventurosi e complessi, e so che in alcune circostanze si è aperto un contenzioso tra le due donne, talora per motivi piuttosto volgari, quale può essere la definizione del cosiddetto «mancato guadagno», l'unico compenso che le madri surrogate possono ricevere: leggo però, in vari articoli pubblicati sui giornali scientifici, valutazioni complessivamente positive e sono tenuto a concludere che la norma funzioni, cosa che non mi sorprende, considero l'Inghilterra un Paese di straordinaria serietà.
Ebbene, la vendita degli oociti è stata organizzata in un modo abbastanza simile: non tutte le donne verranno accettate dai laboratori, che sono obbligati a considerare solo le offerte di quante tra loro hanno precise e documentate ragioni per sottoporsi al prelievo: si richiede infatti, ancora una volta, che il gesto sia, almeno parzialmente, oblativo e motivato dall'esistenza, tra i familiari di chi si propone, di persone ammalate di quelle affezioni degenerative che prime dovrebbero trovare beneficio dalle ricerche sulle cellule staminali per le quali viene richiesta la disponibilità di oociti umani (diabete Parkinson, Alzheimer.) È dunque molto improbabile che la «vendita» di questi gameti possa rappresentare una fonte di guadagno per «le povere donne immiserite da anni di comunismo reale» (così ho letto) e tenderei a non considerare le 250 sterline un incentivo, ma piuttosto un rimborso per mancato guadagno.
C'è, naturalmente, il problema della terapia di stimolo e di rischi connessi con il prelievo, cose vere e concrete che riguardano tutti gli interventi medici e che vanno esaminate con attenzione. Con attenzione, sì, ma , per cortesia, lontano da ogni tipo di fuoco ideologico. È bene ricordare che tutte le donatrici di ovuli vengono sottoposte a stimolazioni particolari, definite friendly, che non sollecitano la funzionalità dell'ovaio al di là di una certa misura e che in questi casi la selezione delle donne è certamente molto severa. Ho sentito una ricercatrice affermare che anche queste stimolazioni fanno le loro vittime (cioè hanno un quoziente di mortalità) e non posso che suggerire al suo direttore sanitario di chiedere un'inchiesta della magistratura, chissà quanti decessi la brava dottoressa ha provocato con le sue stimolazioni non friendly... In questi casi le sindromi da iperstimolazione ovarica dovrebbero essere molto vicine a zero, e gli unici rischi ai quali posso pensare sono quelle della breve analgesia necessaria per il prelievo.
Non ho quindi vere ragioni per non condividere la scelta degli inglesi e immagino pertanto che le varie critiche dovrebbero piuttosto rivolgersi ai molti paesi europei nei quali la compravendita degli oociti è ammessa senza altre motivazioni se non quelle che derivano dall'interesse economico di chi vende e dall'interesse morale (non so trovare una definizione migliore) di chi acquista. Credo ad esempio che in Spagna, un paese che accoglie una grande quantità di coppie italiane che cercano proprio una donazione di gameti femminili, a vendere siano soprattutto le studentesse, considerata la giovane età media delle cosiddette donatrici. In questi casi è certamente violato l'articolo 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, là dove vieta molto chiaramente di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro.
Il nostro Comitato Nazionale per la Bioetica si trovò ad affrontare un problema abbastanza simile molti anni or sono, chiamato in causa da un quesito del Ministero della Sanità. La questione riguardava pazienti italiani che soffrivano di gravi malattie renali e che andavano in India per sottoporsi a un trapianto renale: naturalmente il rene veniva acquistato, solitamente a prezzi stracciati, da un cittadino di quel Paese. La ragione del quesito era peculiare - i pazienti italiani chiedevano un rimborso al nostro Ministero - ma naturalmente la discussione si concentrò prevalentemente sulla liceità della commercializzazione di parti del nostro corpo.
Non ho intenzione di riprendere qui un argomento che è stato frequentemente dibattuto e che comunque richiederebbe molto spazio, ma voglio semplicemente ripresentare una obiezione che, allora, qualcuno di noi ebbe a muovere nei confronti della condanna quasi unanime che l'acquisto di quei reni suscitò. D'accordo sulla condanna se ci riferiamo a chi acquista, ma che dire di chi, invece, offre una parte del suo corpo o lafunzione di un proprio organo? In questi casi, è ovvio, la motivazione è quella del bisogno: immagino che vendendo un rene, un cittadino indiano abbia potuto sfamare la propria famiglia, o assicurare un minimo di istruzione per uno dei suoi figli. Ci si dovrebbe perciò chiedere se uno Stato che non è in grado di garantire una vita minimamente decente ai suoi cittadini - ma lo fa solo a una parte di loro - ha il diritto di proibire loro di assicurarsi il minimo vitale e di assicurare un po' di dignità alla vita della propria famiglia vendendo parte dell'unica cosa della quale, in fondo, sono proprietari, se stessi. Così, mi infastidisce l'idea che una ragazza spagnola venda i propri gameti per acquistare un ninnolo, ma so, e anche voi sapete, che ci sono motivazioni molto più serie di questa e che ad queste donne non può mancare la nostra compassione.
Debbo dunque per forza concludere che non mi piacciono le condanne degli atti oblativi e non mi piacciono le critiche delle società degli uomini ricchi ai comportamenti delle società degli uomini poveri. Né mi piace il continuo ricorso al truculento fantasma delle slippery slope, il pendio scivoloso: non condanno questa cosa per se stessa, ma perché aprirà inevitabilmente la strada a scelte sempre più opinabili e infine a opzioni moralmente eccepibili. A me sembra l'ultima risorsa di chi non ha argomenti seri da mettere in campo e, visto l'uso eccessivo che se ne è fatto, mi sembra tempo di lasciarla morire di consunzione, evitando ogni accanimento.

Repubblica 22.2.07
Rapporto Istat per il ministero delle Pari Opportunità: quasi il doppio il numero dei casi di molestie a sfondo sessuale
Violenza sulle donne, il nemico in casa
Le aggredite sono quasi 7 milioni, per il 70 per cento colpevole è il partner


ROMA - Oggi come ieri. Nonostante tutto. Come se il tempo non fosse passato. Violenze in casa, silenzio fuori. Il marito, l´amante, il partner che si trasformano in carnefici, in nemici, in persecutori. Botte, pugni, calci, quando non è l´olio bollente, il coltello puntato alla gola, o lo stupro reiterato. Sì, perché l´Istat non ha soltanto "censito" i numeri dei soprusi sulle donne, ma ne ha anche descritto le modalità, le forme, un vero catalogo degli orrori, dove l´aggressione più lieve è lo schiaffo, la più grave l´ustione. È davvero inquietante la fotografia che emerge dalla prima indagine sulla violenza contro le donne realizzata dall´Istat su commissione del ministero delle Pari Opportunità, che ne ha intervistate 25mila di età compresa fra i 16 e 70 anni. Un´indagine ricca, approfondita, curata da Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell´Istat e durata dieci mesi di dialoghi e colloqui con le donne.
Il primo dato è che sono 6 milioni 743 mila le donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita e rappresentano il 31,9% della classe d´età considerata. Ma a queste si devono sommare le vittime dello "stalking", la molestia aggressiva e ripetuta (circa un milione) e l´enorme numero delle donne che denuncia di essere stata oggetto di abusi psicologici (6milioni). Un conteggio che fa schizzare a oltre 14 milioni il numero delle "vittime" complessive dell´aggressione a sfondo sessuale. Nella quasi totalità delle situazioni (96%) le violenze non sono denunciate, in particolare se l´aggressore è il partner. Il nemico infatti, denuncia il report dell´Istat, è ancora e troppo spesso dentro casa. Una vera escalation di violenza domestica se circa una donna su tre (il 34,5%) ha, infatti, dichiarato di aver subito dal partner una "violenza molto grave" e il 29,7% una "abbastanza grave".
Violenze fisiche a cui si sommano quelle sessuali: nella classifica delle aggressioni emerge che l´autore dello stupro, nel 70% dei casi è il proprio marito e compagno. Abusi e sevizie ben note a cui si aggiunge oggi un nuovo tipo di reato, previsto dal disegno di legge del ministro Pollastrini (che chiede al Parlamento di discuterlo al più presto) ossia lo "stalking", la molestia ripetuta, che può arrivare a una vera e persecuzione, e di cui sono state vittime il 18,8% delle donne intervistate.
(m. n. d. l)

Repubblica 22.2.07
Le incarnazioni del male nella storia secondo il grande intellettuale ungherese Fejto
Un'epopea tra l'indifferenza del cielo e la tentazione di credere al "Nemico"
Libri, il silenzio di Dio e la risposta del diavolo
Sullo stesso tema, il capolavoro faustiano di Brjusov
e l'utopia di sangue di Jan da Leida e gli anabattisti
di Dario Oliveiro


LA STORIA E IL DIAVOLO
Francois Fejto è uno degli ultimi grandi testimoni del secolo scorso. Aveva sei anni quando, suddito austroungarico vide scoppiare la prima guerra mondiale. Era un giovane uomo quando l'Olocausto e la Seconda guerra gli portarono via amici e parenti. Era un uomo fatto quando, fuggito in Francia, denunciava lo stalinismo e i suoi crimini e insieme al suo amico Albert Camus si batteva a favore della rivolta di Ungheria. Ora, dalla distanza siderale della sua vecchiaia, con la lucidità e l'energia per fermarsi ancora ad osservare le pieghe più recenti della caduta dell'uomo, quella dei nuovi fanatismi, integralismi, terrorismi, ha scritto del diavolo.
Ne ha scritto come può scriverne solo chi ha avuto in sorte una vita così lunga e piena, che il diavolo ha visto tante volte incarnarsi nella storia, quella grande e quella piccola, in forma più o meno pura. Che lo ha visto realizzare progetti smisurati nel loro orrore. Confondere la capacità dell'uomo di seguire la ragione e impedirgli di costruire un mondo secondo l'interesse generale. Insinuarsi nei desideri, verso i quali l'uomo è così incline, rendendoli bisogni. Impilare soldi e profitti e su questi costruire ordini sociali e povertà planetarie. Fejto ha studiato e osservato così a fondo l'opera del diavolo nel mondo e nella storia dell'uomo che è arrivato a questa conclusione: che il diavolo non esiste. Sfidando la tesi di Baudelaire secondo la quale la più grande astuzia del maligno è stata appunto di convincere tutti che non esiste, l'intellettuale ungherese sostiene che il diavolo non è altro che "un mostruoso capro espiatorio sul quale trasferire la colpa dell'aggressività e dell'odio" che abitano nel cuore dell'uomo.
Non solo. Con un lungo, lunghissimo excursus dalla figura del serpente dell'Antico Testamento al Satana tentatore di Cristo, alle ossessioni di San Paolo fino al Medioevo e alle violenze della Chiesa in nome della lotta contro Lucifero, e oltre ancora fino alle grandi ideologie del XX secolo, Fejto sostiene anche un'altra cosa. Che il diavolo spesso è servito per giustificare il silenzio insostenibile di Dio, la sua indifferenza di fronte al grido che si alza dal basso mondo degli uomini. L'idea del diavolo ha finito per limitare la responsabilità di Dio, limarne l'onnipotenza, rendere la vita dell'uomo in definitiva più sopportabile. E forse è proprio questa la sua ultima grande astuzia. Si intitola Dio, l'uomo e il diavolo (tr. it. A. Fezzi Price, Sellerio, 16 euro).
LA DONNA E IL DIAVOLO
Andatelo a dire a uno come Valerij Brjusov che il diavolo non esiste. Figlio di quella Russia che sull'uomo e sul male non ha mai smesso di interrogarsi da Tolstoj e Dostoevskij fino a Bulgakov, Brjusov ha scritto il suo capolavoro dal titolo L'angelo di fuoco, riproposto ora dopo oltre vent'anni da e/o (tr. it. C. G. De Michelis, 18 euro). Prokof'ev la mise addirittura in musica la storia di questo figlio di buona famiglia che nelle prime venti pagine racconta in un fiato quello che per molti sarebbe un romanzo a parte. Negato per gli studi, affascinato dall'avventura, si ritrova a percorrere, arruolatosi tra i lanzichenecchi, quasi tutti gli avvenimenti più importanti del XVI secolo, sacco di Roma e spedizioni nel Nuovo mondo comprese. Invece quelle prime pagine e quella prima vita nulla sono rispetto a quanto avviene dopo lo spartiacque, l'incontro con una donna. Il legame che ben presto si forma tra lei e lui lo renderà schiavo al punto da sottovalutare (e poi soccombere) il mondo in cui quella donna vive e le sue inclinazioni per l'occulto, le sue notti di tormenti, l'oscurità dei suoi amori. E il compagno invisibile che cammina insieme a lei. E così un uomo con una mente aperta, che conosce e stima il pensiero di Erasmo, Ficino e Pico, che ha visto i capolavori di Raffaello e Michelangelo, che ha saputo affrontare la vita bevendola di un fiato, si ritrova dall'altra parte dello specchio a pagare uno di quei debiti che a volte un uomo contrae per una coincidenza, una strada sbagliata, una piccola circostanza, un errore di calcolo. E non riesce più a estinguere.
L'UTOPIA E IL DIAVOLO
Coincidenza curiosa intercettata nel dialogo segreto che i libri hanno continuamente tra loro: Brjusov allude a un certo punto alla storia degli anabattisti a Munster, quando la città divenne la Nuova Gerusalemme dei seguaci di Jan da Leida. In quell'epoca fenomenale di eresie, nuovi movimenti, grandi speranza messianiche, ansia di rinnovamento spirituale che fu l'Europa della Riforma, a Munster si consumò uno degli eventi più tragici. Robert Schneider ha raccontato quella storia in Kristus, un po' romanzo un po' saggio storico (tr. it F. Porzio, Neri Pozza, 18,50 euro). Per dirla con Fejto, è un altro episodio di come il diavolo, sfruttando il silenzio di Dio e la vocazione dell'uomo a creare il mondo a propria immagine, abbia messo in piedi un regno di fame e di terrore trasformando la speranza nella giustizia e nel nuovo mondo nel solito inferno.

