domenica 25 febbraio 2007

l’Unità 25.2.07
Quando l’uomo cominciò a cantare
di Stefania Scateni


Dal «suono luminoso» delle cosmogonie antiche all’armonia delle sfere
E al simbolo «sonoro» tra io e inconscio

PRIMA DELLA LINGUA Per l’antropologo Steven Mithen, autore de Il canto degli antenati, all’origine del linguaggio umano c’era un sistema di comunicazione e di messaggi molto più vicino alla musica che alle parole

Lucy, la nostra antenata australopiteca vissuta circa 3 milioni e mezzo di anni fa, cantava. Non immaginatevi una vera e propria canzone, un’aria o una melodia come le conosciamo oggi. Però cantava, per comunicare con i
compagni e le compagne della sua specie usava messaggi multimodali e musicali. L’evolversi verso la stazione eretta ha in seguito permesso agli ominidi (tutta la serie degli Homo classificata dagli scienziati) di accompagnare questi messaggi a movimenti del corpo elaborati e fluidi, che possiamo immaginare come danze. E, in seguito, all’evolversi dei messaggi musicali in linguaggio. In altre parole, i nostri antenati hanno cantato prima di parlare.
La musica è venuta prima delle parole. Questo spiegherebbe perché abbiamo un istinto musicale, perché battiamo il piede ascoltando una canzone e perché ci emozioniamo ascoltando una certa musica. È l’ipotesi affascinante avanzata dall’antropologo inglese, professore di archeologia alla University of Reading, Steven Mithen, in uno studio ambizioso e poderoso, ma non per questo di difficile lettura, ora tradotto in Italia, col titolo Il canto degli antenati (Codice Edizioni, pagine 412, euro 32,00).
Il lavoro di Steven Mithen nasce, come spesso succede nel campo dell’intelletto, da un’ossessione: comprendere la musica. Lui, dice, è completamente negato («non sono né intonato né in grado di battere il ritmo») mentre a casa è circondato da persone che cantano e suonano. Ostinato a capire la musica, non riuscendo a padroneggiarla, ha avviato un’immane ricerca, per la quale ha chiamato in aiuto discipline diverse, analizzando, confrontando e concatenando i lavori di linguisti, musicologi, neuroscienziati, psicologi dell’età evolutiva, antropologi, archeologi, etologi e paleontologi, per scoprire il significato della musica e il perché del suo fascino sull’uomo. Mithen ha messo insieme tutti i dati significativi come tessere di un grande puzzle dell’evoluzione, nel quale la musica risulta avere un ruolo centrale. È impressionante come le sue conclusioni si avvicinino a studi musicologici che non poggiano su un metodo scientifico in senso stretto, ma fanno riferimento alla mitologia e alla cultura dei popoli dell’antichità.
L’intuizione di Steven Mithen (che la musica sia stata nell’evoluzione umana una forma di protolinguaggio, una forma matrice del linguaggio verbale) prende corpo grazie al lavoro controcorrente della linguista Alison Wray. A fronte della «teoria composizionale» sulla nascita del linguaggio, secondo la quale è possibile che i nostri antenati, come gli uomini di Neanderthal, disponessero di una gamma relativamente ampia di parole con una grammatica limitata se non del tutto assente, Wray ed altri sostengono una «teoria olistica». Secondo questa teoria il protolinguaggio dei nostri antenati non era composto da parole ma era un sistema di comunicazione fatto di messaggi, ovverosia di espressioni multisillabiche. Mentre per la teoria composizionale, le parole furono presenti fin dai primi stadi dell’evoluzione del linguaggio, per la teoria olistica apparvero solo in stadi successivi. Di per sé, la definizione «espressioni multisillabiche» fa venire in mente, se non un motivetto, almeno dei suoni ritmati, una melodia primitiva, come un «ta-taa-ta» per esempio. Mithen parte da qui per intraprendere una lunga strada di ricerche, studi, comparazioni. Comincia col cercare somiglianze e differenze tra musica e linguaggio, per passare all’analisi degli studi su come musica e linguaggio siano creati nel cervello, sull’importanza della musicalità nella comunicazione con i neonati, e del legame tra la musica e le emozioni. Poi sposta la lente sui sistemi di comunicazione delle scimmie antropomorfe e non, sulla storia evolutiva dei nostri antenati ominidi, evolutisi in Africa nel periodo compreso tra sei e due milioni di anni fa, e sui sistemi di comunicazione degli uomini di Neanderthal e dell’Homo sapiens. Mithen ci mostra come, studiando i fossili dei nostri antenati per delineare l’evoluzione dell’apparato vocale, si può osservare che 500 mila anni fa i tracciati vocali erano poco diversi da quelli che possediamo oggi, eppure gli scienziati non hanno prove dell’esistenza di un pensiero simbolico e di strumenti complessi che potrebbero essere indicativi dell’uso del linguaggio. I tracciati vocali dei nostri antenati farebbero quindi pensare a una capacità di cantare. Melodia e ritmo, inoltre, sono importantissimi nel nostro linguaggio, spesso indispensabili per comprendere la forma di una frase. Ritmo e melodia nella comunicazione, oltretutto, vengono esaltati ed enfatizzati quando comunichiamo con i bambini. E gli psicologi hanno scoperto che questa modalità comunicativa istintiva negli adulti è importante perché il bambino acquisisca le parole, e fondamentale per la comunicazione e per indurre emozioni. Mithen
aggiunge che può essere simile all’antico tipo di comunicazione usato dai nostri antenati.
Il mosaico che lo studioso compone con le tessere a sua disposizione ci mostra che fare musica è stato cruciale per la sopravvivenza dei nostri antenati e ha avuto un ruolo fondamentale per la costruzione dell’identità di gruppo. Uscendo dal seminato della scienza, e giocando con l’assonanza del suo cognome, possiamo permetterci di affermarre che Mithen ha delineato, con il suo studio, un «mito» fondativo. E non può non essere un caso che ogni mito cosmogonico - cioè fondativo dell’universo - elaborato dalle culture primitive e dalle culture antiche (come quella degli egizi, ad esempio) parlino di un suono, un «suono luminoso», all’origine del mondo. Se l’uomo ha cantato e ballato prima di parlare, cosa ci vieta di pensare che abbia trasferito questo «ricordo» al mondo in cui vive, usando la musica come spiegazione della propria nascita?
È quanto si può leggere in un vecchio libro di musicologia, Il significato della musica, in cui il musicologo Marius Schneider ricostruiva le antiche cosmogonie e comparava la simbologia musicale di diverse culture. Dopo lunghi studi di antropologia e simbologia della musica, Schneider elaborò il concetto di «simbolo sonoro», che si avvicina in maniera impressionante alla teoria olistico-musicale di Mithen (lo scienziato non ce ne voglia per l’associazione: d’altra parte l’armonia delle sfere in cui credevano gli antichi greci è stata effettivamente registrata, qualche anno fa, dalle apparecchiature degli astronomi). Per Schneider le idee e gli oggetti più diversi, riuniti da un ritmo comune, finiscono col formare in noi un insieme semicosciente che è linguisticamente inesprimibile, ma caratteristico dell’esperienza simbolica. Pur non avendo un significato concettuale, tale insieme possiede un senso espresso dal ritmo che li riunisce, e che la musica può riprodurre più di ogni altro linguaggio, perché la manifestazione più alta e essenziale del ritmo è il ritmo sonoro. Al pari di Carl Gustav Jung, il celebre psicoanalista per il quale il simbolo getta un ponte tra l’io cosciente e l’inconscio, per Marius Schneider il simbolo sonoro getta un ponte fra un mondo primordiale puramente acustico e subcosciente e un mondo materiale perfettamente conscio. Lo stesso ponte che Mithen costruisce tra Lucy e noi.

l’Unità 25.2.07
Rifondazione tra movimenti e governo: «È la cruna dell’ago...»
Incertezze e maldipancia mentre all’interno di Prc c’è chi pensa ad una scissione: sono i trotzkisti di Cannavò (e di Turigliatto)
di Eduardo Di Blasi


«L’ATTACCO al governo è venuto da destra, e adesso Rifondazione si trova davanti due compiti molto difficili: salvare l’esperienza del governo Prodi (e i contenuti
del suo programma unitario) evitando che uno scivolamento a destra del quadro politico si trasformi in un disastro per il Paese e per i movimenti». Vittorio Agnoletto, europarlamentare eletto da indipendente nelle liste del Prc, così legge il difficile passaggio che il partito di Franco Giordano, si trova davanti. E vede davanti una sola strada per attraversare quella che chiama, biblicamente, la cruna dell’ago: «La palla torna fortemente ai movimenti, a coloro che scendono in strada contro la Tav in Val di Susa, per le unioni civili, a Vicenza. Tanto più i movimenti saranno forti, tanto più potrà essere incidente l’azione del governo Prodi. Rompere con i movimenti non potrebbe che essere un danno anche per l’Unione. Pensate veramente che si possano ignorare gli omosessuali, la Val Susa, chi chiedeva la riorganizzazione del sistema radiotelevisivo e il conflitto di interessi?». Rifondazione, spiega Michele De Palma, giovane responsabile Movimenti del partito, «non è a capo dei movimenti, perché a Vicenza nei comitati di lotta trovi la signora di An, e buona parte dei sindaci della Val di Susa che protestano contro il percorso della Tav hanno in tasca la tessera dei Ds. Il dibattito sui movimenti va deideologizzato, perché i movimenti sono trasversali, bastardi, non sono “i movimenti di Rifondazione”. Non è che tutti quelli che vanno in piazza votano per il nostro partito. Noi siamo a servizio di quel movimento perché riteniamo che la piazza sia importante nella democrazia». Fa un esempio che denota fantasia: «Mettiamo che il Prc non esistesse: secondo voi non esisterebbero nemmeno i movimenti?». In questo momento, spiega: «Quello che bisogna fare è ritrovare, nell’Unione, un elemento di comunanza, perché stiamo tutti su una stessa barca e non possiamo fare la fine degli antropofagi che vanno alla deriva». Certo è che questa politica di lotta e di governo è oggi messa in crisi dalla caduta del governo nell’aula di Palazzo Madama. Caduta che è dovuta, le parole sono del deputato Massimiliano Smeriglio, segretario della federazione romana, «ad una minoranza che non è in sintonia con il nostro popolo, quella Sinistra Critica che purtroppo esiste al nostro interno e che ha una doppia fedeltà. Non credo esista al mondo l’esempio di un compagno, espressione di una componente di minoranza, che contribuisca a mettere all’angolo tutto il partito». Sinistra Critica, una delle minoranze interne al Prc è l’associazione capeggiata dal deputato Salvatore Cannavò. Quest’anno, rappresentando circa il 6% del partito, è riuscita ad inserire un nome nella lista per Palazzo Madama: Franco Turigliatto (il dissidente che con il «non voto» ha in parte contribuito alla caduta del governo). Giusto ieri Cannavò ammoniva sulla prossima fiducia: «Decideremo sulla base del discorso di Prodi, anche se non nascondo che ci preoccupa l’allargamento della coalizione al centro». Aggiunge: «Il voto di fiducia al Senato è molto incerto, ho sentito oggi Turigliatto e non è un modo di dire che sta riflettendo sul da farsi». Dopo che la Direzione del Prc ha votato giusto venerdì un documento in cui si indica nel sostegno al governo Prodi la linea politica del partito, le dichiarazioni di Cannavò sembrano preludere ad una scissione dell’ala Trotzkista (circostanza che potrebbe anche far permanere a Palazzo Madama il senatore della Sinistra Critica). Claudio Grassi, rappresentante dell’Ernesto (la minoranza più numerosa dentro il Prc), spera che non si arrivi a una scissione dai trotzkisti. Ritiene, d’altronde, «che il momento sia difficile e delicato». D’altronde non tutti convergono sul fatto che i due «dissidenti» abbiano commesso un errore. Il vignettista Vauro Senesi, ad esempio, ritiene la vicenda grottesca. Parla di «crisi fasulla» e di «un atteggiamento arrogante e supponente, tenuto da Prodi e dal suo ministro D’Alema». Ritiene che i due senatori «non votanti» siano stati fatti oggetto di un comportamento fascista («anche se non ne faccio due eroi»), e spiega: «Ieri ad Oslo 49 Paesi hanno deciso di mettere al bando le bombe a grappolo. Tra questi non c’erano gli Stati Uniti. I nostri “sacri alleati” di Vicenza».

sabato 24 febbraio 2007

Repubblica 24.2.07
Appello shock dell'erede al trono Naruhito per la moglie Masako affetta da depressione
"Giapponesi, vi prego aiutate la principessa"
"Mia moglie si sta curando, le serve la vostra comprensione"
Mai un membro della casa imperiale si era rivolto al popolo da pari
di Renata Pisu


