Quel duello che non finisce mai
Dietro lo scontro tra radicali e riformisti
L'incerto futuro di una coalizione dove coesistono estremisti e riformatori
Dopo il voto in Senato che ha portato alle dimissioni di Prodi
di Anthony Giddens
In Gran Bretagna è stato appena pubblicato un libro molto interessante che si intitola What´s Left?. Ne è autore Nick Cohen, un insigne giornalista di sinistra, socialista sin da giovane, ma che oggi riconosce che il socialismo è morto da quando l´utopia di un´economia post-capitalista non è più all´ordine del giorno. La morte del socialismo, dice Cohen, ha portato una "tetra liberazione" a chi era schierato con la sinistra più radicale. Al posto di prefigurarsi un futuro socialista, adesso questa sinistra è libera di accompagnarsi a qualsiasi movimento, purché sia contro lo status quo e, più specificatamente, contro l´America. Qualsiasi cosa possa pregiudicare la posizione dell´America nel mondo è sottoscrivibile. Chiunque sia contro gli Stati Uniti tout court è patrocinabile. Tutto ciò spinge la sinistra radicale in direzione di alcune visioni del mondo del tutto irrazionali.
Perché mai, si chiede Cohen, la sinistra sottovaluta la minaccia che l´Islam militante rappresenta per i valori dell´Occidente? Questa forma di Islam incarna tutto ciò verso cui la sinistra fa mostra di provare avversione: è contro la libertà di espressione, non ammette i valori liberali e crede nell´oppressione dichiarata del sesso femminile, ivi compresi i delitti d´onore. Perché la Palestina è una causa per la quale la sinistra si batte, ma così non è per la Cina, il Sudan, lo Zimbabwe, il Congo e la Corea del Nord? Perché coloro che hanno marciato manifestando contro l´invasione dell´Iraq non hanno condannato il regime fascista di Saddam Hussein con la stessa veemenza con la quale hanno avversato la guerra?
Nel momento in cui il governo Prodi è caduto perché due senatori non erano disposti ad accettare la presenza dei soldati italiani in Afghanistan o l´allargamento della base Nato di Vicenza, questi sono interrogativi pertinenti. I Taliban si preparano a scagliare un´offensiva in primavera e la Nato sta portando avanti in Afghanistan un incarico molto importante, che vede coinvolti i soldati di vari Paesi. Davvero i contrari a questa missione preferirebbero che l´Afghanistan facesse ritorno a una società dominata da una consorteria religiosa che è tra le più intolleranti e prevaricatrici al mondo? Si può essere d´accordo o in disaccordo con l´iniziale intervento militare in Afghanistan, ma adesso abbandonare quel Paese sarebbe il colmo della follia e dell´irresponsabilità.
Nondimeno, la sinistra oggi è divisa al proprio interno. La sinistra radicale non solo è una variante più avventurosa di riformismo: essa ha altresì una visione completamente diversa del mondo, una che potremmo a ragion veduta definire reazionaria. Gli odierni radicali di sinistra sono conservatori sotto mentite spoglie. Persistono ad avere una mentalità da Guerra Fredda, ben dopo la scomparsa di quel mondo bipolare. Tuttora sperano…che cosa?
Un ritorno al socialismo o al comunismo non potrà verificarsi, dal momento che era errato - così oggi noi riteniamo - il presupposto dal quale partivano entrambi, vale a dire il fatto che lo Stato potesse sostituirsi ai mercati nell´adeguare la produzione alle necessità umane. Soltanto i mercati capaci di reagire ogni giorno a milioni di indici dei prezzi saranno in grado di affrontare le enormi complessità delle economie moderne. Questo non significa che dovremmo essere alla mercé dei mercati, non più di quanto siamo alla mercé dello Stato. Una società positiva che la sinistra dovrebbe sostenere a livello locale, nazionale e globale è quella che sa controbilanciare un mercato efficiente e un governo democratico e dinamico, unitamente a una sfera civile solida, che prende parte a ogni processo; un ordine sociale contrassegnato dalla libertà di azione e di espressione, dalla legalità e dall´uguaglianza tra uomini e donne. Questi sono ideali concreti, non fantasie utopistiche, e sono ideali per i quali vale la pena combattere. La caduta del socialismo non corrisponde alla fine della sinistra. L´obiettivo di creare una società che sappia abbinare prosperità e solidarietà a un basso livello di ineguaglianza è quanto mai vivo.
È triste per me, sostenitore tenace di un centrosinistra coeso in Italia, constatare che pochi individui – di sinistra – potrebbero ancora una volta riconsegnare il governo del Paese alla destra politica. Che genere di politica è mai questa nella quale non vi è senso della responsabilità collettiva, nella quale il bene più grande del Paese è sacrificato sull´altare della correttezza politica? A un osservatore esterno tutto ciò appare privo di senso. A me sembra che alcune persone appartenenti alla sinistra tradizionale molto semplicemente non siano pronte ad accettare le responsabilità di governo. Sono felici soltanto all´opposizione, quando di ogni cosa è possibile biasimare la destra, in modo alquanto conveniente e familiare. Ciò ben si confà a quello che afferma Cohen: solo quando si sa contro cosa si è, e non per che cosa ci si batte, allora, innegabilmente, si è più contenti all´opposizione.
La sinistra tradizionale forse oggi può ancora trovare qualcuno da ammirare, Hugo Chavez in Venezuela, per esempio, o Evo Morales in Bolivia, o forse ancora, Fidel Castro. Anche loro ascrivono tutti i mali del mondo agli americani, oppure alle grandi e cattive corporation. Nondimeno, si guardi con attenzione a quello che questi leader stanno facendo nei loro Paesi: Chavez in Venezuela sta distruggendo la democrazia, promette di utilizzare i proventi del petrolio nazionale per aiutare gli indigenti, ma da quando egli ha assunto la leadership la percentuale di chi è in situazione di povertà è di fatto cresciuta. Morales sta nazionalizzando l´industria petrolifera boliviana, mettendo così in fuga quegli stessi investitori d´oltreoceano di cui l´industria del Paese ha urgentemente bisogno, se intende essere competitiva e contribuire allo sviluppo di quella povera nazione. Cuba da quaranta anni è una dittatura, con un´infrastruttura economica che è andata letteralmente a pezzi da quando gli aiuti provenienti dall´Unione Sovietica sono cessati. Per contro, sotto i governi riformisti di Ricardo Lagos, e attualmente di Michelle Bachelet, il Cile è diventato la nazione di maggior successo dell´America del Sud. Questo è il Paese al quale gli altri della regione dovrebbero guardare, per prenderlo a modello per il loro stesso futuro. La percentuale di persone che vivevano sotto la soglia di povertà è scesa dal 30 per cento e più di dodici anni fa all´odierno 18 per cento.
L´Italia ha un bisogno disperato di riforme e innovazione. Dal mio punto di vista soltanto un centrosinistra progressista potrà fornirgliele. Sia nel caso in cui l´attuale governo sopravviva, sia nel caso in cui esso invece non sopravviva, i progressisti in Italia devono continuare a perseguire un raggruppamento politico efficiente e integrato. Meglio ancora, un unico Partito Democratico, in grado di arrivare al potere e restarvi, senza più dover dipendere - ammesso che ciò sia possibile - da coalizioni fragili ed effimere, delle quali fanno parte gruppi politici la cui visione appartiene a un mondo ormai scomparso. Questo è un obiettivo da perseguire con rigenerato vigore e rinnovato impegno, qualsiasi cosa accada a breve termine.