La Stampa 22.2.07
Cattocomunisti di tutto il mondo uniamoci
di Gianni Vattimo


Al centro di "Ecce comu", il nuovo libro di Vattimo, una categoria politico-culturale che credevamo superata

E’ davvero possibile fondare – solo inteso come ispirare, motivare – una posizione politica di sinistra nello spirito di una filosofia debolista o, più chiaramente, nichilista? Che per esempio rinuncia una volta per tutte alla concezione metafisica della verità?

Ho pensato spesso che il mio itinerario (religioso-filosofico- politico) dovesse finire per riassumersi in un motto come: «Dalla San Vincenzo alla San Vincenzo». Il nichilismo filosofico che professo – che non ha necessariamente un senso disperato, negativo, pessimista, ma anzi vuole essere qualcosa come il nichilismo attivo di Nietzsche (sì, quello dell’oltre-uomo...) – comporta una tale presa di distanza dalla retorica politica dello sviluppo e anche della democrazia, che potrebbe risolversi nella scelta deliberata di una posizione marginale, sottratta all’alternativa del «far torto o patirlo».

Non partecipare (più) alle elezioni se non votando come un cittadino qualunque (quando non ho di meglio da fare), prendere con le molle, come si dice, tutti i discorsi dei politici e dei media; al massimo, dedicarsi a iniziative politiche di quartiere, piccole cooperative di reciproca assistenza, banche etiche... È la posizione che spesso ho, tra me e me, bollato come la scelta monastica: il solo modo di non provare rimorsi di fronte ai poveri è farsi poveri come loro...

Già, ma se un nuovo piccolo fratello di Gesù (la congregazione di Charles de Foucauld) si stabilisce in una favela di Rio i poveri del luogo saranno solo uno di più; se invece il mio amico senator-ingegner-capitalista-liberal apre una piccola azienda nella medesima favela e dà un lavoro a qualche decina di disperati, loro forse sono più contenti. È l’alternativa che ho trovato, in termini molto diversi, in una lettera del Nietzsche (già?) pazzo, che da Torino nel gennaio 1889 scriveva a Burkhardt: «Caro professore, alla fin fine avrei preferito di molto fare il professore a Basilea piuttosto che essere Dio; ma non ho osato seguire il mio egoismo privato fino al punto di trascurare, per causa di esso, la creazione del mondo». O anche Machiavelli, almeno nella lettura classica: il principe non può pensare alla propria anima, deve fare tutto quello che è richiesto per la salvezza e l’incremento dello Stato...

La scelta monastica richiede ovviamente una profonda fede nell’altro mondo. Non tutta la salvezza si risolve qui, e anzi l’unico modo, forse, per migliorare il qui è credere nell’oltre...

Se non abbraccio la scelta monastica sarà proprio perché voglio fare «davvero» qualcosa per gli altri (favela brasiliana o università che sia), o solo perché in fondo la politica e la vita del mondo mi piacciono, danno sapore (senso?) alla mia esistenza? Più o meno come non fare il voto di castità, né di povertà e obbedienza... Ma sono problemi sottili, una sorta di snobismo ed eccessiva attenzione alla propria interiorità, che proprio se voglio essere povero con i poveri non posso permettermi. Chi bada a salvare la propria anima la perde; e solo chi accetta di «perdersi» si salva.

Anche questa scelta – «fanno quel che si trova», si dice in piemontese delle donne di strada – richiede fede nella provvidenza; se c’è un Dio ci penserà lui, la mia anima non è affidata principalmente a me. E se poi il Dio che «c’è» non se ne sta nel mondo iperuranio nella sua totale autosufficienza, ma è uno e trino – cioè, come lo capisce la migliore Chiesa, ha una vita che lo porta fuori di sé, e anzi manda il Figlio perché ci aiuti a realizzare lo Spirito (quello di Hegel e di Gioacchino); o ancora, come ha detto Gesù, è fra noi (solo?) quando siamo riuniti nella carità (è il senso dell’essere riuniti nel Suo Nome), ossia è negli altri che mi si rivolgono – allora fare quel che si trova è appunto una via di salvarsi corrispondendo alla «vocazione».

Lo storicismo che anche come «debolista» professo è tutto qui: non «siamo su un piano dove c’è soltanto l’uomo», come scriveva Sartre nel saggio sull’Esistenzialismo come umanismo; siamo su un piano dove c’è principalmente l’essere – ha ragione Heidegger nella Lettera sull’umanismo (1946) con la quale gli risponde. Ma l’essere non è niente di trascendente, è la storia stessa dell’umanità in ciò che ha di «riuscito», in ciò che si è consolidato come tradizione, memoria, istituzione, forme artistiche. Sono gli «altri» nel senso più comprensivo del termine.

Non solo gli altri che hanno vinto e hanno lasciato tracce profonde; anche – forse soprattutto, dopo l’avvento del cristianesimo – coloro che hanno sperato e perso, e che proprio perché non sono «riusciti» meritano di sopravvivere come passato ancora aperto e affidatoci come compito. (Anche in ciò, forse, lo Heidegger di Essere e tempo ha qualcosa da insegnare a Benjamin; e sta con il Bloch del Principio speranza... L’insistenza che molti attribuiscono a una sorta di misticismo di Heidegger, sul compito di pensare il non-ancora-pensato della storia dell’essere, non sarà un altro modo di richiamarci al dovere di ricordare i perdenti del gioco della storia, nella stessa direzione di Benjamin?).

Autore: Gianni Vattimo
Titolo: Ecce comu
Edizioni: Fazi
Pagine: 128
Prezzo: 12,50 euro

mercoledì 21 febbraio 2007

Facoltà di Studi Orientali
Via Principe Amedeo, 182/b
00185 – Roma

Sapienza Università di Roma

ASSOCIAZIONE ITALIANA STUDI CINESI

XI CONVEGNO

LA CINA E IL MONDO

ROMA, 22-24 FEBBRAIO 2007


GIOVEDÌ 22 FEBBRAIO 2007
AULA MAGNA
9.00 Cerimonia di inaugurazione.
STORIA
10.00 A. Lavagnino, M. Miranda, G. Samarani, A proposito di Mao e della Rivoluzione Culturale: due anniversari controversi.
10.30 Sofia Graziani, “Per fare della nostra gioventù una gioventù rivoluzionaria”: la Lega della Gio-ventù Comunista negli anni 1962-1966.
11.00 Pausa caffè
11.30 Patrizia Carioti, La comunità cinese di Nagasaki nei secoli XVI e XVII: uno sguardo d’insieme.
12.00 Davor Antonucci, La “Tartaria” nelle fonti dei missionari gesuiti in Cina tra il XVI e il XVII secolo.
12.30 Federica Casalin, Saggi di economia politica fra le pagine del Wanguo gongbao (1892-1902).
13.00 Pranzo

AULA 1
STORIA
15.00 Elisa Giunipero, La Cina e la Chiesa cattolica negli anni di Pio XI.
15.30 Francesca Congiu, Corporativismo, repressione e paternalismo. Il lavoro sotto il regime autori-tario del Guomindang.
16.00 Flavia Solieri, Gennaio-febbraio 1949: la politica estera della nuova Cina in alcuni aspetti attuati-vi.
17.00 Pausa caffè
CINEMA
17.30 Corrado Neri, Il mondo nel cinema: scambi e incroci tra le cinematografie cinese e occidentale.
18.00 Elena Pollacchi, Flussi migratori: registi e videoartisti tra disorientamento e nuove prospettive.

AULA 5
DIRITTO
10.00 Aglaia De Angeli, Il Codice Penale della Repubblica Cinese e gli influssi occidentali.
10.30 Simona Grano, Diritti di proprietà e diritti d’uso del suolo della R.P.C.
11.00 Pausa caffè
11.30 Bettina Mottura, Esempi di scrittura amministrativa in materia di reclutamento dei funzionari sta-tali (1993-2005).
12.00 Flora Sapio, I gruppi criminali cinesi e la loro struttura. Alcune osservazioni preliminari.
13.00 Pranzo

ARTE E ARCHEOLOGIA
15.00 Luisa Elena Mengoni, Interazioni culturali ed identità regionali nel Sud-ovest della Cina tra la fi-ne dell’Età del Bronzo e il primo Impero.
15.30 Paola Vergara Caffarelli, Archeologia cristiana in Mongolia Interna. Una testimonianza dell’incontro tra la Cina e l’Occidente nel Medioevo.
16.00 Michela Bussotti, Statuine religiose dell’Hunan centrale di epoca moderna e contemporanea.
16.30 Filippo Salviati, Gli artisti cinesi contemporanei nello scenario mondiale globalizzato.

AULA 8
LETTERATURA MODERNA E CONTEMPORANEA
11.30 Nicoletta Pesaro, Scrivere di narrativa: osservazioni sull’impostazione metodologica di alcuni manuali di narrativa cinese moderna.
12.00 Federica Passi, Shanghai-Taibei (e ritorno): la corrente modernista nel XX secolo sulle due sponde dello stretto di Taiwan.
12.30 Anna Maria Paoluzzi, Così lontano, così vicino: problemi di localizzazione nelle traduzioni ita-liane di opere narrative cinesi.
13.00 Pranzo
15.00 Giusi Tamburello, Shi tansuo: una rivista di poesia contemporanea.
15.30 Serena Zuccheri, Il fenomeno generazionale Xin xin renlei (La Più Nuova Umanità) e la nascita della letteratura online nella Cina contemporanea.
16.00 Marco Fumian, Da Mengya a Han Han: l’origine della letteratura giovanile contemporanea.
17.00 Pausa Caffè
17.30 Stefania Stafutti, “Letteratura e legalità”: la percezione della legge nella letteratura cinese con-temporanea.
18.00 Silvia Pozzi, Il letto di sabbia.

VENERDÌ 23 FEBBRAIO 2007
AULA 1
CINA CONTEMPORANEA
9.00 Alessandra Aresu, La salute sessuale e riproduttiva in Cina: sinergie nazionali e internazionali.
9.30 Giovanna Puppin, Il volto nascosto di Pechino: immagini e slogan dalla metropolitana.
10.00 Livio Zanini, Tocca a te bere! Giochi conviviali e consumo delle bevande alcoliche in Cina.
10.30 Valeria Zanier, Il discorso sul WTO nella stampa cinese.
11.00 Pausa caffè
11.30 Valdo Ferretti, Taiwan come problema strategico e militare per la RPC.
12.00 Monica De Togni, La Campagna per lo sviluppo dell’Ovest: dalla globalizzazione all’implementazione locale.
12.30 Giovanni Andornino, Retorica multilaterale per una politica bilaterale? L’evoluzione della politica estera cinese in Asia orientale.
13.00 Pranzo

RELIGIONI E FILOSOFIE
15.00 Maurizio Paolillo, Un ragazzo venuto da lontano. Origine, fortuna e ruolo nel simbolismo spaziale di Pechino di Nezha, fanciullo divino.
15.30 Stefano Zacchetti, Il contributo della “via meridionale” al Buddismo cinese arcaico: alcune note sulle attività di Kang Senghui (III sec. d.C).
16.00 Veronica Lombardi, Analisi della relazioni di sheng ê∂ con xing ê´ e con qing èÓ nel Zhuangzi èØéq.
16.30 Ester Bianchi, Cina e Tibet: Wutaishan come luogo di incontro.
17.00 Pausa Caffè
17.30 Elisabetta Corsi, Aspetti dell’aristotelismo in Cina durante la prima età moderna.
18.00 Daniela Campo, Il Chan in epoca contemporanea: i kaishi del maestro Foyuan (1923-).
18.30 Amina Crisma, È possibile pensare la relazione con il pensiero cinese al di fuori della dicotomia Oriente/Occidente? Una quérelle ermeneutica nello scenario della globalizzazione.

AULA 5
ITALIA E CINA
9.00 Miriam Castorina, Guo Liancheng e il viaggio in Italia del 1859.
9.30 Rosa Lombardi, Viaggiatori e giornalisti in Cina all’inzio del Novecento: come cambia la visione della Cina nell’immaginario collettivo.
10.00 Guido Samarani, L’Italia e la RPC negli anni Cinquanta: contatti e convergenze in campo eco-nomico e commerciale.
10.30 Barbara Leonesi, La Cina, la letteratura italiana e Lü Tongliu. Un progetto di traduzione lungo una vita.
11.00 Pausa caffè
11.30 Valeria Varriano, “Love in Sicily”: quando l’Italia diventa Estremo Occidente.
12.00 Valentina Pedone, Alcune analogie tra l’immagine pubblica degli immigrati cinesi di oggi in Italia e degli emigrati italiani del XX secolo nel mondo.
13.00 Pranzo

LETTERATURA CLASSICA
15.00 Elisa Sabattini, Dettami per il buon governo: analisi preliminare dell’etica di Jia Yi (200-168).
15.30 Paolo De Troia, La visione del mondo europea nella Cina del XVII secolo: la traduzione del Zhifang waiji di Giulio Aleni.
16.00 Federico Masini, Il problema delle fonti cinesi della Sinicae Historiae Decas Prima di Martino Martini.
17.00 Pausa Caffè
17.30 Paolo Santangelo, Aggiornamenti su un progetto: dalla banca dati alla Encyclopaedia of Emotions and States of Mind.
18.00 Donatella Guida, L’uso e le diverse accezioni di ∞Æ ài in tre romanzi di epoca mancese.
18.30 Barbara Bisetto, Memorie di mondi amorosi: raccolta letteraria ed enciclopedismo nel Qingshi leilüe.