L´erede al Trono del Crisantemo, il principe, Naruhito, ieri ha squarciato il velo di riservatezza che ha sempre protetto la famiglia imperiale nipponica: nel corso di una conferenza stampa svoltasi in occasione del suo quarantasettesimo compleanno, ha pregato il popolo giapponese di dimostrare comprensione nei confronti della sua sposa Masako, la quale "è affetta da una grave forma di depressione, ma sta riprendendosi, lentamente, si sta curando, la psicoterapia alla quale si è sottoposta sembra giovarle".
Naruhito si è rivolto ai sudditi come un pari si rivolge a dei pari, implorandone l´indulgenza con parole semplici, non ricorrendo al linguaggio aulico in genere usato dai membri della famiglia imperiale. Sono corsi brividi lungo le schiene dei funzionari della Agenzia dell´Imperial Casa i quali non si aspettavano che il Principe ereditario osasse tanto, cioè portasse clamorosamente a conoscenza di tutti il fatto che la Principessa soffre di quella che per la mentalità conservatrice giapponese è la più ignominiosa della malattie, la malattia mentale. La Principessa Triste, così viene definita Masako, ora rischia di passare alla cronaca, se non alla storia, come la Principessa Pazza, un´onta per la dinastia più antica del mondo che in un Giappone in fase di mutazione, fatica a trovare una propria linea di condotta. Il Giappone era ancora fino a pochi anni fa, un paese dove la psicanalisi non veniva accettata come terapia per risolvere i nodi esistenziali del paziente ma, quando vi si faceva ricorso, serviva a "riadattarlo" all´accettazione delle convenzioni. Ora non è più così, anche se questa è ancora la mentalità prevalente. Per giustificare le "stranezze" di Masako, il fatto che per tre anni non fosse mai apparsa in pubblico, l´Agenzia dell´Imperial Casa aveva infatti accennato a "disturbi di adattamento", e la stampa si era sbizzarrita in pettegolezzi e spesso fondate illazioni sulle pressioni alle quali era continuamente sottoposta per il fatto che non generasse un figlio. Sembra che le sue telefonate venissero tutte controllate, che non le fosse permesso di frequentare gli amici e colleghi di un tempo - Masakoè diplomata a Oxford e era, prima delle nozze, diplomatica di carriera - che la sua vita fosse quella di una condannata agli arresti domiciliari all´interno del Palazzo Imperiale, sorvegliata a vista da una suocera, l´Imperatrice Michiko, come Masako una borghese, che a sua volta era stata vittima del suocero, quell´Hirohito che ancora, nel 1945, si credeva un essere divino.
Poi, quando cinque anni fa, Masako diede al mondo il tanto desiderato erede, nacque una femmina. Si parlò allora di cambiare la costituzione, di permettere l´ascesa al Trono del Crisantemo di una donna, la piccola Aiko, e sembrò che la Principessa Triste sorridesse. Ma quando nel settembre dell´anno scorso, la cognata di Masako, moglie del fratello minore di Naruhito, mise al mondo un maschio, non si parlò più di revisione della costituzione, il maschio c´era, il Trono del Crisantemo era salvo. Non era però salva Masako. Ancora cattiverie, ancora chiacchiere su una sua presunta rivalità con la principessa Kiko, madre del futuro imperatore, le due figure di donne contrapposte, una esaltata, Kiko, perché non interessata alla sua personale felicità ma tutta dedita al senso del dovere: dare un erede al Trono, anche se già era arrivata alla quarantina. L´altra, Masako, instabile, caratteriale, troppo "cosmopolita", quindi non "vera giapponese", troppo moderna, troppo - come ha ripetutamente scritto la stampa giapponese dedita al gossip - simile a Lady Diana, anche se di suoi amori extra-coniugali mai si è parlato e mai ci sono stati. Disastroso forse anche il suo rapporto con il marito, il timido Naruhito, incapace di fecondare la sposa, al punto che nella biografia del giornalista australiano Ben Hills, appena uscita e intitolata "Principessa Masako, prigioniera del Trono del Crisantemo" si dice chiaramente che Masako, sottoposta a lungo a pesanti cure ormonali, alla fine ha dovuto far ricorso all´inseminazione artificiale. Altra onta, altra vergogna per la dinastia imperiale nipponica, e non stupisce che il libro di Ben Hill sia stato proibito in Giappone dove non vige nessuna censura. Comunque, pare che il seme fosse quello di Naruhito, erede al trono, uomo che Masako non amava e al quale disse tre volte di no prima di essere costretta a accettare di entrare in un´anacronistica dimensione, quella dell ‘Impero del Sol Levante. Sembra che abbia accettato soltanto dopo che Naruhito le giurò che l´avrebbe sempre protetta. E ora Naruhito si è rivelato il miglior amico e protettore di Masako, ha mantenuto fede alla promessa svelando la verità.

Repubblica 24.2.07
GRAMSCI LO STRANIERO
Ormai ignorato in Italia, è studiato nel resto del mondo. La sua fortuna a settant'anni dalla morte
Intervista a Joseph A. Buttigieg su un classico assai presente nella cultura internazionale
Quasi scomparso da noi, negli Usa è la bestia nera della destra
I "subaltern studies" dall'India al Brasile, dall'Africa alla Cina
di Simonetta Fiori


Gramsci, chi era costui? Nel settantesimo anniversario della morte (27 aprile 1937), il profilo di un classico del Novecento, l´autore che Benedetto Croce acclamò come «patrimonio di tutti», appare piuttosto sfocato se non totalmente oscurato, almeno nel paese che gli ha dato i natali. Ed è questo il primo paradosso nel trarre un bilancio della sua fortuna: oggetto di accurati studi in tutto il mondo - dall´Australia a Israele, dagli Stati Uniti all´India, dal Giappone al Brasile -, tuttora bestia nera dei polemisti conservatori nordamericani, in Italia la sua immagine appare un po´ impolverata, un busto ammaccato ormai da tempo riposto in soffitta, salvo restauri e lucidature dell´ultima ora, quando proprio non se ne può fare a meno. È quel che in fondo accade in questo settantennale, in un tripudio di iniziative promosse dall´Istituto-Fondazione Gramsci, opportunamente destato da una protratta letargia (vedi box qui sotto).
Anche nel linguaggio politico, il lessico gramsciano talvolta rimbalza nella sua versione caricaturale (le "casematte" evocate dall´inquilino di Arcore o "la guerra di posizione" annunciata dall´inventore del mito padano). Mentre a sinistra dopo una stagione di feroci lotte su letture opposte e contrarie (Gramsci comunista o critico ante litteram del comunismo? Gramsci liberaldemocratico o cominternista?) la rimozione appare diffusa o la rievocazione generalmente pasticciata, con rare eccezioni. Eppure l´Italia può vantare una famiglia di gramscisti nobili, discesa dal decano Valentino Gerratana. Non sono mancati negli ultimi anni contributi importanti come il volume postumo di Antonio A. Santucci (Sellerio) o il fondamentale Gramsci storico di Alberto Burgio (Laterza), insieme a Le parole di Gramsci a cura di Fabio Frosini e Guido Liguori (Carocci), animatore quest´ultimo della vivace sezione italiana dell´International Gramsci Society, la rete che raccoglie i massimi specialisti del mondo. Recenti anche i saggi di Chiara Daniele ed Angelo d´Orsi. Ma è come se si trattasse di una comunità conventuale, operosa e dedita, ma sostanzialmente separata dal dibattito pubblico. Sacerdoti un po´ eccentrici di un classico ingiustamente condannato alla muffa o talvolta improvvidamente rianimato da talenti romanzeschi che ne riscrivono la morte (Massimo Caprara arrivò a ipotizzarne il suicidio) o invocano fantasiose carte occultate dal perfido Togliatti (Il Giornale qualche settimana fa).
Gramsci dimenticato? Se il suo profilo politico appare inesorabilmente estinto insieme alla storia del comunismo italiano e internazionale, non esiste forse un Gramsci intellettuale da continuare a interrogare? Il nostro paese sembra smentire la profezia di Hobsbawm che, solo qualche anno fa, citava Gramsci come l´unico pensatore marxista sopravvissuto alla chiusura nei ghetti dell´accademia. «Un classico italiano generalmente ignorato in Italia», dice ora Joseph A. Buttigieg, figura di massimo prestigio dell´International Gramsci Society (ne è il segretario) e traduttore americano dei Quaderni. «E dire che per un quarantennio - dalla prima edizione delle Lettere nel 1947 fino all´89 - è stato una presenza molto vitale nel dibattito pubblico e nelle correnti culturali italiane. Ricordo che ancora negli anni Ottanta ci si chiedeva se Gramsci sarebbe diventato un classico. Il fatto è che ovunque lo è diventato, e si continua a dialogare con lui. Mentre in Italia - con la sola eccezione dei gramscisti della Igs - appare per lo più consegnato al museo dell´antichità».
Professor Buttigieg, dove le appare più forte la presenza di Gramsci nel mondo?
«Direi nel campo dei cultural studies, una corrente di studio ispirata inizialmente dagli scritti di Raymond Williams e Stuart Hall, oggi diffusa in tutto il mondo anglofono. Il concetto chiave è quello gramsciano dell´egemonia, del potere culturale».
Il consenso ricercato sul terreno della cultura.
«Nelle sue analisi dello Stato moderno Gramsci mostrava che il potere dei governanti non è basato sulla capacità coercitiva dello Stato ma piuttosto sulla capacità di coltivare il consenso dei governati. Il consenso è creato appunto sul terreno della cultura. Allora per capire uno Stato moderno non basta studiare i partiti politici e la struttura economica, ma è necessario analizzare quell´insieme di fenomeni che Gramsci chiamò "l´organizzazione della cultura": la scuola, le chiese, i giornali, le riviste, il cinema, il romanzo d´appendice. Solo in questi ultimi anni i cultural studies hanno cominciato a destare un certo interesse anche in Italia».
Ma c'è una relazione con i subaltern studies, altro campo d'influenza gramsciana?
«Questi nascono da un´altra riflessione di Gramsci, raccolta nel Quaderno 25: Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni. I primi studi uscirono a Calcutta nei primi anni Ottanta, su iniziativa di Ranajit Guha. Nel decennio successivo un altro gruppo di studiosi ha esteso la riflessione di Guha e di altri teorici asiatici all´America Latina. Il campo di indagine ha continuato ad allargarsi: numerosi sono i saggi che trattano della subalternità in chiave gramsciana lungo territori diversissimi, dall´Africa alla Cina, dall´Irlanda alla Palestina. Molto spesso le teorie sulla subalternità si sono intrecciate con gli studi su colonialismo e post-colonialismo. Tra i massimi studiosi che hanno usato categorie gramsciane in questo campo va ricordato l´americano palestinese Edward Said».
In tutte le maggiori università americane, ma anche in Cina o in America Latina, non manca qualche corso sui cultural studies o postcolonial studies.
«Sì, una moda molto contagiosa. È curioso che nessuna di queste correnti sia nata in Italia».
E nel campo delle scienze politiche, qual è il riferimento a Gramsci più frequente?
«Gramsci è considerato uno dei maggior teorici della società civile, categoria oggi assai studiata nel mondo anglosassone. Egli più di altri pensatori ci fa capire che non è un terreno completamente neutro, come invece sostiene il liberalismo classico, il quale teorizza una netta separazione tra il governo e la società civile. Le note gramsciane sulla formazione dell´opinione pubblica e sulle connessioni tra società civile e società politica - scritte settantacinque anni fa - sono valide tuttora».
Colpisce che negli Stati Uniti Gramsci sia così presente nel dibattito pubblico.
«Sì, in forme talvolta minacciose. Recentemente il suo nome è riecheggiato insieme a quello di Hugo Chavez, la nuova bête noir dell´amministrazione Bush. Per certi pubblicisti conservatori il fatto che il leader venezuelano citi Gramsci nei suoi discorsi è una conferma della pericolosità dell´autore dei Quaderni. Che cosa leghi Gramsci a Chavez è tutto da dimostrare, ma il clima intorno al pensatore sardo è quello evocato da Michael Novak in un celebre articolo del 1989: The Gramscist are coming, ovvero le orde barbariche di Serse alle porte... ».
Gramsci come l´uomo nero?
«Più o meno. È interessante l´uso che ne viene fatto nei media più popolari. Il più noto commentatore conservatore alla radio, Rush Limbaugh, ha scritto in uno dei suoi libri che Gramsci è "l´ultima speranza per chi odia l´America". Secondo Pat Buchanan, candidato alle elezioni del Duemila, la minaccia d´una rivoluzione gramsciana è un pericolo reale. Un´immagine muscolare dell´autore delle Lettere affiora anche nei saggi prodotti recentemente dall´Heritage Foundation, una sorta di "think tanks" della destra. Una "Grasmscifobia" diffusa, che rivela la confusione ideologica della destra statunitense».
In compenso Amartya Sen, economista premio Nobel, sceglie Gramsci come oggetto d´indagine.
«Sì, quattro anni fa è comparso sul Journal of Economic Literature un suo importante saggio che mette in relazione i Quaderni con Wittgenstein e Sraffa. È questo un altro aspetto di Gramsci che va acquistando rilievo negli studi internazionali: la sua riflessione sulla lingua e sul rapporto tra lingua e politica. Naturalmente quello gramsciano è l´approccio d´un materialista storico: la prassi linguistica non può essere analizzata indipendentemente da ogni altra attività sociale. Esiste oggi un´amplia bibliografia - tra Canada, Stati Uniti e Inghilterra - che traccia un raffronto tra Gramsci e Michail Bachtin, Walter Benjamin, la Scuola di Francoforte».
A fronte di questi fermenti, lei come spiega la sua rimozione in Italia?
«Direi che da voi Gramsci è sostanzialmente ignorato, specie nel dibattito pubblico. Intendiamoci: è di massimo valore il lavoro degli specialisti italiani della Igs - penso soprattutto al grande progetto del Lessico gramsciano - ma è altrettanto indubbio che questo lavoro finisca per interessare solo poche persone. Ed è un peccato, perché il testo gramsciano ha ancora da molto da dire, sul terreno della società civile come su quello del potere culturale. Forse Gramsci non è più ascoltato perché il clima prevalente è ostile alla serietà, al pensiero sobrio, alle analisi intellettualmente rigorose. Mi auguro che questo anniversario serva a correggere una colpevole distrazione».

