lunedì 26 febbraio 2007

Liberazione 25 2.07
Bertinotti: «Contro l’antipolitica ricostruire una cultura politica di sinistra»
Intervista al Presidente della Camera: «Sospendiamo la discussione su come organizzarci e iniziamo quella su cosa fare»
«La sinistra radicale deve saper risolvere il problema dell’efficacia, quindi dell’unità. Solo così potrà confrontarsi con l’ala riformista»
intervista di Piero Sansonetti


Bertinotti, cosa sta succedendo nella politica italiana? Che giudizio dai sulla battaglia che ha squassato il paese in questi giorni? Come ti sembra la soluzione trovata alla crisi? Cosa pensi dell’atteggiamento....
Bertinotti non mi fa finire la domanda, mi interrompe e mi spiega che è molto contento di fare una intervista con “Liberazione”, e che gli va di parlare di politica, e del futuro della sinistra, e dei movimenti, e delle idee che servono per combattere le grandi battaglie di questi anni; però non ha intenzione di entrare nel merito delle discussioni sugli equilibri parlamentari e sulle scelte istituzionali e di governo. Non sarebbe corretto se il Presidente della Camera, in un momento politico così delicato, entrasse nella battaglia parlamentare con un’intervista al giornale del suo partito.
D’accordo. Non provo nemmeno tanto ad insistere. Cambio domanda.

Bertinotti, la sinistra radicale in questa fase è costretta a passare dall’utopia alla realpolitik. Non rischia in qualche modo di cambiare natura, di cambiare pelle?

«L’utopia, nella nostra storia, noi l’abbiamo sempre affrontata criticamente. Né rifiutata né esaltata. L’utopia è una categoria che in alcune fasi della storia del movimento operaio è stata decisiva. E’ molto forte nella fase primordiale, poi in qualche modo viene messa in discussione dal socialismo scientifico, da Marx. E addirittura è spazzata via nel periodo successivo, quando prevale una idea “deterministica”, e si pensa che il passaggio dal capitalismo al socialismo sia quasi un automatismo, un fatto storico inevitabile e naturale, come era stato il passaggio dal feudalesimo al capitalismo. Si sostiene che lo sbocco socialista è inscritto nel naturale sviluppo delle forze produttive. Quando è che avviene la riscoperta dell’Utopia? Tutte le volte che ci si rende conto della “dura replica della storia”. Soprattutto alla fine del secolo appena concluso, quando la storia replica alle illusioni del ’900, agli sbagli concreti, agli orrori concreti, e allora l’Utopia diventa una occasione, una chance per ricostruire, per non chiudere il discorso, per tenere aperta una prospettiva...»

Cesare Luporini nell’89 parlava di socialismo come orizzonte da tenere fermo...

«Esatto, in quella fase l’utopia ha un ruolo molto importante. Però io penso che il movimento operaio abbia sempre avuto questo rapporto con l’Utopia: l’ha concepita come una possibilità per scrutare l’orizzonte, come uno strumento di politica e di ricerca, ma mai come scopo, come contenuto esclusivo della politica. Poi arriva la globalizzazione e la critica della globalizzazione e l’Utopia, credo io, cambia ancora natura, si rigenera, diventa concreta».

In che modo diventa concreta?

«Si trasforma nella critica del capitalismo. Qual è lo slogan più famoso del movimento altermondialista»?

Un altro mondo è possibile...

«Appunto. Esamina le tre parole. La prima (“un altro”) rappresenta il cambiamento, l’alter-nativa, il rovesciamento di alcuni punti fermi della società: con il nostro vecchio linguaggio potremmo dire la “fuoriuscita dal capitalismo”. La seconda parola (“mondo”) afferma il carattere globale, mondiale della politica. E la terza parola è la definizione della concretezza: “possibile”. Siamo nel reale, nel realistico, siamo fuori dal sogno».

Non c’è un contrasto, difficile da comporre, tra questa linea utopica-concreta della sinistra e le esperienze di governo, cioè la realpolitik?
Bertinotti ci pensa un po’. Raccoglie i pensieri e cerca le parole giuste.

«Vedi - mi dice - io non sottovaluto affatto l’esperienza di governo. Quella che è in corso in Italia e in altri paesi occidentali. Però credo che non possiamo “appendere” la politica a questo. Cioè appendere l’“utopia concreta”, della quale stavamo parlando, alla conquista del governo. La partecipazione al governo è una esperienza molto importante per la sinistra: ma se diventa la bussola, se diventa l’essenziale, se diventa il prisma di rifrazione attraverso il quale si guarda la realtà, la si definisce e si fissano le proprie analisi, allora non si capisce più niente, si perde l’orientamento».

Ti faccio un’obiezione. La grande opinione pubblica, mi sembra, è uscita dal novecento con due convinzioni, forti e in contrasto tra loro. La prima è che i governi facciano schifo. La seconda è che l’unica cosa che conta, in politica, è il governo, e che la politica si conclude nella gara per chi lo conquista. Non è così? E se è così non è sbagliato sottovalutare il valore dell’essere al governo?

«Penso che sia vero quello che dici, ma è solo la constatazione dello stato delle cose. Poi bisogna capire perché questo avviene. L’enorme importanza che assumono i governi rispetto all’opinione pubblica è data dalla debolezza della politica. L’Europa vive oggi una crisi della politica. E dentro questa crisi c’è una crisi della politica della sinistra. E questa crisi della sinistra è parte di una crisi più grande ancora che è la crisi della democrazia. L’indebolimento dei grandi soggetti della politica di massa - i partiti, i sindacati, cioè le grandi coalizioni sociali, politiche, di idee, di comunità - ha lasciato sulla scena pubblica, quasi desertificata, due soli protagonisti: l’opinione pubblica e il governo. Soli, l’una di fronte all’altro. Senza mediazioni, senza cerniere, senza organismi collettivi in grado di produrre politica e di trasformare in politica le domande e i conflitti. Il governo a questo punto non assume più la sua importanza in quanto “produttore di opere” - e non si giudica più per le opere che compie - ma ingigantisce la propria immagine e il proprio peso per deficit degli altri soggetti della politica. Li surroga, perché è rimasto solo di fronte al popolo. Se noi accettiamo questo stato di cose accettiamo la vittoria dell’antipolitica».

Perché centralità dei governi vuol dire antipolitica?

«Perché l’antipolitica - in assenza della politica - diventa il meccanismo di relazione tra opinione pubblica e governo. Sostituisce l’esplicazione del conflitto. Ne vuoi la riprova quasi aritmetica? In Europa, in tutte le competizioni elettorali degli ultimi anni, i governi in carica hanno perso (c’è la sola eccezione di Blair, che comunque ha ricevuto un notevole ridimensionamento elettorale). Ti ricordi Aznar prima delle elezioni? Sembrava imbattibile, un semidio, era diventato il simbolo del governante moderno e vincente. E’ andato alle elezioni e ha perso. Ti ricordi Schroeder? Era una potenza assoluta, governava con poteri enormi, quando ebbe l’impressione che Oskar La Fontaine potesse disturbare la sua azione, cacciò La Fontaine dal governo. Poi è andato al voto e ha perso. E così Jospin, e così Berlusconi e così tutti gli altri.
Perché? In assenza di organismi politici cresce la delega e l’antipolitica. Sono due facce di uno stesso equilibrio precario. Fatto di tre passaggi già prefissati: delega, rassegnazione e poi stroncatura. E’ un equilibrio molto rischioso, perché risucchia la democrazia, la mette in mora. E l’antipolitica ormai inizia a filtrare nella politica, a permearla, a conquistarla».

Per esempio nel berlusconismo.

«Certo, è un esempio evidente. Ma io vedo l’antipolitica farsi largo anche nel centrosinistra. Per essere diplomatici non parliamo dell’Italia. Guardiamo alla Francia: nella campagna elettorale di Ségolène Royal c’è molta antipolitica, c’è un populismo dolce. Ségolène Royal ha preso le domande dell’antipolitica, le critiche dell’antipolitica e le ha fatte sue. Capisci? L’antipolitica avanza, anche perché contiene alcuni elementi di critica alla politica che sono assolutamente fondati, moderni, e sono in ragione della crisi della politica. Questa condizione genera crisi progressiva della democrazia».

Qual è il motivo di questo dilagare dell’antipolitica?

«Io credo che questa società, che è una società ingiusta, generi conflitto. Questo mi sembra un fatto assodato, innegabile. Più esattamente, genera conflitti (al plurale). Conflitti di lavoro, comunitari, di genere, professionali, corporativi, identitarii...Questi conflitti non producono vittorie o sconfitte a secondo di chi governa. C’è una autonomia tra conflitti e governi. Un movimento vince o perde non in virtù delle condizioni di governo nelle quali agisce. Quello che non accade è che questi movimenti possano sedimentare delle conquiste. Il problema, cioè, è che questi movimenti, quando vincono, non “conquistano” ma semplicemente “impediscono”. E quindi non riescono, attraverso le loro vittorie, a costruire democrazia. Agiscono dentro la crisi della democrazia, suppliscono alla crisi della democrazia attraverso le loro lotte, ma non producono gli anticorpi alla crisi della democrazia. Cioè non riescono ad avere i risultati politici del ciclo precedente. I movimenti del secolo scorso conquistavano “casematte” e producevano spostamenti stabili dell’opinione pubblica. Questi movimenti che abbiamo oggi in campo talvolta sono anche molto forti, sconfiggono nemici potentissimi, ma non costruiscono senso comune e consenso di massa. Ora capisci che qui conta il vuoto della politica, l’assenza di soggetti in grado di essere collettori di queste domande e di queste spinte, e anche di queste conquiste “ad impedire”».

L’assenza, direi, non è assoluta: c’è la sinistra radicale, c’è Rifondazione...

«Svolgono un ruolo importantissimo. Ottengono anche molti successi. Qui però dobbiamo parlare della “massa critica” cioè della possibilità di creare tendenza. Non esiste ancora, nella sinistra radicale, un soggetto in grado di misurarsi su questa dimensione, di raggiungere la massa critica. Questo provoca un altro tipo di conseguenze che provo a spiegare: succede che in Europa i conflitti tradizionali si scindano, si dividono in due e cambino natura. Noi oggi assistiamo a due gruppi di conflitti. Un gruppo che riguarda le differenze tra destra e sinistra, e che è molto visibile, molto acceso quando le sinistre sono all’opposizione. E l’altro gruppo che riguarda il contrasto tra “alto” e “basso” della società, cioè tra ceto dirigente e base, e questo secondo tipo di conflitto è assai più forte quando la sinistra è al governo. Questi due conflitti si incrociano. La contesa tra alto e basso diventa il veicolo dell’antipolitica».

Perché con la sinistra al governo prevale il conflitto alto-basso

«Perché i governi di sinistra spesso non riescono a giovarsi della forza e della spinta dei movimenti. Questo attenua il conflitto destra-sinistra, lo esclude dal palazzo, e dunque lascia spazio all’altro tipo di conflitto».

Quale è la strada per uscire da questo vuoto?

«Non c’è nessun’altra possibilità che la ricostruzione di soggetti politici organizzati. Ma perché questo avvenga occorre ricostruire una cultura politica e una cultura politica di sinistra».

Scusa, ma non vedo la possibilità di ricostruire soggetti politici e cultura di sinistra se non avviene che pezzi diversi, e uomini diversi, e settori diversi della politica di sinistra ricomincino a pensare, a parlarsi tra loro e a confrontarsi e a produrre pensiero comune... Non credo che esista una singola forza della sinistra in grado di risolvere il problema che poni tu.

«Penso così anch’io. Io credo che ci sia una via d’uscita a questa crisi solo se si uniscono forze e si mette al primo punto il problema della cultura politica e del che fare. Bisogna sganciarsi da quello che è stato fatto prevalentemente sin qui. Cioè l’ingegneria organizzativa dei partiti, che viene dopo l’ingegneria istituzionale eccetera. E’ stato sempre così in questi anni. La politica che riesce solo a pensare a come disegnare e assestare se stessa: quale legge elettorale, quale geografia dei partiti, quali meccanismi di divisione del potere... Resta fuori il rapporto con i popoli, con i movimenti, e il problema di quale cultura serve per affrontare un progetto politico e sociale di società. Mi piacerebbe se i vari pezzi della sinistra riuscissero a concentrarsi su questo, a produrre idee su questi problemi invece di perdere tempo a progettare nuovi schemi, nuove architetture di partiti...»