AULA 8
LINGUISTICA E DIDATTICA
9.00 E. Banfi, G. F. Arcodia, Fenomeni di grammaticalizzazione in cinese mandarino e questioni di deriva tipologica.
9.30 Adriano Boaretto, La gerarchia di accesso.
10.00 Emanuele Raini, Considerazioni sulla ridondanza fonologica e prosodica del putonghua.
10.30 Chiara Romagnoli, Il “Corso di linguistica generale” di Ferdinand de Saussure in Cina.
11.00 Pausa caffè
11.30 Mariarosaria Gianninoto, I repertori di particelle di epoca tardo imperiale: il Jingzhuan shici.
12.00 A. Ceccagno, B. Basciano, I composti del cinese
13.00 Pranzo
15.00 Alessandra Brezzi, “E’ la lingua cinese monosillabica per natura?” Dizionari, grammatiche e lemmari per l’apprendimento della lingua cinese nell’Italia di inizio Novecento.
15.30 Giorgio Casacchia, Il Grande Dizionario Cinese-Italiano: le premesse, il progetto, le prospettive.

20.00 CENA SOCIALE

SABATO 24 FEBBRAIO 2007
AULA MAGNA
9.00 Presentazione dell’Istituto Confucio di Roma (Federico Masini e Liang Dongmei).
9.30 Tavola rotonda sulla didattica del cinese in Italia.
11.00 Pausa Caffè
11.30 Assemblea generale dei soci.
Repubblica 21.2.07
Il caso. Tre best seller all'opposizione nell'era del ritorno della fede
Liberi pensieri su dio
Perché scalano le classifiche libri sul pensiero dei non credenti
Quando l’ateismo diventa un bestseller
di Gabriele Romagnoli


Gli autori si permettono però un approccio meno rispettoso e criticano le ingerenze in campo sociale
I libri di Richard Dawkins Sam Harris e Maurizio Ferraris non fanno propaganda all'ateismo
Il nuovo culto del Mostruoso Spaghetto Volante è nato su Internet
C'è sfiducia nel moderatismo e nel dialogo tra le fedi: due chimere

Uno è inglese e sta da quasi sei mesi nelle classifiche dei più venduti di mezzo mondo. Un altro americano e lo vedi in mano ai passeggeri di qualunque aeroporto. Un terzo italiano e circola sospinto da un passaparola. Sono tre libri: The God delusion di Richard Dawkins, Letter to a christian nation di Sam Harris e Babbo Natale, Gesù adulto di Maurizio Ferraris. La loro diffusione è un caso editoriale, ma non è un caso dal punto di vista storico.
Nell'epoca del «ritorno della religione» stanno all'opposizione. Liquidarli come pubblicistica atea sarebbe grossolano. Leggendoli uno dopo l'altro si ricavano alcune considerazioni comuni. Almeno tre.
Quel che invece nessuno di loro cerca di fare (benché gli venga attribuito) è provare l'inesistenza di Dio. Non lo fanno perché sanno che è impossibile, come lo è per qualsiasi testo (anche sacro) provarne l'esistenza. Dio resta «un ottativo del cuore» (come lo definiva Feuerbach) o l'oggetto di una scommessa (come sosteneva Pascal). Quel che fronteggiano è la religione, fenomeno sempre più avulso dall'idea stessa di Dio, tant'è che alla domanda «In che cosa crede chi crede?» Ferraris, relativamente al mondo cristiano, non risponde: «In Dio», ma: «Nel Papa». E ora i tre punti comuni.
Il primo è che sia giunto il tempo di non avere più soggezione delle idee religiose. Dawkins in realtà usa la parola «rispetto», giudicandolo «immotivato». Nella sua prosa colorita scrive: «Se qualcuno sostiene che le tasse dovrebbero salire o scendere ti senti libero di litigarci. Ma se invece afferma che di sabato non si dovrebbe neppure fare il gesto di premere un interruttore gli dici: è un'opinione che rispetto». Perché la trovi sensata? No, perché la trovi religiosa. E dovrebbe bastare? Solo per via di quella «soggezione» che sarebbe ora di rimuovere.
Già nel suo precedente libro, La fine della fede, Harris aveva scritto: «Usiamo molte parole per definire convinzioni irrazionali. Quando sono molte diffuse le chiamiamo "fedi" anziché "psicosi" o "illusioni". Chiaramente la sanità mentale è una questione di quantità».
Che cosa è successo? Perché un numero crescente di liberi pensatori si sente in dovere di contrastare non solo nel privato della propria mente, ma in pubblico, l'idea religiosa? La risposta è in cielo, per quanto vi sembri paradossale. Nel cielo sopra New York, mostrato nel trailer di un documentario prodotto da Channel Four e intitolato «La radice di ogni male?». Con una sovrascritta: «Immagina un mondo senza religione». Il punto è: in quell'azzurro svettavano (ancora) le Torri Gemelle. Perché rispetti l'idea religiosa (o ne hai soggezione) e ti trovi davanti a uno che alza il cartello «Decapitiamo chi dice che l'Islam è violenza» a una manifestazione originata da qualche vignetta che pochi hanno avuto, più che il coraggio, la lucidità di definire libera, ancorché non divertente, espressione. O a un Papa che si occupa (indirettamente) di Fiorello e direttamente delle leggi italiane sulla famiglia (ma non di quelle portoghesi sull'aborto).
«E' un'opinione che rispetto». Perché? Perché attiene alla fede. Ma solo alcune fedi ottengono quel rispetto. Come al solito il discrimine è la quantità delle persone coinvolte. Si rispetta chi crede (o dice di credere, o crede di credere) nella Santissima Trinità o nell'ascensione di Maometto al cielo su un cavallo bianco dallo stesso chilometro quadrato in cui Gesù fu deposto e il Tempio eretto, ma non gli adepti del Mostruoso Spaghetto Volante, culto nato su Internet, che pure ha un suo "vangelo" e ha già avuto il suo ineluttabile «scisma». Di quelli, e di qualche setta, purché lontana e purché non sia Scientology, fare dello spirito è, per ora, oltreché facile, consentito. Non se dovessero moltiplicarsi.
Comune a Dawkins, Harris e Ferraris è la sensazione che a non ottenere rispetto, benché numerosi, siano gli atei. Per esperienza recente riporto due esempi. Un fondamentalista islamico mi chiede: «Tu di che religione sei?». Rispondo: «Nessuna». «Allora non esisti», e si gira dall'altra parte.
Assisto alla discussione tra un ateo e un cattolico, entrambi in apparenza tolleranti. Il primo racconta di essersi sposato in chiesa. E perché mai? «Lei era cristiana, ho preferito entrare io piuttosto che far uscire lei». Il cattolico s'infuria sostenendo che il sacramento è stato «profanato». A continuare così, chi non crede sembra destinato ad accettare una situazione che pochi trovano ancora anormale. Quella in cui, come scrive Ferraris «I telegiornali ci danno notizie dell'avvenuto miracolo di San Gennaro con la stessa tranquilla sicurezza con cui parlano di incidenti stradali».
Il secondo punto è la sfiducia in due chimere: il moderatismo religioso e il dialogo tra fedi. Harris è logico e spietato: «O la Bibbia è un libro qualsiasi o non lo è. O Gesù era divino o non lo era. Se la Bibbia è un libro qualsiasi e Gesù un uomo comune, la dottrina cristiana è fasulla e chi la segue un illuso. O ha ragione lui o io. In mezzo non c'è nulla». La sensazione comune è che, come accade nei movimenti d'opinione, siano inevitabilmente destinate a prevalere le tesi più radicali e che per il liberalismo religioso non ci sarà spazio. Paradossalmente, ma non troppo, già questi atei lo disistimano, giacché il salto irrazionale che la fede impone non riescono a concepirlo se non completo. Chi l'ha fatto è finito su una sponda in cui se ne sta insieme con chi ha seguito lo stesso percorso. Due sponde sono come rette parallele e non s'incontrano mai. Di che cosa si può mai parlare nel dialogo interreligioso, si chiede Harris, se le fedi hanno punti di vista incompatibili e, per principio, immutabili? Perché dovremmo illuderci che si mettano d'accordo e cessino le guerre di religione camuffate da conflitti etnici o d'altra natura che insanguinano il nostro presente?
Il terzo punto è il più nevralgico, il più attuale e quello che più ci tocca: l'insofferenza per l'ingerenza della religione nella vita sociale, per la pretesa di regolare in suo nome e per conto la nascita, la morte e gli eventi principali che stanno tra l'una e l'altra, cominciando con l'unione di una coppia. Ovvero, come si può, sulla base dell'irrazionale, arrivare a delimitare il confine da cui comincia la vita? O a una fatwa che spiega come e dove baciare la moglie durante il ciclo mestruale? O a criticare il fondamento di una proposta di legge sui diritti delle coppie conviventi da sottoporre all'esame di un parlamento liberamente e (più o meno) razionalmente eletto? Perché quell'irrazionale ci renderebbe migliori, ci darebbe una morale evitando di sbranarci come bestie? Secondo Dawkins anche questa è un'illusione, finita per lui il 17 ottobre del 1969. In quella data nella religiosa città di Montreal, in Canada, la polizia scioperò. Il livello di crimini commessi in poche ore fu tale da richiedere l'intervento dell'esercito.
Scioperavano gli agenti nelle strade e anche Dio nelle coscienze?
Perché non validare allora il Supremo Divorzio? Quale? Quello proposto da un quarto libro, il più devastante di tutti, perché non scritto da un ateo e neppure da un agnostico, ma da un credente, addirittura l'ex vescovo di Edimburgo, Richard Holloway. Già il titolo Godless morality (Una morale senza Dio) suggerisce all'uomo raffigurato in copertina, sperduto a un incrocio di strade, di tenere separate le due indicazioni, gli dice che non deve necessariamente credere per essere buono e, più avanti, che «la morale si basa su effetti dimostrati, non su convinzioni o superstizioni». Con estremo senso pratico l'ex vescovo scrive che «i vincitori non solo fanno la storia, tendono a fare anche la morale» e rivela che questa guerra delle idee rivestita di porpora è una qualsiasi guerra di potere.

Repubblica 21.2.07
Cristianesimo e diritti
di Umberto Galimberti


Nell'attacco alle unioni civili, la Chiesa da un lato ribadisce con estrema coerenza la sua concezione che subordina la sfera politica alla destinazione ultraterrena che attende ogni individuo in ordine alla salvezza. E dall'altro, dopo aver rivendicato il primato dell'individuo sulla società, nella più perfetta incoerenza alla sua rivendicazione, non perde occasione di conculcare i diritti dell'individuo.
Il primato dell'individuo, infatti, era ignoto sia alla tradizione giudaica, dove l´alleanza era tra Dio e il suo popolo, sia all´altra fonte della cultura occidentale, la grecità, dove l´individuo era subordinato alla città (pólis) e la sua autorealizzazione, nonché la conduzione di una "vita buona e felice", come dice Aristotele, non poteva avvenire se non nella relazione con i propri simili. Ne segue che le leggi della città realizzano, per gli antichi greci, non solo il bene comune, ma anche il bene individuale, non essendoci per l´individuo altra dimensione di autorealizzazione che non sia su questa terra e nella città.
Aristotele in proposito è chiarissimo: "In realtà le stesse cose sono le migliori e per l´individuo e per la comunità e sono queste che il legislatore deve infondere nell´animo degli uomini. [...] Gli uomini, infatti, hanno lo stesso fine sia collettivamente sia individualmente, e la stessa meta appartiene di necessità all´uomo migliore e alla costituzione migliore" (Politica, 1333b-1334a).
Con l´avvento del cristianesimo l´individuo si separa dalla comunità perché alla sua "anima", in cui è stato posto il principio della sua individualità, si prospetta un destino ultraterreno in cui l´individuo, e non la comunità, trova la sua autorealizzazione. In questo modo la vita individuale si separa dalla vita politica, perché la felicità non è più pensata nel complesso della vita sociale, ma lungo quell´itinerario che approda al di là della vita terrena raggiungibile singolarmente e non comunitariamente.
La realizzazione del bene, e quindi la salvezza, è affidata all´uomo in quanto singolo individuo, mentre alla vita collettiva e politica è affidato il compito di creare le condizioni per la realizzazione del bene individuale, quindi il compito della limitazione del male. In questo modo la realizzazione individuale viene separata dalla realizzazione sociale e, in nome della sua interiorità e della sua destinazione ultraterrena, l´individuo cristiano prende a vivere separato nel mondo e poi dal mondo.
Perciò Agostino di Tagaste può dire: "Esistono due generi di società umane, che opportunamente potremmo chiamare, secondo le nostre Scritture, due città. L´una è formata dagli uomini che vogliono vivere secondo la carne, l´altra da quelli che vogliono vivere secondo lo spirito" (La città di Dio, Libro XIV, § 1).
Da Agostino in poi la scissione tra individuo e società sarà il tratto caratteristico del cristianesimo, per il quale la salvezza e la conseguente felicità, oltre a non essere di questo mondo, possono essere conseguite a livello individuale e non collettivo. Ma allora, se la destinazione dell´individuo è ultraterrena, la sua esistenza, pur svolgendosi nel mondo, dovrà essere separata dal mondo, e il senso della sua vita privatizzato o spiritualizzato.
Si consuma così la separazione tra individuo e società. All´individuo il compito di conseguire la propria salvezza ultraterrena, alla società e a chi la governa il compito di ridurre gli ostacoli che si frappongono a questa realizzazione. Morale e politica, unificate nel pensiero greco, divaricano nel pensiero cristiano, perché la destinazione dell´individuo non ha più parentela con la destinazione della società.
Questa è la ragione per cui Rousseau scrive che "Il cristiano è un cattivo cittadino", e che la religione cristiana va superata con una religione civile capace di spostare l´asse di riferimento da Dio agli uomini: "Resta dunque la religione dell´uomo o il cristianesimo che, lungi dall´affezionare i cuori dei cittadini allo Stato, li distacca come da tutte le altre cose terrene. Non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale. [...] Il cristianesimo è infatti una religione tutta spirituale, occupata unicamente dalle cose del cielo; la patria del cristiano non è di questo mondo" (Il contratto sociale, Libro IV, capitolo VII).
Se il primato dell´individuo, che il cristianesimo e non altri ha introdotto nella cultura occidentale, è il principio che consente alla Chiesa di subordinare la politica alla propria visione del mondo, questo principio le si rivolta contro o nella versione religiosa del protestantesimo, dove ciascun individuo se la vede direttamente con Dio senza mediazione ecclesiastica, o nella versione laica, dove ciascun individuo se la vede con la propria coscienza, assumendo per intero le responsabilità che derivano dalle proprie scelte.
Assistiamo così a quello strano fenomeno per cui il principio cristiano del primato dell´individuo, utilizzato nei secoli dalla Chiesa per subordinare a sé la politica, oggi, a secolarizzazione avvenuta, diventa il principio che fonda il primato della politica su ogni ingerenza ecclesiastica.
Infatti, è per esercitare un proprio diritto individuale che chi non può generare per fecondazione naturale accede alla fecondazione assistita, chi non può più sopportare sofferenze intollerabili decide di porre fine ai suoi giorni, ed è sempre per esercitare un diritto individuale che chi non vuole contrarre matrimonio possa convivere con amore nel godimento dei diritti civili.
Il laico (parola che deriva dal greco laikós che significa "ciò che è proprio del popolo") ringrazia il cristianesimo per aver introdotto nella nostra cultura il primato dell´individuo e, in coerenza, rivendica l´esercizio dei diritti individuali. In questa rivendicazione c´è il riconoscimento di fatto e di principio delle "radici cristiane" della cultura europea, per non dire occidentale. E chiede alla Chiesa di non conculcare questa radice su cui sono cresciuti i "diritti individuali" che caratterizzano la nostra cultura.