(traduzione di Anna Bissanti)
Le due sinistre e il duello mai finito
I rischi della demagogia e l'impotenza dei governi
Se l'estremismo diventa antipolitica
di Adriano Sofri
Alibi. Lo schema delle "due sinistre" è invecchiato ed è diventato un alibi per tutte le meschinità e le insipienze
di Adriano Sofri
Alibi. Lo schema delle "due sinistre" è invecchiato ed è diventato un alibi per tutte le meschinità e le insipienze
Moralità. Naturalmente non è vietato né immorale desiderare la rivoluzione. Ma è fuori luogo in un'alleanza elettorale
I posteri hanno un´aria severa, che incute soggezione: spetta a loro giudicare. Poveri posteri: e trattarli piuttosto come nipotini? Per tanto tempo la sinistra è stata proiettata nel futuro, risucchiata dal futuro: La società futura, Avanti!. Ora sono le radici a tirarci indietro. Ci sentiamo legati agli antenati, com´è giusto, e ai "diritti acquisiti", ma più indifferenti ai posteri. Eppure quelli che verranno dipendono da noi, e, in un certo senso, perfino quelli che vennero. Possiamo rovinarli.
Ci sono due sinistre. Però la cosa è complicata, perché sono più di due. E soprattutto perché l´idea delle due sinistre finisce per spiegare cose che hanno un´altra spiegazione, più grossolana. La frontiera fra una sinistra libertaria e una statalista non ha perso di rilievo, né quella fra il "movimento" e il "fine". La sinistra del "fine ultimo" sospetta nella democrazia formale una truffa rispetto alla disuguaglianza sostanziale. La sinistra riformatrice ("riformista" è già una categoria ideologica) non subordina le libertà personali a una disciplina collettiva, sta attenta a non usare violenza agli equilibri sociali, perché ne ha sperimentato la fragilità e i contraccolpi. Gli aggettivi vacillano. A cominciare dal dualismo progressista-conservatore, dal momento che la fede nel progresso (scommessa temeraria e conveniente, come già quella sull´esistenza di Dio) ha dovuto segnare il passo, se non battere in ritirata, e che la conservazione, come per le risorse naturali e il retaggio di intelligenza e bellezza, è un´aspirazione comune. L´aggettivo "moderato" non ha guadagnato in chiarezza dall´uso (e l´abuso) che se ne fa per l´islam non estremista, e da noi oscilla fra il senso della misura e il pregiudizio di una tepidezza opposta alla "radicalità". Radicale è il più usurpato degli aggettivi. C´è una sinistra estremista, quella che prende la parte per il tutto, e diffida del tutto come di un inganno ai danni dei propri presunti difesi. Ieri una riunione operaia veniva così riassunta: «Non ci importa se cade il governo, a noi interessa la busta paga». Bisogna vergognarsi della irrilevanza materiale e morale cui si è relegato il lavoro degli operai, ma non riesco a credere alla caricatura disegnata da quella frase. Non so quale pigrizia abbia regalato alla sinistra estremista il titolo di radicale. Anche nella sinistra ha allignato il meglio e il peggio della storia, e l´autocertificazione è ormai l´unica fonte di accredito. E´ tuttavia difficile riconoscere in una buona sinistra chi chiami Israele "nazista", o minimizzi l´infamia delle foibe. E´ difficile chiamare "sinistra" lo scambio fra l´amore per la pace e l´omissione di soccorso ai perseguitati, o l´unilateralismo del disarmo che sgombera il passo all´unilateralismo della guerra. Quando esponenti della sinistra estremista arrivano in Parlamento o addirittura al governo, sono tentati di attribuire alla propria presenza un ruolo strumentale - si chiamava "entrismo", quando lo praticavano i trotzkisti dentro i grossi partiti comunisti: i grossi partiti comunisti non ci sono più, i trotzkisti sì - o di rendere conto a una loro nicchia di consonanti. Se gli capiterà il colpaccio, magari di far cadere il governo, avranno il mazzetto di congratulazioni che compete al "coraggio" e alla "coerenza". Naturalmente, non è vietato né immorale desiderare la rivoluzione; è fuori luogo in un´alleanza elettorale. Fausto Bertinotti ha appena sostenuto che la politica della sinistra non può avere nel governo la propria bussola: ci mancherebbe altro. Ma neanche perderla, la bussola. La domanda è reversibile: c´è una politica della sinistra che tragga più forza da un governo di destra?
Ma è davvero questa - le "due sinistre" - la radice della delusione per una maggioranza che pure era stata così augurata da una metà del paese, e che aveva promesso di affratellare il paese intero? Penso di no. Penso che questo schema, così ripetitivo, delle "due sinistre", sia diventato un alibi per tutti, una nobilitazione di meschinità e insipienze più vicine. Che il "massimalismo" dei partitini di estrema sinistra sia un distintivo senza conseguenze, che serva a segnare un territorio, e abbia poco a che fare con la pratica sociale. L´ala "riformista" della coalizione è a sua volta inadempiente, e tira a campare. Interrotta fuori, la cosiddetta dialettica fra governo e opposizione si riproduce per intero dentro la maggioranza, dove tutti sono l´opposizione di tutti, e il governo è rinviato a nuovo ordine. La pletora di partiti poco più che personalizzati, ciascuno dotato del potere di veto e della voluttà dell´ultimatum, ciascuno concorrente diretto, più che del proprio antagonista all´altro estremo dello schieramento, del proprio vicino stretto, Di Pietro di Mastella, Diliberto di Giordano, è un alibi al quieto vivere. Fabio Mussi si è inalberato perché ho definito insensato il suo proposito scissionista: lo ribadisco, che la minaccia di scissione, indipendentemente dalle divergenze di merito, è contraddittoria con la partecipazione al governo, e fa il verso al voto sfasciatore dei "puri" in Senato. Che cosa ne può venire, se non un ennesimo partitino, un ennesimo gruppo parlamentare? Il socialismo, si obietta, non si esaurisce nel Partito Democratico: ma è il Partito Democratico che non può esaurirsi nel socialismo. Oltretutto, dirigenti che vengono da una prossimità personale lunga trenta o quarant´anni devono trovare un modo di maneggiare i loro reciproci rapporti, di cui ciascuno sa che influiscono sulle scelte politiche almeno quanto le idee dichiarate.
Quando un nodo è troppo aggrovigliato, conviene allargare le maglie della rete. Può non bastare a sciogliere il nodo, ma vale ad allentarlo, e aspettare un tempo migliore. Dopo la catastrofe, le nazioni europee si sono salvate solo grazie all´unione, e alla progressiva "cessione di sovranità". L´intenzione del Partito Democratico segue, sulla sua scala, lo stesso criterio. "Sovranità" è in questo caso potere e sottopotere: difficili da cedere, tanto più quando i partiti hanno perduto la loro identità ideologica e "religiosa" e hanno invece rafforzato gli apparati burocratici. Non immagino un "disinteresse" dell´impresa politica. Il disinteresse della politica "religiosa" copriva sacrifici umani e abnegazioni mortificanti. Tuttavia la secolarizzazione, o, se preferite, "liberalizzazione" dell´impegno politico ha esagerato in voracità: basta guardare alle candidature elettorali. Non sarebbe giusto deplorare l´irresponsabilità di eletti di "estrema sinistra", più che non si sia fatto per la spregiudicatezza di eletti di "estremo centro" passati sulla navetta dei Valori.