Le iniziative per l´anniversario: saggi e convegni
dai Grimm a Marx le traduzioni inedite
NUMEROSE le iniziative programmate per l´anno gramsciano. In aprile è annunciato il primo volume dell´Edizione Nazionale delle opere di Antonio Gramsci (un progetto messo in cantiere nel 1990 e vivacemente discusso all´interno della cittadella gramsciana). Si tratta del Quaderno di traduzioni (1929-1932), a cura di Giuseppe Cospito e Gianni Francioni, con le traduzioni dal tedesco, dal russo e dall´inglese (quasi interamente inedite). I testi tradotti sono di natura eterogenea, dalle favole dei fratelli Grimm alle pagine di Marx. Tra i libri in preparazione, un lavoro di Chiara Daniele da Feltrinelli e il primo volume dell´Annuario gramsciano diretto da Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru presso Il Mulino. Numerosi i convegni, a cominciare dal seminario internazionale dell´Istituto Gramsci il 27 aprile: Gramsci, le culture e il mondo. Dal 2 al 5 maggio si terrà in Sardegna un convegno itinerante della International Gramsci Society. Previsto in primavera alla Normale di Pisa un seminario su Gramsci settant´anni dopo. Dal 4 al 6 ottobre appuntamento a Berkeley, con Gramsci´s Theory of intellectuals in North America. Di nuovo a Sassari in autunno, con il seminario La lingua / le lingue di Gramsci. In novembre un convegno a Buenos Aires. Si chiude a Bari il 13 dicembre con Antonio Gramsci nel suo tempo.


Repubblica 24.2.07
Anticipazioni. Un incontro dopo il crollo del comunismo
Il pianto di mio fratello Maurizio
di Giovanni Ferrara


Lui volse il viso per guardarmi Teneva in mano un fazzoletto bagnato e nascose il viso
È finito tutto, diceva, una vita intera dietro a questo mondo. Non c´è rimasto niente
Mi chiamò mia cognata Marcella Vieni, disse, forse solo tu puoi parlargli, ti prego


Uscirà fra qualche settimana Il fratello comunista (Garzanti), l´ultimo libro di , una specie di testamento spirituale. Ne anticipiamo un brano

Un pomeriggio d´estate, seduto al tavolo presso la finestra che dà sulla strada e sul porto e, oltre il molo, sul mare disteso fino ai Monti della Tolfa, scrivevo e leggevo tranquillo. Alzavo ogni tanto gli occhi dalle scritture che avevo davanti, e guardavo lo specchio d´acqua del porto, immobile come sempre, il paese vecchio, la Rocca Spagnola. (...) «Giovanni!», sentii chiamare dalla strada. Non vi badai subito, concentrato com´ero, ma poi il richiamo si ripeté, non più forte, forse anzi più basso e ne fui attratto. Riconobbi la voce di Marcella, mia cognata. In quei giorni, mio fratello Maurizio e sua moglie Marcella erano a Porto Ercole, nella loro casa vicinissima alla nostra. Ci si vedeva praticamente ogni mattina, quando s´andava al mare insieme, alla Feniglia o alla Giannella, da Marisa o da Ulisse. M´alzai e m´affacciai alla portafinestra. (...) Non mi lasciò il tempo di chiedere e disse: «Per favore, vieni da Maurizio, forse solo tu puoi parlargli, ti prego». Si voltò, risalì lentamente la brevissima strada fino al suo cancello, e sparì (...).
Dovevo parlare con Maurizio, ma perché? Com´era possibile che Marcella chiedesse un aiuto per parlare con Maurizio - loro due che da più di cinquant´anni, dagli incontri furtivi nella Roma clandestina dei tedeschi e dei fascisti, avevano sempre parlato, e talvolta, pensavo, magari anche gridato, come accade nei legami sorti dall´amore, lunghi tanto da tendersi, inevitabilmente, e torcersi e annodarsi fin quasi allo strappo, poi sempre evitato? Eppure, mentre rientravo nella stanza e m´avviavo alla porta di casa, mi pareva come se Marcella avesse, come si dice, gettato la spugna. Ma quali argomenti potevo avere io, che valessero più dei suoi? (...) Per rasserenare Maurizio con le parole, non credevo d´essere la persona più adatta. Forse per qualche caso insignificante, in cui la mia cosiddetta saggezza poteva giovare. Però quella chiamata non era rivolta a una saggezza quotidiana, sembrava piuttosto dire e quasi imporre: «Ora tocca a te».
Entrai nella cucina. Marcella era sparita, sentii i suoi passi al piano di sopra. Maurizio doveva essere nella stanza accanto, "il salotto", la stanza con lo scaffale grande, il televisore, il divano-letto le poltroncine e la poltrona grande di legno, con lo schienale mobile, detta "la poltrona dello zio Antonio", un resto delle varie minime eredità lasciate dai tanti fratelli e sorelle di nostra madre (ora, quella poltrona l´ho io, è sempre a Porto Ercole, resiste bene al tempo).
Maurizio, era lì, sulla poltrona di zio Antonio. Volse il viso per guardarmi, aveva gli occhi rossi e le guance umide, teneva in mano un fazzoletto bagnato e ripeteva il gesto che, ricordai, faceva quando morirono nostro padre e poi nostra madre, e lui piangeva: passava il fazzoletto pieno di lacrime appallottolato dalla mano destra alla sinistra e poi dalla sinistra alla destra, e ancora e ancora, e così via. Chiamò il mio nome, a voce bassa, poi riprese a guardare davanti a sé, chinando un poco il capo, come per nascondere il viso.
Sedetti sulla poltroncina accanto al televisore spento, e stavo zitto. Lui mi guardò con occhio assente, abbozzò un sorriso ma non diceva nulla. Fu quello un momento del tutto nuovo, per me. Non m´ero mai trovato accanto a mio fratello così, in silenzio, guardando lui che piangeva tacendo. (...) A tratti, nel suo silenzio, Maurizio mi fissava con uno mite sorriso come d´imbarazzo. Forse non per i pensieri che lo tormentavano e non si decideva a rivelare, ma piuttosto per quel pianto che rivelava una stanchezza infinita, quasi la rinunzia al portamento virile che in lui tanto spesso era imperioso. Sparita l´eterna gioventù del suo spirito testardo e coraggioso, nella catastrofe d´una vecchiaia morale e fisica piombata su di lui inesorabile. Appariva esaurito, quasi non avesse più parole, come se il colloquio con Marcella, forse lungo e certamente agitato, lo avesse stremato e ammutolito. Doveva parlare con me ma riusciva solo a piangere e, a tratti, frenando il pianto, a sospirare come se riflettesse e tornasse a riflettere e riflettere ancora, ostinatamente e invano. Non sapevo che fare, che dire, poi un pensiero mi colse, semplice, nudo: «È crollato». Ma in che senso, perché? Con uno sguardo lui mi capì, e con voce sommessa ma chiarissima disse: «Caro mio, è tutto finito, finito».
Tacemmo ancora. Lui sembrava fissare un quadro appeso sopra il televisore, una litografia che aveva portato dalla Russia quando tornò dal suo lavoro d´inviato dell´Unità a Mosca. Una litografia che in certo senso ricordava quel famoso disegno di Steinberg, dove in prospettiva è rappresentata l´intera America, dalle vie di New York fin laggiù laggiù, la Cina. Ma questa nella sua ingenuità popolare aveva ben altro senso: si vedeva tutta l´Urss, campagne e città, monti, fiumi e boschi, ciminiere e fabbriche, campi di grano e laghi, il mare intorno e lontano e sopra tutto un quadrimotore Tupolev che sorvolava trionfante l´intera Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. La sintesi d´un mito della terra e della Rivoluzione, della tradizione e della modernità. Una litografia minuziosa e allegra, con i suoi colori chiari e una sorta d´ottimismo - non un solo angolo oscuro, non un solo successo proletario trascurato. Ero abituato da anni a vedere quell´immagine strana e familiare, senza quasi più notare in alto, tra i cieli azzurri e di bianche nuvole, in un ovale intrecciato di frutta e fiori, i tre profili: Marx, Lenin, Stalin.
«È tutto finito, tutto cancellato, non resta niente, niente di niente», così disse. S´asciugò di nuovo gli occhi, ormai il gesto era automatico, non aveva più lacrime. «È stato tutto inutile», riprese. «Non ha significato niente, non c´era niente che valesse la fatica... tutta la vita... una fatica inutile... Marcella dice che non è vero, non è del tutto vero, ma sa benissimo che non è così, che è vero, è inutile discutere. Tutta una vita, sessant´anni dietro a questo lavoro, a questo mondo, a questo scopo, non c´è rimasto niente. Anzi, non c´era niente neanche prima, forse. Io l´ho sentita venire, questa fine, è una specie di morte, ma soltanto ora, non so perché, ho visto le cose in faccia. Ma è peggio della morte, quella riguarda le persone, o anche milioni di persone, ma sempre persone, questa è come la morte del significato di ogni cosa, ogni cosa ha perso il suo significato, restano solo quelli là, quelli che hanno sempre avuto ragione! Non è che prima avessero torto e poi sono riusciti ad aver ragione, hanno sempre avuto ragione, noi abbiamo sempre avuto torto, abbiamo sbagliato tutto fin dall´inizio, fin dal ´17!».
È strano, sono passati almeno dieci anni, il fratello Maurizio, il mio fratello comunista è morto, e così Marcella, la mia cognata comunista, tutto quel mondo è perduto, forse non interessa più nessuno e io stesso ne sono ormai quasi dimentico. Eppure, ricordo tutto di quel pomeriggio, quasi ne avessi fatto un verbale, e ora lo rileggessi dentro di me. Come se quella conversazione - niente di straordinario, in fondo, cose scontate, tipiche della tragica banalità che è del nostro tempo - abbia segnato la fine non soltanto della sua storia, ma in qualche modo anche della mia.