Repubblica 21.2.07
"Col Pd diventiamo tutti homeless"
Mussi rilancia l'unità a sinistra: insieme da Boselli a Bertinotti
di Umberto Rosso


No ai trionfalismi. Elezioni vinte per un soffio, in molte zone siamo marginali. Dunque niente trionfalismi
Nuovo segretario. Io sono candidato contro Fassino, è giunto il momento di un nuovo leader. È legittimo o no?
Il leader del correntone ds replica ai vertici del partito e difende il Pse
Le pressioni. La Zanotti non è una bugiarda. Le pressioni ci sono state davvero
La scissione. Lasciamo stare. Noi vogliamo fermare il treno del nuovo partito

ROMA - Ministro Mussi, Fassino le lancia un appello: abbassare i toni del congresso. Accolto?
«Ho sempre usato toni rispettosi. Mi ha molto sorpreso perciò il rumore sollevato da una mia dichiarazione, perfino ovvia, e peraltro non nuova».
Occhetto spedito a casa, Fassino invece "in trionfo" quasi con gli stessi risultati. Insiste?.
«L´Unione ha vinto le elezioni per un soffio, fortunatamente, e i Ds al Senato hanno preso il 17 virgola qualcosa. Al netto delle regioni rosse, in molte zone sono ridotti ad una forza marginale. Il trionfalismo non mi pare giustificato. Dovremmo occuparci molto di questo nostro partito, invece che di un improbabile nuovo esperimento».
Il Partito democratico.
«Che ci lascerà homeless, senza casa, lontani dal socialismo europeo. Sento dire: il Pd andrà "oltre" il socialismo. Invece andrà solo fuori e indietro».
Comunque anche Occhetto ha protestato.
«Mi ha telefonato, "oh Fabio, io ho lasciato il partito sopra il 20". Ha ragione, io parlavo del 16 per cento ottenuto nel ‘92, dopo il trauma della svolta. Ma Occhetto ha salvato la Quercia, l´ha sottratta alle macerie del muro di Berlino. Invece è stato trattato senza rispetto, per me è una ferita ancora aperta».
Però è come dire al segretario in carica: la porta è là.
«Mi sono candidato al congresso in alternativa a Fassino, è arrivato il momento di un nuovo segretario e una nuova politica. Penso sia legittimo. O no?».
Onorevole Mussi, denunciate intimidazioni su chi sottoscrive la mozione del correntone. Dove è successo?
«Pressioni, parliamo di pressioni. Ne ha riferito a Bologna l´onorevole Zanotti, e l´ho difesa: posso testimoniare che non è una bugiarda. Perché è accaduto lì ed è accaduto anche altrove. Non voglio enfatizzare più del necessario, ma fidatevi, purtroppo succede».
La segreteria ds sostiene che flirtate con Rifondazione, che preparate la scissione.
«Lasciamo perdere. Noi piuttosto vogliamo vincere il congresso della Quercia, fermare il treno del Partito democratico. Ma che progetto è? Diciamolo: solo la fusione di Ds e Margherita. Punto. Blocchiamone la corsa prima che perfino dal lessico politico vengano cancellate le parole "sinistra" e "socialismo"».
E se non riuscite a fermarlo, il treno? Scendete giù?
«Un passo alla volta. La nostra sfida per ora è la seguente. Nel momento in cui la sinistra in tutte le sue componenti si trova al governo, sulla base di un programma comune, maturano le condizioni per un atto politico nuovo. Per mettere insieme queste diverse anime della sinistra, quelle più radicali e quelle più legate alla tradizione. Senza abbandonare il solco del socialismo europeo».
Possibile far convivere tutti quanti, da Boselli e Bertinotti?
«Non penso di contrapporre fusione a fusione. Penso che tutti debbano rimettersi in discussione».
Fassino punta tutto invece sul Pd.
«Sono stato fra i fondatori dell´Ulivo, da capogruppo dei Ds lo difesi, anche quando D´Alema lo contestò a Gargonza e nei documenti congressuali del partito si faticava perfino a parlarne. Ma siamo partiti dal 44 per cento del ‘96 e siamo arrivati al 31, perdendo molti pezzi per strada, restando solo noi e la Margherita. La spinta non c´è. Fra Ds e Margherita è possibile ed è giusto un rapporto di coalizione, non un matrimonio».
Ma è pronto il manifesto dei valori del nuovo partito.
«Grandi acrobazie dialettiche. La sostanza è: il Pd non sta nel Pse. Del resto, già è successo che gli europarlamentari eletti con l´Ulivo si siano divisi. Ds nel Pse, dielle nei liberaldemocratici. Con un paradosso. Quando i diessini si sono dimessi, il loro posto l´hanno preso esponenti della Margherita, a Strasburgo finiti nel gruppo di centro. Risultato: con la lista unica dell´Ulivo abbiamo indebolito il Pse. E temo succederà ancora».

Repubblica 21.2.07
Il partito democratico
di Michele Serra


Quello che avevo capito, del Partito democratico, era che intendeva semplificare la politica italiana accorpandone almeno alcune componenti. Ottima intenzione. Ma dal garbuglio di parole che si legge sui giornali, l´unica certezza è che la sinistra-sinistra, cioè quella nebulosa di partiti, componenti e correnti che si richiamano alla tradizione di classe, vede il progetto come il fumo negli occhi. Lo giudica una svolta moderata, punto e basta.
Lo scenario futuro, a quanto si può capire, prevede dunque infinite repliche degli attuali dissidi: da una parte un Pd moderato e governativo (e magari litigioso al suo interno…), dall´altra la sinistra antagonista o radicale che dir si voglia. In disaccordo su quasi tutto: Tav, basi Nato, politica estera, legge Biagi eccetera. La domanda ovvia di un elettore di centrosinistra, dunque, non può che essere questa: ma a che serve fare un nuovo partito se è destinato a replicare le vecchie, acide, inconcludenti divisioni della sinistra italiana? A meno che sia già stato messo in preventivo un utile, riposante congelamento della strategia politica, delle decisioni importanti, delle scelte di fondo, grazie a un nuovo, riposante periodo di opposizione. Ci si ritempra, a non governare. E si invecchia serenamente.

La Stampa 21.2.07
Madri Assassine
Il silenzio della signora specie
di Stefania Miretti


E’ di nuovo Emergenza Madri Assassine e si potrebbe fare qui il riepilogo delle cose già dette, tutte sensate. Compilare l’ennesimo elenco dei «problemi», con relative «giustificazioni», che oggi come oggi e sempre più frequentemente pare (per quel che valgono le statistiche, siamo nei paraggi di un bel +40% in dieci anni) mettono una donna nella condizione di tagliare la gola al figlio neonato - con le macabre varianti che sappiamo, dal pupo in lavatrice alla pupa finita con un calcio - o anche solo, nei casi più lievi, di cacciare di casa un bambino di otto anni perché disturba: solitudine, isolamento, stress, ansia da prestazione, egoismo proprio o altrui, depressione, incapacità di sacrificarsi, perfezionismo, logorio della vita moderna.
E però, da donna e da madre: non serve. O più ottimisticamente, non basta. Non basta a spiegare come mai siamo sempre meno capaci di vedere il limite che a tutte è capitato di costeggiare, a una certa vaga ma ragionevole distanza, nella propria carriera di madre: quando quel bambino che strilla, t’impedisce di riposare la notte o magari di andare in vacanza alle Maldive, prende per un attimo le sembianze del nemico che, in effetti, un po’ è. Ma anche - e per fortuna è la casistica più significativa - quando quel bambino diventa il centro del mondo, qualcuno da accudire e coltivare e soddisfare al di là del possibile e del necessario: e a saltare allora non è l’istinto materno, ma quello di auto-conservazione
E’ vero, le mamme fanno fatica e ci vorrebbero politiche sociali mirate, più posti negli asili e più sensibilità nei luoghi di lavoro; ci vorrebbero padri migliori, nonni meno moderni, vicini di casa generosi, contesti sociali meno degradati e modelli di felicità esistenziale meno fasulli e cinici. Ma non è solo una questione di Welfare e di programmi tv, purtroppo.
Una donna che uccide suo figlio, sosteneva Lombroso, è un errore della natura. Già: ma noi siamo ancora agiti dalla natura e soggetti alle sue leggi? La sentiamo, riusciamo ancora a sentirla la voce della Signora Specie, quando ci parla? E’ questa la domanda più spaventosa, perché veramente «al buio», che ci chiama in causa non solo come categorie di persone sottoposte a specifiche emergenze - gli adolescenti bulli, i vicini di casa killer e, purtroppo, le mamme assassine - ma come esseri umani. Eppure, tra la ricerca di una nuova cura per la depressione post-partum e una legge che allunghi l’orario dei nidi, bisognerà pur pensarci, prima o poi.

l’Unità 21.2.07
Annunziata presenta il suo libro con Mieli, Negri e Deaglio
Ti ricordi il ’77? Università, fabbriche
e quel mistero chiamato computer
di Luigina Venturelli


L’occasione farebbe pensare ad un amarcord, ad un dibattito vagamente nostalgico sulla stagione più turbolenta della vita politica italiana. Si parla di «1977 L’ultima foto di famiglia», il libro scritto da Lucia Annunziata sull’anno in cui il Paese esplose in migliaia di scontri di piazza, infrangendo per sempre l’immagine di una sinistra tutta unita dal Pci ai movimenti radicali.
Invece il dibattito alla Casa della Cultura di Milano non può che animarsi d’attualità, visto che i protagonisti di ieri sono rimasti quelli di oggi: insieme all’autrice ci sono infatti Toni Negri (allora tra i fondatori di Potere Operaio, diventato un’icona new global con il saggio di filosofia politica Impero), Paolo Mieli (ex militante di Potere Operaio, ora direttore del Corriere della Sera) ed Enrico Deaglio (ex dirigente di Lotta Continua, adesso direttore del settimanale Diario).
È proprio Deaglio a sottolineare corsi e ricorsi della storia: «Le istanze del magmatico movimento universitario del ‘77 sono ancora attualissime. Sono le stesse istanze su cui oggi si fa una piattaforma per essere eletti presidenti del Consiglio: coppie di fatto, riforma delle università, energie alternative. Ieri facevano grande scandalo, oggi sono il nostro pane quotidiano».
Gli eventi del ‘77, dunque, continuano a farsi sentire: «Quell’anno ha seminato e dato frutti duraturi - rileva Mieli - positivi e negativi. Mentre il ‘68 è stato riducibile a qualcosa che già esisteva, vale a dire la sinistra tradizionale, il ‘77 ha mostrato l’irriducibilità di massa. Per la prima volta emerse ciò che ancora oggi si definisce per comodità autonomia e autonomi». Fenomeni «che si ripresentano anche nel 2007 non inquadrabili nella sinistra organizzata e che comportano quindi la possibilità di uno scontro con essa. Gli irriducibili e gli indomabili - conclude il direttore del Corsera - non sono mai più stati ridotti né domati».
Ancora più definitiva la rivoluzione che, secondo Negri, il ‘77 portò nella vita politica e sociale italiana: «Allora si consumò la fine della grande fabbrica, un evento di enorme portata, di cui il grande partito comunista non si accorse per nulla. Solo pochi anni dopo l’informatica avrebbe infatti cambiato per sempre l’organizzazione del lavoro, con effetti rivoluzionari anche in campo sociale».
Secondo il filosofo che ha teorizzato l’esistenza di un nuovo impero senza confini territoriali, nato con la globalizzazione e la informatizzazione, «allora si compì lo scivolamento della lotta di fabbrica al di fuori della lotta di classe, allora si formarono nuove sensibilità e nuovi modi di vita».