Se capisco, tu dici: chiudiamo il tormentone sulle nuove aggregazioni o disgregazione dei partiti, e concentriamoci sui rapporti tra politica e società. Cioè, invece di costruire partiti nuovi costruiamo politica nuova...

«Si, proprio così. Sospendiamo la discussione su come organizzarci e iniziamo quella su cosa fare. E proviamo a ragionare sul tema della cultura politica e della crisi del rapporto tra politica e società, anche attraversando i partiti tradizionali, senza porci il problema di come li attraversiamo, ma di cosa riusciamo a unire e quali idee e soluzioni possiamo produrre».

Dentro questo ragionamento c’è una nuova unità della sinistra?

«Si, penso di sì. Per affrontare la crisi della politica bisogna affrontare la questione di come raggiungere la “massa critica”. Se non lo affronti, questo tema, se lo rinvii a chissà quando, potrai seminare in eterno e benissimo, ma non riuscirai mai a raccogliere. Questa massa critica deve essere trasversale. Deve costringerci a fare politica attraverso».

Scusa, ma non capisco benissimo. Mi fai un esempio.

«Prendiamo la politica estera italiana. E’ stata realizzata dal governo e prima ancora nella stesura del programma. E’ una politica estera che ha un senso e che dà un contributo all’Europa. Benissimo. Ma io mi chiedo: perché le sinistre possono solo concorrere alla politica estera del governo, e non hanno loro - loro in quanto sinistre - una idea comune di politica estera, di relazioni internazionali, di pace? E quindi una Cultura politica, una idea del mondo, e poi una idea dell’Europa, eccetera eccetera.
Questo stesso ragionamento vale anche sul conflitto sociale, o sull’ambiente, o sul conflitto di genere, o sui diritti del lavoro...»

In questo quadro come si affronta il rapporto tra la sinistra radicale e quella riformista. Sono categorie ancora valide?

«Sul piano degli schieramenti politici sono categorie ancora reali. Se le manteniamo queste due definizioni, allora, in termini tradizionali, si dovrebbe dire: si devono incontrare queste due sinistre e devono confrontarsi. Se però ci misuriamo sul piano delle culture politiche, e non degli schieramenti, le cose diventano un po’ diverse. Vediamo. Le sinistre radicali, su questo piano, hanno diversi profili. Io credo che ormai tenda ad essere prevalente il profilo di quella sinistra radicale che si è rifondata in rapporto ai movimenti di questo secolo. Le culture ortodosse della sinistra, che si configurano ancora in contrapposizione alla socialdemocrazia, sono meno significative. La sinistra radicale vincente è quella che incontra il femminismo, l’ecologismo eccetera. Nell’altro campo cosa succede: i riformisti hanno una grande forza quantitativa, che però è segnata da uno smarrimento della cultura politica. I partiti socialisti europei fanno riferimento, in buona parte, a quella cultura che Riccardo Bellofiore chiama il liberal-sociale. Che vuol dire? Che pensano che i correttivi per ridurre il disagio sociale e aumentare i diritti devono avvenire senza mettere in discussione il paradigma della competitività. Anche se - vedi Francia, vedi Fabius - resta vivo un pezzo di socialdemocrazia fortemente di sinistra. La tendenza però è quella liberal-sociale. Per potere fare fecondamente un laboratorio politico delle sinistre, questa tendenza liberal-sociale andrebbe in qualche modo ridimensionata. Non per una ragione ideologica ma perché la profondità della crisi sociale - ma anche della crisi politica - dice che tu oggi devi indicare una idea di modello - sociale,economico, democratico - è di questo che ha bisogno l’Europa. Non un aggiustamento: una costruzione. Però io non penso a una discussione con steccati ideologici preventivi. Le discriminanti non vengono dalle “identità” dei partecipanti alla discussione, ma dai temi della discussione. Se si stabilisce che si affrontano i temi della politica - del modello, del progetto di società - e non della amministrazione, si esclude chi concepisce la politica come un semplice atto amministrativo, che è la chiave del liberal-sociale. Oggi la sinistra è fotografabile in questo modo: le sinistre riformiste prevalgono sul piano delle organizzazioni, le culture radicali prevalgono sul piano delle culture politiche».

Perché la sinistra radicale ha questa forza e questa debolezza?

«Perché non è in grado di avanzare una proposta che tocchi il problema della massa critica. Per questo l’elettore, spesso, dice: “hai ragione tu ma scelgo lui”. Si presenta il problema dell’efficacia della politica. E’ un problema capitale per il movimento e per chi ha dei bisogni. Io sono costretto a dire che tu sei bravo ma non riesci a risolvere il mio problema, anche se hai delle ottime idee per risolverlo. E allora scelgo quell’altro che magari risponde malissimo al mio bisogno, ma io penso sempre che però se volesse rispondere bene, potrebbe... Se la sinistra radicale non è in grado di risolvere il problema dell’efficacia, e quindi il problema dell’unità, allora le forze riformiste avranno sempre un vantaggio, perché partono con un vantaggio di consensi e quindi hanno dalla loro, come apparentemente già risolto, il problema dell’unità».

Bertinotti, nella battaglia politica di questa fase è chiaro che c’è un problema: l’intervento massiccio e potente dei poteri forti, che alterano i rapporti di forza nello scontro politico. Cosa bisogna fare?

«Bisogna analizzare i poteri forti. Analizzarli scientificamente nella loro forza. Evitare di pensare che quei poteri siano “complotti”. Siano congiure da sventare. Non è così: sono forze. Che contano sulla cultura. Io non lo vedo il rappresentante del potere forte che alza il telefono e ordina. No, ha arato il terreno della politica e a un certo punto raccoglie i frutti, gli effetti. Bisogna allora capire dove sta la loro forza. Non è solo che hanno il potere. Hanno il potere e tendono a costruire processi egemonici. Sono costruttori di opinione pubblica, lavorano sul consenso. Il problema è quello di individuare il loro punto di forza e contrapporsi in campo aperto. Mi vien da dire: “rispettosamente”. Nel senso che riconosco il fondamento della loro posizione, e io penso di sconfiggerli perché so proporre un punto di vista più alto, più forte e più capace di aggregare consenso: un punto di vista tendenzialmente capace di proporsi come universale. Vinco solo su quel terreno lì. Solo se supero. Non se piango, protesto, invoco strane regole. A volte mi sembra che noi facciamo come faceva l’eroico Tecoppa: pretendeva che gli avversari spadaccini restassero immobili in attesa che lui li infilzasse...»
Piero Sansonetti
Repubblica 25.2.07
Verso un riformismo ben temperato
di Eugenio Scalfari


Dicono: non guardiamo a ieri, ma guardiamo a domani. E magari anche a dopodomani. D´accordo, pensiamo al futuro, alla fiducia che Prodi chiederà al Senato nei primi giorni della settimana, alle possibilità che riesca ad ottenerla e a quello che può accadere nei giorni e nei mesi successivi. Ma anche alla «dannata» ipotesi che la fiducia non sia raggiunta: in fondo basta una febbrata ad uno o due senatori del centrosinistra per mandare tutto a carte quarantotto. O viceversa.
Ebbene: sulla carta i numeri ci sono. I voti in favore del governo dovrebbero essere 158 contando i due senatori del dissenso che hanno accolto il richiamo all´ordine, il voto (sicuro al 99 per cento) di Follini e quello dell´italo-argentino Pallaro che nell´infausta giornata del 21 si schierò al centrodestra ma ora ci avrebbe ripensato (diamolo al 51 per cento). Dovrebbero essere quattro i senatori a vita presenti e votanti "sì". Forse Andreotti e Pininfarina non saranno in aula e la loro assenza abbasserebbe il quorum in favore del governo (diamo questa ipotesi al 50 per cento). Insomma, per il rotto della cuffia questa volta il governo dovrebbe farcela. Ma dopo? Si può governare in perenne bilico? Questo è il problema.
In teoria si può governare anche con un solo voto di maggioranza, ma ci vuole una cultura istituzionale che da noi non c´è. A Westminster è prassi che nel caso di maggioranze risicatissime l´opposizione faccia assentare un paio dei suoi membri per render possibile al governo di portare avanti la sua politica. Ma questo per l´attività legislativa corrente, non certo per le mozioni di sfiducia.
Comunque è evidente che le intemperanze dei dissenzienti di sinistra spingeranno il governo ad allargare la maggioranza verso il centro per la semplice ragione che a sinistra di Rossi e di Turigliatto non ci sono altri soggetti parlamentari, almeno per ora. L´ingresso di Follini e le motivazioni che lui stesso ne ha dato sono eloquenti da questo punto di vista. Non credo tuttavia che questo spostamento cambi la sostanza politica della maggioranza e del governo. Chi voleva spostarla erano i comunisti di Diliberto e quelli di Rifondazione. La svolta programmatica del 22 febbraio (i dodici punti di Prodi "obbliganti" per tutti i partiti della coalizione) ha rintuzzato lo strappo a sinistra ed ha riportato il baricentro laddove dev´essere, se non altro per ragioni numeriche, cioè sull´Ulivo.
Politicamente questo è accaduto e l´Ulivo, che dovrebbe dar vita al più presto al partito democratico, è una forza politica riformista. La sinistra radicale rappresenta, Verdi compresi, meno del 9 per cento dell´elettorato contro il 30 dell´Ulivo. Il baricentro è dunque quello e nessuno può disconoscerlo all´interno dell´Unione. Ma è anche chiaro e noto a tutti che Prodi, Fassino, D´Alema, Rutelli e Franceschini sono riformisti e non moderati. Tantomeno rivoluzionari, ammesso ma non concesso che altri lo siano.