Questa politica nutre l´antipolitica: è già essa stessa antipolitica. Il regime italiano non è stato del tutto travolto da caudillismi e populismo solo perché lo è stato in gran parte: il berlusconismo costituendo un caso esemplare di populismo; quanto a caudillismi, ce n´è stata un´intera sequela, ciascuno abbastanza leggero da prendere una cresta d´onda e contentarsi alla ricaduta di un resto di referendum o di partitello. Oggi il sistema politico è in bilico fra il vaccino populista e caudillista, e la dose capace di ammazzare un cavallo, e un paese. Magari antipolitica e politica fossero incarnate da centrodestra e centrosinistra. La demagogia nella sinistra che si crede intransigente è impressionante: la politica "ufficiale" come corruzione e intrigo, la propria politica come alterità di tempra morale, perfino il "tanto peggio tanto meglio" - meglio l´Afghanistan dei talebani, meglio l´Italia di Gasparri e Calderoli.
La frantumazione della rappresentanza in tante satrapie deforma la domanda di fondo della politica: con chi ci si può unire, da chi ci si deve dividere? Nel mondo infuriano fame e malattia; proliferano le armi nucleari; si consumano le risorse e la bellezza. La politica dei partiti e del governo sfiora di rado queste questioni, e spesso le aggrava. Bisogna immaginarsi nel mondo, e farlo immaginare agli altri. L´investimento appassionato nell´aggettivo "altro" (fino all´ "altro mondo") ne mostra il desiderio, e insieme mostra la corda: perché la buona politica dev´essere "altra" e insieme coinvolgere il governo così com´è. Fino a poco fa la politica era l´espressione migliore del volontariato - ora è l´opposto. Ma non sarà il volontariato a togliere l´atomica a Pyongyang e a vietarla a Teheran. "Altro" è anche alla radice di altruismo, e se gli umani pure nel pieno del naufragio continuano ad azzannarsi, è un fatto che la campana del naufragio è suonata, e se ne sono accorti tutti, anche i governi, e l´idealismo del soccorso al mondo e il realismo del si salvi chi può devono trovare un punto di contatto. Se il governo serve ad assecondare la vita che continua - l´ordinaria amministrazione, ma anche l´amministrazione è sempre più straordinaria - e non è fatto per risolvere i grandi problemi, è fatto almeno per non aggravarli, e magari aiutare ad affrontarli. A Bologna Sergio Cofferati è alle prese con eccellenti orchestrali che, avendo prolungato di dieci minuti una prova, esigono in compenso un giorno di riposo: donde duri scioperi. Se ora, come bisogna augurarsi, Prodi riuscisse a esercitare la dittatura scalfarista, applaudiremmo di nuovo la prova d´orchestra felliniana.
Repubblica 27.2.07
Un conflitto che dura da oltre un secolo
La linea stregata che divide la Sinistra
di Edmondo Berselli
Partiti. In passato c'era un conflitto tra i diversi partiti storici per contendersi la rappresentanza della classe operaia
Movimento. L'antagonismo oggi è movimentista, si riconosce nei centri sociali ed è ostile alla globalizzazione
C´è davvero una linea stregata che attraversa i partiti e i pensieri di sinistra. Rivoluzione o riforme; sovvertimento o miglioramento del capitalismo; lotta di classe o governo: questa alternativa è una dannazione del Novecento socialista. Anche se oggi non descrive compiutamente la differenza fra le "due sinistre" viste all´opera nell´ultima crisi di governo.
Ad applicare rigidamente gli schemi dello scontro tra i fautori del "programma massimo" e i gradualisti, ci si ritrova difilato dentro la polemica nel Partito socialista fra i massimalisti come Giacinto Menotti Serrati e i riformisti guidati da Filippo Turati, e poi nel clima della scissione di Livorno del ‘21, allorché Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti diedero vita al Partito comunista.
Alle spalle c´era la Grande guerra, che in tutta Europa aveva lacerato i socialisti, dividendo gli internazionalisti dai nazionalisti, con i socialisti tedeschi che accettarono di votare i crediti per la guerra del Kaiser. Eduard Bernstein, l´ideologo della socialdemocrazia, votò i crediti, mentre Karl Kautski (che aveva collaborato con Engels ed era diventato "il rinnegato" in seguito alla formulazione del programma riformista di Erfurt nel 1891), si schierò contro, come l´"estremista" Rosa Luxemburg.
A guardare in avanti si sarebbe visto invece il crollo delle democrazie, con l´avvento del fascismo e del nazismo, senza che la comune opposizione di socialisti e comunisti alle dittature servisse a ricucire i rapporti: anzi, è nei primi anni Trenta che la Terza Internazionale formula la teoria del "socialfascismo", che considera i partiti socialdemocratici "oggettivamente" alleati del capitalismo borghese.
Finite le guerre, spazzati via Hitler e Mussolini, ci voleva un altro potente principio per dividere di nuovo e drammaticamente la sinistra. Al criterio divisivo della scelta ideologica fra rivoluzione e riforme si aggiunse il fattore implacabile introdotto dalla spartizione di Yalta. Con il mondo diviso in due blocchi, dopo che in Italia i comunisti erano stati sbarcati dal governo da Alcide De Gasperi, e il revisionista Giuseppe Saragat impersonava la sinistra di governo, sarebbe stato necessario attraversare il durissimo scontro politico del 18 aprile 1948, con la creazione del Fronte popolare e il Partito socialista avviato a una netta subalternità ideologica, politica e organizzativa verso il Pci; e attendere la tragedia ungherese del 1956, le ripercussioni indotte dall´invasione sovietica e dalla "fraterna" repressione di Budapest, per riaprire la dialettica a sinistra, e condurre il Psi su una posizione autonoma rispetto ai comunisti.
Ma in quegli anni dominati dalle discussioni sulla possibile collaborazione socialista al governo, "l´apertura a sinistra", che sarebbe sfociata nel primo centrosinistra di Fanfani, Moro e Nenni, il confronto fra le due sinistre era ancora tutto legato al ruolo dei partiti storici della classe operaia. Difatti, non appena nel 1963 viene varato il governo di centrosinistra, un pezzo del Psi si sgancia, e con il sostegno del Pcus si schiera in funzione neofrontista, costituendo il Psiup, partito di "unità proletaria" (quarant´anni dopo, tornando su quella vicenda, uno dei protagonisti della scissione, Vittorio Foa, si rivolgerà a Miriam Mafai e implicitamente al Pci, nel libro Il silenzio dei comunisti, dicendo: «Ripenso oggi con rammarico che voi allora non avete impedito la nostra scissione...»).
Negli anni Settanta l´alternativa tra riforme e rivoluzione è stata all´ordine del giorno soprattutto come contrapposizione tra la forza organizzata del Pci e la galassia dei movimenti extraparlamentari, con la variante tragica introdotta dal partito armato: l´aria da "album di famiglia" di cui parlò Rossana Rossanda a proposito delle Brigate rosse era comunque uno degli esiti di una storia ideologica identificabile.
Adesso invece, dopo la caduta del blocco comunista e l´avvento della globalizzazione economica le due sinistre possiedono un identikit non definibile in chiave partitica: certo, la sinistra riformista è costituita da partiti riconducibili alla tradizione socialdemocratica; ma la sinistra radicale non è decifrabile soltanto in relazione ai partiti come Rifondazione comunista, soprattutto dopo che un leader di cultura non comunista, Fausto Bertinotti, ha tentato di istituzionalizzare l´antagonismo, scegliendo statutariamente la linea della non violenza e della partecipazione a governi "moderati".
L´altra sinistra, la sinistra al di là della linea, oggi trova nei partiti antagonisti tutt´al più un alloggio a basso costo. Ma la vera casa comune del radicalismo è di nuovo di tipo movimentista. Una componente trockijsta può esserci dentro Rifondazione, ma la costellazione degli antagonisti si sviluppa più estesamente nei centri sociali, nelle formazioni associative ostili al pilastro ideologico della globalizzazione, il "pensiero unico" neoliberista.