Repubblica Genova 21.2.07
Europa e Islam, poi conferenza spettacolo al Ducale
Antigone secondo Cacciari il mito, la tragedia e l'oggi
di Margherita Rubino


"Antigone. Lo stato e l'individuo" è il titolo della lezione che Massimo Cacciari tiene alle 20.30 a Palazzo Ducale, in chiusura del ciclo "Teatro e filosofia", con letture degli attori Luca Bizzarri, Lisa Galantini e Elisabetta Pozzi. Introducono gli organizzatori del ciclo, Luca Borzani e Savina Scerni.
L'evento sarà preceduto alle 17.30 al Jolly Hotel Plaza da una conversazione su "Islam e Occidente" con l'associazione "L'Europa che vogliamo".
Antigone di Sofocle è la ragazza che ha detto "no". Dodici negazioni, in lingua greca, nei dodici versi-chiave della tragedia, quelli in cui la piccola ribelle nega obbedienza alle leggi scritte dello Stato, ritenendo più alte e più degne di obbedienza le leggi, non scritte, della coscienza individuale e della religiosità. Lei vuole seppellire il fratello, ucciso mentre assaliva la città, il tiranno le oppone i propri decreti, dice che "il nemico resta nemico anche quando è morto". Lei, arrestata, muore, lui esce distrutto.
Forse proprio in questa capacità di assoluto, che impedisce di venire a patti, sta il magnetismo esercitato dall'eroina greca su Massimo Cacciari: da oltre vent'anni il filosofo scrive di Antigone: da quando, nel 1985, il suo articolo Perché Antigone inaugurava la rivista Antigone. Bimestrale di critica dell'emergenza, voluta da Rossana Rossanda (e con, tra gli altri, Carol Beebe Tarantelli, Luigi Manconi, Marco Lombardo Radice, Gianni Baget Bozzo). Poi un saggio, lezioni e dibattiti, fino alla traduzione, oggi, per Einaudi, dell´intera tragedia, allestita dallo Stabile di Torino.
Antigone, dunque, è "ricorrente" non solo nel teatro, nella giurisprudenza, nelle arti, e oggi su internet, da 2500 anni. Ricorre pure, e diversamente, nella attività di uno stesso scrittore (Rossanda 1979, 1987, 2002). Per Cacciari, nei primi anni Ottanta, era il segno della capacità di agire, il dran greco, a cui tutti dovremmo essere pronti, sempre: mentre l´Italia, dopo gli anni Sessanta, non si era mostrata pronta, non aveva deciso. Dopo il decennio degli "anni di piombo", il filosofo veneziano assumeva dunque la problematicità della tragedia di Sofocle come simbolo dei momenti di passaggio della vita di un paese. Oggi ne studia il linguaggio, ne traduce la parola, che definisce dotata di una energia originaria, mortale, capace di uccidere. Dai conflitti e dagli scontri verbali del testo greco Cacciari, oggi, trae la definizione totalizzante di "inesausto agonismo" della pièce antica e della sua protagonista. È una definizione di sintetica e giusta rilevanza. La tragicità di Antigone di Sofocle non sta tanto nella radicale opposizione di due persone che sono portatori di due principi opposti: di qua la legge dello stato, storica, mutevole, la legge positiva della moderna giurisprudenza; di là la legge della pietà e della coscienza, non scritta, eterna, la legge naturale. La tragicità del testo mandato in scena ad Atene nel 442 a.Ch. sta nella irresolubilità del conflitto. Chi ha ragione? Creonte che deve fare rispettare le leggi a tutti, parenti compresi? O Antigone che ha come dovere supremo, dovere del sangue e dell'anima, quello di seppellire il fratello?

La Stampa 21.2.07
Massimo Cacciari: "Il manifesto del nuovo partito? Orripilante"
Il sindaco di Venezia boccia il programma-base del Pd
di Marco Castelnuovo


Sindaco Cacciari, è il grande giorno. Oggi si vota sulla politica estera e l’Unione rischia di non avere numeri sufficienti. È preoccupato?
«Come posso non esserlo?»
La politica estera che pure era stata terreno di intesa tra le varie anime dell’Unione sul Libano, rischia ora di dividere.
«Ma l’Unione è già divisa. È divisa su tutto!»
«Niente maggioranza e si va a casa», dice D’Alema. La coalizione è già alla frutta?
«Vede, all’Unione manca un partito, o meglio un centro politico egemone e in grado di mantenere la rotta. La casa delle Libertà questo centro l’aveva trovato. Era debolissimo perché riassunto in una sola persona, Silvio Berlusconi, ma almeno ce l’aveva. Noi no».
E quindi?
«Quindi, per forza, ogni volta si rischia di andare sotto. Manca la forza centrale attorno cui tutto ruota. Una forza obiettivamente egemone nell’ambito della coalizione. In Germania, l’Spd si può alleare con i Verdi perché le forze tra loro sono molto diverse. In Italia, a prescindere dalle ideologie e dalle differenze di contenuto dei partiti, è chiaro che esistendo solo forze più o meno equivalenti, non è possibile esercitare una forza egemone nella coalizione».
Per questo nascerà il partito democratico?
«È evidente».
Beh, allora ci siamo. Pronto il manifesto, convocati i congressi di Ds e Margherita, Il Partito democratico è pronto a nascere.
«Per carità. Il manifesto....»
Cos’ha che non va?
«È completamente deludente. Non siamo nemmeno ai livelli minimi attesi. A tutto serve meno che a delineare una nuova forza politica pronta per le sfide che ci attendono nel futuro».
Cosa non la convince?
«Ma l’ha letto? Non vede che è completamente bloccato, compromesso e preoccupato dalla damnatio memoriae dell’una e dell’altra parte? Non ha riferimenti alla storia politica, non contiene critiche al passato, non ha proposte nuove e concrete istituzionali e sociali. Ma a cosa serve un manifesto se non analizza il passato e non getta le basi per il futuro?»
Beh, contiene riferimenti ai valori...
«Ecco appunto. È un generico solidarismo e buonismo alla Veltroni senza avere la capacità retorica e di comunicazione di Walter».
Neanche la retorica salva?
«Guardi è un testo letterariamente orripilante e di contenuti zero».
Antonio Polito, sul Foglio di ieri, sostiene che manchi un’ideologia sottostante.
«Ma per fortuna! Cosa voleva anche l’ideologia? Ce n’è fin troppo di zucchero, ci son troppe caramelle sparse qua e là nel documento. Meglio così, altroché ideologie».
Anche lei crede che manchi un’idea forte che giustifichi la nascita di un nuovo partito, come ha recentemente sostenuto Maurizio Ferrera su Europa?
«Sono stufo di urlare ai quattro venti. Anche all'inaugurazione della terza edizione del Centro di formazione politica di Milano, abbiamo discusso con Panebianco su Partito democratico e leadership forte. Da qui dobbiamo partire, non pensare ai compromessi e al bilancino».
Ma lei le ha dette queste cose ai saggi che hanno stilato il manifesto?
«Senta, non possiamo perderci in mille discussioni. Facciano il Partito democratico al più presto possibile e poi vedremo di riempirlo di contenuti».
Ma se queste, per lei, sono le basi, non è molto augurante per gli elettori...
«La mia ultima, estrema speranza è che la tribù degli ex Fgci e la tribù dei prodiani riescano a fare il Partito democratico».
Sempre e comunque?
«Certo».
Altrimenti?
«Altrimenti si muore. Così invece corriamo solo il rischio di fare qualcosa di maldestro. Rimanendo fermi saremo costretti alla morte politica».
Come giudica la posizione assunta dal governo sulle unioni di fatto?
«Non entro nel merito, ma tatticamente mi è sembrata una mossa azzardata».
Perché?
«Io davvero non capisco quale demone perverso abbia consigliato all’Unione di impelagarsi nei problemi etici e di famiglia».
Non se ne doveva occupare?
«Tutt’altro. Ma un tema di questo genere va avviato attraverso un dibattito parlamentare, dal quale ne uscirà una legge di iniziativa parlamentare, non di governo».
Questo per non far precipitare i rapporti con la Chiesa?
«Ma no, ma no! I rapporti tra Stato e Chiesa sono difficili e lo saranno sempre di più specie nei Paesi occidentali, al di là della legge sulle unioni di fatto. Stanno venendo al pettine nodi storici che renderanno sempre più difficile questo rapporto».
C’è chi nell’Unione vorrebbe abolire il Concordato.
«Ma non c’entra nulla il Concordato. Non sono questioni tecnico-logistiche, ma veri e propri dilemmi dottrinali. Per questo diverranno sempre più tesi i rapporti tra Stato e Chiesa».
E come potranno essere allentati?
«Ci vuole un franco e mutuo rispetto, riconoscimento e conoscenza, altrimenti si è destinati all’inimicizia. Bisogna ripartire dalla “Gaudium et Spes”: Rispetto, ma autonomia e indipendenza del potere politico».
Ma come si costruisce questo rispetto?
«Vede, verso la Chiesa ci sono sensibilità diverse. Ma anche nella stessa Chiesa nei confronti dello Stato. All’interno dell’una e dell’altro ci sono persone che obiettivamente, oggettivamente esasperano questi rapporti. Per storia, valori, cultura. Non ci si può fare nulla».
Per cui saremo destinati a rapporti sempre più tesi?
«Diciamo che se ci fossero persone con la sensibilità di Napolitano da una parte e del Cardinal Martini dall’altra, tutto sarebbe più facile».

martedì 20 febbraio 2007

Corriere della Sera 20.2.07
NEUROSCIENZE
Dalla retina al cervello la realtà è immediata


In un lavoro pubblicato su «Nature Neuroscience» un'équipe di ricercatori della Facoltà di Psicologia dell'Università San Raffaele di Milano, guidata da Concetta Morrone, in collaborazione con colleghi di St. Louis Missouri, della Fondazione Stella Maris di Pisa e del Cnr di Firenze guidati da David Burr, e con colleghi australiani, dimostra che il nostro sistema visivo costruisce molto presto una mappa oggettiva del mondo circostante e non, come si sarebbe supposto, una mappa basata sulle proiezioni soggettive sulla nostra retina.
L'espressione «molto presto», in questo caso, ha una misura precisa: appena due o tre connessioni neuronali a valle della retina. La dottoressa Sofia Crespi del San Raffaele spiega il succo di questa scoperta. «E' noto — dice — che ogni immagine retinica viene vista in parallelo da più di 50 "schermi cerebrali" che la scindono nelle diverse componenti e ne studiano, separatamente, i differenti aspetti quali la forma, il colore, la profondità e il movimento. Nel cervello dell'uomo, ma anche della scimmia, sono dunque presenti innumerevoli mappe dette in gergo "retinotopiche", nelle quali cellule nervose spazialmente vicine ricevono informazioni da altre cellule nervose che sono anch'esse contigue nella retina: mappe topografiche che indicano dunque una specializzazione funzionale di quel pezzetto di corteccia cerebrale».
L'area cerebrale dove viene codificata l'informazione sul movimento degli stimoli visivi è la corteccia medio-temporale, abbreviata in MT. Quest'area dista solo poche stazioni di connessione nervosa dall'area corticale che per prima riceve l'informazione visiva ed effettua un'analisi preliminare, ma altamente specializzata, delle caratteristiche del movimento.
Concetta Morrone e David Burr spiegano perché i loro risultati sono sorprendenti: «E' sorprendente scoprire come il cervello, già dopo due o tre sinapsi dalla retina, riesca a liberarsi dell'architettura che connette ogni neurone a gruppi di fotorecettori specifici e costruisca una rappresentazione, una "telecamera", che non è più solidale con gli occhi ma col mondo esterno. Fino ad oggi si è pensato che quest'area fosse organizzata secondo una mappa retinotopica. Ora abbiamo invece dimostrato che questa regione, nella specie umana, organizza la sua attività in una mappa che riproduce le posizioni spaziali del mondo esterno anche secondo un codice di tipo spaziotopico».
Il metodo da loro adottato è la risonanza magnetica funzionale. Il soggetto sperimentale, sdraiato nello scanner della risonanza, osservava su uno schermo degli stimoli di movimento piccoli ma sufficienti a generare una risposta forte da parte dell'area MT. Precedenti esperimenti avevano dimostrato che tale regione è sensibile alla posizione spaziale di questi stimoli di movimento, ma solo quando lo stimolo viene proiettato in particolari regioni del campo visivo. Si è così potuto mostrare che la risposta dell'area MT rimaneva coerente con la posizione dello stimolo di movimento sullo schermo (si noti bene, sullo schermo, cioè nel mondo esterno) e non sulla retina. I deficit nella percezione del movimento, nella costruzione di una rappresentazione spaziale del mondo e nell'orientamento nello spazio che mostrano i pazienti con la malattia di Alzheimer, potrebbero essere, quindi, ricondotti ad una disfunzione dell'area MT.
A meno di quattro passi (neuronali) dalla pura soggettività già siamo immersi nello spazio oggettivo. Diffidiamo, quindi, di coloro che invitano a rannicchiarsi nelle nostre sensazioni immediate per trovare il vero. Le neuroscienze cognitive mostrano, una volta di più, che per noi è subito realtà. E' il reale che è immediato, mentre il soggettivo è una costruzione sempre piuttosto malcerta.