La sinistra radicale rappresenta un riformismo più spinto. Può contribuire alla volontà comune, alle scelte comuni, ma non può pretendere di dettarle senza mettere in crisi l´alleanza. La crisi del 21 febbraio ha avuto almeno il pregio propedeutico di rendere evidente questa realtà, del resto ben nota. Un mese fa scrissi un articolo dal titolo «Se Prodi cade la sinistra non c´è più». Non era una profezia ma una semplicissima constatazione di fatto.
Dunque il governo, se otterrà la fiducia, non potrà che continuare e anzi rendere più incisive le scelte e le iniziative già intraprese. Per modernizzare lo Stato e la società, per far crescere l´economia reale, per aumentare il livello di giustizia sociale e soprattutto per proseguire in una politica estera di timbro europeo distinguendosi – come già sta facendo – dalla politica berlusconiana ma restando nel quadro dell´alleanza storica con gli Stati Uniti. Discontinuità nella continuità: non è un ossimoro bensì la carta d´identità del riformismo democratico.
* * *
Dunque tutto come se la crisi del 21 febbraio non ci fosse stata? Cancelliamo quella data dal calendario e si ricomincia sulla linea dello "Heri dicebamus"?
Non credo che sia possibile e per capirlo bisogna tornare al recente passato per meglio intravedere le ipotesi di lavoro che riguardano il futuro.
Io non credo ai complotti e nemmeno ai colpi di sole. Stando ai patiti del retroscena, nel voto contrario di Cossiga e nell´astensione di Andreotti e di Pininfarina ci sarebbe la zampa dell´America, del Vaticano, e della Confindustria; ma detta così è una rozza semplificazione che non sta in piedi.
Pininfarina (non è un pettegolezzo ma un dato di realtà) è una persona molto ammalata. Il suo "rapimento" nell´aula di Palazzo Madama è un episodio abbastanza ignobile dietro al quale non c´è nessun complotto politico ma una squallida "appropriazione indebita".
Cossiga si identifica da sempre con i servizi di sicurezza italiani e occidentali, nel bene e nel male. Non è arbitrario pensare che James Bond sia il suo punto di riferimento. Non a caso fu uno dei responsabili di "Gladio" e di organizzazioni para-militari fondate dalla Nato durante la fase calda della guerra fredda. Il senatore Di Gregorio è la sua controfigura ad infimo livello, ma anche nel caso di Cossiga non c´è complotto alle spalle. Nessuno gli è andato a suggerire come votare. Lui lo sapeva da sé.
Analogo discorso vale a maggior ragione per Andreotti. Esaminando il suo voto su 24 Ore del 22 febbraio, Orazio Carabini ha citato la frase pronunciata da Paolo Sarpi dopo esser stato pugnalato dai sicari dell´Inquisizione: «Agnosco stylum Romanae Ecclesiae». Tradotto e attualizzato, il voto di Andreotti sarebbe dunque la pugnalata inferta a Prodi dal cardinal Ruini per interposto senatore a vita. Ebbene, conosco abbastanza il personaggio Andreotti per dire che questa ipotesi non ha senso.
Però un senso ce l´ha. Andreotti era ben consapevole che il cattolico adulto Romano Prodi, la cattolica adulta Rosy Bindi, i sessanta cattolici adulti della Margherita rappresentano una realtà indigeribile per l´episcopato italiano. Da cattolico adulto (anzi vegliardo) anche lui, Andreotti ha giudicato che quella astensione negativa fosse la scelta giusta per indebolire la pericolosità e limitare la rivendicazione di autonomia dei cattolici adulti e antitetici a lui. Il suo voto ha dato una mano a Ruini e a Fisichella anche se nessuno di loro glielo ha chiesto. Andreotti decide da solo. Ora che ha ottenuto il risultato è possibile che si astenga non in aula ma fuori: dopo il bastone la carota.
* * *
E i colpi di sole? La "incontinenza" (diciamo così) di Turigliatto e di Rossi?
Due stagionati professionisti della politica non prendono l´insolazione perché si espongono al sole senza cappello. Alle loro spalle c´è una lunga storia e qualche equivoco culturale e politico che risale a tutto il gruppo dirigente di Rifondazione e dei Comunisti italiani: l´equivoco di poter cavalcare i cosiddetti movimenti, sia quelli ideologici sia quelli territoriali, e di esserne i rappresentanti nelle istituzioni e addirittura nel governo. Per questa ragione Rossi e Turigliatto, ma anche i Caruso e i cinque o sei radical-rock, hanno avuto il loro seggio in Parlamento: rappresentavano la prova vivente della contiguità dei partiti di estrema sinistra con i movimenti. E sempre per questo motivo sia Giordano sia Diliberto sono andati a Vicenza e ne sono tornati con euforica gloria.
Purtroppo per loro i movimenti ideologici non si sentono affatto rappresentati dai loro partiti nelle istituzioni per la semplice ragione che delle istituzioni se ne infischiano totalmente. Quanto ai movimenti territoriali, a Vicenza erano ben contenti di avere in corteo due segretari di partiti nazionali perché, come dice Chiambretti, in tivù tutto fa brodo; ma la caduta del governo Prodi non è affatto piaciuta alla grande maggioranza dei vicentini di centrosinistra, tant´è che un buon numero dei messaggi arrivati ai siti Internet della sinistra radicale con proteste feroci contro chi aveva provocato la crisi è venuta da Vicenza.
Capisco che questo comportamento lede il principio di non contraddizione, ma le folle quando vanno in piazza non si pongono questioni di logica filosofica; agiscono, mandano in scena un happening e poi magari protestano contro gli effetti collaterali che hanno prodotto.
Così va la vita, Giordano, Diliberto e anche Bertinotti dovrebbero conoscerle queste cose di politica elementare. Stare sul trapezio richiede un grandissimo senso di equilibrio; basta caricare troppo su una qualsiasi parte del corpo per cascare di sotto ed è esattamente ciò che è accaduto. Solo che di sotto ci siamo cascati tutti perché agganciati a quel trapezio c´erano i famosi interessi del paese.
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Il presidente della Repubblica ha fatto ieri mattina in poche righe una lucidissima lezione di saggezza costituzionale agli italiani, dopo aver rinviato Prodi alle Camere per una verifica del rapporto fiduciario. Ha spiegato perché non poteva sciogliere le Camere e perché non poteva, senza prima aver compiuto quella verifica, dare l´avvio ad un governo istituzionale.
Non c´è che inchinarsi a quella saggezza e constatare ancora una volta che la presidenza della Repubblica resta di gran lunga il luogo dove gli italiani trovano il loro presidio e la loro più alta e unitaria rappresentanza. Così fu con Einaudi, con Saragat, con Pertini, con Scalfaro, con Ciampi ed ora con Giorgio Napolitano.
Bisogna continuare nell´attuale politica estera – ha detto il capo dello Stato – proseguire nella politica di rilancio economico e sociale, riformare una legge elettorale obbrobriosa, stilata apposta dal centrodestra per rendere ingovernabile il Senato.
Questo è il mandato che Napolitano ha assegnato al governo e che Prodi aveva del resto già fatto proprio in anticipo salvo il tema della legge elettorale di cui nessuno si nasconde l´urgenza ma che non può essere affrontato senza la collaborazione di almeno una parte dell´opposizione.
Nel frattempo sarebbe molto utile modificare alcune storture esistenti nel regolamento del Senato e che potrebbero essere rapidamente cancellate a cominciare dall´astensione che – chissà perché – a Palazzo Madama equivale a un voto negativo mentre a Montecitorio vale per quello che è, cioè né «sì» né «no» (Andrea Manzella ha ieri segnalato in un suo articolo sul nostro giornale questo ed altri gravi difetti regolamentari che dovrebbero essere aboliti con urgenza).
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La new entry di Marco Follini nelle file del centrosinistra ha un´importanza che va al di là del voto in più acquistato al Senato. Se Prodi otterrà la fiducia e se nelle prossime settimane il governo procederà speditamente sulle linee indicate nei dodici punti prioritari accettati dalla coalizione, l´esempio dell´ex segretario dell´Udc potrà calamitare altri parlamentari di vocazione centrista e di sentimenti etico-politici incompatibili con il berlusconismo.
Lo ripeto: questa auspicabile confluenza non sposta il baricentro politico dell´Unione ma serve a rafforzarne la maggioranza riformista senza con ciò escludere contributi della minoranza più radicale. Questa è la natura e la struttura dell´Unione e altro non può essere. Quando pendesse troppo alla sua sinistra o troppo alla sua destra, si sfascerebbe come è accaduto il 21 febbraio e con lei si sfascerebbero in un immenso polverone tutti i partiti e i partitini che la compongono.
Ricordiamo le parole di Napolitano: questa è l´ultima prova concessa. Se la si supera non si è ancora vinto, ma se non la si supera si è perso per altri vent´anni.

l’Unità 26.2.07
Intervista a Liberazione: la crisi della politica dilata l’importanza dei governanti. Attenzione al populismo dolce e all’antipolitica che c’è anche tra noi
Bertinotti: è importante governare. Ma la sinistra radicale non perda la sua bussola


«Io non sottovaluto affatto l’esperienza di governo. Quella che è in corso in Italia e in altri paesi occidentali. Però credo che non possiamo appendere la politica a questo, appendere l’utopia concreta all’esperienza di governo». Fausto Bertinotti, presidente della Camera e leader di Rifondazione comunista, manda messaggi alla sinistra e, forse, anche a Prodi. Lo fa in una lunghissima intervista che esce oggi su Liberazione, in cui affronta una riflessione molto impegnata su cultura e organizzazione della sinistra radicale, sul suo rapporto con i movimenti, e in cui analizza anche i cosiddetti poteri forti, che, dice, non vanno demonizzati, ma analizzati e combattuti. Per Prodi non ci sono parole dirette, ma un’indicazione che non è del tutto tranquillizzante. Ossia la sinistra radicale non può esaurire la sua funzione nel governo. «La partecipazione al governo è una esperienza molto importante: ma se diventa la bussola - spiega Bertinotti - se diventa il prisma di rifrazione attraverso il quale si guarda la realtà, la si definisce e si fissano le proprie analisi, allora non si capisce più niente, si perde l’orientamento».
Secondo Bertinotti «l’enorme importanza che assumono i governi rispetto all’opinione pubblica è data dalla debolezza della politica. L’Europa vive oggi una crisi della politica. E dentro questa crisi c’è una crisi della politica della sinistra». In questo scenario, rilancia Bertinotti, «il governo a questo punto non assume più la sua importanza in quanto produttore di opere e non si giudica più per le opere che compie, ma ingigantisce la propria immagine e il proprio peso per deficit degli altri soggetti della politica. Li surroga, perchè è rimasto solo di fronte al popolo. Se noi accettiamo questo stato di cose accettiamo la vittoria dell’antipolitica». Secondo Bertinotti il rischio dell’antipolitica non è una caratteristica della destra, ma riguarda anche la sinistra. Per esempio nel berlusconismo? gli domanda il direttore di Liberazione, Piero Sansonetti. «Certo, è un esempio evidente. Ma vedo l’antipolitica farsi largo anche nel centrosinistra. Per essere diplomatici non parliamo dell’Italia. Guardiamo alla Francia: nella campagna elettorale di Segolene Royale c’è molta antipolitica, c’è un populismo dolce. Segolene Royale ha preso le domande dell’antipolitica e le ha fatte sue. L’antipolitica avanza anche perché contiene alcuni elementi di critica alla politica che sono assolutamente fondati, moderni, e sono in ragione della crisi dela politica. Questa condizione genera crisi progressiva della politica».
La politica debole è vittima dei poteri forti? Se ne è parlato a proposito della sconfitta in Senato dell’Unione (Pininfarina e Andreotti in rappresentanza di Confindustria e Vaticano), ma per Bertinotti i «poteri forti» sono «forze» e non, semplicemente, «complotti»: solo con questa consapevolezza si possono neutralizzare. «Bisogna analizzare i poteri forti - aggiunge - analizzarli scientificamente nella loro forza». «Sono forze che contano sulla cultura. Io non lo vedo il rappresentante del potere forte che alza il telefono e ordina. No, ha arato il terreno della politica e a un certo punto raccoglie i frutti, gli effetti. Bisogna allora capire dove sta la loro forza». «Non è solo che hanno il potere - rilancia Bertinotti - hanno il potere e tendono a costruire processi egemonici. Sono costruttori di opinione pubblica, lavorano sul consenso. Il problema è quello di individuare il loro punto di forza e contrapporsi in campo aperto». Il problema, conclude Bertinotti, è «proporre un punto di vista più alto».

l’Unità 26.2.07
Quel milanese di Caravaggio
di Maurizio Calvesi


LA SCOPERTA Svelate e in via definitiva le circostanze della nascita del grande artista. Non nacque nel villaggio da cui prese il nome ma nel capoluogo lombardo. Un giallo finalmente risolto che ha appassionato a lungo gli studiosi