La separazione di oggi quindi è lontana da quella novecentesca: per gli alterglobalisti, i pacifisti assoluti e tutto l´ambiente della diversità politica radicale è possibile convivere con la sinistra classica, ma non tanto di più. Delle due sinistre, una è ancora e più che mai parlamentare, l´altra è ibrida: non si trasformerà in un partito, talvolta ne colonizza alcuni settori, se ne fa rappresentare senza sposarli, continua a privilegiare l´azione diretta rispetto alle mediazioni politiche.
Per Giorgio Napolitano la piazza non può e non deve sostituire le istituzioni. Secondo Massimo D´Alema una certa sinistra estranea alle istituzioni "non serve al paese". Forse sarebbe stato più preciso dire che quella certa sinistra non serve politicamente alla sinistra ufficiale e governativa, e l´eco di una vecchia separazione si fa ancora sentire: anche se in un secolo è cambiato tutto e oggi l´alternativa corre fra la sinistra di governo e una sinistra fluttuante, non controllabile, diffusa nelle banlieue e nel precariato, in ogni caso insensibile all´identità e alla logica dei partiti, vecchi o nuovi che siano.
Repubblica 27.2.07
Quando dubita la Chiesa
Un convegno di storici a Roma
di Adriano Prosperi
Escono dagli archivi del Sant´Uffizio i quesiti teologici spesso angosciosi che da molte parti giungevano a Roma. Con le relative risposte
Il caso drammatico di un trovatello diventato vescovo che si scoprì non essere battezzato
Uno dei problemi riguardava gli ebrei convertiti a forza in Spagna e Portogallo
La parola "forse", così lieve all´apparenza e così poetica, può essere all´origine di drammi terribili, di vere e proprie tempeste morali. Sotto il segno del dubbio si colloca il futuro, quello individuale come quello dei popoli e – sempre più – dell´ambiente naturale dove viviamo; ma anche per il passato il forse si affaccia di continuo a scuotere le convinzioni e le conoscenze. Come mostra la periodica revisione delle certezze storiche che abbiamo ereditato o su cui fondiamo le nostre scelte. Eppure tutto questo è niente in confronto alla violenza di cui si può caricare la messa in forse del passato e del futuro quando è in gioco quella "certezza di cose sperate" che è la fede religiosa proiettata verso il destino eterno delle anime.
Per questo è stato interessante seguire il convegno di storici che si è svolto nei giorni scorsi presso l´Ecole Française di Roma e che ha posto al centro dei suoi lavori il dubbio, o meglio i molti dubbi sull´amministrazione dei sacramenti di cui dovette occuparsi nei secoli scorsi la sapienza teologica della Chiesa. Erano dubbi che nascevano nella mente di sacerdoti e di semplici fedeli e che si affidavano per la soluzione alla Congregazione del Sant´Uffizio dell´Inquisizione, oggi Congregazione per la Dottrina della Fede.
Corrono quasi dieci anni da quando gli archivi della Congregazione si sono aperti agli studiosi e non sono mancate le occasioni per prendere atto delle scoperte che vi si sono fatte, ma questa è stata la prima volta che si sono confrontate le diverse ricerche di storici italiani e francesi su di un settore specifico della documentazione di quell´archivio: precisamente quella dei "dubbi intorno ai Sacramenti", una sezione dove si raccolgono le domande, spesso cariche di angoscia, che venivano sottoposte a Roma e le risposte che la Congregazione dava dopo avere esaminato le questioni con l´aiuto dei propri esperti di teologia e di diritto.
Prendiamo ad esempio il Battesimo. Ci fu un caso drammatico nel primo ´700, quello di un trovatello cresciuto in un istituto religioso e diventato vescovo. Ma non lo avevano battezzato fidandosi di un messaggio trovato fra le fasce. Improvvisamente insorse un dubbio nella sua mente. Forse l´anonima madre prima di abbandonarlo non lo aveva battezzato, forse quel biglietto l´aveva scritto un ateo in vena di scherzi sacrileghi. Dunque quest´uomo che aveva consacrato altri sacerdoti forse non possedeva il requisito primo per potersi dire cristiano e non aveva trasmesso agli altri quello che credeva. Alla base del patto che la Chiesa stringeva coi suoi membri c´era la promessa di attingere ai tesori infiniti della grazia divina attraverso i canali dei sacramenti: canali, anzi veri e propri fiumi, come li rappresentarono fin dal Medioevo le immagini del sangue salvifico sgorgante dal corpo crocefisso di Gesù.
Sul modo di attingere a quei fiumi inesauribili la cultura ecclesiastica aveva calato regole precise, figlie del diritto romano e di quella speciale scienza del sacro che dominava il sapere, la teologia. Osservando quelle regole definite dai decreti del Concilio di Trento e tradotte in formule precise dal Rituale Romano di Paolo V si aveva la certezza dell´efficacia del sacramento, indipendentemente dalla disposizione soggettiva o dalle qualità morali di chi lo amministrava. La sua efficacia entrava in funzione nel ricevente e lo trasformava, così come – usando una immagine fisica forse più familiare alla nostra cultura di quelle elaborate per secoli dalla teologia - il trapianto di un organo modifica colui che lo riceve.
Sarebbe sbagliato però sottovalutare l´importanza di quei dubbi religiosi. Dalla loro soluzione dipendeva non solo la pace di coscienze inquiete ma anche la sorte di intere moltitudini. Gli ebrei convertiti e battezzati a forza in Portogallo e in Spagna, ad esempio, furono considerati veri cristiani a tutti gli effetti e, dopo qualche incertezza e qualche rinvio, furono trattati di conseguenza, per cui se li si trovava ancora dediti alle pratiche rituali ebraiche venivano considerati apostati e molto spesso condannati al rogo.
Dubbi del genere insorgevano anche molto spesso nella mente di missionari che avevano la responsabilità di intere popolazioni in terre non europee. Era facile sbagliare nell´uso della formula rituale del Battesimo che, tradotta in algonkino o in cinese, rischiava di assumere un significato diverso. E c´erano le complicazioni create dalla divisione religiosa europea. Un missionario francese del ‘600, nato da famiglia calvinista e convertitosi al cattolicesimo, scoprì un giorno che i genitori lo avevano battezzato con acqua di rose, non con l´acqua naturale benedetta che il rito cattolico esigeva. Era valido quel battesimo? E se non lo era che cosa si doveva pensare di tutti quei sacramenti che lui aveva amministrato? Aveva battezzato numerosissimi nuovi cristiani in terre di missione e celebrato tanti matrimoni, per non parlare delle infinite confessioni ascoltate. Tutti quei presunti cristiani erano rimasti pagani, i loro matrimoni erano concubinati, le loro anime erano attese all´inferno e loro non lo sapevano.
Davanti all´abisso di tante vite costruite sull´inganno involontario di una grazia che non era stata realmente trasmessa lo colse un senso di vertigine e cadde in una depressione che pervade le suppliche inviate alle autorità romane. Tante storie di come il mondo entrò allora nella comunità religiosa della Chiesa cattolica e la rese di fatto universale. Il nostro presente che si specchia in queste carte antiche può approfittarne per scoprire molti aspetti di se stesso e del suo mutamento. Non solo aspetti del vissuto religioso o delle dottrine teologiche ma anche di mutamenti più sottili e più profondi. Per indicarne uno, possiamo dire che c´è qui un segno importante di qualcosa che oggi, al di là della permanenza di chiese e di fedi e di sacramenti, è venuto meno: il valore delle parole.