il Riformista 24.2.07
Vescovo ratzingeriano:
asili nido? Non potetis


I piani del governo per costruire più asili-nido sono «micidiali per i bambini e per le famiglie»; le donne vengono trasformate in «macchine da riproduzione» e la politica del ministro della Famiglia non ha nulla a che vedere con il bene dei bambini, ma è «volta innanzitutto a reclutare giovani donne come forza lavoro di riserva per l’industria». Toni simili, da parte di un vescovo cattolico, in Germania non si erano mai sentiti e un attacco tanto pesante al governo non si era mai visto. La chiesa bavarese, notoriamente assi vicina a papa Ratzinger, sembra intenzionata ad adottare i metodi di un nuovo, micidiale Kulturkampf contro lo stato laico.
Si capisce, perciò, lo stupore (e la preoccupazione) con cui sono state accolte le dichiarazioni esplosive del vescovo di Augusta Walter Mixa, uno dei massimi esponenti delle gerarchie ecclesiastiche del meridione tedesco. Tanto più che questa furia era indirizzata contro la pia Ursula von der Leyen, la ministra più “cristiana” del gabinetto guidato dalla cristiano-democratica Angela Merkel. La ministra che, sia detto per inciso, meno può essere accusata di volere il male dei bambini, visto che ne ha messi al mondo ben sette.
L’attacco del vescovo Mixa ha seguito a ruota una sequela di polemiche che si erano già abbattute sul programma messo a punto dal ministero della Leyen, che era stata accusata dalla destra più conservatrice di insistere troppo nell’intenzione di sottrarre le madri al loro “dovere” di educare i figli in casa. Una polemica decisamente reazionaria, la quale riecheggia però certi scrupoli che sono presenti nello spirito pubblico tedesco a causa del ricordo del nazismo, i cui piani educativi prevedevano proprio la sottrazione dei minori alle famiglie e il loro affidamento a strutture educative statuali. La povera von der Leyen, tuttavia, con la sostanza di questi scrupoli non ha nulla a che vedere. Il suo piano per la realizzazione degli asili-nido (attualmente del tutto insufficienti in molti Länder tedeschi dell’ovest, proprio per il motivo accennato sopra) è teso semplicemente a rendere più facile la vita alle tante donne che lavorano e non sanno a chi affidare i figli. E tutto si aspettava meno che di diventare il bersaglio di un furibondo tiro a segno che la considera strumento del demonio.
Tanto è apparsa dura e immotivata la sortita del vescovo Mixa che lo stesso capo del gruppo parlamentare della cattolicissima Csu nella dieta bavarese, Joachim Hermann, ha sentito il bisogno di prenderne polemicamente le distanze, richiamando oltretutto alla coerenza coloro i quali, a parole, si dicono favorevoli a politiche che aiutino la famiglia. Con un po’ di malizia, Hermann ha ricordato anche al vescovo Mixa che fra le donne che lavorano e che, per farlo, hanno la necessità di affidare i figli alle strutture pubbliche, ce ne sono moltissime le quali, specie in Baviera, sono al servizio proprio della chiesa e delle organizzazioni cristiane come la Caritas. Assai più duri i giudizi degli esponenti della Spd: il capo dei deputati socialdemocratici bavaresi Florian Pronold ha accusato Mixa di usare toni da «caccia mediatica alle streghe», mentre la responsabile federale per le questioni ecclesiali Kerstin Griese ha invitato la chiesa bavarese a non seguire le rudezze del vescovo di Augusta.
Al di là delle polemiche sollevate dall’incredibile presa di posizione di Mixa, si coglie comunque una preoccupazione più generale della chiesa cattolica tedesca (e un po’ anche di quella evangelica). I rapporti con Roma in materia di politiche della famiglia e di morale sessuale non sono mai stati facili, specialmente per quanto riguarda le comunità ecclesiali di base e quelle, anche ufficiali, della Renania. L’insofferenza dei cattolici più aperti per le chiusure che arrivavano dal Vaticano (per esempio sulla somministrazione dei sacramenti ai divorziati) hanno indotto tensioni e divisioni anche all’interno della Germania, con i bavaresi tradizionalmente più “fedeli” alle direttive romane. Una accentuazione delle intolleranze, come quella segnalata dalla sortita del vescovo di Augusta, potrebbero aprire un conflitto davvero esplosivo.

il Riformista 24.2.07
I dodici bocconi amari che
Rifondazione deve ingoiare
di Ettore Colombo


Il Prc fa quadrato attorno a Prodi al punto da manifestare in nome della prosecuzione del suo governo, domenica prossima, in tutte le piazza d’Italia. Deferisce il senatore dissidente Franco Turigliatto, già espulso dal gruppo, al collegio di garanzia, che dovrebbe deciderne il definitivo allontanamento dal partito. E, soprattutto, manda giù, con molti mal di pancia, tutti e 12 i «punti» usciti dal vertice dell’altra sera con il premier.
La direzione straordinaria del partito, che si è riunita ieri mattina, ribadisce la fiducia al premier e «una collaborazione leale e fattiva» al suo governo. Però l’oggetto del contendere non è l’appoggio al governo, ma i 12 punti. Apertamente, dissentono solo le minoranze, in realtà i dubbi permeano anche pezzi della maggioranza. Per Giordano non ci sono se né ma: riconosce che alcuni temi sono delicati (Dico, Tav, rigassificatori) ma il sì convinto ai 12 punti è frutto di tre questioni cardine (centralità dell’Unione, conferma del governo Prodi, centralità del programma). Poi usa un virtuosismo dialettico: «le modalità d’inveramento le discuteremo nel confronto parlamentare». Eppure molti tra i punti restano controversi, a partire dalla richiesta di metodo del premier, quella di esprimere in maniera unitaria la posizione del governo perché si rischia un deficit collegialità. Lo ammette la senatrice Rina Gagliardi: «i 12 punti sono una piattaforma emergenziale e preannunciano un secco spostamento al centro del governo. In particolare l’ultimo punto nega alla radice il potere di contrattare». Non è l’unico punto di sofferenza, anche se tutti sanno, nel Prc, che dopo Prodi c’è il nulla. O il caos. Quello che non va lo enumera lo stesso ministro Paolo Ferrero, l’altra sera, a caldo, nel corso della trasmissione Controcorrente su Sky. «Lotta alla precarietà, all’evasione e alla povertà, che sono elementi di società importanti, non compaiono, nello schema i livelli di emergenza sociale restano sullo sfondo». Poi, ieri, precisa: «Il programma elettorale dell’Unione non è cancellato dai 12 punti». Giordano tira un sospiro di sollievo: «Ferrero è stato equivocato».
Il responsabile economico Maurizio Zipponi si attesta sulla linea di difesa che «fa fede il programma né potevamo scriverne uno nuovo. Lotta alla precarietà e al lavoro nero e sommerso sono lì e in Finanziaria, poi per imporli serve vincere nei rapporti di forza reali». Ma il sottosegretario allo Sviluppo economico Alfonso Gianni chiede chiarimenti sul punto 7: «riduzione dei costi della politica va bene; della spesa sociale no, vorrei almeno capirne di più. Abbiamo perso consensi proprio sulla politica economica e qui rischiamo di più, nel rapporto con il nostro popolo». Poi c’è il problema che «il governo è caduto da destra, non da sinistra. All’allargamento a destra ci dobbiamo stare, ma come?». Giordano difende con puntigliosità l’accordo, i capigruppo di Camera e Senato (e colonnelli in seconda del Prc) Migliore e Russo Spena fanno quadrato. Per Migliore, che pure avrebbe chiesto «più attenzione» al punto della spesa sociale, «non c’è nessuna sofferenza: i 12 punti sono una estrapolazione del programma e la nostra adesione è totale. Nello specifico, i Dico sono già incardinati in Parlamento, la parte sociale è nel programma, sulle pensioni i segnali sono positivi. Dimostreremo che è possibile governare con una maggioranza plurale, l’unica possibile, questa». Russo Spena ammette che «sulla Tav vedremo le soluzioni tecniche, il punto va approfondito, mentre sulle pensioni c’è l’accento su pensioni basse e giovani, per il resto non ci sono punti di sofferenza, nemmeno sulla politica estera, dove si richiamano diversi emendamenti già presentati dal Prc, a partire dalla conferenza di pace». Russo Spena garantisce sulla compattezza dei suoi 26 senatori, poi con Migliore (e naturalmente Giordano) sale al Quirinale. Dove viene confermata al Colle «la totale fiducia del Prc al governo Prodi e la contrarietà a qualsiasi altra forma di governo, istituzionale o di larghe intese», ma soprattutto è sicuro che «la maggioranza sarà autosufficiente e completa sia alla Camera che al Senato, i numeri ci sono», dice Giordano.
Intanto però i senatori sono diventati uno in meno perché Turigliatto entrerà nel gruppo misto: per ora «sospende il giudizio», sulla fiducia, anche se difficilmente lui e il suo compagno di corrente (Sinistra critica) Salvatore Cannavò, che - annuncia - assumerà su di sé le stesse decisioni che graveranno su Turigliatto fino all’espulsione, negheranno la fiducia a Prodi. La chiamano «pausa di riflessione», per ora, ma ribadiscono il loro no secco sull’Afghanistan e rischiano di finire ai margini, malissimo tollerati, se non fuori, entro breve, dal Prc, con un voto contrario sulle missioni, anche se Cannavò annuncia una «campagna di solidarietà» a Turigliatto. Certo è che, dalle minoranze, la sensazione che i 12 punti siano «un arretramento secco», rispetto al programma, è netta. Claudio Grassi, leader dell’altra e più grande minoranza, l’Ernesto, che pure non vede alternative alla riconferma di Prodi ed ha criticato il comportamento di Turigliatto, giudica i 12 punti «un passo indietro» rispetto al programma su vari temi (accentramento di poteri in mano al premier, Tav, pensioni) e ammette che «il prezzo da pagare sta diventando alto», ma riconosce che «un quadro più avanzato di questo non è dato». Grassi, tra gli iniziali dissidenti, voterà per Prodi, come pure farà «per impedire il ritorno delle destre più antipopolari e pericolose d’Europa» un altro irriducibile, il senatore Fosco Giannini, che pur ribadendo le sue «critiche profonde» al governo Prodi su politica economica e politica estera fa capire che si adeguerà alle decisioni del suo gruppo. Ma sull’evoluzione (in peggio) dei rapporti interni è netto: «L’ipotesi del congresso di Venezia in base alla quale i movimenti avrebbero spostato a sinistra l’ago della bilancia di un governo con noi dentro non si è verificata. I movimenti non ci sono e il partito vive un’impasse terribile». A proposito di movimenti, si fa sentire anche la voce, nettamente critica, di Giorgio Cremaschi, leader della sinistra interna alla Cgil e iscritto al Prc: «dalla guerra in Afghanistan alla base di Vicenza alla Tav all’innalzamento dell’età pensionabile alle privatizzazioni, con i 12 punti il governo assume orientamenti che contrastano profondamente con le richieste di tanti movimenti di questi anni. Così si apre una fase di conflittualità a livello sociale». Per ora, però, Vicenza è già un ricordo, la sindrome del ’98 insegue il partito fino ai piani più alti (Bertinotti compreso) e per Giordano «il popolo del Prc» vuole solo che «il governo Prodi vada avanti», 12 punti compresi. La sinistra radicale spera che ci sarà tempo per limarli, migliorarli e soprattutto farli digerire, da quel popolo. Come scriveva ieri su Liberazione Russo Spena, la linea è una sola: «non svendere nulla, non dimostrare inutili rigidità».

l'Unità 24.2.07
I Dico dell'anno 400
di Gian Carlo Caselli


Scherza coi fanti e lascia stare i santi. So bene che queste parole sono un condensato di prudenza e saggezza. So anche che in un clima di forte tensione su «Pacs», «Dico» e «unioni di fatto» (caratterizzato da ferme prese di posizione d’Oltretevere e preoccupate reazioni dei difensori della laicità dello Stato) affrontare temi così arroventati con propositi di leggerezza e distacco - senza indossare questa o quell’altra armatura - può essere rischioso per le tante suscettibilità in agguato. Tutto vero. Per cui fin da subito mi pento e mi dolgo se mi permetto di dire che non so se esista davvero una lobby contro la famiglia nel riconoscere le coppie di fatto. Ma se mai esistesse, la si potrebbe ricollegare ad un autorevole precedente storico. Un singolare precedente: quasi un cavallo di Troia in terra... fidelium. Perché si tratta del canone di un Concilio. Per la precisione il canone 17 del primo Concilio di Toledo (anno 400 d.C.) Dunque, un precedente da sgranare tanto d'occhi, da non crederci: perché sono stati addirittura dei Vescovi in Concilio a stabilirlo. Nel canone 17 del primo Concilio di Toledo si legge: «Si quis habens uxorem fidelis concubinam habeat, non communicet: ceterum is qui non habet uxorem et pro uxore concubinam habeat, a communione non repellatur, tantum ut unius mulieris, aut uxoris aut concubinae, ut ei placuerit, sit conjunctione contentus; alias vero vivens abijciatur donec desinat et per poenitentiam revertatur». È un latino facile. In sostanza dice che la convivenza sessuale è lecita soltanto quando sia con una sola donna. Ma precisa che la convivenza sessuale con una sola donna è consentita (e perciò non comporta scomunica) non solo quando si tratta di «moglie», ma anche quando si tratta di «concubina tenuta come fosse moglie». In altre parole, per la Chiesa del 400 c'erano alcune unioni di fatto, non costituenti matrimonio, considerate legittime perché sostanzialmente assimilabili al matrimonio. Impossibile, ovviamente, trarne insegnamenti vincolanti o anche solo utili per la stagione che stiamo oggi vivendo in Italia. Dopo milleseicento e passa anni tutto cambia. Uomini, leggi, canoni, principi, rapporti fra Stato e Chiesa, dottrine e prassi. La «flessibilità» di una quindicina di secoli fa potrebbe oggi apparire semplicemente anacronistica. Ma ricordarla si può. E chissà che non possa contribuire - anche solo per un attimo - a svelenire il dibattito, preferendo ai toni da guerra di religione quelli di un più pacato confronto. Magari ironizzando sul fatto che in Spagna un po' di «zapaterismo» - si direbbe - sembra aleggiare già nell'anno 400. Addirittura in un Concilio.