Il Sole 24 ore del 25 febbraio ha annunciato con grande evidenza il ritrovamento di un documento attestante il luogo e la nascita di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Si tratta della registrazione del suo battesimo, avvenuto il 30 settembre 1571 nella parrocchia milanese di Santo Stefano in Brolo. Dunque il Caravaggio nacque il 29 settembre di quell’anno. E non nacque a Caravaggio, bensì a Milano. Questo fondamentale ritrovamento è avvenuto a opera non già di uno storico dell’arte o di un archivista, ma di un ex manager in pensione, Vittorio Pirani, appassionato della materia.
Ma dov’è la novità? Nel mio libro del 1990 sul Caravaggo si leggeva già che il pittore nacque il 29 settembre del 1573 a Milano, e non a Caravaggio: ero giunto a queste conclusioni attraverso una serie di deduzioni logiche. Ma una cosa sono le deduzioni logiche e un’altra documenti. Contro la mia ipotesi, benché dotata di solide basi, si sollevarono indignati gli studiosi caravaggini, soprattutto contro l’affermazione, considerata blasfema, che toglieva alla loro cittadina la gloria di aver dato i natali a uno dei più grandi pittori di ogni tempo, forse il più grande.
E così mi ricoprirono di insulti. Erano, è vero, degli studiosi dilettanti, ma anche non pochi storici dell’arte invocarono contro la nuova ipotesi una serie di obiezioni, basate sul fatto che il Merisi, in ogni citazione documentaria o delle fonti, è sempre detto «da Caravaggio»: «oppido vulgo de Caravaggio in Longobardis natus», lo dice inoltre, a chiare lettere, un documento maltese, e bisognava quindi arrendersi all’evidenza.
Non per questo cessai di far presente che i genitori del pittore, al servizio dei marchesi di Caravaggio, abitavano non a Caravaggo ma a Milano, ragion per cui, fino a prova contraria si doveva pensare che il piccolo Michelangelo avesse visto la luce nella grande città. I «Merisi da Caravaggio» erano detti così perché effettivamente originari di Caravaggio e per distinguerli da altri Merisi, nome alquanto diffuso. Il «da Caravaggio» faceva insomma parte del cognome dell’illustre membro della famiglia. Che a Malta qualcuno lo avesse detto nativo di Caravaggio significava soltanto che era stato tratto in inganno dal cognome.
Ora il documento ha finalmente attestato tutto questo: il che poco aggiunge di sostanziale, se non che il pittore aveva respirato fin dalla nascita l’atmosfera di un grande centro. Ma per gli appassionati di Caravaggio, che sono numero ormai infinito, in tutto il mondo, la notizia è appunto «una bomba», come la definisce Il Sole 24 ore.
Quanto al giorno e al mese della nascita, neanche qui il documento produce effetti di gran rilievo, ma si sa quanta importanza si dia, nelle biografie dei grandi, non solo al luogo, ma anche alla data precisa della loro venuta alla luce. Tanto più che secondo la mia ipotesi, fondata sulla revisione di un vecchio epitaffio del Milesi che indicava nel 29 settembre 1573 il fausto giorno, la data interveniva anche a spiegare il nome del pittore: Michelangelo. Non un omaggio dei presaghi genitori al Buonarroti, bensì a San Michele Arcangelo, la cui festa ricorre appunto il 29 settembre.
Qui, con la data di nascita, entriamo in un campo pù delicato e gravido di conseguenze. Il fatto che al pittore fosse stato dato il nome di un Santo depone intanto sulla religiosità della famiglia, e dell’ambiente in cui egli si formò. Ma soprattutto, l’ormai accertata età del pittore al momento del suo arrivo a Roma, intorno al 1592, nonché al momento in cui ricevette la celebre commissione per le storie di San Matteo in San Luigi de’ Francesi (1599, ovvero a ventotto anni) contribuisce a sfatare definitivamente le leggende fiorite intorno alla sua presunta, strabiliante precocità. Quando si dava fede, per la data delle storie di San Matteo, all’indicazione dell’anno 1590 iscritta nel pavimento della cappella, e si credeva che il Caravaggio fosse nato nel 1573, ci si trovava di fronte alla stupefacente nuova di un pittore incaricato a diciassette anni di una delle commissioni pittoriche più importanti nella città di Roma. Il che concorreva a rinforzare la leggenda del «pittore maledetto», ovvero del Rimbaud della pittura, precocissimo, ateo, sprezzante di ogni vincolo e perché no anche omosessuale; per di più violento e assassino.
Il ritrovamento del documento milanese ha dato l’ultimo colpo a questa aberrante costruzione le cui fondamenta erano state poste dal primo biografo del pittore che però, vedi caso, era un suo acerrimo nemico: Giovanni Baglione. Nostri studi hanno mostrato che in realtà il Caravaggio, pittore drammaticamente religioso, era interprete dell’ala pauperista della Controriforma, quella di San Filippo Neri, e dei Borromeo: interprete di un pensiero milanese, in altre parole, come da un milanese ci si poteva aspettare. Le opposizioni tenaci che egli incontrò in vita erano opposizioni, si direbbe oggi, di segno «politico», giacché all’ala pauperista, che predicava l’assistenza ai poveri considerandoli immagine del Cristo, si contrapponeva in curia un pensiero radicalmente opposto e maggioritario, che, più o meno, giudicava i poveri colpevoli della loro povertà e ambiva a quello sfarzo e ostentazione di ricchezza che ebbe poi il sopvravveno con la corrente del barocco, decisamente vincente su quella del realismo di derivazione caravaggesca.
Ma anche il realismo carvaggesco, dopo la morte del pittore, fu svuotato dei suoi significati più profondi e ridotto più o meno al pittoresco. In questo contesto, protettori a Roma del Caravaggio, oltre ai Colonna, ovvero alla famiglia dei marchesi di Caravaggio, furono gli Oratoriani di San Filippo Neri e il loro adepto Federico Borromeo, che lodò in termini entusiastici la celebre canestra di frutta del Carvaggio oggi all’Ambrosiana, da lui acquistata. Desideravo , dice il cardinale nella descrizione del proprio Museo, corredare questa natura morta di un pendant, ma non avendo trovato nessun altro pittore che fosse in grado di uguagliare la straordinaria eccellenza del Caravaggio (il quale nel frattempo era scomparso) dovetti rinunciare al mio proposito. L’entusiasimo dimostrato dal Borromeo nel commentare l’opera del Caravaggio, non è tuttavia bastato ai consueti «contestatori», questa volta non della data e del luogo di nascita, ma della nuova visione del Caravaggio non già come drastico trasgressore di ogni regola morale, ma come militante del pauperismo borromaico. In proposito, si è osservato che il Borromeo pur lodando la canestra di frutta, parla di «flores» invece che di frutti, il che attesterebbe la sua reale indifferenza per l’opera. Anche qui occorrerebbe qualche documento, e non disperiamo che il tempo ne sia provvido. Intanto è molto interessante che sia stata ritrovata la versione originale, in italiano, dello scritto del Borromeo: in questa versione si parla correttamente di frutta. L’errore fu dunque del traduttore.
Le discussoni intorno al Caravaggio, il pittore in assoluto più studiato in ogni angolo del mondo, non si arrestano ai temi fin qui illustrrati. Dispute anche più pesanti si intrecciano intorno all’autografia dei suoi dipinti. Negli ultimi anni, gli specialisti hanno pubblicato una notevole quantità di «inediti» attributi al Caravaggio, non tutti a dire il vero convincenti, e tali appunto da contrapporre pareri di segno opposto, tra i «rigoristi», che tendono, in linea di massima, ad escludere ogni nuova attribuzione a meno che la sua evidenza non sia totale, e le «maniche larghe», che tendono invece ad accogliere ogni nova proposta.
Tutto ciò rende ormai indilazionabile una severa revisione di tutto il materiale caravaggesco e si spera che a questo possa provvedere la grande mostra sul pittore, che senza dubbio sarà tenuta nel quarto centenario della sua morte ovvero nel 2010. Non si sa ancora a chi sarà affidata la cura di questa capitale esposizione. Sarebbe tuttava augurabile che sia chiamata a presiedere alla scelta delle opere e al controllo delle schede di catalogo, una commissione composta da tutti i maggiori specialisti del Caravaggio, d’Europa e d’America.

l’Unità 26.2.07
Embrioni, il falso mito degli «occhi azzurri» che rallenta le cure
Il progetto di legge di Blair legalizza ciò che in pratica molti già fanno: la terapia genica contro malattie gravi
di Pietro Greco


A SCATENARE la polemica è bastata la semplice anticipazione giornalistica di un progetto di legge che il governo di Tony Blair sembra intenzionato a portare nel Parlamento di Sua Maestà britannica per aggiornare lo «Human Fertilisation and Embryo-
logy Act», una normativa che dal 1990 regola nel Regno Unito tutto ciò che riguarda la fecondazione e lo sviluppo degli embrioni. Nessuno conosce i dettagli del progetto di legge. E fuori d'Italia pochi, in assenza di fatti accertati, se ne sono occupati. Ma, secondo quanto riportato dal Daily Telegraph e dal Daily Mail, il governo Blair si accingerebbe a chiedere al Parlamento inglese di consentire in maniera esplicita ciò che oggi in moltissimi paesi, incluso il Regno Unito, non è proibito: l'attività di ricerca di terapia genica su embrioni congelati.
In pratica, se il progetto di legge verrà davvero presentato, le autorità sanitarie inglesi potranno concedere agli scienziati di studiare la terapia genica sugli embrioni. Resterà comunque vietato l'uso clinico della terapia genica. Insomma, gli embrioni sottoposti a terapia genica non potranno nascere e, anzi, nessuno di loro potrà svilupparsi oltre il 14 giorno.
Siamo all'eugenetica? Siamo al «designer baby», al bambino su misura di cui parlano alcuni con preoccupazione e che sarebbe la versione cosmetica dell'eugenetica? Niente affatto. Ciò che agli scienziati britannici sarà esplicitamente consentito studiare sono, come abbiamo detto, forme di terapia genica. Ovvero di cura di gravi malattie di origine genetica. In particolare sarà consentito loro di studiare quelle forme di terapia genica che possono avere una qualche probabilità di successo: ovvero la cura delle malattie monogeniche. Ovvero delle malattie genetiche provocate da una sola causa genetica, una mutazione su un singolo gene. Da qui a un futuro prevedibile situazioni complesse, come quelle di avere figli biondi, con gli occhi azzurri e con una certa propensione alla matematica, sono fuori da ogni possibilità di intervento.
I biologi, finora, possono poco. Ma questo poco che possono ci deve allarmare? No. Fatto salve le aberrazioni, sempre possibili e con qualunque strumento, non possiamo guardare con preoccupazione alla possibile cura già allo stadio dell'embrione delle malattie monogeniche. Si tratta infatti di circa 5.000 diverse patologie, la gran parte delle quali sono molto rare. Ma alcune, come l'anemia falciforme o la fibrosi cistica, sono piuttosto frequenti e gravi. Un africano su 400, per esempio, nasce con l'anemia falciforme. E un caucasico su 2500 nasce con la fibrosi cistica.
Il fine dunque è nobile. Ma il fine non giustifica i mezzi, neppure in biomedicina. I mezzi sono forse pericolosi?
Vediamo. La tecnica di intervento che potrà essere sperimentata dagli scienziati inglesi - e solo su embrioni congelati comunque condannati a morire - consiste nel prelievo di una cellula da un embrione tra il terzo e il quinto giorno di sviluppo. Naturalmente il prelievo della cellula non deve in alcun modo danneggiare l'embrione.
La cellule viene studiata. La mutazione genica che provoca la malattia viene individuata e «corretta». Finora i biologi non sono capaci del «taglia e cuci», ovvero di tagliare la parte del Dna che presenta la mutazione e inserire al suo posto una parte sana. Finora quel che si riesce a fare è inserire nel cromosoma una copia del gene sano che si somma e non sostituisce al gene «malato». La copia sana del gene consente di produrre le proteine che il gene «malato» non produce o che produce in maniera distorta. Una volta che l'inserimento del gene sano è stato portato a termine con successo, la cellula viene inserita nell'embrione che prosegue il suo sviluppo. E ha buone probabilità, se il concepimento giunge a buon fine, di trasformarsi in un individuo adulto sano.
La ricerca in questo consiste, nel cercare un modo sicuro ed efficace per combattere le malattie genetiche. La terapia genica sugli embrioni dunque altro non è che una forma di cura. Se un giorno funzionerà, non avremo tanti bambini biondi, con gli occhi azzurri e dotati per la comunicazione televisiva, ma avremo meno bambini malati di anemia falciforme o di fibrosi cistica. E, sempre se un giorno davvero funzionerà, la terapia genica dell'embrione consentirà di evitare anche molti aborti da parte di genitori che non vogliono far nascere un bambino gravemente malato.
La Gran Bretagna sta forse decidendo di regolamentare per legge questo tipo di ricerca, oggi sostanzialmente libero in molti paesi, per verificare se un giorno la terapia genica degli embrioni potrà avere un'applicazione clinica sicura. Non è una notizia che dovrebbe allarmare. È una notizia che dovrebbe rassicurare.