La nostra cultura conosce le voragini amministrative e finanziarie che possono aprirsi quando si scopre una firma falsa. Ma non ha più nessuna percezione del valore che aveva la parola in tempi di culture orali, quando una stretta di mano e una promessa legavano più strettamente di qualunque vincolo materiale. Pensiamo al matrimonio, questo difficile contratto che aveva lungamente atteso un pieno riconoscimento nel sistema simbolico della vita religiosa. Anche la sistemazione cattolica tridentina della materia dovette fare perno sul valore della promessa pronunziata dai contraenti: rimase e fu ribadito il valore della parola pubblicamente pronunziata. Ma il rito dovette essere celebrato in chiesa davanti a un´autorità ecclesiastica e le parole dell´impegno assunto, unica base del matrimonio, dovettero lasciare traccia scritta in un registro parrocchiale. La vittoria piena dello scritto doveva seguire col tempo. Oggi è totale. È una involontaria ironia della storia che una legge elaborata per regolare impegni di convivenza e di affetto diversi dal matrimonio ufficiale prenda oggi in Italia il proprio nome dalla prima persona singolare del verbo "dire".
Repubblica 27.2.07
Un convegno di storici a Roma
di Adriano Prosperi
Escono dagli archivi del Sant´Uffizio i quesiti teologici spesso angosciosi che da molte parti giungevano a Roma. Con le relative risposte
Il caso drammatico di un trovatello diventato vescovo che si scoprì non essere battezzato
Uno dei problemi riguardava gli ebrei convertiti a forza in Spagna e Portogallo
La parola "forse", così lieve all´apparenza e così poetica, può essere all´origine di drammi terribili, di vere e proprie tempeste morali. Sotto il segno del dubbio si colloca il futuro, quello individuale come quello dei popoli e – sempre più – dell´ambiente naturale dove viviamo; ma anche per il passato il forse si affaccia di continuo a scuotere le convinzioni e le conoscenze. Come mostra la periodica revisione delle certezze storiche che abbiamo ereditato o su cui fondiamo le nostre scelte. Eppure tutto questo è niente in confronto alla violenza di cui si può caricare la messa in forse del passato e del futuro quando è in gioco quella "certezza di cose sperate" che è la fede religiosa proiettata verso il destino eterno delle anime.
Per questo è stato interessante seguire il convegno di storici che si è svolto nei giorni scorsi presso l´Ecole Française di Roma e che ha posto al centro dei suoi lavori il dubbio, o meglio i molti dubbi sull´amministrazione dei sacramenti di cui dovette occuparsi nei secoli scorsi la sapienza teologica della Chiesa. Erano dubbi che nascevano nella mente di sacerdoti e di semplici fedeli e che si affidavano per la soluzione alla Congregazione del Sant´Uffizio dell´Inquisizione, oggi Congregazione per la Dottrina della Fede.
Corrono quasi dieci anni da quando gli archivi della Congregazione si sono aperti agli studiosi e non sono mancate le occasioni per prendere atto delle scoperte che vi si sono fatte, ma questa è stata la prima volta che si sono confrontate le diverse ricerche di storici italiani e francesi su di un settore specifico della documentazione di quell´archivio: precisamente quella dei "dubbi intorno ai Sacramenti", una sezione dove si raccolgono le domande, spesso cariche di angoscia, che venivano sottoposte a Roma e le risposte che la Congregazione dava dopo avere esaminato le questioni con l´aiuto dei propri esperti di teologia e di diritto.
Prendiamo ad esempio il Battesimo. Ci fu un caso drammatico nel primo ´700, quello di un trovatello cresciuto in un istituto religioso e diventato vescovo. Ma non lo avevano battezzato fidandosi di un messaggio trovato fra le fasce. Improvvisamente insorse un dubbio nella sua mente. Forse l´anonima madre prima di abbandonarlo non lo aveva battezzato, forse quel biglietto l´aveva scritto un ateo in vena di scherzi sacrileghi. Dunque quest´uomo che aveva consacrato altri sacerdoti forse non possedeva il requisito primo per potersi dire cristiano e non aveva trasmesso agli altri quello che credeva. Alla base del patto che la Chiesa stringeva coi suoi membri c´era la promessa di attingere ai tesori infiniti della grazia divina attraverso i canali dei sacramenti: canali, anzi veri e propri fiumi, come li rappresentarono fin dal Medioevo le immagini del sangue salvifico sgorgante dal corpo crocefisso di Gesù.
Sul modo di attingere a quei fiumi inesauribili la cultura ecclesiastica aveva calato regole precise, figlie del diritto romano e di quella speciale scienza del sacro che dominava il sapere, la teologia. Osservando quelle regole definite dai decreti del Concilio di Trento e tradotte in formule precise dal Rituale Romano di Paolo V si aveva la certezza dell´efficacia del sacramento, indipendentemente dalla disposizione soggettiva o dalle qualità morali di chi lo amministrava. La sua efficacia entrava in funzione nel ricevente e lo trasformava, così come – usando una immagine fisica forse più familiare alla nostra cultura di quelle elaborate per secoli dalla teologia - il trapianto di un organo modifica colui che lo riceve.
Sarebbe sbagliato però sottovalutare l´importanza di quei dubbi religiosi. Dalla loro soluzione dipendeva non solo la pace di coscienze inquiete ma anche la sorte di intere moltitudini. Gli ebrei convertiti e battezzati a forza in Portogallo e in Spagna, ad esempio, furono considerati veri cristiani a tutti gli effetti e, dopo qualche incertezza e qualche rinvio, furono trattati di conseguenza, per cui se li si trovava ancora dediti alle pratiche rituali ebraiche venivano considerati apostati e molto spesso condannati al rogo.
Dubbi del genere insorgevano anche molto spesso nella mente di missionari che avevano la responsabilità di intere popolazioni in terre non europee. Era facile sbagliare nell´uso della formula rituale del Battesimo che, tradotta in algonkino o in cinese, rischiava di assumere un significato diverso. E c´erano le complicazioni create dalla divisione religiosa europea. Un missionario francese del ‘600, nato da famiglia calvinista e convertitosi al cattolicesimo, scoprì un giorno che i genitori lo avevano battezzato con acqua di rose, non con l´acqua naturale benedetta che il rito cattolico esigeva. Era valido quel battesimo? E se non lo era che cosa si doveva pensare di tutti quei sacramenti che lui aveva amministrato? Aveva battezzato numerosissimi nuovi cristiani in terre di missione e celebrato tanti matrimoni, per non parlare delle infinite confessioni ascoltate. Tutti quei presunti cristiani erano rimasti pagani, i loro matrimoni erano concubinati, le loro anime erano attese all´inferno e loro non lo sapevano.
Davanti all´abisso di tante vite costruite sull´inganno involontario di una grazia che non era stata realmente trasmessa lo colse un senso di vertigine e cadde in una depressione che pervade le suppliche inviate alle autorità romane. Tante storie di come il mondo entrò allora nella comunità religiosa della Chiesa cattolica e la rese di fatto universale. Il nostro presente che si specchia in queste carte antiche può approfittarne per scoprire molti aspetti di se stesso e del suo mutamento. Non solo aspetti del vissuto religioso o delle dottrine teologiche ma anche di mutamenti più sottili e più profondi. Per indicarne uno, possiamo dire che c´è qui un segno importante di qualcosa che oggi, al di là della permanenza di chiese e di fedi e di sacramenti, è venuto meno: il valore delle parole.