venerdì 23 febbraio 2007

l’Unità 23.2.07
Il presidente Fausto Bertinotti annulla la due giorni sul Monte Athos


ROMA La crisi di governo spinge il presidente della Camera Fausto Bertinotti ad annullare il suo viaggio ai Monasteri di Monte Athos, in programma oggi e domani.
«Vista la situazione venutasi a creare con le dimissioni del governo Prodi - riferisce una nota della Presidenza di Montecitorio - il presidente della Camera, Fausto Bertinotti ha annullato il viaggio ai Monasteri di Monte Athos previsto per oggi, 23 febbraio, e sabato».
La visita rientrava in un percorso di approfondimento spirituale iniziato da tempo da parte del presidente della Camera Fausto Bertinotti.
Sarebbe stata una tappa inusuale dopo il lungo e proficuo viaggio in Sudamerica dove Bertinotti ha fatto a suo modo una svolta: contrapponendo Allende a Che Guevara.

l’Unità 23.2.07
Nel gioco dei veti incrociati c’è un primo bersaglio: i Dico
di Andrea Carugati


«I Dico vanno tolti dall’agenda, questo deve essere chiaro e credo sia stato capito». Clemente Mastella liquida così il ddl Bindi Pollastrini sulle unioni di fatto approvato pochi giorni fa dal Consiglio dei ministri. E tocca uno dei temi più delicati di questa crisi che si è aperta a sinistra e che ora si gioca soprattutto al centro. Con i teodem della Margherita, a partire da Enzo Carra, che attaccano la scelta del partito a favore dei Dico: «Come si fa ora a dialogare con i settori cattolici del centro?». L’uscita di Mastella irrita il socialista Boselli, che giudica il ddl Bindi-Pollastrini «una base minima di compromesso» che non si può ridiscutere. Mentre il ds Franco Grillini già pensa di tornare ai testi depositati alla Camera: «Magari verrà fuori una legge migliore di quella modestissima del governo». E l’ex dipietrista De Gregorio annuncia: sostegno al governo se cancella i Dico.
Poche ore dopo il voto del Senato che ha affossato il governo, loro due l’avevano già detto. Franco Grillini e il teodem Enzo Carra, da sponde diametralmente opposte, avevano subito messo in relazione questa crisi con i Dico: il primo a ricordare «lo schiaffo di Ruini» al governo per mano dei senatori a vita, a partire da Andreotti; il secondo a rallegrarsi per l’«affossamento» del mai digerito ddl Bindi-Pollastrini. Ieri il timbro è arrivato dal Guardasigilli Mastella: «I Dico vanno tolti dall’agenda, questo deve essere chiaro e credo sia stato capito. Del resto non è certo il momento di andare allo scontro». Una pietra tombale che fa sorridere Francesco Storace: «Ho avuto una notizia riservata da palazzo Chigi», ha detto, «hanno cambiato il nome della legge: non più Dico ma Dicevo...».
Mastella già fa infuriare il socialista Boselli: «Quel testo è una base di compromesso non più discutibile». Più pragmatico Grillini, che pensa di ripartire dai testi sulle unioni di fatto già depositati alla Camera, così «almeno potrà venir fuori un testo migliore di quello modestissimo del governo: più che sui diritti dei conviventi era sui diritti dei coinquilini».
Affossati anche da Grillini, per i Dico firmati Bindi Pollastrini il futuro appare davvero nero. E sempre più intrecciato con l’esito della crisi. Tanto che l’ex dipietrista Di Gregorio, consultato ieri al Quirinale dal presidente Napolitano, ne ha fatto l’ago della bilancia per un suo assai eventuale rientro nei ranghi del centrosinistra: volontà di «cooperare per la stabilità» in cambio di una «variazione di rotta sulla famiglia e sulle coppie di fatto». Il tema, insomma, si insinua sempre di più in questa partita che, grazie ai “puristi” della sinistra radicale, si è spostata tutta al centro, così come il baricentro di un eventuale Prodi-bis o, ancor più, di un governo istituzionale. Al centro «ci sono contatti», confermano importanti dirigenti della Margherita, da Castagnetti a Soro, «bisogna muoversi, persuadere, fare politica, fare tutto il possibile». Eppure Casini, tra i motivi del suo no a un appoggio a un Prodi bis, cita subito i Dico: «Come si concilia la nostra posizione con quella di questa maggioranza?», si chiede fumando il sigaro nel cortile di Montecitorio. Enzo Carra, teodem della Margherita, un’idea ce l’ha: «Se nelle settimane scorse avessimo avuto un ruolo attivo sui Dico ora saremmo credibili verso i settori cattolici del centro: invece i 60 col loro documento hanno voluto narcotizzare tutto, siamo diventati un partito-Lexotan. E oggi con quale faccia andiamo a chiedere a Follini e all’Udc di unirsi a noi? Ci risponderebbero: “siete state aggrediti voi che eravate dentro, figuriamoci noi...”». Carra chiede a Rutelli un colpo d’ala: «Prenda un’iniziativa al centro, si smarchi, se non li cerchiamo noi nuovi voti al centro chi lo può fare? Purtroppo i 60 hanno portato il partito all’irrilevanza».
Dunque la timida primavera dei diritti civili sembra già colpita da una rigida gelata. E anche il Dc Rotondi, che pure aveva aperto sui Dico, oggi spiega: «Il governo ha sbagliato a presentare un proprio disegno di legge: ha politicizzato la questione, anzi l’ha militarizzata». E così il probabile tramonto del più moderno e “trasgressivo” dei provvedimenti del governo Prodi contribuisce all’«effetto-macchina del tempo» che si respira in Transatlantico. Dove sembrano di colpo cancellati 15 anni di Seconda Repubblica: con le consultazioni al Quirinale partito per partito, dopo anni in cui leader salivano al Colle per Poli, correnti e sottocorrenti che si riuniscono a crocchi ridendo delle disavventure dei vicini di banco, bipolaristi convinti costretti a dichiarare, arrossendo, di voler raccattare singoli senatori dell’opposizione. E ancora: il protagonismo di Andreotti e Cossiga, gli ex Dc che giganteggiano e sorridono, abituati a crisi assai più complesse e assai meno comprensibili per l’opinione pubblica. Come Mastella che ieri si divertiva sul divano di pelle rossa raccontando che in mattinata «mi hanno chiamato dal Senato per dirmi di sbrigarmi che altrimenti si andava sotto». Risate. O De Michelis che ai suoi spiegava: «Ma come fanno a non capire che questo bipolarismo con dentro le ali estreme non funziona? Non siamo mica in Inghilterra! Anche Berlusconi, che pure aveva quella maggioranza che aveva, in cinque anni non è riuscito a fare niente». E allora? Indietro tutta. «C’è chi vuole mettere indietro le lancette dell’orologio e della politica. Noi non lo permetteremo», si sfoga Franco Giordano. Ma forse è tardi.

l’Unità 23.2.07
INGRAO: «Sostenere il governo Prodi per difendere il pacifismo italiano»


ROMA «Sostenere il governo Prodi per difendere il pacifismo italiano nel mondo».
È questo, in sintesi, l'invito fatto da Pietro Ingrao che ha partecipato, insieme a Franco Giordano, ad una affollata manifestazione in un circolo culturale romano. «La sconfitta del Senato - ha detto l'ex presidente della Camera - cade in un momento estremamente delicato e rischia di spostare il baricentro della battaglia che i pacifisti stanno conducendo in tutto il mondo».
Ingrao ha riconosciuto al governo Prodi di avere aperto una «partita nuova» nel campo della politica estera. Ha in più occasioni citato l'articolo 11 della Costituzione contrapponendolo alla «guerra preventiva» inventata e voluta dagli Stati Uniti: «quell'articolo 11 è fatto di lacrime e sofferenze perché è nato sulla tragedia della II guerra mondiale. Gli americani vorrebbero strapparcelo».
Per Ingrao «non bisogna correre il rischio di far tornare Berlusconi al potere perché questo restituirebbe il nostro paese alla pratica della guerra preventiva».
Nel suo appassionato intervento Ingrao ha fatto una «tiratina di orecchie» a Giulio Andreotti: «Mi è sempre stato un po’ antipatico. Al Senato ha fatto un altro colpo gobbo, semmai poi va anche in chiesa a confessarsi. È un personaggio che può anche ingannare. Chissà che calcolo ha fatto, chissà a che cosa gli è servito quel voto».
Un'altra tiratina di orecchie, anche se più benevola, a Massimo D'Alema del quale apprezza l'intelligenza: «Un uomo acuto, molto calcolatore, ma è stato battuto da un furbone democristiano che ha fatto la mossa cruciale al momento giusto». «Credo che D'Alema abbia sbagliato un po’ i tempi, sulla politica estera si è mosso tardi, doveva vedere prima lo scoglio verso il quale il governo stava andando».
Un accenno Ingrao lo dedica al senatore Sergio Pininfarina: «Io con gli imprenditori c'ho avuto sempre a che fare, come con quel tizio che mi chiedeva sempre “che ti serve qualche cosa?”». Poi parla di Gianfranco Fini, che ha partecipato a “Porta a porta”: «lo guardavo in tv e un po’ lo compativo. È proprio un pagliacciotto».

l’Unità 23.2.07
PRC. Volantinaggi e sit in, domenica in piazza per dire: «Prodi, vai avanti»


L’iniziativa è ancora in fase di organizzazione, ma la segreteria nazionale di Rifondazione ha già invitato tutte le federazioni locali per organizzare manifestazioni, sit-in, punti di ritrovo per domenica mattina in tutte le piazze italiane. La parola d’ordine è «parlare, parlare, parlare», spiegare ai cittadini che cosa è accaduto e ribadire il pieno sostegno di Rifondazione Comunista a Romano Prodi. E stabilire un contatto diretto con il «popolo dell’Unione».
Dialogo aperto con cittadini e elettori, dunque, che segue l’iniziativa «Parla con noi», il forum online che ha ricevuto tanti contatti che, appena poche ore dall’apertura, ieri pomeriggio, si è trovato fuori uso.
Sempre domenica si terranno anche diverse conferenze di organizzazione territoriali in vista di quella nazionale di fine marzo.

«Garantisco sui miei 27 senatori»
Giordano, Rc: basta con l’autismo istituzionale. «Turigliatto? Non lo perdoneremo... »
di Eduardo Di Blasi
Oggi la direzione di Rifondazione deciderà l’espulsione del senatore «dissidente»

«NON PERDONEREMO mai Franco Turigliatto». L’epitaffio è di Franco Giordano, segretario del Prc, il giorno seguente la caduta del governo Prodi a Palazzo Madama. «No, perché se c’è una rabbia che io ho in corpo, e che trasmetto sia quando vado nei programmi televisivi che quando sono a incontri o riunioni, è determinata dal fatto che su questo governo erano apposte le nostre speranze, e adesso il rischio è tornare indietro».
Vi portate sempre addosso il fantasma del ’98...
«Il ’98 non c’entra nulla. Oggi condividiamo un programma, e abbiamo sempre sostenuto il governo in tutti i suoi passaggi parlamentari. Lo abbiamo fatto liberamente per non tradire la fiducia riposta dai nostri elettori, gli elettori dell’Unione».
Lei afferma che non c’è stata una volontà politica del suo partito, ritiene di non avere comunque una responsabilità politica nella caduta del governo?
«Al Senato tutta la coalizione incontra una difficoltà per quello che riguarda i numeri. Mercoledì un solo nostro senatore (ne abbiamo 27, e anche grazie a questo contribuiamo all’esistenza della maggioranza) non ha partecipato al voto. E noi lo abbiamo dichiarato fuori dal partito. Anche se Turigliatto e Rossi avessero votato, poi, saremmo caduti lo stesso, perché non avevamo la maggioranza. E certo che io reputo entrambi gente irresponsabile, affetta da autismo istituzionale. Per quello che è successo mercoledì, però, ritengo che su quel voto si siano concentrate tensioni derivanti da tante sollecitazioni provenienti da settori esterni al governo. E poi, a ben vedere, un solo senatore della maggioranza ha votato con l’opposizione, e non l’abbiamo candidato noi: Sergio De Gregorio».
Qualche problema sulla politica estera il suo partito l’ha posto...
«Abbiamo sostenuto con grande lealtà la politica estera di D’Alema. Anche perché il ministro ha espresso una visione innovativa che è entrata in contatto con il popolo della pace».
Dopo la battuta d’arresto, votereste nuovamente il governo Prodi?
«Io credo che oggi ci siano le condizioni per riproporre la fiducia. Abbiamo il dovere di verificare la possibilità del prosieguo del governo Prodi. Anche per portare a termine quella stagione riformatrice auspicata dalla nascita di quell’esecutivo».
Prodi chiede garanzie. E i numeri al Senato restano in bilico. Il suo partito cosa può garantire?
«Io credo che dovremmo puntare sulla collegialità tra di noi. Rifondazione garantisce quello che ha sempre garantito, vale a dire la totale lealtà al programma dell’Unione».
Sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, per fare un esempio, il senatore Fosco Giannini ha già dichiarato che non voterà...
«Io garantisco che dei 27 senatori che rappresento, voteranno tutti. Su quella proposta, indicata anche dal ministro D’Alema, c’è stato il nostro lavoro di mediazione. Condividiamo profondamente l’idea di una conferenza internazionale sull’Afghanistan, e quella di una politica estera autonoma. Per questo voteremo per il governo».
Dopo la caduta di Palazzo Madama non sembra si possano tirare indietro le lancette. Mastella afferma già che i «Dico» devono essere messi da parte...
«Vede, allora, che il problema non è Rifondazione? Io credo che questo governo e questo programma siano gli unici possibili, e faremo ogni sforzo perché ciò accada».
Se la maggioranza di governo si allarga verso il centro vi toccherà ingoiare rospi un po’ più grossi...
«Io non credo che dovremo avere in questa circostanza un atteggiamento mercantile. Credo invece che si debbano fare due cose: garantire la fiducia al governo Prodi al Senato e verificare l’appoggio al programma di governo. Sulla base del rispetto del programma non sono contrario ad un allargamento della maggioranza».
Non vi sentite in una posizione debole?
«No. Siamo sempre stati una forza leale. E riteniamo che il governo Prodi possa essere riconfermato. È possibile anche una campagna parlamentare per arrivare ad una nuova legge elettorale per contrastare le terribile legge elettorale fatta da Berlusconi. Questo lo può fare un governo dell’Unione».
Un governo per la legge elettorale?
«Non ci può essere un governo che nasca sulla legge elettorale. Io non penso ad un Prodi II, ma alla riproposizione di un Prodi I. Un governo che porti avanti le riforme avviate sulla lotta alla precarietà, lo stato sociale, le libertà individuali».
Franco Turigliatto resterà a Palazzo Madama?
«Oggi riuniamo la direzione del partito. Proporremo l’incompatibilità politica. Lui ha già detto che vuole dimettersi. Io mi auguro che questo succeda, perché non ha risposto al mandato che gli elettori ci hanno dato. Noi non possiamo rimuoverlo, nè fucilarlo, ma quest’ultima cosa non la scriva».