l’Unità 26.2.07
Canova come Duchamp
di Giuseppe Montesano


La apparente tranquillità del titolo della Storia dell’arte contemporanea in Italia di Renato Barilli, appena pubblicata da Bollati Boringhieri, svela la sua intenzione per nulla tranquillizzante nel sottotitolo: Da Canova alle ultime tendenze. Canova artista contemporaneo? Sì: perché Barilli scrive la sua storia coprendo l’arco storiografico che si definisce così negli studi storici, ma ancora più perché legge a partire da Canova e da Piranesi una cesura con tutto il passato, e l’inizio di una sperimentazione su una nuova idea di arte che non è ancora finita. E l’attacco del libro di Barilli è illuminante: Canova visto nei disegni dei Monocromi immersione nel lato notturno della psiche pulsionale prima di Hoffmann; l’idea di un Canova che come Goethe o Leopardi o Alfieri lavora su un romanticismo della doppiezza in cui l’illegittimo della forma registra l’illegittimo dell’Es rimosso; e il Canova che nel pieno del neoclassicismo più evidente lavora secondo un pensiero che anticipa il «riciclaggio» con cui il contemporaneo ha inserito nell’arte l’oggetto già fatto, il ready-made duchampiano, decifrato da Barilli persino in quella Paolina Borghese che sembrava la negazione del subcurrent romantico e il trionfo della reazione in arte. La Storia di Barilli è un libro importante che connette con sguardo lucido e chiarezza di struttura la storia dell’arte italiana, ma trova poi il suo fascino vero nella corrispondenza continua che istituisce tra le forme, e si accende e divampa quando ausculta le strutture profonde che insorgono ogni volta che l’arte affronta il suo rischio e il suo compito: non arrendersi mimetica di fronte alla realtà, ma sommuoverla dal profondo. Ma tutto questo in Barilli avviene sempre nel rigore dell’osservato, della cosa, dell’oggetto reale, e mai in scorciatoie ideologiche: si veda il bellissimo pezzo su de Pisis «collagista» colto di sorpresa «a strappar via porzioni del tessuto reale dell’ambiente circostante», e a devastare la forma quasi come un dadaista mentre finge di fare il bizzarro marginale; e si leggano attentamente i ritratti dei futuristi anche minori, riletture tutte rivelatrici; o di un Arturo Martini complesso e non illustrativo e didascalico; o di alcuni minori genere Morbelli: di colpo inseriti anche loro nel grand jeu combinatorio del Contemporaneo. E poi, naturalmente, i ritratti di Burri, «vero abitante di Flatlandia» e maestro della «contraddizione in termini»; del centrale Fontana, maestro dello sperimentare come sciamanica distruzione e ricomposizione della cosa pittorica fino allo «sfondamento della superficie canonica del quadro, attraverso il fatidico taglio»; e chiudendo-riaprendo con i «nuovi-nuovi» e ultimissimi. Non c’è dubbio: come i suoi più amati artisti, Barilli ha sabotato dal di dentro un’intera tradizione, non per azzerarla ma per farla vivere ancora come se fosse presente e operante. E a una tradizione del contemporaneo si ispira anche Il viaggiatore più lento, il libro di Enrique Vila-Matas che la Alet manda in libreria in una bella veste, curando come sempre il libro anche come «oggetto» di piacere. E il libro di Vila-Matas è una scorribanda al ritmo del festina lente rinascimentale, un sentimental journey tra Bioy-Casares e Duchamp, tra Marlon Brando e Pasolini, tra Echenoz e Lichtemberg. Cosa fa Vila-Matas con i suoi amori? Se ne lascia invadere facendoli vivere in una scheggia o un riflesso sghembo, come in improvvisi scintillii di facce di diamanti: o di cocci di bottiglie? Per Vila-Matas è lo stesso, e anzi il meglio emerge in lui quando scende nel mondo degli altri autori in modo sonnambulo, apparentemente casuale, secondo la legge suprema della modernità, secondo Maldoror aggiornato e corretto: l’incontro su un tavolo anatomico tra una macchina da scrivere e un ombrello. Con la felicità che dà sempre il lavorare con «la mano sinistra», nel piacere svagato, come era in Bartleby e compagnia: niente di meglio di questo Vila-Matas per sopravvivere alla quaresima inflittaci da troppa letteratura, indecisa tra lo spettacolo televisivo degli schizzi di sangue e la noia atroce dell’ombelico contemplato religiosamente.

Renato Barilli, Storia dell’arte contemporanea in Italia, Bollati Boringhieri pp. 565, euro 32

Enrique Vila-Matas, Il viaggiatore più lento, Alet, trad. di Eleonora Mogavero, pp. 166, euro 15


l’Unità 26.2.07
La politica sul lettino
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
mi sono chiesto spesso, di fronte ai dissidi che rompono così spesso, così da sempre, l’unità della sinistra qual è la vera ragione di questa apparente insensatezza. I problemi personali dei politici hanno un loro ruolo nel determinarla? Tu cosa ne pensi?
Lettera firmata


Freud scriveva tanti anni fa che tutte le vocazioni psicoterapeutiche sono patologiche. Nascono da un bisogno più o meno consapevole di curare una parte di sé o un genitore interno malato o sofferente. La teoria e i metodi vengono dopo, quello che si cela all’inizio dietro la maschera forte del curatore d’anime è un bambino spaventato che sogna di poter mettere in atto un intervento magico. Qualcosa di simile accade alle persone che fanno politica a sinistra. Persone che partono in effetti da un bisogno e da un sogno molto simili a quello degli psicoterapeuti anche se l’idea non è quella di aiutare dei singoli all’interno di un rapporto personale ma quella di aiutare l’intera società: o l’umanità, magari, considerata nel suo complesso.
Il modo in cui gli psicoterapeuti e i politici di sinistra riescono a liberarsi dai condizionamenti legati all’origine patologica della loro vocazione vanno esaminati con cura particolare. La formazione del terapeuta è tutta centrata, in effetti, sul tentativo di aiutarlo a entrare in contatto con le origini lontane della sua scelta. L’altro, dietro cui si cela la parte di sé o il genitore malato, viene restituito alla sua dignità di persona autonoma, la terapia al suo compito di aiuto rivolto a lui e non al terapeuta. Quella del politico si sviluppa all’interno di un percorso complesso, fatto di incontri e di scontri con persone che la pensano in modo simile o diverso. Di momenti di gloria e di sconfitte. Di mediazioni e di compromessi che lo costringono a prendere atto di una realtà che non è quella del suo sogno o del suo bisogno di salvare, cambiandola, la società. Accade, con gli psicoterapeuti e con i politici, che l’esito di questo processo non sia sempre positivo. Quando le angosce sono forti e il disturbo di base è più grave e/o quando le circostanze sono meno favorevoli, quelle che possono mettersi in moto sono le tendenze e le fantasia collegate alla costituzione di un Sé grandioso e alla perdita progressiva del rapporto con la realtà. Nel campo della psicoanalisi e in quello dei partiti di sinistra, dove gli sviluppi narcisistici sono alla base di tante eresie, di tante controversie pseudo intellettuali e di tanti scontri inutilmente violenti: comprensibili, emotivamente, solo da chi emotivamente in quel momento li vive e ne è travolto; incomprensibili o francamente assurdi per chi li guarda da fuori o a distanza di tempo. Rendendo confusi e incerti il mondo della psicoterapia, cui proprio per questo è facile a tanti negare una dignità scientifica, e quello della politica da cui in tanti oggi tendono a tirarsi indietro spaventati.
Tornando alla politica, che a te più interessa, quello di cui occorre tenere conto, tuttavia, è che gli sviluppi del Sé grandioso possono avere lì delle conseguenze di grande portata. Basta riflettere, per rendersene conto, sul significato psicopatologico degli sviluppi alla base di alcune dittature e di alcune grandi follie della storia. Da Hitler a Stalin, da Mussolini a Franco, le patologie personali dei leaders hanno inciso drammaticamente, in circostanze concrete che lo favorivano, sulla vita e sulla morte di milioni e milioni di persone. In tutti questi casi, d'altra parte, la mostruosità concreta delle condotte traeva alimento da un bisogno di cambiare o di salvare il mondo da un pericolo immaginario (delirante) che era stato alla base delle loro vocazioni politiche. Molto al di là di queste situazioni estreme, tuttavia, il problema è quello della diffusione molto grande delle patologie più marginali. Caratterizzate tutte, fra i politici della sinistra, dalla difficoltà di riportare sulla realtà delle cose che è possibile fare le vocazioni patologiche di cui parlavo all’inizio.
Siamo nel 1849. Con parole di Jacques Attali (tratte da «Karl Marx, ovvero lo spirito del mondo») «a Parigi gli immigrati tedeschi fremono, molti aspirano a fare ritorno nel loro paese per combattere o entrare in politica. Il poeta Georg Herwegh forma una sorta di brigata internazionale di quasi quindicimila uomini che il 18 Marzo si mette in marcia in direzione della Germania. Marx è ostile all’iniziativa. Il momento sembra più propizio per la propaganda politica che per l’azione militare. Karl pensa che la Rivoluzione sia un affare troppo serio perché si possa rischiare d’indebolirlo con gesta eroico - romantiche che finiscono col favorire il nemico». Fa dunque tutto ciò che gli possibile per convincere Herwegh a non far partire la sua legione. «Questa squadra permetterà», dice, «agli eserciti prussiani di cancellare la rivoluzione e ai borghesi liberali francesi di sbarazzarsi a buon mercato di una gran parte di rivoluzionari autentici. È dunque una schiocchezza». La legione si mette in moto. I suoi membri trattano Marx da vigliacco e da traditore, prima di essere fermati e massacrati, il 10 Aprile, appena oltrepassata la frontiera del granducato di Baden. È sufficiente l’esempio per dimostrare che la sinistra, da sempre, deve le sue divisioni proprio alle difficoltà di troppi dei suoi militanti e dei suoi leaders di riportare sulla terra del dialogo e della mediazione il loro sogno-bisogno di cambiamento del mondo? Dobbiamo partire da qui, credo, per capire quello che sta accadendo ancora una volta oggi a livello dei cosiddetti dissidenti di sinistra. Il cui Sé grandioso è bene in mostra oggi come la loro solitudine. Che esibiscono a tutti, con malcelata e patologica soddisfazione, il loro infantile sentimento di superiorità. Che conoscono il loro momento di gloria perché in nulla è così bravo il gossip conservatore di tanta stampa e televisione italiana come nel dare spazio a chi tradisce a sinistra. Il cui destino è quello di dover scegliere da domani o da dopodomani, quando non servirà più a chi oggi lo sta usando, fra il delirio franco del partitino “personale” e la depressione mascherata di chi, dicendo di non credere più a nulla, dicendo che in politica tutti sono uguali, inizia a farsi “pagare” da chi del suo tradimento ha tratto vantaggio. Come accadrà probabilmente anche a Ferdinando Rossi, un bell’esempio clinico di sviluppo narcisistico in una personalità dipendente. Riproponendo un problema serio per tutti quelli che si occupano di selezione dei quadri, in psicoterapia e in politica: come ci si difende nei fatti dal narcisismo patologico? Come si può davvero arrivare a prevenirlo? Quanto, se ci riuscissimo, ciò potrebbe contribuire a rendere più efficaci tutti i nostri ragionevoli discorsi sull’uomo, sul mondo e sulle trasformazioni di cui sentiamo il sogno e il bisogno?