La nostra cultura conosce le voragini amministrative e finanziarie che possono aprirsi quando si scopre una firma falsa. Ma non ha più nessuna percezione del valore che aveva la parola in tempi di culture orali, quando una stretta di mano e una promessa legavano più strettamente di qualunque vincolo materiale. Pensiamo al matrimonio, questo difficile contratto che aveva lungamente atteso un pieno riconoscimento nel sistema simbolico della vita religiosa. Anche la sistemazione cattolica tridentina della materia dovette fare perno sul valore della promessa pronunziata dai contraenti: rimase e fu ribadito il valore della parola pubblicamente pronunziata. Ma il rito dovette essere celebrato in chiesa davanti a un´autorità ecclesiastica e le parole dell´impegno assunto, unica base del matrimonio, dovettero lasciare traccia scritta in un registro parrocchiale. La vittoria piena dello scritto doveva seguire col tempo. Oggi è totale. È una involontaria ironia della storia che una legge elaborata per regolare impegni di convivenza e di affetto diversi dal matrimonio ufficiale prenda oggi in Italia il proprio nome dalla prima persona singolare del verbo "dire".
Repubblica 27.2.07
La gerarchia ecclesiastica e i cambiamenti della società
di Marco Politi
La sfida culturale è questa: evitare di ripiombare nel XXI secolo in guerre di partiti religiosi ognuno dei quali brandisce il nome di Dio per richieste "non negoziabili" Laddove la politica è negoziato, anche compromesso tra diverse visioni del mondo
Dice Ratzinger che la "fede in Italia è minacciata". Parole pesanti. Chiunque viaggi per l´Italia, assistendo ad una vitalità religiosa – gioiosa, che si esprime in mille rivoli nelle pieghe della società – fatica a riconoscersi in questa profezia
di Marco Politi
La sfida culturale è questa: evitare di ripiombare nel XXI secolo in guerre di partiti religiosi ognuno dei quali brandisce il nome di Dio per richieste "non negoziabili" Laddove la politica è negoziato, anche compromesso tra diverse visioni del mondo
Dice Ratzinger che la "fede in Italia è minacciata". Parole pesanti. Chiunque viaggi per l´Italia, assistendo ad una vitalità religiosa – gioiosa, che si esprime in mille rivoli nelle pieghe della società – fatica a riconoscersi in questa profezia
Se l´Italia è la trincea di Dio, allora ogni pressione, invadenza e ricatto della gerarchia ecclesiastica su Parlamento e governo diventano leciti. Se la famiglia rischia la rovina, allora è urgente negare il riconoscimento alle coppie di fatto. Se il rapporto naturale tra uomo e donna sta franando, allora è missione divina cancellare la pubblica accettazione del patto d´amore tra due partner gay.
Bisogna andare alle radici culturali dell´atteggiamento di Benedetto XVI per capire la durezza dello scontro in atto, che ha per posta la laicità dello Stato. O, per essere più semplici, il diritto dei cittadini tutti di farsi democraticamente le leggi senza attendere il timbro di un´autorità confessionale. Perché la sfida culturale è questa: evitare di ripiombare nel XXI secolo in guerre di partiti religiosi, ognuno dei quali brandisce il nome di Dio per richieste «non negoziabili». Laddove la politica è negoziato, confronto, anche compromesso tra diverse visioni del mondo.
Dice Ratzinger al clero romano che la «fede in Italia è minacciata». Parole pesanti. Chiunque viaggi per l´Italia, assistendo ad una vitalità religiosa – gioiosa, attivissima, che si esprime in mille rivoli nelle pieghe della società – fatica a riconoscersi in questa profezia. E qualsiasi osservatore straniero, che guardi al cattolicesimo italiano florido di associazioni, movimenti, gruppi, giornali, televisioni, scuole, università, ospedali, centri caritativi, e con un´istituzione ecclesiastica ben sostenuta dal bilancio statale, sbarrerebbe gli occhi dinanzi all´irreale allarme per una Chiesa minacciata.
Ma papa Ratzinger è ancora più pessimista. «Siamo di fronte ad una multiforme azione, tesa a scardinare le radici cristiane della civiltà occidentale», ha proclamato nel novembre scorso al congresso dei settimanali cattolici italiani. Sembra di risentire i «profeti di sventura» che Giovanni XXIII, aprendo il concilio Vaticano II, invitava sorridendo a lasciare da parte.
Corrisponde questo atteggiamento allo stato d´animo dei milioni di «cattolici quotidiani», che vanno a messa, si impegnano in parrocchia, pregano, riflettono su Dio e la propria esistenza e comunque, con minore o maggiore pratica, si sentono parte della comunità dei cristiani? No. Va detto con assoluta franchezza. Quando da alti pulpiti si sente risuonare minacciosamente «Non possumus», andrebbe subito domandato: non possumus chi?
Il cattolico quotidiano del Duemila vive tranquillamente accanto ai diversamente credenti, senza complessi da stato d´assedio, senza l´ossessione di imporre la propria visione. E tutta la questione delle convivenze di fatto e delle stesse coppie gay è vissuta da anni molto serenamente, pragmaticamente, con umana sensibilità dalla maggioranza degli italiani a qualunque credenza si richiamino. Perché una cosa è chiarissima: la vicenda delle unioni civili non è uno scontro tra cattolici e laici. Non è oggetto di una guerra tra fedi. Ciò che emerge è il gap tra la gerarchia ecclesiastica e la società italiana come è nella realtà.
Per i cattolici quotidiani, e gli altri, le coppie di fatto non sono un astratta drago rovina-famiglie. Sono i nostri figli, i nostri amici, spesso noi stessi. Uomini e donne in carne e ossa, senza ideologie, con la fatica dell´esistenza e il desiderio di essere un po´ felici. E le aborrite unioni gay le incontriamo a cena, sui posti di lavoro, nei luoghi dove passiamo le nostre vacanze. E sono normali cittadini e normali conviventi.
C´è un passo straordinario nella relazione che il presidente della Cei, cardinale Ruini, ha letto al consiglio permanente dei vescovi nel gennaio scorso: «Esaminando in concreto la realtà delle unioni di fatto, quelle tra persone di sesso diverso sono certamente in aumento». Si tratta di un milione di uomini e donne, giovani e adulti, di cui i cattolici sono la grande maggioranza. Stupefacente è il tono en passant con cui il porporato dà per scontata una rivoluzione profonda avvenuta negli ultimi trent´anni. Arrivare a questa cifra significa che centinaia di migliaia di figli della Chiesa non considerano una puttana la ragazza che ha rapporti prematrimoniali, non considerano vergognosi concubini due partner che vivono assieme, non considerano peccato gli anticoncezionali, il divorzio, le interruzioni di gravidanza (esattamente come milioni di altri credenti sposati in chiesa o in municipio). In altre parole hanno impostato la propria vita secondo regole diametralmente opposte a quelle ossessivamente indicate per decenni dalla gerarchia ecclesiastica. E ciò nondimeno continuano il loro dialogo con Dio, vanno a messa, e spesso si impegnano in iniziative ecclesiali.
Il problema, allora, non è la Chiesa, la comunità dei fedeli. Il problema è di una gerarchia ecclesiastica incapace di guardare con umanità ai problemi di una società in trasformazione, in cui la «famiglia» è radicalmente diversa da quella di cinquant´anni fa. Una gerarchia che pretende di rappresentare in politica i cittadini cattolici, che né esistenzialmente né politicamente hanno dato all´istituzione ecclesiastica un mandato del genere. Il paradosso, semmai, è che non tutti i vescovi condividono l´immagine di una società contemporanea «nemica» della Chiesa, mentre una serie di politici – per pura convenienza – scelgono la Cei invece dei cittadini.
Forse è l´ora di rivalutare la libertà delle coscienze, nel Parlamento e fuori. In Europa democristiani e socialisti, liberali e conservatori hanno da tempo risolto civilmente questi problemi.