il Riformista 20.2.07
Nevrosi. Una sconfitta per il repressivo Nicolas
Gli psichiatri francesi la spuntano su Sarko La polizia non può schedare i malati di mente
di Livia Profeti


Con una netta rivendicazione della propria identità professionale gli psichiatri francesi hanno conseguito un’importante vittoria sul governo. Dopo un braccio di ferro durato mesi e grazie a uno sciopero che ha raggiunto la quota di partecipazione del 75%, il 13 febbraio scorso il ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy, candidato della destra alle future presidenziali, si è visto costretto a ritirare la sezione sulla malattia mentale contenuta nel progetto di legge sulla sicurezza, in discussione in Parlamento.
La nuova normativa presentata, di impronta genericamente repressiva, inseriva nel vasto calderone delle più varie misure contro la delinquenza anche alcune norme sui ricoveri psichiatrici obbligatori, rafforzando i poteri del sindaco rispetto a quello dei medici e creando uno schedario nazionale delle persone ospedalizzate.
Gli psichiatri, appoggiati dagli altri professionisti del settore, dalle organizzazioni dei familiari e dall’opposizione di sinistra, si sono ribellati al provvedimento ritenendo che la sola presenza di aspetti psichiatrici in un testo sulla delinquenza creasse il presupposto per un ritorno indietro in quel percorso di stampo illuminista che, da più di 200 anni, cerca di separare malattia mentale e criminalità.
Lo scontro si inserisce nell’ambito di un dibattito, in piedi dal 2001, sulla revisione dell’attuale legge francese sulla malattia mentale, varata nel 1990 con un’impostazione antipsichiatrica. Una legge che, nata con l’intenzione di chiudere i manicomi lager e togliere alla malattia mentale lo stigma sociale, come la nostra legge 180 si è però scontrata con le tante difficoltà che la malattia mentale comporta, a partire dal rifiuto della cura che è tipico proprio dei suoi casi più gravi. Anche gli psichiatri francesi sono quindi convinti della necessità di una sua revisione, ma pretendono che ciò avvenga in un quadro sanitario e non in quello di una legge sulla sicurezza.
La questione è cruciale perché la malattia mentale è in crescita nei paesi occidentali e, come testimoniato dagli studi della Ue e dell’Oms, sta diventando uno dei principali problemi della sanità pubblica. Le due metodologie più diffuse per il trattamento dei disturbi psichici, l’antipsichiatria e l’organicismo, non hanno evidentemente impostato la ricerca nella giusta direzione perché altrimenti, come per qualsiasi altra patologia per la quale sia stata individuata la cura, i numeri sarebbero diminuiti e non aumentati. Questa considerazione epidemiologicamente ovvia, vale però solo per coloro che ritengono che la malattia mentale sia una questione medica, uno statuto per esempio rifiutato dall’antipsichiatria, per la quale essa non è una patologia da curare ma una «diversità» della quale «prendersi cura».
In Italia, il dibattito sul trattamento pubblico della malattia mentale è piuttosto fermo, paralizzato tra le proposte di destra in stile sarkozyano e l’eccessivo arroccamento della sinistra dietro i modelli noti, dei quali non si vuole discutere l’impostazione teorica. In questo quadro pare muoversi il cocktail di farmaci e filosofia proposto, con il nome di «psichiatria a misura d’uomo», da Umberto Galimberti su Repubblica del 12 febbraio. Strenuo sostenitore della consulenza filosofica, per la cui diffusione dirige la collana «Pratiche filosofiche» dell’editrice Apogeo del gruppo Feltrinelli, per Galimberti il «prendersi cura» assume il significato specifico di terapia filosofica esistenzialista. Con il suo La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica del 2005 egli aveva già posto la Daseins-analyse come unico piano teorico possibile in questo ambito, con gli ovvi riferimenti ad Heidegger, Binswanger e soprattutto Jaspers, figura paradigmatica di medico che si è fatto filosofo. Ora propone alla psichiatria organicista e ai suoi «utilissimi» farmaci di umanizzarsi, imparando dalla psichiatria fenomenologica le «diverse modalità della sofferenza esistenziale», comunque ineliminabile.
Dunque psicofarmaci e filosofia. La proposta di Galimberti sembra curiosamente ignorare sia l’allarme sociale sul crescente abuso di psicofarmaci ormai somministrati a partire dalla più tenera età, sia il fatto che la psichiatria fenomenologica è già da trent’anni, con la legge Basaglia, la base teorica della psichiatria italiana. Se questa è la risposta della filosofia italiana alla tragedia della malattia mentale in aumento, allora, «ormai solo un medico ci può salvare!». E non un dio, come diceva Heidegger.

il Riformista 20.2.07
EDITORIALE
A sei mesi dal varo
L’indulto ha fatto centro. Sconfitti i catastrofisti


Con tono dialogante e costruttivo, per niente polemico, consigliamo a tutti gli avversari dell’indulto, compresi i malpancisti dell’Unione, la lettura del rapporto, curato da Claudio Sarzotti dell’università di Torino, che ieri il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi ha presentato in una conferenza stampa. Si tratta del primo bilancio effettuato a sei mesi dal varo di quel provvedimento. E i risultati, a fronte della campagna catastrofistica scatenatasi dopo l’indulto, sono sorprendentemente positivi. Un dato più di tutti: su circa 25 mila detenuti scarcerati solamente l’11 per cento è rientrato in carcere. Insomma, un tasso di recidiva, come lo chiamano gli esperti, bassissimo. Praticamente niente se confrontato con il tasso di coloro che escono invece dopo aver scontato interamente la pena, cioè il 68 per cento. Non solo: i dati forniti da Manconi sfatano anche un altro mito perché il tasso di recidiva degli italiani “indultati” è superiore a quello degli immigrati. Non a caso, il sottosegretario ha citato l’infamante campagna preventiva contro il presunto mostro di Erba, il marito tunisino di Raffaella Castagna.
Proseguendo: il secondo reato più diffuso tra quelli che sono rientrati in carcere riguarda violazioni alla legge sulla droga, la Giovanardi-Fini. Ed è per questo che Manconi ha annunciato che l’abrogazione di questa legge, insieme con la Bossi-Fini sull’immigrazioni e la ex-Cirielli, libererà persone che «dovrebbero essere altrove, non in carcere». Calcolando poi che grazie all’indulto oggi la popolazione carceraria è sotto le 40mila unità, rispetto a una capienza regolamentare di 42mila. Insomma, nelle carceri finalmente si respira e tutto questo contribuisce a fare dell’Italia un paese civile.

L’Unità 20.2.07
Indulto, nessuna «invasione» criminale: e a tornare a delinquere di più sono gli italiani


Dei 25.694 ex detenuti usciti dal carcere grazie all’indulto varato il 31 luglio scorso, sono soltanto 2.855 (l’11,11%) quelli che sono tornati in cella dopo essere stati arrestati per un altro reato. Un tasso di recidiva infinitamente più basso rispetto a quello «fisiologico», calcolato dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in un preoccupante 68%. È questo il dato più importante della ricerca presentata ieri dal ministero della Giustizia a sei mesi dall’approvazione dell’indulto. Un dato che assieme a quello dei reati commessi nel secondo semestre del 2006 (1.310.888 contro 1.308.113 dello stesso periodo del 2005) smentisce le tante voci che avevano denunciato «l’allarme sociale» causato dall’atto di clemenza approvato dal Parlamento. I dati presentati ieri e elaborati dall’università di Torino, inoltre, sfatano il luogo comune secondo il quale sarebbero i detenuti stranieri i criminali più incalliti: a tornare a delinquere sono stati infatti più gli italiani (12,28% di quelli usciti grazie all’indulto) che non gli extracomunitari (10,59%), dei queli 1 su 5 è rientrato in carcere unicamente per la violazione della legge «Bossi-Fini». «Un bilancio estremamente confortante», ha spiegato il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, «dati positivi soprattutto se paragonati a quelli dell’indulto del 1990: allora furono scarcerate 10 mila persone ma, dopo solo un anno, la popolazione penitenziaria era aumentata di altrettante unità». Oggi, invece, sei mesi dopo il varo, nei penitenziari italiani ci sono 39.827 detenuti, vale a dire 980 in più rispetto allo scorso agosto quando le carceri italiane rischiavano di esplodere, con oltre 60 mila detenuti a fronte di una capienza di 42 mila posti. «Ma l’indulto da solo non può portare a una riforma del sistema penitenziario - spiegato Manconi - Servono infatti tre riforme: l’abrogazione della “Bossi-Fini” sull’immigrazione su cui stiamo lavorando, l’abrogazione della legge “Fini-Giovardi” sulle droghe e l’abrogazione della “ex Cirielli” sulla recidiva».
Oltre ai 25.694 ex detenuti usciti dal carcere (di cui 2.855 rientrati), l’indulto ha riguardato anche 17.290 persone che scontavano la pena in misura alternativa alla detenzione. Di questi, la ricerca condotta dall’Università di Torino ha preso in esame un campione di 5.869 adulti: 352 (pari al 6%) sono tornati in carcere. Il numero dei rientri in carcere è pressoché stabili e, ad eccezione dei primi tre mesi, si aggira sui 500 al mese. A beneficiare del provvedimento di clemenza sono state nella grande maggioranza (80,22%) persone tra i 25 e i 44 anni. Fra le regioni in cui più alta è stata la recidiva delle persone “indultate” la Campania (15,38%), la Liguria (14,72%), la Toscana (14,26%), e l’Emilia Romagna (13,23%). Fra le percentuali più bassa, quelle del Molise (2,55%) e Basilicata (4,64%). ma.so.

L’Unità 20.2.07
Indulto, solo l'11% torna in cella
di Paola Zanca

«Elementi di razionalità per un buon uso dell'indulto». Li chiamano così i dati della prima indagine a sei mesi dal decreto che ha "svuotato" le carceri e scatenato il malcontento di buona parte dell'opinione pubblica. La ricerca presentata lunedì al ministero di Grazia e Giustizia e condotta dall'Università di Torino in collaborazione con il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, tira il primo bilancio a sei mesi dal provvedimento voluto dal governo Prodi lo scorso luglio, e racconta che non è andata poi così male.
Quello che emerge, è un quadro molto meno allarmante di quella che era ormai opinione diffusa: gli indultati sono tornati a delinquere. In realtà, l'indagine sulla popolazione carceraria tornata in libertà dimostra che la percentuale dei detenuti che è già rientrata in carcere si aggira intorno all'11%. Per dirla in numeri, sugli oltre 25 mila detenuti che hanno beneficiato del decreto voluto dal ministro Mastella - a cui vanno sommati altri 17 mila che grazie all'indulto non hanno dovuto scontare misure alternative al carcere - meno di 3 mila hanno di nuovo varcato i cancelli delle carceri italiane. Un tasso di recidiva nettamente inferiore a quello registrato mediamente da chi compie reati, e che si attesta su percentuali che superano il 60% dei casi.
Un risultato che soddisfa il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, soprattutto se paragonato a quanto era avvenuto a seguito del precedente indulto, nel 1990. Diciassette anni fa, a soli dodici mesi dall'approvazione del provvedimento, le carceri italiane erano tornate ad essere sovraffollate come un tempo, rendendo vano il decreto che doveva migliorare le condizioni di vita dei reclusi: «Oggi - sottolinea Manconi - possiamo ritenerci soddisfatti perché è migliorata la vivibilità delle nostre carceri: non solo a favore dei detenuti, ma anche di tutti gli agenti di polizia penitenziaria che in carcere lavorano».
Ma il passo successivo, sono le riforme. «Ora - aggiunge Manconi - si può pensare ad una riforma del sistema penitenziario, che senza l'indulto non sarebbe stata possibile». Certo, non basterà la riforma delle norme sulla carcerazione se prima non verranno modificate alcune leggi che hanno affollato le prigioni italiane: dall'ex Cirielli sulla recidiva, alla legge sulle droghe voluta da Fini e Giovanardi, fino alla legge sull'immigrazione, visto che la stragrande maggioranza degli stranieri recidivi risulta colpevole solo di aver violato le norme in materia di permesso di soggiorno stabilite dalla Bossi-Fini.
«Le statistiche servono per assumere decisioni politiche», esordisce uno degli studiosi che ha condotto la ricerca, il prof. Claudio Sarzotti, nel disegnare il quadro della popolazione carceraria italiana: un quadro che vede delinquere soprattutto gli uomini di età compresa tra i 25 e i 44 anni. Niente di stupefacente, se non il fatto che i più recidivi risultano essere i ragazzi dai 18 ai 20 anni. Senza alternative, insomma, si ritorna in carcere. Sconfitto con i numeri il luogo comune del "disastro indulto", ora, la vera battaglia è quella contro «gli effetti criminogeni del circuito carcerario», come li chiama Ettore Ferrara, capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria: «Siamo in presenza di un'occasione straordinaria che non dobbiamo lasciarci sfuggire - spiega Ferrara - Ora abbiamo delle carceri vivibili, dove si può lavorare per superare l'idea dei luoghi di detenzione come scuole di specializzazione per il crimine». Il manuale «Per un buon uso dell'indulto» ha messo qualche punto fermo in mezzo alle grida d'allarme, ora c'è molta carta bianca per scrivere nuove regole. Si comincia dalle donne: dopo lo scandalo della rom tenuta nella gabbia degli imputati insieme alle due figlie, Manconi ha annunciato un Consiglio dei ministri che avrà all'ordine del giorno la situazione delle madri detenute.