l’Unità 23.2.07
«Io, ex Potere Operaio e Fiom: 20 anni nel mirino dei terroristi»
Per la prima volta parla Antonio Romito, teste chiave del processo a Negri e Scalzone: «Come me tanti altri uomini dimenticati»
di Gigi Marcucci


PER DODICI ANNI è stato un fantasma. Per altri sei ha vissuto guardandosi le spalle. Quasi quattro lustri trascorsi da latitante. Senza aver fatto niente di male. Antonio Romito si materializza nell’atrio di un albergo padovano. Giacca, cravatta, una stretta di mano micidiale, che non può essere quella di uno spettro. Oggi ha 55 anni, fa l’imprenditore. Per la prima volta racconta la metà sommersa della sua vita. Gennaio 1979, Guido Rossa, operaio all’Italsider di Genova, con in tasca la tessera del Pci e quella della Cgil, viene assassinato dalle Brigate Rosse. Passano cinque giorni, a Milano un commando di Prima linea uccide il giudice Emilio Alessandrini, il magistrato che sta indagando su piazza Fontana.
Negli anni di piombo si muore così. Ogni giorno ci si chiede chi sarà il prossimo a cadere. A Romito, dirigente della Fiom padovana iscritto al Pci, uno che chiude le manifestazioni senza dare la parola ai violenti di “Autonomia organizzata”, glielo chiede proprio uno di loro: «Hai visto Rossa e Alessandrini? Indovina chi sarà il terzo». Padova è da anni nell’occhio del ciclone. È lì che nel ‘74 le Br compiono il famoso «salto di qualità», uccidendo per la prima volta. Le vittime sono due giovani missini, Giuseppe Mazzola e Graziano Girallucci. Nel marzo del ‘79, il professor Guido Petter viene ferito gravemente a colpi di spranga. A organizzare il pestaggio è Claudio Latino, arrestato due settimane fa come appartenente alle nuove Br. Due giorni dopo tocca al preside di Lettere, Oddone Longo. A settembre, sparano al professor Angelo Ventura, che aveva pubblicamente denunciato Autonomia.
«Il clima era quello. Io dentro di me pensai: se proprio devono ammazzarmi, almeno che si sappia chi è stato». Il giorno dopo Romito è davanti a Pietro Calogero, il magistrato che indaga sui collegamenti tra l’Autonomia e le Br, quello che per alcuni diventerà il teorema «7 aprile». Il pm lo ascolta per tre giorni e tre notti. Romito ha una lunga storia da raccontare. Prima di entrare nel sindacato e nel Pci ha fatto parte di Potere Operaio, il gruppo più oltranzista e compartimentato della sinistra antagonista. Ha conosciuto e frequentato il professor Toni Negri, Carlo Fioroni (il professorino del rapimento Saronio), Emilio Vesce. «Ho ricostruito tutto dall’interno: le scissioni, il passaggio alla lotta armata. Calogero aveva capito tutto, mi creda».
Tutto comincia nel 1969, l’anno dell’autunno caldo. Romito, 18 anni, indossa da poco la tuta di metalmeccanico all’Utita, una fonderia che ha 810 dipendenti. È uno dei pochi assunti a non essere passato attraverso il “collocamento parallelo” gestito dalla Cisnal, il sindacato vicino al Movimento sociale. «Avevo la passione politica di quell’età. Un specie di fiamma che mi catapultava giù dal letto alle tre del mattino, quando dovevo volantinare o fare i picchetti. A quell’età cerchi continuamente le emozioni, l’ebbrezza: ha presente quella che Toni Negri diceva di provare quando si calava il passamontagna?». All’epoca Negri è un professore di filosofia e ha alle emozioni affianca la teoria. «Il tipo di lotta che noi proponiamo è indubbiamente fondata su obiettivi di appropriazione - dichiara nel ‘71 -. Ed è su questo piano che non avrebbe credibilità di fronte alle masse un progetto che non fosse di appropriazione armata». Il tema della «militarizzazione del movimento» è obliquamente lanciato. Se il professore non vaneggia, sta parlando di lotta armata.
«Io sapevo cos’era Potere Operaio. Dentro di me lo giustificavo, anche perché per molto tempo le azioni illegali erano state solo dimostrative», dice Romito. Capireparto sequestrati, qualche macchina incendiata. Poi però, proprio a Padova, c’è il famoso “salto di qualità”, con l’uccisione di Girallucci e Mazzola. «A sinistra si diceva che fosse stata un regolamento di conti tra neofascisti, ma noi di Potop sapevamo che erano state le Br. A me ovviamente i fascisti non sono mai piaciuti, ma uccidere era troppo».
Romito comincia a lavorare a tempo pieno nel sindacato dei metalmeccanici, la Fiom Cgil. Anche perché, tra uno sciopero per il contratto e un’altro per l’accordo integrativo, è stato licenziato. Alla fine del ‘74 entra nel Pci e fonda una sezione di partito dentro la sua fabbrica. Il ‘78 vede Romito alla testa delle lotte sindacali padovane, proprio mentre si consuma definitivamente la rottura con Potop e Autonomia, nata da una costola dell’organizzazione. Cominciano le minacce: «Romito marchi male», «Stai attento, noi non promettiamo invano».
Il 7 aprile, quando scattano gli arresti chiesti da Calogero, Romito sta occupando delle terre incolte. «Calogero, dopo avermi interrogato, mi aveva detto: “Cerchi di guardarsi le spalle”. Io però ero tranquillo, non mi preoccupavo per le scritte sui muri. Poi arrivò un compagno da Roma e mi disse: “Con le buone o le cattive, decidi tu, ma adesso vieni via con me”». Per due anni rimane nascosto vicino a Roma, poi a Modena e a Bologna. «In casa di compagni, che non chiedevano mai perché ero lì, ma mi accudivano come un figlio, organizzavano le ronde sotto casa per controllare che non succedesse niente. Lo facevano semplicemente perché ci credevano. Persone che normalmente non hanno voce, mentre chi ha ucciso, come la brigatista Susanna Ronconi, diventa consulente di un ministro».

Al processo 12 anni a Negri, 8 a Scalzone
Fu subito battezzata «Teorema», ma non si può dire che l’inchiesta avviata dall’allora pm Pietro Calogero sia finita nel nulla. Almeno a giudicare dalle condanne definitive dalla Cassazione: 12 anni a Toni Negri, 8 a Oreste Scalzone, per citare solo i nomi più rappresentativi. L’inchiesta fu detta anche «7 aprile», perché in quel giorno del 1979 scattarono 81 arresti: in carcere, oltre a Scalzone e Negri, finirono molti capi dell’Autonomia. Le accuse andavano dalla costituzione di banda armata alle rapine. A Roma, dove il processo fu trasferito dopo pochi mesi, i giudici contestarono l’insurrezione armata, accusa che non resse al processo. Molti degli imputati, scarcerati per decorrenza dei termini, ripararono in Francia. Da lì, in anni recenti, anno chiesto l’amnistia. Negri è stato condannato perché coinvolto nel concorso dell’omicidio del carabiniere Andrea Bombardini, ucciso vicino Bologna.

l’Unità 23.2.07
TESTIMONIANZE Dalla cacciata di Luciano Lama al rapimento di Aldo Moro, la giornalista ricorda in un libro quell’anno che segnò la fine della prima Repubblica
1977: l’anticomunismo del movimento rimane attaccato alla penna di Lucia Annunziata
di Luca Canali


Secondo l’autrice il Pci, con la paura di compromettere la sua potenza, avrebbe tradito le forze giovani e antagoniste

L’agile libro 1977 di Lucia Annunziata (Einaudi, pp. 147, euro 14,50), appassionato (forse troppo, con l’uso eccessivo della parola «adrenalina») e di incisiva lettura (peccato qualche brutto refuso, come ad esempio quello sgradevole «avvallo» per «avallo», a p. 54, e persino una svista grammaticale: «si alligna sui volti» per «alligna sui volti», a p. 14), ci aiuta a ripercorrere la drammatica sequenza di eventi che dopo il ’68, in un crescendo di tensioni ideologiche e politiche, sfociarono nella svolta del ’77, con l’episodio clamoroso della cacciata di Luciano Lama dall’Università «La Sapienza» di Roma occupata dagli studenti e dai vari movimenti della sinistra radicale, e dell’inizio del ’78 con quello tragico del rapimento di Aldo Moro. Date che, secondo quanto forse giustamente pensa e scrive l’Autrice, segnarono la fine della prima Repubblica, ma non la nascita - e questo è forse ancora oggi l’aspetto preoccupante dell’attuale e conclamata crisi di tutti i valori, e della stessa identità politica e culturale del nostro paese - di un’attendibile e autorevole seconda Repubblica.
Questo libro è una sorta di testo gemello del più vasto studio-narrazione, La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda, con una sostanziale differenza però: Rossanda articola il suo volume secondo un serrato, rigoroso, e freddamente razionale impegno, sempre sul filo di un combattivo antagonismo, prima dall’interno, poi dall’esterno, nei confronti della linea ufficiale del Pci, e coinvolgendo solo marginalmente i diversi raggruppamenti «alternativi» alla sinistra istituzionale. Annunziata, al contrario, sposta l’epicentro del suo narrare proprio sulle battaglie di questi gruppi, facendo del Pci il «bersaglio grosso» dei suoi affondi, troppo spesso sommariamente enunciati più che argomentati con sfondi storici di maggior respiro. Il partito comunista, secondo l’Autrice, con il suo «timore» e con le sue cautele, anzi con la «paura» di compromettere la propria stessa potenza, e sopravvalutando il rischio di un’ondata di destra e magari addirittura golpista, e infine con il «compromesso storico» voluto da Berlinguer e vòlto a costituire un’alleanza dialogante ma anche operante con le forze progressiste cattoliche, avrebbe in tal modo tradito la Resistenza in contrasto con le forze giovani e antagoniste che premevano verso la Rivoluzione (le maiuscole sono dell’Autrice). Tutto ciò avrebbe dovuto essere spiegato e, ancora meglio, problematicamente argomentato. In proposito, cosa intende l’Autrice? Forse la Resistenza - che era stata sanguinosamente armata - doveva, per non essere tradita, continuare estremizzando la lotta fino all’eventualità di un nuovo sbocco politico-militare? Ma contro questa visione dei compiti del partito comunista si era da sempre battuto Togliatti in favore di una larga politica di alleanza per le riforme di struttura, specie con gli ambienti cattolici progressisti, fin dai tempi dei suoi frequenti contatti con un intellettuale del livello di Franco Rodano, leader della Sinistra Cristiana, e del suo scontro con l’estremismo del vice-segretario del partito, Pietro Secchia. Mentre non è chiara la prospettiva dell’A. quando esorta a «ingranare una marcia in più» nelle lotte sociali, per poi dare una «spallata» decisiva. Ecco, vorremmo sapere cosa intende l’A. con questa parola, di cui lei stessa si era in precedenza beffata inserendola tra le locuzioni topiche dell’élite del partito.
Comunque si tratta di un libro stimolante e, in certi momenti, addirittura coinvolgente, con la sua continua tensione in difesa della creativa libertà individuale e l’esigenza chiaramente affermata di uscire dalle angustie diplomatiche del Palazzo per incontrarsi con le aspirazioni del popolo vivo e «pulsante» delle strade. Peccato, tuttavia, che questi indubbi meriti siano guastati da una conclusione del libro scritta all’insegna di un rancoroso anticomunismo viscerale.