Repubblica 27.2.07
La storia del luogo dove venivano deposti i bebè, legata a ospedali, chiese e tradizioni locali. Perché i figli illegittimi erano esclusi dalla società
Tutti i figli della "ruota", dal Medioevo a oggi
Firenze, 1445: la prima culla per gli abbandonati. Durò fino all´800, ora è tornata
Firenze, 1445: la prima culla per gli abbandonati. Durò fino all´800, ora è tornata
La notizia che oggi si possa di nuovo ricorrere alla "ruota" per deporvi un neonato fa pensare a una storia secolare che ha accompagnato da vicino quella degli ospedali in epoca medievale e moderna.
Celebre è l´ospedale degli Innocenti che si trova in Piazza Santissima Annunziata a Firenze. Fondato nel 1419 per accogliere l´infanzia abbandonata, fu uno dei primissimi orfanotrofi d´Europa. Il nome stesso dell´Ospedale si ispirò all´episodio biblico della Strage degli Innocenti, narrato nel Vangelo secondo Matteo: Erode, re della Giudea, ordinò un massacro di bambini allo scopo di uccidere Gesù, della cui nascita a Betlemme era stato informato dai Magi.
Il progetto per la costruzione dell´edificio fu affidato a Filippo Brunelleschi, che edificò uno dei più interessanti complessi edilizi dell´architettura rinascimentale. L´ospedale fu inaugurato nel 1445. I bambini venivano abbandonati in una specie di pila dell´acqua santa, posta alla destra del loggiato; nella seconda metà del secolo XVII la pila fu sostituita con una "rota", ossia una pietra girevole posta all´estremità opposta del loggiato. I bambini venivano allattati da balie esterne, scelte dall´Ospedale, il quale si preoccupava poi di trovare famiglie dei dintorni - per lo più contadine - che li allevassero dietro compenso. L´Ospedale era responsabile della loro tutela fisica e morale fino all´età di 18 anni per i maschi. Alle femmine l´Ospedale offriva ospitalità fino al matrimonio e poteva provvedere anche alla loro dote.
A Firenze, la "ruota" - così come era stata elaborata nel Quattrocento - rimase in uso per secoli, almeno fino alla metà dell´Ottocento. Così fu anche in quasi tutte le regioni d´Italia. Ad Aversa, ad esempio, la "ruota" esistente nell´ospedale della Real Casa Santa dell´Annunziata fu chiusa il 12 febbraio 1881. A Napoli era già stata chiusa qualche anno prima, il 27 giugno 1875. Anche ad Aversa, i neonati venivano introdotti in un cilindro di legno - detto "il torno" - ed erano poi accolti all´interno dello stabile.
I bambini abbandonati venivano chiamati "gettatelli", ma in altre regioni d´Italia, come a Roma, prendevano il nome di "Proietti"; in Toscana e in Umbria, potevano essere chiamati invece "Diotiguardi" e "Diotiallevi". O più generalmente con il cognome di "Esposito".
L´esposizione dei bambini aveva cause molteplici, a seconda dei periodi. Certo è che, dal Cinquecento in poi e con la Controriforma, l´abitudine di abbandonare i bambini dipese anche dal fatto che - contrariamente a quanto era avvenuto nel Medioevo - i figli illegittimi venivano ritenuti illegali e perciò esclusi dalla società. Abbandonare il proprio figlio ad un´opera pia, ad un ospedale provvisto di una ‘ruota´, serviva, paradossalmente, ad assicurargli un avvenire.
Per quasi mezzo millennio, dunque, la società europea, in Italia, ma anche nel resto dell´Europa, si organizzò per accogliere i bambini che la società voleva abbandonare - se non addirittura "gettare" - per i motivi più diversi. Gli storici hanno a buon ragione parlato di una vera e propria ‘strage degli Innocenti´, con esplicito riferimento al racconto biblico.
È interessante notare che le fondazioni dei primi Ospedali degli Innocenti risalgono ai primi decenni del Quattrocento. Quell´intero secolo è del resto contrassegnato da fondazioni di case pie o di ospedali per bambini esposti, in quasi tutta l´Europa, soprattutto in Italia. Le ragioni di un fenomeno così ampio, e anche ben documentato, sono anzitutto di carattere demografico e sociale. All´inizio del Quattrocento, l´Europa esce da una delle più gravi crisi demografiche della sua storia. La Grande Peste decimò negli anni 1347-1349 un terzo della popolazione europea. Erano quasi otto secoli che l´Europa non aveva conosciuto epidimie di peste. La Peste di Giustiniano apparteneva al lontano VI secolo! Ma la Peste Nera del 1348 non fu un avvenimento isolato. Già 1360, l´Europa subì un secondo assalto epidemico, e da allora fu un susseguirsi di epidemie fino all´inizio del Settecento.
La crisi demografica della seconda metà del Trecento provocò, in modo certo inatteso e tragico, un rinnovato spettacolare interesse per l´infanzia e per la famiglia, le cui radici storiche risalgono però all´inizio del secolo precedente. È il periodo in cui nasce un nuovo culto, quello di san Giuseppe, un personaggio che è praticamente assente nell´Alto e basso Medioevo dalla storia della spiritualità europea. Con l´inizio del Trecento, il culto di san Giuseppe - di cui il Pavese Opicino de´ Canistri ci offre un disegno già intorno al 1330 - incontra un sempre più largo interesse. Il culto di s. Giuseppe preannuncia quello della "santa famiglia", che diventerà intorno al 1500 - pensiamo a Raffaello - uno dei grandi temi dell´arte rinascimentale.
Dal Quattrocento in poi, la società seppe rivolgere uno sguardo nuovo, più attento e articolato, nei confronti dell´infanzia e della gioventù. Persino la storia di ospedali più antichi, come quello di Santo Spirito in Sassia, fondato all´inizio del Duecento da Innocenzo III per viandanti e pellegrini, fu riscritta intorno al 1475, sulla base di una vera e propria "leggenda": Innocenzo III avrebbe fondato l´ospedale di S. Spirito per salvare i bambini che gente scellerata usava gettare nel Tevere. E per raccontare questa "storia di fondazione", Sisto IV dotò l´Ospedale di una stupenda serie di affreschi, che si può ancor oggi ammirare.
Anche nei secoli precedenti, la Chiesa medievale aveva lottato con forza per la protezione dell´infanzia, in particolare contro l´infancidio che fu una delle grandi piaghe sociali dell´Alto Medio Evo. Si trattava spesso di infanticidi involontari, lo dicono anche i sinodi, perché genitori, dormendo con i propri neonati per mancanza di spazio e per la rarità dei letti, correvano il rischio di soffocarli.
il manifesto 27.2.07
Dico, la storia si ripete
di Ida Dominijanni
Il cardinal Andreotti s'è messo tranquillo leggendo i dodici punti di Prodi e ha deciso che quasi quasi, dopo averlo fatto cadere, stavolta lo vota: visto che i Dico sono scomparsi, «e questo è condivisibile», sarà bene lavorare per la stabilità di governo, dato che con la guerra in Iran alle porte la situazione internazionale sta diventando delicata. Pare di sognare: la situazione internazionale era delicata pure una settimana fa, ma siccome alle porte c'erano i Dico il governo poteva andare a farsi benedire, e il cardinal Andreotti ce l'ha mandato bocciandolo giusto sulla politica estera. Ma ci tiene a precisare che non l'ha fatto su comando del Vaticano: «C'è stata una coincidenza obiettiva tra la mia posizione e quella delle gerarchie ecclesiastiche. Non c'era bisogno che me lo ricordasse il Sant'Uffizio come dovevo comportarmi». E chi potrebbe dubitarne? Semmai sarà stato lui a dare la linea al Sant'Uffizio.