Repubblica 20.2.07
Il presidente della Camera: "Sono preoccupato, è indispensabile non abbassare la guardia"
"Nella lotta al terrorismo la strada è la non violenza"
Bertinotti: la sinistra non ha fatto abbastanza
intervista di Luigi Contu


Violenza. Il nostro messaggio deve essere chiaro: chi si sceglie la violenza politica si mette fuorigioco, quale che sia la sua causa
Vicenza. Ero sicuro che la manifestazione sarebbe andata bene. I giovani e le famiglie che erano lì sabato dovrebbero essere più ascoltati
Brigate rosse. Negli anni Settanta abbiamo fatto tanto, ma non siamo andati fino in fondo per estirpare il virus dal nostro corpo
Album di famiglia. Ricordo l'articolo della Rossanda sull'album di famiglia della sinistra. Rimasi perplesso, poi capii che aveva ragione. Sono parole ancora valide
Valore della vita. Nella nostra società c'è una svalutazione desolante del valore della vita: penso ai morti sul lavoro, all'ispettore Raciti, a chi perde la vita in autostrada
Marxismo e Islam. Ci vuole un'ideologia forte per prendere le armi. L'ultima è stata il marxismo. Anche la religione ispira attentati. Ma guai a dire: Islam uguale terrorismo

Presidente Bertinotti, lei che negli anni 70 è stato tra coloro i quali hanno combattuto il terrorismo e poi è diventato leader di un partito neo comunista, che cosa ha provato quando ha appreso che in Italia ci sono ancora terroristi pronti a fare la rivoluzione?
«Ho avuto un brivido. Ho pensato che negli anni ´70 abbiamo fatto tanto, tantissimo per sconfiggere le Brigate Rosse storiche. Ma non abbastanza. Purtroppo, non siamo andati fino in fondo, non siamo riusciti ad estirpare del tutto il virus del terrorismo dal nostro corpo».
È concepibile che in un paese civile e progredito sia considerato lecito uccidere per un obiettivo politico?
«Purtroppo nella società c´è una svalutazione desolante e terrificante del valore della vita. Penso ai quattro morti al giorno nei luoghi di lavoro, a chi perde la vita in autostrada, ai caduti delle forze dell´ordine come l´ispettore Raciti, alla strage di Erba. Forme diverse che hanno in comune uno smarrimento generale derivato da una profonda crisi del mondo in cui viviamo».
Dare la colpa ai mali della società è stato in passato un alibi per chi definiva i brigatisti "compagni che sbagliano". Secondo lei i nuovi terroristi sono soltanto un fenomeno residuale, marginale?
«Credo che oggi le condizioni politiche e sociali del nostro paese siano profondamente diverse. Penso che quella stagione di lotta armata sia irripetibile. Ma ciò non significa affatto che la scoperta di questo nuovo nucleo di brigatisti possa essere sottovalutato. Sono molto preoccupato. È indispensabile non abbassare la guardia».
Rossana Rossanda fu la prima intellettuale di sinistra ad affermare che i terroristi avevano le loro radici politiche e culturali nel vostro campo. La lezione di quegli anni è ancora valida?
«Ricordo quei giorni, e quell´articolo. Appena lo lessi rimasi perplesso. Poi compresi che Rossana aveva ragione. Quelle sue parole restano valide oggi. Dobbiamo ricordare che ogni idea forte è esposta al rischio del fondamentalismo. Questo è un terreno su cui può innestarsi una nuova stagione della lotta armata. È innegabile che in Italia il tema del terrorismo resta nella metà del nostro campo. Perciò giudico sbagliato il tentativo di tirare in ballo la destra ed i suoi estremismi. Il nazifascismo, come ha detto il grande Papa Giovanni Paolo II, è stato il male assoluto. E noi dobbiamo fare i conti fino in fondo con la nostra storia».
Non ritiene che per farli bisognerebbe rinunciare al termine "comunismo"?
«Al contrario, penso che la vera sfida sia non abbandonare gli ideali del comunismo, ma ripensarli partendo dalla non violenza, dalla critica radicale degli orrori e degli errori del ‘900. Bisogna avere, inoltre, una diversa concezione del potere, che neghi qualsiasi forma di prevaricazione e di assolutismo. Per chi crede come credo io che non debba cadere nel dimenticatoio, il termine comunismo rappresenta la rivendicazione di una identità radicale».
In nome del quale, però, ci si arma e si progettano omicidi.
«L´uso delle armi e il ricorso alla violenza hanno bisogno di agganciarsi a una idea forte. L´ultima ideologia del ‘900, quella che lo ha attraversato e superato, è l´ideologia marxista. Anche in nome della religione si compiono attentati, ma non per questo è giustificato stabilire una equazione tra Islam e terrorismo. Il problema è che coloro ai quali i brigatisti arbitrariamente fanno riferimento hanno un compito in più, e ne devono essere consapevoli. Ci vuole onestà intellettuale per comprendere che il ritorno delle Br è tanto più probabile quanto più riesce a trovare un retroterra fondamentalista: la possibilità di uccidere viene dall´idea che l´altro è il male, lo stesso concetto con il quale si giustifica la guerra preventiva ».
La sinistra italiana è pronta a questa nuova guerra al terrorismo? Ciò che è stato fatto dal Pci e dal sindacato negli anni di piombo non è più attuale?
«Lo sforzo compiuto in quegli anni ha un grande valore: con l´unità delle forze democratiche e l´impegno delle forze dell´ordine abbiamo sradicato ogni tentazione violenta dal mondo del lavoro. Il terrorismo è stato combattuto politicamente e questo è un terreno che non si deve abbandonare. Ma ora siamo in una nuova fase storica, aperta dal rapimento di Aldo Moro, proseguita con la caduta del muro di Berlino e oggi attraversata dalla complessità della globalizzazione. Dobbiamo fare un passo in più rispetto alla frontiera sulla quale ci eravamo attestati alla fine degli anni di piombo. Ci attende un enorme sforzo culturale: un percorso che a sinistra non tutti hanno cominciato a percorrere».
Qual è la nuova frontiera della lotta al terrorismo?
«È la frontiera delle idee, che impone, una rivoluzione culturale: l´affermazione del principio gandhiano della non violenza. Negli anni di piombo si è tolta l´acqua da cui si alimentavano i terroristi facendo intorno a loro un deserto politico, dimostrando così in modo inequivocabile che il movimento operaio era contro i brigatisti. Oggi quella battaglia si combatte dicendo alle nuove leve della lotta armata che il movimento e il popolo sono non violenti. Sono convinto che la sinistra italiana debba assumere la bandiera della non violenza senza più rinvii ed incertezze . Il terrorismo e la guerra si nutrono di ogni forma che conceda anche il minimo terreno alla prevaricazione. Per questo il nostro messaggio deve essere chiaro: chi si pone sul terreno della violenza politica, quale che sia la nobiltà della causa per cui si batte, si mette fuorigioco. Non esiste, non può più esistere, la violenza giusta. È uno sforzo che devono fare tutti i partiti, tutte le organizzazioni sociali, intervenendo sui comportamenti delle persone, a partire dal linguaggio».
Immagino che da questo punto di vista la manifestazione di Vicenza l´abbia rassicurata. Grande partecipazione, comportamento non violento. Eppure c´era molta preoccupazione, anche tra voi...
«Io non ero preoccupato. Anzi, ero convinto che la manifestazione sarebbe andata bene».
Però ha sentito il bisogno di rivolgere un appello alla non violenza.
«Avendo detto che ci sarei andato se non fossi stato presidente della Camera, mi è sembrato doveroso chiarire come ci sarei stato in quel corteo. Le mie preoccupazioni erano e restano altre».
Quali?
«Mi sembra che ancora una volta un appuntamento così importante sia stato affrontato dalla politica politicante in maniera inadeguata. In alcuni casi ho ascoltato discorsi fermi alle analisi degli anni ´70, in altri parole mirate a trarre vantaggi di parte. Così come per il nuovo terrorismo la classe dirigente del nostro paese mi appare incapace di comprendere la novità di questa fase politica. Queste famiglie, questi giovani che hanno invaso Vicenza dovrebbero essere ascoltati e compresi di più da chi ha il compito di governare e vuole farlo per rendere più giusta la società. Ciascuno di loro, parlo della moltitudine dei partecipanti e non delle culture che sono rannicchiate nelle loro organizzazioni, ha dimostrato di avere in mente, direi nella pelle, l´idea che a un corteo si va semplicemente per affermare le proprie idee, per stare insieme agli altri. È da apprezzare anche il saggio comportamento delle forze dell´ordine. Siamo davanti a un fatto nuovo: si comincia a mettere in discussione la logica dell´amico-nemico. Se si fosse trovata al G8 di Genaova la mia generazione avrebbe potuto avere reazioni capaci di portare ad una strage: invece quel giorno tragico abbiamo visto i giovani, la loro grande maggioranza, tornare alle proprie case senza aggressività. Lì si è visto il primo germe della non violenza, che a Vicenza ha dimostrato la propria vitalità nel binomio pace e partecipazione».
Ma lì è apparso anche il volto antiamericano di alcuni settori della sinistra radicale.
«Non condivido questa analisi. La globalizzazione ha avuto tra i suoi effetti quello di favorire la contaminazione tra le culture: come si fa a pensare che quei giovani siano antiamericani quando consumano tutti i giorni cultura d´oltreoceano ascoltando musica, andando al cinema, leggendo libri. C´è certamente avversione nei confronti del governo Bush, un disaccordo politico totale verso la sua politica, non verso la civiltà statunitense. Il discorso dell´antiamericanismo è datato. Mi ricorda quando ai tempi in cui ero un ragazzo si contrapponeva il chinotto alla Coca Cola. Dietro quella guerra di bevande c´era una avversione ideologica, alimentata dalla divisione del mondo in due blocchi. Oggi chi non beve Coca Cola esprime una protesta contro chi produce sfruttamento e disagio».
Non negherà che in alcuni esponenti della sinistra radicale ci sia una avversione pregiudiziale nei confronti degli Stati Uniti.
«In alcune forze sì, c´è ancora. Ma si tratta di posizioni di nicchia. Il punto è che sebbene non abbia mai allignato nella cultura alta della sinistra italiana, basta ricordare che la celebre collana editoriale Americana è stata portata nel nostro paese da Vittorini, l´antiamericanismo non è stato contrastato quando si produceva negli strati più popolari. Esattamente come è accaduto con lo stalinismo: il Pci ruppe coraggiosamente con il dittatore sovietico, ma poi per alcuni anni tollerò che nella propria base rimanesse un mito. Io stesso, quando diventai segretario di Rifondazione Comunista, dovetti più volte pretendere la rimozione del ritratto di Stalin dalle sezioni dove andavo a parlare. Quelle foto, ora, non ci sono più».