Repubblica 26.2.07
Il senatore a vita: il nuovo programma mi convince, opportuno che ci sia continuità di governo
Andreotti voterà la fiducia "Bene il dietrofront sui Dico"
di Carmelo Lopapa


Io e il vaticano. Sono abbastanza adulto per decidere in autonomia ma c´è stata coincidenza tra la mia posizione e quella della Chiesa
Il Quirinale. Come ha sottolineato giustamente il Colle non ci sono alternative a questo esecutivo, almeno per il momento

ROMA - Confessa di essere orientato a votare la fiducia al governo Prodi. Sarà pure una sorpresa, ma per lui, per il sette volte presidente del Consiglio che con la sua astensione mercoledì ha fatto scivolare verso la crisi il governo Prodi, non lo è affatto, assicura ora. La linea telefonica va e viene, dall´auto con la quale si sta allontanando da Montecarlo. Si è intrattenuto nel Principato per l´intero fine settimana. «Un convegno internazionale di politica estera programmato da tempo», non una vacanza, sia chiaro. Comunque un´ottima occasione per tenersi lontano dallo stress romano al quale in queste ore sono inevitabilmente sottoposti i (quasi) determinanti senatori a vita.
Presidente Andreotti, Prodi torna alle Camere. Voterà la fiducia? Cosa ha deciso dopo questi giorni di riflessione?
«Per la verità, a Montecarlo siamo stati impegnati in questo convegno sull´Iran e sulla politica internazionale. Momento propizio per prendere atto che la situazione, proprio sotto il profilo internazionale, è assai preoccupante».
E dunque, presidente?
«E dunque occorre stabilità di governo in momenti come questi».
Vuol dire che voterà la fiducia?
«Sono stato lontano ma ho seguito l´andamento dei fatti. Ho letto soprattutto il nuovo programma al quale ha lavorato la maggioranza».
E qual è il suo giudizio?
«Positivo. Ho notato con piacere che certi punti non fanno più parte degli obiettivi dell´esecutivo».
Si riferisce ai Dico, al riconoscimento delle unioni civili che lei non aveva fatto mistero di non condividere affatto?
«Sì, ho visto che i matrimoni omosessuali, diciamo così, saranno accantonati. E questo è condivisibile. Dunque penso che non dovrebbero esserci difficoltà per il governo ad andare avanti».
Presidente Andreotti, intende dire che potrebbe andare avanti anche con il suo voto o no?
«Penso che non dovrebbero esserci difficoltà per il raggiungimento del quorum necessario ad ottenere la fiducia. Mi ha convinto molto quel che ha detto il presidente Napolitano».
A cosa si riferisce?
«Anche io penso, come ha giustamente sottolineato il Quirinale, che non ci siano alternative a questo esecutivo. Che la situazione è tale che risulta difficile trovare una soluzione diversa, almeno per adesso».
Insomma, obtorto collo, anche lei potrebbe decidere di sostenere l´esecutivo.
«È opportuno che ci sia una continuità di governo, questo è certo. La fase internazionale, ripeto, è assai delicata. E in situazioni come queste, lo dico anche per esperienza personale, sono necessari dei governi in carica che siano nel pieno dei loro poteri. E poi, ribadisco anche qui, sono soddisfatto dell´accantonamento di quei matrimoni....».
Avrà saputo anche lei a Montecarlo dell´interpretazione maliziosa circolata con insistenza a Roma a proposito della sua astensione di mercoledì.
«No, quale?».
Nella sinistra radicale, ma non solo, il suo mancato voto in favore della politica estera del governo al Senato è stato ricondotto proprio al dissenso sui Dico. "Il Diario" ci ha costruito anche la copertina, la sua foto e sullo sfondo la sagoma di Benedetto XVI: insomma, l´astensione in aula come riflesso delle perplessità - chiamiamole così - vaticane.
«No, guardi. Sono abbastanza maggiorenne per poter fare delle valutazioni personali e decidere in autonomia come orientare il mio voto. Certo, c´è stata una coincidenza obiettiva tra la mia posizione e quella delle gerarchie ecclesiastiche in merito a quel provvedimento così contestato. Una coincidenza dettata dalla non condivisione degli obiettivi fatti propri dal governo col ddl sui Dico. Detto questo, ecco, non c´era bisogno che me lo ricordasse il Sant´Uffizio come dovevo comportarmi».

Repubblica 26.2.07
"Il governo non sia l’unica bussola"
Bertinotti: i poteri forti non sono complotti da sventare
"Occorre ricostruire una cultura politica radicata nella società"
di Silvia Buzzanca


ROMA - Il governo non può essere l´unica bussola dell´attività politica. E poi bisogna ricostruire una politica e una cultura politica di sinistra, riorganizzare i soggetti politici organizzati. Unire le forze, non puntare tutto sull´azione di governo, "studiare" i poteri forti. Sono questi i compiti che Fausto Bertinotti in un´intervista a Liberazione in edicola oggi assegna alla sinistra. Suggerimenti per uscire da una situazione che, evidentemente, il presidente della Camera non giudica molto brillante. E infatti non esita ad usare più volte la parola crisi. A cominciare dal tormentato stare al governo di Rifondazione.
«Non possiamo "appendere" la politica a questo. Cioè appendere l"utopia concretà alla conquista del governo. La partecipazione al governo è una esperienza molto importante per la sinistra: ma se diventa la bussola, se diventa l´essenziale, se diventa il prisma di rifrazione attraverso il quale si guarda la realtà la si definisce e si fissano le proprie analisi, allora non si capisce più niente, si perde l´orientamento, spiega il presidente della Camera al direttore del quotidiano Piero Sansonetti.
C’è un deficit di politica, c´è una debolezza dei partiti in tutta Europa, dice Bertinotti. E questo mette sempre più al centro dell´attenzione il ruolo del governo. Allora, continua il leader del Prc, «non c´è nessun´altra possibilità che la ricostruzione di soggetti politici organizzati. Ma perché questo avvenga occorre ricostruire una cultura politica e una cultura politica di sinistra», spiega. Il leader di Rifondazione è convinto «che ci sia una via d´uscita a questa crisi solo se si uniscono forze e si mette al primo punto il problema della cultura politica e del che fare».
Questo significa mettere in secondo piano la centralità della legge elettorale, la geografia dei partiti politici, i meccanismi di divisione del potere e riprendere «il rapporto con i popoli, con i movimenti, e il problema di quale cultura serve per affrontare un progetto politico e sociale di società. Mi piacerebbe - argomenta Bertinotti - se i vari pezzi della sinistra riuscissero a concentrarsi su questo, a produrre idee su questi problemi invece di perdere tempo a progettare nuovi schemi, nuove architetture di partiti». Il problema è dunque costruire "politica nuova"». Tenendo conto che esistono "poteri forti". Ma questi bisogna «analizzarli scientificamente nella loro forza. Evitare di pensare che quei poteri siano "complotti". Siano congiure da sventare». Bisogna, continua il presidente della Camera, «capire dove sta la loro forza. Non è solo che hanno il potere. Hanno il potere e tendono a costruire processi egemonici. Sono costruttori di opinione pubblica, lavorano sul consenso. Il problema è quello di individuare il loro punto di forza e contrapporsi in campo aperto».

Repubblica 26.2.07
Questa crisi con il cilicio
La Binetti lo indossa per scelta religiosa. Ora è pure il simbolo dei sacrifici per salvare il governo
di Filippo Ceccarelli


Che non suoni irrispettoso. Sul serio. Ma se si azzarda la fantasia all´estremo limite dell´immaginario – e a volte può non essere prudente – lo si potrebbe chiamare "il governo del cilicio". Chi se lo mette davvero ha ottenuto la scomparsa dei Dico dal programma; chi ha dovuto rinunciarvi lo porta adesso in modo simbolico.
il tema è delicato, quaresimale, penitenziale. Il cilicio è un mezzo e un abito di dolore: una stoffa ruvida, una cintura molto stretta, un laccio con delle punte. Tante cose diverse per un unico scopo. Ce ne sono di vario tipo, sul motore di ricerca "Google Immagini" ne è rappresentato un vasto e fantasioso campionario. Ma il cilicio esiste da millenni. Una delle statue della Fontana dei fiumi del Bernini, a piazza Navona, indossa ad esempio un visibile cilicio sulla coscia.
L´antica storia del cilicio l´ha visto addosso a santi, papi, asceti, profeti. Ma lo portano anche persone "normali", per quanto l´aggettivo suoni povero. E´ una scelta, una ricerca, una disciplina, una preghiera insieme alta e bassa, spirituale e corporale. Se ne può pensare tutto il male possibile, ma chi lo usa ci crede. E va rispettato.
Il fatto è che il cilicio accende anche la fantasia, tanto che Dan Brown lo ha applicato a uno dei più sinistri personaggi del Codice da Vinci, il gigantesco albino Silas, una specie di schiavo-killer dell´Opus Dei. E´ una classica soglia. Divide e attizza curiosità. Così, per dire, alla fine di gennaio i Comunisti italiani hanno presentato una interrogazione parlamentare deprecando tale pratica. Ma poi, come segnala Dagospia, di cilicio si finisce a parlare e a spettegolare tra confessioni e recriminazioni nei salotti della più frivola mondanità romana.
Sul piano agonistico la crisi di governo ha un unico vincitore, anzi un´unica autentica vincitrice: Paola Binetti, senatrice teo-dem, esponente del "Partito di Dio" (è il titolo di un volume di Marco Damilano, Einaudi), persona di fiducia del Cardinal Ruini, eletta nel campo del centrosinistra. Su Magazine di qualche mese fa è uscita una sua intervista (di Vittorio Zincone) significativamente intitolata: "Meglio il cilicio dei tacchi a spillo". Ora, lei porterà pure il cilicio, ma ha fatto 2 a 0 fuori casa.
E si sa: fra i tanti sconfitti della crisi, con gran sollievo della Binetti, c´è la legge sui Dico. E anche questa è una faccenda delicata. Le norme sulle unioni civili sono improvvisamente sparite dal dodecalogo di Prodi: niente corsia preferenziale, andranno in Parlamento. Forse non è una tragedia, forse è anche meglio, Cacciari voleva così dall´inizio, ma peccato.
Magari il Portavoce Unico dell´imminente governo qualcosina al riguardo dovrà pur dire. Seppur incerta e ambigua, quella legge riconosceva una questione e in qualche modo offriva delle soluzioni - e di questo fa fede l´impegno di una delle due autrici, Rosy Bindi, che per scriverla ha messo in gioco tutto il suo entusiasmo civile e tutte le sue tribolazioni. Ora anche lei risulta estensivamente "inciliciata".
La parola cilicio ha infatti pure un uso figurato. Così si può dire che, per mettere una pezza alla crisi, un emblematico cilicio se lo sono dovuto mettere diversi leader e ministri del centrosinistra. Ma con loro anche un pezzo d´Italia, che a quella legge aveva creduto. Gay e non solo.
La Binetti è una donna intelligente e ha una ammirevole saldezza di fede. Nella sua intervista, che ovviamente non riguardava solo l´uso di quello strumento, ha risposto con parole oneste e dignitose: "La mortificazione è un esercizio di volontà", "è un´offerta per un valore". Ha spiegato pure: "I fioretti fino a qualche anno fa li facevano tutti". Ma lei, hanno chiesto, lo porta sempre? "No. Ci sono giorni in cui il quotidiano ci dà abbastanza mortificazioni". Ci ha poi tenuto a puntualizzare: "Ma guardi che nell´Opus Dei nessuno ti costringe a fare nulla"; al che il giornalista ha soggiunto: "Ci mancherebbe altro". E lei: "Il Fondatore Escrivà diceva sempre che l´argomento più forte per fare qualche cosa è: porqué me da la gana, perché mi va".
Chi si sia un po´ dedicato alle tematiche del corpo sa che la mortificazione della carne non è mai uno scherzo. Al giorno d´oggi, le modalità più o meno consapevoli sono varie: diete, digiuni, smettere di fumare, chirurgia plastica o estetica che dir si voglia. La Binetti ha aggiunto anche la palestra ("per ore") e i tacchi a spillo: "Scomodissimi. Queste cose io non le farei nemmeno spappolata. Non capisco perché socialmente si accettino le motivazioni individualistiche di mortificazione e non quelle religiose".
Sennonché, tra l´individuo e la religione ci sarebbe anche la società, con i suoi crucci, le sue speranze. Qui s´incastona la storia delle unioni civili. Certo la senatrice Binetti mostra di avere una concezione molto forte, molto teologica, dei rapporti fra Stato e Chiesa. Così forte e teologica che in un´intervista a Flavia Amabile della Stampa ha così commentato il Mercoledì delle ceneri del governo Prodi: "Abbiamo innanzitutto ringraziato il Padreterno perché solo da lui poteva giungere una mano così inaspettata. Merito suo la fine dei Dico".
Che dire? Forse si può solo rispondere evocando il sapiente appello di Emilio Colombo nel massimo bailamme di un Consiglio nazionale della Dc: "E io vi dico: prudenza! Prudenza! Prudenza!". Se il cilicio è un´offerta, non si impone, nemmeno nella Quaresima del centrosinistra. Perché d´accordo i Sacri Principi, ma alla politica starebbe anche qualche volta di ammorbidirli.