Repubblica 23.2.07
IL RETROSCENA. "No comment" ufficiale delle alte gerarchie, il ruolo chiave di Andreotti
Vaticano soddisfatto sui Dico ora si spera nel Grande Centro
Il Papa: "La vera fede è radicata tra gli italiani ma anche minacciata"
di Marco Politi


CITTA' DEL VATICANO - «In Italia la fede è minacciata». Così Benedetto XVI al clero romano. E´ stato il filo conduttore dell´atteggiamento del Vaticano e della dirigenza Cei nei confronti del governo Prodi e vale ancor più in queste ore. Si tratti del caso Welby o della proposta di riconoscere le convivenze omosessuali, le massime gerarchie ecclesiastiche sono convinte che l´Italia sia la linea del Piave su cui il cattolicesimo deve resistere e imporsi. Ecco perché le leggi «sensibili» - nell´ottica vaticana - devono portare il timbro della Chiesa.
L´Unione lancia un segnale preciso circa la direzione in cui si potrebbe spostare il secondo governo Prodi: dai 12 punti approvati ieri il termine Dico scompare. La regolamentazione delle coppie di fatto, annunciava ieri il ministro della Giustizia e leader dell´Udeur Clemente Mastella, «diventa materia parlamentare» e non più iniziativa di legge del governo, dunque i Dico «non mettono in discussione il governo in quanto tale».
«Non desidero commentare»: il cardinale Bertone si infila nella macchina dopo aver presentato all´Istituto Sturzo un volume sulla diplomazia pontificia. E´ un segno della discrezione della Santa Sede. Ma dietro le quinte emerge con chiarezza che il cattolico Prodi non piace perché «poco osservante». L´alta gerarchia non lo vuole. «Prima o poi il governo doveva cadere: o sulla politica estera o sui Dico», commenta un cardinale di Curia. L´ideale, prosegue il porporato, sarebbe il «frantumarsi della maggioranza e la nascita di un raggruppamento che comprenda l´Udc e il centrosinistra senza l´ala radicale». Giudizi rigorosamente anonimi. Lo stato d´animo prevalente, spiega un monsignore, è imperniato su tre "no". No a Prodi, no a Berlusconi, no a elezioni anticipate per evitare terremoti. Per il resto le correnti sono variegate. C´è chi preferisce l´opzione centro-Ulivo e chi è fautore delle larghe intese: «Perché non fare come in Germania?», sostiene un altro cardinale di lungo corso.
Nel frattempo il cardinale Ruini torna al centro del gioco più forte che mai. Nessun altro può tessere i rapporti politici nella fase, in cui la Chiesa si prepara a porre le sue condizioni al nuovo governo: qualunque esso sia. Ruini - secondo voci insistenti - dovrebbe ora rimanere in carica fino all´assemblea dei vescovi a maggio. La manifestazione di massa «in difesa della famiglia» si farà. Domani si riunisce il Forum delle famiglie per decidere la piattaforma della dimostrazione. Quanto alla Nota in preparazione sui Dico, i primi appunti contenevano pari pari la citazione di un documento del cardinale Ratzinger del 2003: «Nel caso in cui si proponga per la prima volta all´assemblea (parlamentare) un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro». Votare a favore «è un atto gravemente immorale». Ratzinger dixit.
La rinuncia ai Dico, sancita dalle trattative sulla nuova coalizione, era la condizione posta dalla gerarchia ecclesiastica sul tavolo del prossimo candidato premier. L´enigmatico voto contrario di Andreotti al Senato acquista il valore della paletta di un agente della Polstrada. «La vera fede è ancora profondamente radicata in Italia, ma è anche minacciata», ha detto ieri papa Ratzinger, mentre Ruini ribadiva il suo impegno «per la famiglia e per i giovani». L´Avvenire parla chiaro. «I Dico sono da ripensare», sottolineava ieri il giornale dei vescovi, spiegando che la Chiesa si rivolge «alla ragione dei legislatori quanto alla loro coscienza». Mentre il cardinale Caffarra ribadisce che la Chiesa si batte per la «promozione della dignità del matrimonio, la sua protezione e la sua difesa».

il manifesto 23.2.07
Terapia Ludwig
Questioni sulla bilancia del libero arbitrio
La questione riguarda la libertà, che per la scienza non trova spazio, perché noi saremmo del tutto determinati delle leggi di natura. Ma quando si entra nel campo della morale, quelle leggi di causa e effetto non hanno più asilo Due brevi testi di Wittgenstein, «Causa ed effetto» e «Lezioni sulla libertà del volere», pubblicati ora da Einaudi, riaprono a distanza di vent'anni una questione a suo tempo liquidata nel «Tractatus»
di Mario De Caro


Prendiamo in prestito, per perimetrare l'ambito di un problema di difficile risoluzione com'è quello del libero arbitrio, le immagini di un film che tutti conosciamo: quelle di Arancia meccanica in cui la scelleratissima gang di Alex procede di stupro in stupro, di omicidio in omicidio, mentre le note sublimi della Nona Sinfonia del «vecchio amico Ludwig», accostate a quelle immagini, creano in noi un brechtiano effetto di straniamento. Il senso di questa geniale operazione filmica è duplice. Da una parte (come Sade, Genet o Mishima) Kubrick ci parla del fascino suscitato in noi dalla violenza - tanto più se assurda come quella dei 'drughi' del film - implicitamente alludendo al tema delle pulsioni più indicibili che covano nell'essere umano, meglio se è un elevato prodotto della civilizzazione. Più o meno nascosto - ci rammenta Kubrick - c'è qualcosa di Alex in ognuno di noi. D'altra parte, però, lo stridore tra quelle immagini portatrici di una violenza belluina e la musica sovraumana che le accompagna allude anche a un altro tema, ancora più profondo e misterioso, quello relativo all'enigma del libero arbitrio, «la più controversa delle questioni metafisiche», come la definiva il saggio David Hume, che sul tema non era certo l'ultimo arrivato.
Una macchina per fare il bene
Alex, dunque (ma anche noi con lui, nella misura in cui partecipiamo della sua mefistofelica natura), trae gran piacere sia dall'esperienza della sofferenza altrui sia dall'ascolto delle travolgenti note dell'Inno alla gioia. Tuttavia, sia l'esperienza dell'arte che quella della violenza, non sono per lui frutto del caso: con piena consapevolezza, infatti, ricerca sia l'arte che la violenza come le sole vie a lui accessibili per fuggire le costrizioni e lo squallore dell'esistenza metropolitana. In quelle esperienze Alex si sprofonda liberamente; e, così facendo, può finalmente determinare in autonomia la propria esistenza: sta esercitando, in questo modo, ciò che i filosofi chiamano «libero arbitrio». Ed è per questo, e solo per questo, che di quelle esperienze porta, nel bene e nel male, la responsabilità morale.
Che la questione del libero arbitrio sia uno dei temi centrali del film (così come del romanzo di Anthony Burgess da cui deriva) viene in chiaro nel discorso dello stralunato cappellano del carcere in cui Alex viene rinchiuso. In quel luogo egli verrà sottoposto all'invasiva cura «Ludwig» (nel senso di Beethoven), che ne farà finalmente un cittadino modello; ovvero, secondo il disegno del governo, un essere fisicamente impossibilitato a compiere il male. Ma a questo progetto il prete obietta con fermezza: «Il ragazzo non ha una vera scelta! Se cessa di fare il male, cessa anche di esercitare il libero arbitrio. Quando un uomo non ha scelta, cessa di essere uomo». Meglio, molto meglio, dunque, che un individuo sia lasciato libero di esprimere comportamenti devianti ma consapevoli, piuttosto che si faccia di lui un irresponsabile autonoma, una macchina per la produzione del bene.
Lungo la tradizione filosofica
Sullo sfondo delle parole pronunciate dal prete messo in scena da Kubrick c'è una enorme tradizione filosofica, tanto religiosa quanto laica, che va da Agostino d'Ippona a Kant, da Kierkegaard a Sartre. Così, per esempio, il sapiente dei sapienti, Pico della Mirandola, scriveva che gli esseri umani sono il miracolo della creazione proprio perché liberamente possono elevarsi al livello degli angeli o inabissarsi a quello delle bestie più immonde. La libertà, insomma, è l'essenza stessa dell'umano. O almeno così ha sostenuto un'ampia parte della filosofia.
Una parte quasi altrettanto ampia, di nuovo sia religiosa che laica, ha però affermato il contrario: ovvero che il libero arbitrio non esiste affatto. Secondo questo punto di vista, noi - come Alex dopo la terapia «Ludwig» - siamo tutti automi irresponsabili, che si cullano nell'illusione della loro autonomia. Una concezione, questa, chiaramente espressa, per esempio, da Lutero e da Calvino, i quali sostennero, in un quadro teologico totalizzante, che l'idea stessa della libertà umana è assurda: Dio, infatti, ha determinato la storia dell'universo nei minimi particolari, senza lasciare agli esseri umani spazio alcuno perché decidano e agiscano liberamente. D'altra parte, l'assunzione di una prospettiva laica e naturalistica non è necessariamente più consolante. Secondo Einstein, per esempio, «tutto è determinato, dall'inizio alla fine, da forze sulle quali non abbiamo nessun controllo. Esseri umani, vegetali e polvere cosmica, tutti quanti danziamo al suono di una misteriosa melodia, intonata in lontananza da un flautista invisibile». Per Einstein, ovviamente, il flautista la cui melodia annichilisce la nostra libertà non è il Dio perfettissimo della tradizione giudaico-cristiana, ma l'inflessibile determinismo delle leggi di natura; ovvero il fatto che esse non lasciano spazio alcuno alla contingenza. (A garantire il libero arbitrio, peraltro, non può certo bastare l'indeterminismo che sembra emergere dalla meccanica quantistica. In quell'ambito, infatti, si manifesta soltanto la pura casualità; e la libertà, come diceva sempre Hume, è l'opposto della casualità).
L'idea che le leggi di natura rendano impossibile la nostra libertà è oggi estremamente diffusa e molti la giustificano richiamandosi ai formidabili risultati ottenuti dalle neuroscienze. Un ottimo esempio in questo senso è offerto da una celebre serie di esperimenti condotti in California, alcuni anni fa, dal neurofisiologo Benjamin Libet. Il più famoso è quello in cui Libet chiedeva ai soggetti sperimentali di attendere un po' prima di flettere la falange di un dito, facendo però attenzione al momento esatto in cui la decisione di compiere quell'azione veniva presa. Ebbene, l'esperimento sembrava mostrare che, in realtà, la decisione conscia arrivava un terzo di secondo dopo che erano cominciati i processi neurofisiologici, ovviamente inconsci, che portavano alla flessione della falange.
Molti interpretano l'esperimento di Libet, e altri analoghi, come prova dell'illusorietà del libero arbitrio, ovvero dell'idea che in alcuni casi noi possiamo consapevolmente determinare ciò che facciamo. In realtà, ci sarebbe molto da dire sia su questo esperimento che sul corretto modo di interpretarlo (probabilmente, per esempio, mentre è rilevante per discutere l'affidabilità delle esperienze coscienti, lo è molto meno per la questione del libero arbitrio).
C'è però un punto più importante. Secondo alcuni, per respingere gli attacchi contro il libero arbitrio basati su esperimenti come quello di Libet, si potrebbe ricorrere a una strategia di carattere generale, che contesta la possibilità stessa di utilizzare i risultati delle scienze naturali nell'affrontare questo tema. Già Kant lo aveva sostenuto, e in versione aggiornata torna su questo punto uno dei massimi filosofi del '900, Ludwig Wittgenstein, in due brevi ma importanti scritti da poco pubblicati per Einaudi, Causa ed effetto e Lezioni sulla libertà del volere. Se la strategia proposta da Wittgenstein funzionasse, l'idea della nostra libertà potrebbe trovare nuova legittimazione: insomma, se in Arancia meccanica la terapia Ludwig (nel senso di Beethoven) privava Alex del libero arbitrio, un'altra terapia Ludwig (nel senso di Wittgenstein) ci restituirebbe fiducia in esso, nonostante quel che dicono le neuroscienze. Ad un primo sguardo, il volume che raccoglie questi scritti di Wittgenstein suscita nel lettore due impressioni molto nette, come succede peraltro alla lettura di molti altri suoi testi. La prima impressione si risolve in un enorme fascino intellettuale, generato dall'incalzante prosa epigrammatica e frammentaria, dal rincorrersi di esempi suggestivi, dall'alternarsi ininterrotto di frasi apodittiche e di dubbi irrisolti. Ma, immediatamente dopo, segue l'impressione che, in effetti, in questi testi non si capisca nulla (il che, paradossalmente, contribuisce a aumentarne il fascino).
Per fortuna, però, l'editore italiano ha pensato bene di farci venire in soccorso uno dei massimi studiosi italiani di Wittgenstein, Alberto Voltolini, che oltre a avere tradotto il volume vi ha scritto un'introduzione dotta e illuminante, da utilizzare come bussola allo scopo di verificare se la nuova «terapia Ludwig» che si trova sviluppata nel testo sia in grado di rilegittimare la nostra intuizione del libero arbitrio.
Anche Voltolini ci conferma sul fatto che la tesi fondamentale di Wittgenstein ha un sapore kantiano. L'idea, in sostanza, è che il vocabolario delle scienze della natura e quello del libero arbitrio siano incorporati in due pratiche che hanno modi e finalità del tutto differenti; ovvero che, per dirla nel tipico linguaggio wittgensteiniano, tali vocabolari servano a giocare «giochi linguistici» diversi. Così, le descrizioni scientifiche dei comportamenti umani, facendo essenziale riferimento alla leggi di natura, servono per spiegare e predire quei comportamenti a partire dalle cause da cui derivano. Quando invece si spiegano le azioni attribuendo volontarietà, consapevolezza, intenzionalità agli agenti che le compiono (ovvero quando si riconosce il loro libero arbitrio), allora si entra nel campo della valutazione morale, che secondo Wittgenstein nulla ha a che vedere con la causalità e con le leggi di natura. Insomma: da una parte c'è il punto di vista della scienza, in cui la libertà non trova spazio; dall'altra, c'è il punto di vista della moralità, che al contrario presuppone l'idea di libertà. L'importante è tenere separati i due punti di vista.
Secondo alcuni, però, tenere separati questi due punti di vista non è affatto possibile. Ricordiamo, per esempio, Einstein e i fautori delle neuroscienze sopra citati, secondo i quali in realtà tutte le nostre azioni (anche quelle morali, dunque) sono determinate e, pertanto, in linea di principio perfettamente prevedibili. Se costoro hanno ragione, noi ci comportiamo sempre come automi, con buona pace dell'idea intuitiva della libertà e della moralità: e, così, il conflitto tra visione scientifica e visione morale, lungi dall'essere facilmente evitabile, incombe pesantemente su di noi. A questo scenario minaccioso, in realtà Wittgenstein aveva già pensato quando scriveva la sua opera più celebre, il Tractatus Logico-Philosophicus, dove si legge che «il libero arbitrio consiste nell'impossibilità di conoscere ora azioni future». In quel libro, insomma, l'idea era che siccome di fatto noi non possiamo prevedere ciò che facciamo, allora siamo legittimati a continuare a considerarci liberi - e questo anche se la scienza ci dice che tutto ciò che facciamo potrebbe in realtà essere previsto. Una tale difesa della libertà, però, è molto debole. Se ha ragione Einstein, infatti, il fatto che non possiamo predire le nostre azioni dipende soltanto dalla nostra ignoranza. E l'idea di libertà ci è troppo cara per accontentarci di fondarla sulla mera ignoranza.
Nei due testi su causalità e libero arbitro, scritti alla fine degli anni Trenta (quindi quasi venti anni dopo il Tractatus), Wittgenstein assume però, per difendere l'idea di libertà, una posizione più prudente e articolata. In primo luogo, ammette che se scoprissimo che tutte le nostre azioni sono interamente prevedibili, in effetti avremmo la tendenza psicologica a cambiare la nostra autopercezione: ovvero ci verrebbe naturale smettere di considerarci liberi. Ma pur ammettendolo non si chiude così la discussione.
I limiti delle nostre previsioni
In primo luogo, infatti, se ci pensiamo bene, la possibilità stessa di prevedere interamente le nostre azioni è difficile da concepire. Se qualcuno prevede interamente le azioni di Tizio e gliele comunica, non è forse vero che Tizio può agire in modo da falsificare quelle predizioni? Questo punto è interessante; ma Wittgenstein aggiunge ancora qualcosa di più. Come avevamo già ricordato, a suo giudizio se scoprissimo di essere interamente determinati, avremmo la tendenza psicologica a non considerarci più liberi. Una tendenza psicologica, però, non è invincibile: seppure scoprissimo che le nostre azioni sono prevedibili, potremmo ancora sperare di autoconvincerci a non abbandonare l'idea di libertà. Un tale autoconvincimento potrebbe derivare, per esempio, dalla constatazione che le leggi di natura non vanno pensate come costrizioni, obblighi o vincoli sul nostro agire, ma solo come mere regolarità che descrivono ciò che accade nel mondo.
È su questo sfondo teorico che Wittgenstein presenta l'idea secondo la quale il gioco linguistico della scienza e quello della libertà sarebbero entrambi legittimi, e potrebbero convivere, perché svolgono funzioni diverse nella nostra forma di vita. L'idea, insomma, è che seppure scoprissimo che il nostro agire è prevedibile, potremmo sempre continuare a giocare sulla duplice percezione di noi stessi, in funzione dei diversi contesti di discorso.
Nell'ambito della vita quotidiana - in cui è rilevante la valutazione morale delle azioni - potremmo insomma continuare a ritenerci liberi e responsabili delle azioni che compiamo. Nei contesti scientifici (come quello fornito dall'esperimento di Libet descritto prima), potremmo invece guardare a noi stessi come ad automi privi di responsabilità morale. Il punto, nota ancora Wittgenstein, è che - a parte casi eccezionali cui non si deve dare troppa importanza - i due scenari in realtà non interferiscono.
Un annoso rompicapo
Riassumendo. La cura Ludwig - nel senso di Wittgenstein - non sembra escludere del tutto il nichilismo antropologico suggerito della terapia Ludwig - nel senso di Beethoven. Forse noi siamo interamente determinati come lo è Alex dopo la cura o forse no. Sia come sia, potremo sempre serbare uno spazio per la nostra libertà, legandolo ai contesti non scientifici, dunque alla nostra vita quotidiana. Dobbiamo però riconoscere che questa proposta di scioglimento dell'enigma del libero arbitrio ha un carattere compromissorio, non definitivo. E per questo, forse, può non apparire del tutto convincente.
D'altra parte, fu proprio Wittgenstein a sostenere che la tipica struttura di un problema filosofico è del tipo «non mi ci raccapezzo», e non a caso sono migliaia di anni che sulla questione del libero arbitrio non ci raccapezziamo. D'altra parte, se così non fosse, ai filosofi cosa rimarrebbe da discutere?