L’Unità 20.2.07
E il perdente radicale creò il terrorismo
di Bruno Gravagnuolo


In genere si dice «terrorismo», e si pensa di aver detto tutto, quando vogliamo indicare la follia ideologica che non fa distinzione tra nemico combattente e civili inermi. O quando ci si riferisce a progetti maniacali di guerre civili in società democratiche, sorretti dall’epica del gesto esemplare. Che lo si chiami Eta militare, islamismo radicale, Sendero luminoso, oppure nuove Br, il terrorismo non cambia, nella precezione del senso comune. E se ne conclude che in tutti questi casi c’è un’ideologia regressiva all’opera. Una mentalità arcaica che sopravvive in gruppi ristretti, e che li spinge ad agire in nome di illusorie certezze vincenti, dottrinarie, religiose o profetiche.
Difficilmente ci sfiora un’altra ipotesi. Che i terroristi non vogliano affatto vincere, e che viceversa vogliano perdere. E che addirittura alla sconfitta affidino la loro vittoria. All’autodistruzione diffusiva, capace di sancire «l’invincibilità». In fondo è un’idea molto semplice e non del tutto inedita, specie per quel che concerne i kamikaze arabi, la cui psicologia hanno analizzato in tanti.
Mancava una diagnosi più accurata, globale e psicologica del fenomeno. E mancava la parola giusta per descriverlo. Una parola semplice e innovativa, che nonché principio analitico, è oggi anche titolo di un saggio, con l’ambizione di nominare una «figura» protagonista del mondo globale: Il perdente radicale (Einaudi, pp 73, tr. di Emilio Picco, euro 8). L’autore è un poeta e un saggista, Hans Magnus Enzensberger, che oltre a essere figura di spicco della cultura tedesca, mostra di fatto maggiore capacità inventiva di tanti sociologi. Laddove congiunge intuizione vissuta, sapere storico e antenne sul presente. Il tutto proprio nella descrittiva del Radikal Verlier, che in quanto « uomo del terrore» assomma in sé paesaggio e caratteristiche estese.
Il perdente radicale viene di lontano, diciamo da fine ottocento, poi si «fissa» con la seconda guerra mondiale, e infine si frastaglia nel moderno terrorismo, incluso il microterrorismo dei folli e inspiegabili massacri, che sconvolgono famiglie, vicinati, scuole e tranquille comunità. Dunque dagli anarco-nichilisti europei, ai kamikaze giapponesi, ai terroristi irlandesi (più politici), agli islamisti, fino ai massacratori della porta accanto. Il primo tratto che colpisce è il dato «scenico». Infatti il delitto plurimo e improvviso, piccolo o grande, politico o no, deve trascinare e ipnotizzare la platea. Fare testo. Ammaestrare. E quanto più i media possono veicolarlo, tanto più il terrore «outing» paga. Dunque modernità esemplare del terrore, che sconvolge e rende insicuro il «pubblico» - fatto di nemici dichiarati o di indifferenti - e che raggiunge il diapason nella reazione a catena mondiale di gesti apocalittici come quelli delle Twin Towers.
Già, ma il movente? Nell’analisi di Enzesberger è unico, in grande o piccola scala, fatti gli adeguati aggiustamenti. Ed è nient’altro che l’autodisprezzo di sé dei «perdenti», scaricato sui presunti vincenti, per punirli e rivendicare una superiorità in extremis. Doppia molla quindi. Autopunizione per essere un «perdente», e «identificazione con l’aggressore» (vero o fittizio) per punirlo a sua volta, trascinandolo a fondo: «È colpa mia, è affar mio, ma per colpa degli altri». Due affermazioni che non si elidono, ma si potenziano a vicenda. Insomma una sorta di autoaffermazione di sé, nella morte inflitta e autoinflitta. Che all’insegna del freudiano «istinto di morte» contraddice l’istinto di autoconservazione, e arriva a ribadirlo in chiave autodistruttiva. Semplificando si potrebbe dire che è il «muoia Sansone con tutti i Filistei». Senonché la novità sta nel fatto che il nostro mondo è popolato di milioni di «perdenti radicali». Disseminati sul pianeta e nascosti nei pori delle nostre società affluenti. Perdenti bombardati dal contrasto tra miseria reale del quotidiano e iridescenza del consumo di massa. E che alla fine scaricano la frustrazione dell’esclusione patita come colpa, nella pratica ritualizzata dell’istinto di morte. Per autosantificarsi, diventare protagonisti, magari senza giungere al suicidio, ma incosciamente rasentandolo di continuo, con l’esibizione narcisistica della violenza. Ed è un discorso che vale per gli ultrà, per gli omicidi folli, e anche per islamisti e nuove br. Con la variante «fideistica» in questi ultimi due casi. A sublimare la morte con l’illusorietà di un sacrificio giusto, utile, o viatico di onnipotenza ultraterrena.
Lo schema funziona. Con un’unica obiezione a Enzesberger però. Non è vero che l’Islam con le sue arretratezze «coraniche» e le sue frustrazioni storiche si presti più di altre culture a tutto questo. Le culture evolvono, e il mondo arabo, a differenza di altri contesti, è stato a lungo inchiodato alle sue «frustrazioni» anche in ragione della sua posizione strategica ed energetica. Senza dire che la guerra teologica di Bush ha moltiplicato i «perdenti radicali». A danno di tutti. Ma di ciò Enzesberger alla fine è ben più che consapevole.

L’Unità 20.2.07
L’anima di un Paese violento
di Ferdinando Camon


Ma che popolo siamo? Anzi: siamo un popolo? Un popolo è unito intorno a qualcosa, una tradizione, un valore, un sentimento, noi che cosa ci unisce? Una volta si diceva: la famiglia, il clan, il calcio, la televisione, il condominio. Non è più così. Nella famiglia i figli sono contro i padri, nel clan una famiglia va contro l’altra, nel calcio il tifo è una guerra aperta contro la società, nel condominio si ammazzano vicino con vicino.
Gli orrendi fattacci di Catania non mostrano tifosi contro tifosi (questi ci sono sempre stati), ma tifosi contro lo Stato, contro la polizia, contro la società, contro tutti. I mostruosi cartelli con svastiche e caratteri runici che appaiono nei nostri stadi sono una maledizione contro la propria razza, visto che li alzano italiani contro italiani: come se il gruppo che li scrive avesse il potere di trasumanar i suoi membri, rigenerarli, trasportarli al di là del bene e del male, la meschina morale degli uomini normali. Il tifo è ormai la passione nella quale si riconoscono gli anti-sistema, che odiano ogni legge. È una passione tragica, sacrificale e autosacrificale. Spacca le città e le famiglie.
Una volta, mezzo secolo fa, si parlava del calcio come spettacolo estetico per le masse: l’élite va per musei, si diceva, e il popolo va per stadi. E adesso? Ma quale spettacolo estetico! Il tifoso gode non se il portiere avversario prende un gol, ma se resta in coma per uno scontro, se va all’ospedale per tre mesi, se un attaccante si rompe tibia e perone. E non se i tifosi avversari restano ammutoliti per la sconfitta, ma se vengono massacrati a bastonate, bruciati nelle auto. La voglia di spaccare tutto spacca le famiglie: la polizia indaga per scoprire i teppisti assassini, e scopre che c’è qualche figlio di poliziotti. A casa si parlerà della mattanza: con chi sta il padre, con chi sta il figlio? Il padre ha un collega morto, il figlio ha un nemico in meno.
Ma non è un problema di Catania: a Catania è esplosa la canea, ma a Piacenza e a Livorno han fatto eco le scritte sui muri. Rozze e criptiche, come la morale barbarica da cui provengono. Se il pestaggio è il reato, le scritte sui muri sono l'incitazione e l'apologia, che stanno al reato come le valli di Comacchio alle anguille. La disgregazione del popolo, il senso che niente più ci unisce, non viene solo dalle città appena nominate: a Caserta c’è rimasto un cadavere in strada dopo una banale lite per uno stop non rispettato. Il diverbio s’è impennato di colpo, finché uno dei due è rientrato in auto a prendere una pistola e ha sparato due colpi: ammazzato l’uomo che stava di fronte, ferita sua figlia, che gli stava dietro. In auto aveva anche un coltello. Ma è la dotazione per i viaggi, questa? Pistola, proiettili, coltelli? Il viaggio in auto come una caccia grossa?
Il delitto più gratuito è comunque quello di Riccione. Qui la donna rimasta uccisa faceva un lavoro che automaticamente colleghiamo alla simpatia: addestrava delfini. Uno di quei lavori che subito pensi: chi lo fa ama il mondo, perciò noi amiamo lui. Ma la donna teneva in casa due cani e un gatto, e l’inquilino di sotto dava di matto appena li sentiva. Non le ha dato una coltellata, gliene ha date venti. Il codice è stupido: guarda se c’è un omicidio, e stabilisce la pena. Ma un omicidio può essere una frazione di secondo. Venti coltellate sono un tempo enorme. Soltanto uno che è fuori del tempo può reggere una durata del genere. Fuori del tempo, fuori del mondo, via con la testa. Lo speriamo per lui. A monte di questi delitti abbiamo altri delitti, anche quelli recenti: di strada, di stadio, di condominio. Uno chiama l’altro. Uno causa l’altro. Uno si autogiustifica con l’altro.
Durante il sequestro Moro, il presidente degli psicanalisti italiani, Cesare Musatti, aveva notato un fatto curioso: aveva una decina di pazienti in analisi, e tutti, di telegiornale in telegiornale, diventavano sempre più nevrotici, nei sogni, nei desideri. Secondo Musatti, anche loro, come le Brigate Rosse, «alzavano il tiro». Bene: i delitti che si ripetono in questi giorni, assurdi e bestiali, stanno a indicare che la nevrosi del nostro popolo «alza il tiro».

Il Messaggero 20.2.07
Fu un patto per difendersi dalla Rivoluzione
I “Lateranensi” servirono a Stato e Chiesa per esorcizzare i principi del 1789
di Daniele Menozzi*


I Patti Lateranensi hanno segnato l’11 febbraio 1929 una data periodizzante nella storia dei rapporti tra chiesa e stato in Italia. La costruzione dell’unità nazionale era infatti avvenuta in aspro contrasto con il papato romano, che, dopo aver perso nel 1860-61 territori detenuti da circa un millennio, nel 1870 era stato costretto a ritirarsi entro le mura leonine in seguito alla proclamazione di Roma capitale del novo regno. Ma la ragione del conflitto non stava solo nella perdita di una sovranità territoriale che Pio IX ed i suoi successori giudicavano indispensabile alla libertà di esercizio del ministero apostolico. Altrettanto grave appariva ai loro occhi che quel mutamento si fosse verificato sotto l’egida di un governo che realizzava un ordinamento politico di tipo liberale, costituzionale, laico, separatista. In tal modo si palesava che la “rivoluzione” – lo scardinamento della tradizionale società cristiana iniziato nel 1789 a Parigi – non si arrestava: era arrivata in Italia, anzi persino a Roma, con tutta la carica distruttiva che la cultura cattolica del tempo attribuiva alla “moderna civiltà”. Il nuovo ordinamento non poteva perciò essere riconosciuto: esso era in opposizione a quell’organizzazione della vita collettiva che la chiesa da tempo indicava come modello ideale. Seguì, tra l’altro, con il ”non expedit“ l’imposizione ai cattolici italiani di non occuparsi di politica e anche se lentamente le grandi trasformazioni sociali del paese misero il laicato credente in grado di tutelare anche sul piano politico – ad esempio tramite il partito di don Sturzo - gli interessi ecclesiastici, soltanto in seguito all’avvento del fascismo la frattura apertasi con l’unificazione nazionale si sarebbe sanata. Allora, alla base dell’incontro tra stato e chiesa, non ci fu solo l’interesse di Mussolini ad acquisire prestigio internazionale e consenso interno. Vi era anche la consapevolezza della chiesa che si era davanti ad un regime che si poneva in antitesi a quei valori della modernità (libertà civili e politiche, democrazia, laicità, ecc.) che la “rivoluzione” aveva portato in Italia nell’Ottocento. Al di là delle singole misure e dei privilegi che stato e chiesa si scambiavano reciprocamente, al fondo dell’accordo del 1929 stava la “reazione” – comune a chiesa e fascismo – contro una visione “moderna” della convivenza civile. Non a caso Pio XI acclamò i Patti come l’atto che poneva salutarmente fine in Italia ai “disordinamenti liberali”. Proprio per questa ragione si pose all’indomani del crollo del regime e della nascita della Repubblica il problema della loro compatibilità con il nuovo assetto democratico dello stato.E’ noto che Pio XII volle che i rappresentanti della DC s’impegnassero per inserire i Patti nella nuova Costituzione ed è nota l’accondiscendenza (forte era il timore per la fine della “pace religiosa” nel paese) mostrata, soprattutto dal PCI, alle loro richieste. Ma si previde un meccanismo di revisione. Dopo diversi infruttuosi tentativi, nel 1984 si giunse alla stipula del nuovo concordato. E’ indubbio che il nuovo testo è aperto in diversi punti ai principi pluralistici della modernità. In esso sono tuttavia restati ampi privilegi per l’istituzione ecclesiastica (ad esempio in materia di insegnamento, di assistenza, di finanziamento). Inoltre fin dall’inizio la CEI ha rivendicato che in alcune materie non trattate (matrimonio e famiglia) era disponibile ad intese ulteriori, rivendicando peraltro l’autorità di fissarne i principii direttivi. Ma i dubbi che solleva anche il nuovo accordo si situano altrove. Storicamente la chiesa in età contemporanea si è dotata dello strumento concordatario – a partire da quello con Napoleone del 1801 – con uno scopo ben preciso: finita la società cristiana, occorreva garantirsi in quel dato contesto le migliori condizioni giuridiche, per poter operare al fine di restaurare le basi cristiane della convivenza civile, ponendo così fine agli istituti moderni nati dalla Rivoluzione francese. Anche nel testo del 1984, pur con tutte le sue aperture, diversi indizi mostrano che a questa prospettiva, da parte ecclesiastica, non si è ancora rinunciato.
* Docente di storia contemporanea alla Normale di Pisa




Repoubblica on line 20.2.07
Nacque dopo appena 21 settimane
ora sta bene e può tornare a casa

Dimessa da un ospedale della Florida la piccola che ha battuto il record dei parti prematuri
Amillia quando è venuta alla luce pesava 280 grammi ed era lunga circa 25 centimetri

MIAMI - E' appena nata e ha già battuto un record. Amillia Sonja Taylor sarà dimessa oggi da un ospedale della Florida, il Baptist Children's Hospital, diventando la neonata sopravvissuta al parto più prematuro di cui si abbia conoscenza. La piccola ha visto la luce con un taglio cesareo dopo appena ventuno settimane e sei giorni trascorsi nell'utero materno, contro le 37-40 richieste da una gravidanza normale. Un conteggio a prova di errore, visto che è stata concepita in vitro dai genitori Eddie e Sonja Taylor, che ha del prodigioso. Molti manuali di pediatria danno infatti vicine allo zero le possibilità di sopravvivere a un parto al di sotto delle 23 settimane di gestazione.

Al momento della nascita, lo scorso 24 ottobre, la bimba pesava poco più di 280 grammi ed era lunga circa 25 centimetri. Un corpicino grande più o meno come una bambola "Barbie" che ha fatto temere il peggio ai medici dell'ospedale dove è stata tenuta a lungo in incubatrice. "Non eravamo affatto ottimisti, ma ci ha smentiti tutti", ha commentato il dottor William Smalling. Al momento del parto Amillia presentava infatti problema respiratori, una piccola emorragia cerebrale e disturbi digestivi. Difficoltà che avendo superato i primi delicati mesi non dovrebbero però creare complicazioni pericolose sul lungo periodo.

La neonata, che nel frattempo è cresciuta fino a misurare quasi 65 centimetri per due chilogrammi di peso, nei prossimi giorni dovrà continuare a prendere dell'ossigeno e il suo apparato respiratorio sarà tenuto costantemente sotto controllo, ma potrà essere nutrita normalmente, con il biberon.