Repubblica 26.2.07
La dittatura della coscienza
di Umberto Galimberti


C´è una parola magica che, quando si è in procinto di fare disastri o a disastri avvenuti, viene evocata per garantirsi l´impunità, quando non addirittura il rispetto anche da parte di chi non ne condivide le posizioni e soprattutto le conseguenze della azioni. Questa parola magica si chiama "coscienza". L´abbiamo sentita evocare da Fernando Rossi e da Franco Turigliatto, i due senatori che, con il loro voto, hanno determinato la caduta del governo Prodi. Alla "coscienza" e a quella sua variante che sono i "princìpi" era ricorso anche Clemente Mastella per giustificare la sua opposizione ai Dico. Alla "coscienza" ricorrono infine tutti quei medici che rifiutano l´interruzione di gravidanza anche nei casi consentiti dalla legge o la sospensione delle cure come nel caso Welby e in altri simili.
Ma cos´è questa "coscienza"? E´ la dittatura del principio della soggettività che non si fa carico di alcuna responsabilità collettiva e tanto meno delle conseguenze che ne derivano. Il medico che, in nome dell´"obbiezione di coscienza", rifiuta l´interruzione di gravidanza a chi nella miseria genera molti figli nella più assoluta indigenza, a chi resta incinta in età infantile, a chi porta in grembo feti affetti da malattie ereditarie, non si fa carico delle condizioni della madre e dell´infelicità futura dei nascituri, ma solo dell´osservanza dei suoi princìpi, che consente alla sua coscienza di sentirsi "a posto", proprio perché rimuove, nega, non vede o non vuol vedere le conseguenze della sua decisione.
Questo tipo di "coscienza" che non assume alcuna responsabilità sociale è una coscienza troppo ristretta, troppo angusta per poter essere eretta a principio della decisione. Se poi, alle sua spalle lavora l´obbedienza a princìpi che qualche autorità, come ad esempio la chiesa, pone come "vincolanti", allora si giunge a quell´autolimitazione della responsabilità che abbiamo conosciuto in epoca nazista, dove tutti, dalle più alte gerarchie ai semplici militari, si sentivano responsabili solo di fronte ai superiori ("Ho obbedito agli ordini") e non responsabili di fronte alle conseguenze delle loro azioni.
Se la dittatura della coscienza soggettiva, che in nome dei propri princìpi non si piega alla mediazione e non si fa carico delle domande sociali (come possono essere quelle delle coppie di fatto o dei malati terminali che chiedono l´interruzione delle cure) diventa principio inappellabile in politica, che è il luogo dove dovrebbe trovare compensazione il conflitto delle diverse posizioni, allora bisogna dire chiaro e forte che coloro che si attengono alla dittatura della coscienza non devono entrare in politica, perché la loro coscienza non prevede alcuna responsabilità collettiva, ma solo l´osservanza dei propri princìpi.
E questo vale tanto per i medici, la cui responsabilità oggi non è più solo tecnico-professionale ma anche sociale, quanto per i politici che, per il solo fatto di aver deciso di entrare in politica, non possono esonerarsi, in nome dei loro princìpi, di ascoltare le domande, le richieste, i desideri di coloro che li hanno eletti. Perché la politica è "mediazione", non "testimonianza". Per la testimonianza ci sono altre sedi, come ad esempio la condotta della propria vita.
Se si attiene unicamente ai propri princìpi, senza farsi carico delle mediazioni e soprattutto delle conseguenze delle proprie azioni, una simile coscienza, che limita a tal punto il "principio di responsabilità collettiva e sociale", è troppo ristretta e troppo angusta per diventare il punto di riferimento della decisione politica, che per sua natura deve farsi carico della mediazione e delle conseguenze delle sue risoluzioni. Per cui la dittatura della soggettività è in ogni suo aspetto incompatibile con l´agire politico, e non salva neppure l´anima perché, come ci ricorda Kant: "La morale è fatta per l´uomo, non l´uomo per la morale". E questo monito vale anche, e forse a maggior ragione, per l´ideologia.

Repubblica 26.2.07
La Cina si riscopre di sinistra è rivolta contro le privatizzazioni
Petizione di politici e intellettuali: troppe disuguaglianze
di Federico Rampini


La raccolta firme è partita da un sito legato all´ala maoista del partito: tremila adesioni in poco tempo, poi è intervenuta la censura
La critica: sempre più stranieri nelle grandi aziende del paese
Si allarga il divario tra i contadini e i "nuovi ricchi"

PECHINO - Mao è vivo e lotta insieme a noi: per bloccare le privatizzazioni. Per una corrente della sinistra radicale ancora presente dentro il regime cinese, il Grande Timoniere resta il mito più potente da mobilitare nelle battaglie politiche interne. E così è sul sito www.maoflag.net, ufficialmente dedicato al culto del fondatore della Repubblica popolare, che è partita una raccolta di firme per arrestare l´avanzata del capitalismo privato e le dismissioni di aziende pubbliche.
Non è una iniziativa marginale. A promuovere la campagna contro le privatizzazioni è un gruppo di autorevoli studiosi e alcuni dirigenti di partito (questi ultimi per lo più in pensione), tutti esponenti titolati della nomenklatura. La data che hanno scelto non è casuale. Fra una settimana si apre a Pechino la sessione annua dell´assemblea legislativa, uno degli appuntamenti politici più importanti dell´anno (l´altro sarà il congresso del partito a ottobre). In pochissimo tempo l´appello ha raccolto tremila firme. Poi la censura l´ha oscurato. Non perché gli autori siano considerati dissidenti ma perché il regime è per sua natura allergico ai dibattiti pubblici, preferisce che le diverse correnti d´opinione in seno al partito si affrontino a porte chiuse, lontano dalla curiosità dei cittadini. Il testo dell´appello infatti tocca un tasto molto delicato, solleva problemi cruciali a cui non è insensibile lo stesso presidente Hu Jintao, l´uomo forte del regime. «Con l´avanzata delle privatizzazioni - hanno scritto gli autori - il nostro paese ha già un grave divario tra ricchi e poveri e le diseguaglianze si stanno polarizzando all´estremo».
Tra gli aspetti inaccettabili per i promotori dell´appello c´è «la cessione a gruppi stranieri di aziende che valgono milioni di dollari». Infine la stoccata più preoccupante per il regime: «Cresce nel paese un´ondata di voci opposte alle privatizzazioni». Un´affermazione eretica, questa sì, in un paese dove il termine "opposizione" non ha diritto di cittadinanza, e ogni manifestazione di aperto dissenso dalla linea ufficiale viene vista come una minaccia alla stabilità.
Questa clamorosa iniziativa si svolge sullo sfondo di un cambiamento tumultuoso dell´economia cinese. Lo iniziò il successore di Mao, Deng Xiaoping, liberalizzando la proprietà privata e aprendo le frontiere agli investimenti stranieri fin dall´inizio degli anni Ottanta: prima nelle "zone economiche speciali", porti franchi situati spesso nelle città costiere del Sud, poi via via in tutto il paese. La ritirata dello Stato dal mestiere di imprenditore è stata graduale ed è tutt´altro che conclusa. Nella Cina di oggi il confine tra pubblico e privato non è sempre chiaro. Imprese che vengono definite private a volte hanno un´azionariato dove dominano gli enti locali e altri "prestanome" dell´autorità statale. Tuttavia lo spazio occupato da una genuina imprenditoria privata si è allargato notevolmente. Ed è reale l´invasione di multinazionali estere che oggi producono il 60% delle esportazioni "made in China".
L´anno scorso le privatizzazioni hanno avuto una nuova potente avanzata con la vendita in Borsa di quote del capitale delle maggiori banche. Una di queste, la Icbc, ha avuto un tale successo nel suo collocamento da essersi piazzata al secondo posto mondiale per la sua capitalizzazione di Borsa, dietro l´americana Citigroup. Gli avversari delle privatizzazioni associano questa evoluzione con la nascita di una nuova "razza padrona", quei nouveaux riches che dominano i rotocalchi e attirano l´apertura di concessionari della Ferrari e della Bentley, di Bulgari e di Armani nei lussuosi shopping mall che continuano a spuntare come funghi nelle grandi città. Soprattutto, l´ala sinistra del partito comunista denuncia l´impoverimento dei contadini espropriati delle loro terre, sulle quali vengono costruite nuove fabbriche o palazzi residenziali.
«E´ il furto legalizzato», ha dichiarato l´economista Han Deqiang, uno dei firmatari dell´appello anti-privatizzazioni. La realtà però non si presta alle semplificazioni della sinistra radicale. Quando i contadini vengono espulsi dalle loro terre e ricevono indennità irrisorie, all´origine c´è quasi sempre la corruzione del partito comunista: sono i capi della nomenklatura locale che incassano tangenti dai capitalisti privati.
L´unica riforma che poteva rendere meno debole la posizione dei contadini - l´istituzione del diritto individuale di proprietà delle terre agricole alla pari di quello riconosciuto per le case in città - è stata bocciata l´anno scorso all´assemblea legislativa proprio per le pressioni dei "falchi" post-maoisti. La sinistra radicale in questo modo ha oggettivamente perpetuato la condizione di inferiorità degli abitanti delle campagne.
Peraltro l´espulsione dei contadini risponde a una crudele, ma ineluttabile, necessità economica. L´agricoltura cinese non è abbastanza produttiva per sostenere i circa 700 milioni di abitanti delle zone rurali. L´aumento delle diseguaglianze sociali, denunciato dai promotori dell´appello, più che una conseguenza delle privatizzazioni è un effetto della permanenza di troppi cinesi nelle campagne: il reddito di un operaio, anche se non supera i 150 euro al mese, è da quattro a sette volte superiore a quello dei contadini. Resta significativo il fatto che l´ala sinistra del partito sia uscita allo scoperto in modo così plateale. E´ un segnale che si accompagna a una (per ora leggera) involuzione della politica economica in senso nazionalista. Lo stesso presidente Hu Jintao appare meno incondizionatamente entusiasta dei benefici della globalizzazione, rispetto al suo predecessore Jiang Zemin.

Corriere della Sera 26.2.07
«Restare al governo? Non è bussola del Prc»
Affondo di Bertinotti. I paletti sul «dodecalogo»


ROMA — La partecipazione al governo è «importante». Ma non può diventare questa «la bussola». Tre giorni dopo che anche i due partiti comunisti della maggioranza hanno sottoscritto il dodecalogo di Romano Prodi, impegnandosi di nuovo a sostenere fedelmente il suo esecutivo, il presidente della Camera Fausto Bertinotti rilancia la sinistra di lotta. Parla senza remore, l'ex segretario ed esponente di maggiore spicco di Rifondazione, in una intervista rilasciata al direttore di Liberazione, Piero Sansonetti, per chiedere alla sua parte politica di non rinnegare il proprio Dna. Così: «Io non sottovaluto affatto l'esperienza di governo. Però credo che non possiamo appendere la politica a questo. Cioè appendere l'utopia concreta alla conquista del governo. La partecipazione al governo è un'esperienza molto importante per la sinistra. Ma se diventa la bussola, se diventa l'essenziale, il prisma di rifrazione attraverso il quale si guarda la realtà, allora non si capisce più niente. Si perde l'orientamento». E Bertinotti lancia un appello anche all'unità della sinistra radicale, dove non esiste ancora un soggetto in grado di raggiungere «massa critica». Perché fino a quando la sinistra radicale non avrà risolto il problema della sua unità, afferma il presidente della Camera, «le forze riformiste avranno sempre un vantaggio».
Sono parole che seguono le prime «messe a punto» da parte della stessa Rifondazione comunista sul dodecalogo di Prodi. Dalle colonne della Stampa, Franco Giordano, ha fatto ieri chiaramente capire che il segretario di Rifondazione non ha firmato un impegno a scatola chiusa. «Quei dodici punti», ha detto, «sono estrapolati dal programma, si tratta di priorità, non di nuove iniziative. Poi naturalmente bisognerà discutere sulle modalità di attuazione. Per esempio diciamo di sì alla Tav ma non al megatunnel...» Ma sono parole che seguono anche i primi inevitabili malumori nella sinistra che già aveva accettato con disagio la partecipazione al governo, e ai quali ha dato voce il manifesto, con una intera pagina di lettere. E che si ripropongono anche nella parte più massimalista del sindacato. Basta leggere l'intervista che ha rilasciato ieri il segretario generale della Fiom Gianni Rinaldini, per ritrovare intatte tutte le critiche al governo che sta per chiedere di nuovo la fiducia al Parlamento. E un avvertimento: «Come sindacato dico che le 12 condizioni poste da Prodi si dovranno discutere. Non si può eliminare la discussione parlamentare, quella tra partiti e il confronto con i sindacati. Prodi non ha una cambiale in bianco».

domenica 25 febbraio 2007

l’Unità 25.2.07
Quando l’uomo cominciò a cantare
di Stefania Scateni


Dal «suono luminoso» delle cosmogonie antiche all’armonia delle sfere
E al simbolo «sonoro» tra io e inconscio