Bibliografia
Titoli dalla fortuna editoriale del filosofo austriaco
La fortuna editoriale di Ludwig Wittgenstein è molto alta, considerando, per di più, che in vita ha pubblicato un solo brevissimo libro. Continuano, infatti, a uscire volumi tratti dai suoi appunti inediti e dalle sue lezioni. Tra gli ultimi, «L'esperienza di un sogno» (a cura di Ranchetti, Quodlibet, 2006), «Il metodo della filosofia» (a cura di Marconi, Donzelli, 2006), «Esperienza privata e dati di senso» (a cura di Perissinotto, Einaudi, 2007). Ancora più numerosi, gli studi dedicati al suo pensiero: di Massimo De Carolis è uscito «Una lettura del Tractatus di Wittgenstein» (Cronopio, 2002) e di Pasquale Frascolla «Il Tractatus logico-Philosophicus di Wittgenstein» (Carocci 2006), mentre di Alberto Voltolini «Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein» (Laterza 2002) e di Annalisa Coliva «Moore e Wittgenstein» (Il Poligrafo 2003) che ne hanno approfondito il pensiero della maturità. Infine, per una collocazione del pensiero di Wittgenstein nel quadro filosofico del secolo scorso, si possono consultare «Wittgenstein e il Novecento» (a cura di Egidi, Donzelli, 2002) e «Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di Wittgenstein» (a cura di Borutti e Perissinotto, Carocci 2006).


il manifesto 23.2.07
Un convegno
La psicoanalisi guarda al corpo mediatore di emozioni


Al corpo come mediatore di comunicazioni emotive è dedicata una giornata, sabato, al centro di psicoanalisi romano di via Panama. Il tema - spiega Giuseppe Moccia nella sua introduzione ai lavori - è quello relativo al rapporto che corre tra la mente e il soma. Si partirà dall'evidenza per cui, quando l'articolazione verbale delle esperienze interpersonali precoci è insufficiente, le spinte e gli stati corporei restano tuttavia registrati a un livello preverbale, come memoria del corpo, come azione apparentemente senza senso, come sintomo, come stato d'angoscia accompagnata da una potente attivazione neurovegetativa. Il setting psicoanalitico è uno spazio privilegiato per l'espressione di comunicazioni arcaiche, che trovano nell'analista un soggetto preparato e sensibile alla loro ricezione non ché alla loro attribuzione di significato. Le donne del XIX secolo spesso esprimevano il loro disagio facendolo transitare per una organizzazione sintomatica di tipo isterico. Allora, la psichiatria rappresentata soprattutto da Charcot, attribuiva all'isteria il significato di una simulazione: nelle paresi, nelle convulsioni, negli spasmi che agitavano le donne, più che un significato si leggeva una debolezza morale. Freud fu il primo a ricondurre il sintomo isterico a motivazioni inconsce e a riconoscergli l'espressione di una vita soggettiva non immediatamente traducibile in parole. Oggi l'isteria, soprattutto femminile, conosce forme diverse di espressione, e il corpo parla accusando disturbi del comportamento alimentare. Nella anoressia, il corpo viene disinvestito, soprattutto come oggetto sessuato, e le anoressiche tendono a identificarsi in una mente ideale e onnipotente. Tra le domande che verranno poste nel corso della giornata di sabato - in cui interverranno, tra gli altri, Riccardo Lombardi, Claudio Arnetoli e Marta Capuano, oltre a Giuseppe Moccia cui è affidata l'introduzione - c'è quella relativa a cosa sia, nel corpo, a dovere venire cancellato; e quella sulle trasformazioni sociali che sembrano favorire questi tipi di sofferenza mentale.

il manifesto 23.2.07
Un manifesto
Il prezzo dell'anoressia per gli ideali di bellezza imposti dalla moda
di Laura Dalla Ragione


A proposito del dibattito sul manifesto nazionale di autoregolamentazione della moda italiana contro l'anoressia.
Espressa o taciuta, in ogni vita esiste una domanda di bellezza. Come rispondiamo, e a chi ne rispondiamo, è una questione che decide di noi, sia individualmente che socialmente. Il bello è di per sé crudele, la bellezza come ricorda Adorno, non è l'inizio di una platonica purezza ma scontro e dialettica. Proprio i problemi posti dai disturbi della condotta alimentare, come ricadute degli ideali corporei proposti dalla moda, ci porta a riflettere sul come realizzare i nostri ideali estetici. L'aspirazione alla bellezza, nelle forme richieste dalla nostra società, è priva di quella dialettica e di quello scontro che dovrebbero esserle proprie, e l'indagine sul perché della bellezza ha lasciato posto a una estenuate ricerca sul come.
In nome di questo come sono sempre più numerosi i corpi volutamente affamati, gravemente sottopeso, ossessionati dall'idea di entrare in una taglia socialmente invidiabile. E i disturbi della condotta alimentare da anni costituiscono una vera e propria emergenza sanitaria, che riguarda milioni di giovani nel mondo: sono la principale causa di morte psichiatrica, prima ancora della depressione e del suicidio. Un paese civile ha il dovere di impegnarsi perché anche solo una di queste morti possa essere evitata: a questo scopo, un manifesto nazionale di autoregolamentazione della moda italiana contro l'anoressia è stato firmato dal ministero per le politiche giovanili. Resta inteso che i disturbi della alimentazione non si possono liquidare come una patologia indotta dagli ideali corporei della moda, perché sono ben altre e più profonde le dinamiche che investono il rapporto delle anoressiche con il loro corpo e con l'articolazione della propria identità. Tuttavia, è anche vero che il sintomo assume le sembianze dettate da ideali corporei condivisi, e per questo la moda deve essere ricondotta a interrogarsi seriamente sulla ricerca della bellezza
Laura Dalla Ragione, responsabile del Centro per i Disturbi del Comportamento Alimentare Palazzo Francisci Usl 2 di Todi