PRIMA DELLA LINGUA Per l’antropologo Steven Mithen, autore de Il canto degli antenati, all’origine del linguaggio umano c’era un sistema di comunicazione e di messaggi molto più vicino alla musica che alle parole

Lucy, la nostra antenata australopiteca vissuta circa 3 milioni e mezzo di anni fa, cantava. Non immaginatevi una vera e propria canzone, un’aria o una melodia come le conosciamo oggi. Però cantava, per comunicare con i
compagni e le compagne della sua specie usava messaggi multimodali e musicali. L’evolversi verso la stazione eretta ha in seguito permesso agli ominidi (tutta la serie degli Homo classificata dagli scienziati) di accompagnare questi messaggi a movimenti del corpo elaborati e fluidi, che possiamo immaginare come danze. E, in seguito, all’evolversi dei messaggi musicali in linguaggio. In altre parole, i nostri antenati hanno cantato prima di parlare.
La musica è venuta prima delle parole. Questo spiegherebbe perché abbiamo un istinto musicale, perché battiamo il piede ascoltando una canzone e perché ci emozioniamo ascoltando una certa musica. È l’ipotesi affascinante avanzata dall’antropologo inglese, professore di archeologia alla University of Reading, Steven Mithen, in uno studio ambizioso e poderoso, ma non per questo di difficile lettura, ora tradotto in Italia, col titolo Il canto degli antenati (Codice Edizioni, pagine 412, euro 32,00).
Il lavoro di Steven Mithen nasce, come spesso succede nel campo dell’intelletto, da un’ossessione: comprendere la musica. Lui, dice, è completamente negato («non sono né intonato né in grado di battere il ritmo») mentre a casa è circondato da persone che cantano e suonano. Ostinato a capire la musica, non riuscendo a padroneggiarla, ha avviato un’immane ricerca, per la quale ha chiamato in aiuto discipline diverse, analizzando, confrontando e concatenando i lavori di linguisti, musicologi, neuroscienziati, psicologi dell’età evolutiva, antropologi, archeologi, etologi e paleontologi, per scoprire il significato della musica e il perché del suo fascino sull’uomo. Mithen ha messo insieme tutti i dati significativi come tessere di un grande puzzle dell’evoluzione, nel quale la musica risulta avere un ruolo centrale. È impressionante come le sue conclusioni si avvicinino a studi musicologici che non poggiano su un metodo scientifico in senso stretto, ma fanno riferimento alla mitologia e alla cultura dei popoli dell’antichità.
L’intuizione di Steven Mithen (che la musica sia stata nell’evoluzione umana una forma di protolinguaggio, una forma matrice del linguaggio verbale) prende corpo grazie al lavoro controcorrente della linguista Alison Wray. A fronte della «teoria composizionale» sulla nascita del linguaggio, secondo la quale è possibile che i nostri antenati, come gli uomini di Neanderthal, disponessero di una gamma relativamente ampia di parole con una grammatica limitata se non del tutto assente, Wray ed altri sostengono una «teoria olistica». Secondo questa teoria il protolinguaggio dei nostri antenati non era composto da parole ma era un sistema di comunicazione fatto di messaggi, ovverosia di espressioni multisillabiche. Mentre per la teoria composizionale, le parole furono presenti fin dai primi stadi dell’evoluzione del linguaggio, per la teoria olistica apparvero solo in stadi successivi. Di per sé, la definizione «espressioni multisillabiche» fa venire in mente, se non un motivetto, almeno dei suoni ritmati, una melodia primitiva, come un «ta-taa-ta» per esempio. Mithen parte da qui per intraprendere una lunga strada di ricerche, studi, comparazioni. Comincia col cercare somiglianze e differenze tra musica e linguaggio, per passare all’analisi degli studi su come musica e linguaggio siano creati nel cervello, sull’importanza della musicalità nella comunicazione con i neonati, e del legame tra la musica e le emozioni. Poi sposta la lente sui sistemi di comunicazione delle scimmie antropomorfe e non, sulla storia evolutiva dei nostri antenati ominidi, evolutisi in Africa nel periodo compreso tra sei e due milioni di anni fa, e sui sistemi di comunicazione degli uomini di Neanderthal e dell’Homo sapiens. Mithen ci mostra come, studiando i fossili dei nostri antenati per delineare l’evoluzione dell’apparato vocale, si può osservare che 500 mila anni fa i tracciati vocali erano poco diversi da quelli che possediamo oggi, eppure gli scienziati non hanno prove dell’esistenza di un pensiero simbolico e di strumenti complessi che potrebbero essere indicativi dell’uso del linguaggio. I tracciati vocali dei nostri antenati farebbero quindi pensare a una capacità di cantare. Melodia e ritmo, inoltre, sono importantissimi nel nostro linguaggio, spesso indispensabili per comprendere la forma di una frase. Ritmo e melodia nella comunicazione, oltretutto, vengono esaltati ed enfatizzati quando comunichiamo con i bambini. E gli psicologi hanno scoperto che questa modalità comunicativa istintiva negli adulti è importante perché il bambino acquisisca le parole, e fondamentale per la comunicazione e per indurre emozioni. Mithen
aggiunge che può essere simile all’antico tipo di comunicazione usato dai nostri antenati.
Il mosaico che lo studioso compone con le tessere a sua disposizione ci mostra che fare musica è stato cruciale per la sopravvivenza dei nostri antenati e ha avuto un ruolo fondamentale per la costruzione dell’identità di gruppo. Uscendo dal seminato della scienza, e giocando con l’assonanza del suo cognome, possiamo permetterci di affermarre che Mithen ha delineato, con il suo studio, un «mito» fondativo. E non può non essere un caso che ogni mito cosmogonico - cioè fondativo dell’universo - elaborato dalle culture primitive e dalle culture antiche (come quella degli egizi, ad esempio) parlino di un suono, un «suono luminoso», all’origine del mondo. Se l’uomo ha cantato e ballato prima di parlare, cosa ci vieta di pensare che abbia trasferito questo «ricordo» al mondo in cui vive, usando la musica come spiegazione della propria nascita?
È quanto si può leggere in un vecchio libro di musicologia, Il significato della musica, in cui il musicologo Marius Schneider ricostruiva le antiche cosmogonie e comparava la simbologia musicale di diverse culture. Dopo lunghi studi di antropologia e simbologia della musica, Schneider elaborò il concetto di «simbolo sonoro», che si avvicina in maniera impressionante alla teoria olistico-musicale di Mithen (lo scienziato non ce ne voglia per l’associazione: d’altra parte l’armonia delle sfere in cui credevano gli antichi greci è stata effettivamente registrata, qualche anno fa, dalle apparecchiature degli astronomi). Per Schneider le idee e gli oggetti più diversi, riuniti da un ritmo comune, finiscono col formare in noi un insieme semicosciente che è linguisticamente inesprimibile, ma caratteristico dell’esperienza simbolica. Pur non avendo un significato concettuale, tale insieme possiede un senso espresso dal ritmo che li riunisce, e che la musica può riprodurre più di ogni altro linguaggio, perché la manifestazione più alta e essenziale del ritmo è il ritmo sonoro. Al pari di Carl Gustav Jung, il celebre psicoanalista per il quale il simbolo getta un ponte tra l’io cosciente e l’inconscio, per Marius Schneider il simbolo sonoro getta un ponte fra un mondo primordiale puramente acustico e subcosciente e un mondo materiale perfettamente conscio. Lo stesso ponte che Mithen costruisce tra Lucy e noi.

l’Unità 25.2.07
Rifondazione tra movimenti e governo: «È la cruna dell’ago...»
Incertezze e maldipancia mentre all’interno di Prc c’è chi pensa ad una scissione: sono i trotzkisti di Cannavò (e di Turigliatto)
di Eduardo Di Blasi


«L’ATTACCO al governo è venuto da destra, e adesso Rifondazione si trova davanti due compiti molto difficili: salvare l’esperienza del governo Prodi (e i contenuti
del suo programma unitario) evitando che uno scivolamento a destra del quadro politico si trasformi in un disastro per il Paese e per i movimenti». Vittorio Agnoletto, europarlamentare eletto da indipendente nelle liste del Prc, così legge il difficile passaggio che il partito di Franco Giordano, si trova davanti. E vede davanti una sola strada per attraversare quella che chiama, biblicamente, la cruna dell’ago: «La palla torna fortemente ai movimenti, a coloro che scendono in strada contro la Tav in Val di Susa, per le unioni civili, a Vicenza. Tanto più i movimenti saranno forti, tanto più potrà essere incidente l’azione del governo Prodi. Rompere con i movimenti non potrebbe che essere un danno anche per l’Unione. Pensate veramente che si possano ignorare gli omosessuali, la Val Susa, chi chiedeva la riorganizzazione del sistema radiotelevisivo e il conflitto di interessi?». Rifondazione, spiega Michele De Palma, giovane responsabile Movimenti del partito, «non è a capo dei movimenti, perché a Vicenza nei comitati di lotta trovi la signora di An, e buona parte dei sindaci della Val di Susa che protestano contro il percorso della Tav hanno in tasca la tessera dei Ds. Il dibattito sui movimenti va deideologizzato, perché i movimenti sono trasversali, bastardi, non sono “i movimenti di Rifondazione”. Non è che tutti quelli che vanno in piazza votano per il nostro partito. Noi siamo a servizio di quel movimento perché riteniamo che la piazza sia importante nella democrazia». Fa un esempio che denota fantasia: «Mettiamo che il Prc non esistesse: secondo voi non esisterebbero nemmeno i movimenti?». In questo momento, spiega: «Quello che bisogna fare è ritrovare, nell’Unione, un elemento di comunanza, perché stiamo tutti su una stessa barca e non possiamo fare la fine degli antropofagi che vanno alla deriva». Certo è che questa politica di lotta e di governo è oggi messa in crisi dalla caduta del governo nell’aula di Palazzo Madama. Caduta che è dovuta, le parole sono del deputato Massimiliano Smeriglio, segretario della federazione romana, «ad una minoranza che non è in sintonia con il nostro popolo, quella Sinistra Critica che purtroppo esiste al nostro interno e che ha una doppia fedeltà. Non credo esista al mondo l’esempio di un compagno, espressione di una componente di minoranza, che contribuisca a mettere all’angolo tutto il partito». Sinistra Critica, una delle minoranze interne al Prc è l’associazione capeggiata dal deputato Salvatore Cannavò. Quest’anno, rappresentando circa il 6% del partito, è riuscita ad inserire un nome nella lista per Palazzo Madama: Franco Turigliatto (il dissidente che con il «non voto» ha in parte contribuito alla caduta del governo). Giusto ieri Cannavò ammoniva sulla prossima fiducia: «Decideremo sulla base del discorso di Prodi, anche se non nascondo che ci preoccupa l’allargamento della coalizione al centro». Aggiunge: «Il voto di fiducia al Senato è molto incerto, ho sentito oggi Turigliatto e non è un modo di dire che sta riflettendo sul da farsi». Dopo che la Direzione del Prc ha votato giusto venerdì un documento in cui si indica nel sostegno al governo Prodi la linea politica del partito, le dichiarazioni di Cannavò sembrano preludere ad una scissione dell’ala Trotzkista (circostanza che potrebbe anche far permanere a Palazzo Madama il senatore della Sinistra Critica). Claudio Grassi, rappresentante dell’Ernesto (la minoranza più numerosa dentro il Prc), spera che non si arrivi a una scissione dai trotzkisti. Ritiene, d’altronde, «che il momento sia difficile e delicato». D’altronde non tutti convergono sul fatto che i due «dissidenti» abbiano commesso un errore. Il vignettista Vauro Senesi, ad esempio, ritiene la vicenda grottesca. Parla di «crisi fasulla» e di «un atteggiamento arrogante e supponente, tenuto da Prodi e dal suo ministro D’Alema». Ritiene che i due senatori «non votanti» siano stati fatti oggetto di un comportamento fascista («anche se non ne faccio due eroi»), e spiega: «Ieri ad Oslo 49 Paesi hanno deciso di mettere al bando le bombe a grappolo. Tra questi non c’erano gli Stati Uniti. I nostri “sacri alleati” di Vicenza».