Cose da paese anormale, che sarà bene non archiviare come i Dico medesimi che invece saranno archiviati di sicuro. Accade altrove, vedasi la Spagna di Zapatero, che i governi progressisti, non avendo le risorse necessarie per fare qualcosa di sinistra nelle politiche sociali, si sbilancino sul fronte dei diritti di libertà, e ne ricevano in cambio ampi consensi. In Italia un governo progressista dev'essere moderato sull'uno e sull'altro fronte, se no i cardinali, prelati e laici, lo fanno cadere. Questa è la condizione nonché la storia nazionale, che suggerisce qualche correzione al dibattito corrente sui rapporti fra sinistra moderata e sinistra radicale, nel quale dibattito sembra sempre che ci sia una sinistra moderata che vuole fare tante ragionevoli riforme e una sinistra radicale che glielo impedisce col suo massimalismo. Quando invece è vero l'inverso: in un paese anormale com'è l'Italia, per avere il divorzio e lo statuto dei lavoratori, due riforme ragionevolissime, c'è voluto il Sessantotto e ha rischiato pure di non bastare. Senza la pressione di una sinistra radicale, sociale più che istituzionale, e magari in grado di premere con più creatività e intelligenza di quanto non faccia quella attuale, la strada del riformismo in Italia non sarebbe più liscia: sarebbe semplicemente barrata.
Quanti consensi costerà al governo Prodi l'archiviazione dei Dico? Sono misurazioni difficili da fare, per partiti ormai privi di sensori verso il mutamento sociale. Ma anche qui la storia insegna: nel lontano 1974 larga parte del Pci diffidava del voto femminile al referendum sul divorzio, eppure eravamo già in pieno femminismo. Oggi, cedere all'omofobia cattolica significa oltretuttodimenticarsi che i Dico riguardano, oltre agli omosessuali, moltissime convivenze eterosessuali, ovvero la forma maggioritaria che la famiglia sta assumendo in occidente. Con il che la questione della crisi arriva al punto da cui dovrebbe partire, quello del rapporto fra la classe politica di centrosinistra e la società italiana. E qui si arena, nel buio della rappresentazione prima che della rappresentanza.
(...)
il manifesto 27.2.07
Lungo il cammino dell'utopia rivoluzionaria
Un libro di Antonio Ghirelli titolato «Aspettando la rivoluzione. Cento anni di sinistra italiana» uscito per la Mondadori
di Valentino Parlato
Aspettando la rivoluzione, di Antonio Ghirelli è un libro di straordinaria utilità (dico utilità) in questa brutta e lutulenta stagione nella quale gli ideali si riducono a interessi o si esasperano nella disperazione autolesionista. Antonio Ghirelli, che è duttile e tenace compagno, un socialista di qualità in poco meno di duecentocinquanta pagine ci racconta - senza distacco «scientifico», ma con partecipazione umana - cento anni di storia della sinistra italiana.
A cominciare dagli anarchici, da quello straordinario e tragico personaggio che fu Carlo Cafiero, dalla banda del Matese, e poi ancora ad Andrea Costa, a Filippo Turati (forse il più intelligente protagonista del socialismo italiano), fino a Pietro Nenni e ai sui incontri con Benito Mussolini.
Il leit motiv è l'attesa della rivoluzione, sempre aspettata e sempre rinviata. Il che potrebbe costituire la vera sostanza della rivoluzione («il movimento è tutto» aveva detto qualcuno), ma nel libro c'è l'amarezza dell'attesa sempre prolungata e anche il rovello del perché. Perché la rivoluzione, più precisamente la trasformazione della società, la conquista dell'eguaglianza e della libertà non è stata possibile. Perché i capitalisti continuano a comandare, perché il capitalismo impone i suoi meccanismi anche in Cina, dove ci sarebbe un potere comunista e dove una rivoluzione indubbiamente c'è stata?
Franco Rodano scriveva che il capitalismo era il nuovo Proteo, capace di cambiare continuamente di forma tanto da essere inafferrabile. Rodano, con intelligenza, era un po' fatalista e ci diceva che se continuiamo ancora ad aspettare la rivoluzione non è tanto colpa nostra, quanto piuttosto merito del Proteo-Capitalismo. Antonio Ghirelli, forse meno fatalista e più fiducioso, sta attento agli errori e ai limiti di tutti quelli, che, come noi, aspettavamo e aspettano ancora la rivoluzione.
Piero Craveri nella sua recensione, sul Sole 24 Ore di domenica 11 febbraio, individua la causa della vana attesa «nell'irriducibile contrasto interno alla sinistra tra la sua componente riformista e quella più radicale». Certo, nella narrazione di Ghirelli, che è piena di riferimenti storici approfonditi, questo contrasto è messo in evidenza molto bene, ma resta - a mio parere - un interrogativo. Perché in Italia ci sono state più riforme nella situazione descritta da Craveri, che non nei tempi di trionfante riformismo?
Certo, aspettavamo la rivoluzione, ma nel frattempo quante riforme ha prodotto la pressione del Pci, che poi, quasi sempre, votava no? Giorgio Amendola, per il quale io ero un ragazzo di bottega, cercò (con successo) di spiegarmelo. Il Pci votò contro la Cassa del Mezzogiorno, ma senza le lotte del Pci la Cassa del Mezzogiorno non ci sarebbe stata. E così l'Iri e addirittura il ministero per la programmazione con Antonio Giolitti, e i patti agrari e l'equo canone e il Piano del lavoro della Cgil di Di Vittorio e poi ancora lo Statuto dei lavoratori di Gino Giugni, che, certo, fu gambizzato dai «rivoluzionari».
Tutto questo per dire che, certo, il contrasto tra riformisti e rivoluzionari non è buono, ma ancora peggio stanno le cose quando si scende al riformismo debole, oppure - anche con qualche buona intenzione - (penso al ministro Bersani) al riformismo liberale, quello che dice di volere liberare il mercato dai vincoli corporativi.
Il punto è che oggi non c'è più contrasto tra riformisti e rivoluzionari, c'è la morta gora e c'è (Antonio Ghirelli consentirà) un tale impoverimento e corporativizzazione della politica che i contrasti del passato tra riformisti e rivoluzionari ci sembrano un motore da Ferrari.
Il libro di Ghirelli è - lo ripeto - ottimo e di grande utilità per chi lo legga, ma non condivido affatto l'ultima frase: «La ragione profonda della crisi sta, tuttavia, nell'incertezza in cui si dibatte la sinistra tra il richiamo alla vecchia cultura del movimento, compresi naturalmente i rancori e i risentimenti del passato, e l'esigenza di misurarsi con la nuova società e il suo incontenibile dinamismo».
Dove Ghirelli vede questo dinamismo non lo so, ma lui che è un vecchio e serio compagno, proprio nei giorni scorsi sul Riformista ha scritto un articolo dal titolo «Saremo il primo paese senza socialisti?». Appunto. È l'incontenibile dinamismo.
Repubblica Bologna 27.2.07
Un libro di Roberta Passione rivaluta la figura dello scienziato che negli anni Trenta sviluppò questa terapia
Il medico che inventò l'elettroshock
Vita e opere del dottor Cerletti: un progressista, altroché barbaro
di Massimiliano Panerari
Ci sono pagine della storia della scienza – e, in particolare, di quella medica – che valgono un libro di narrativa, ben più avvincenti di quei reality che tengono incollati gli italiani alla televisione.
Un volume uscito da poco ripropone alcune pagine scritte direttamente da un oggi quasi misconosciuto protagonista della medicina italiana, che ebbe notevole (e contestatissima) notorietà. Stiamo parlando di Ugo Cerletti, il cui nome è associato all´invenzione dell´elettroshock, una terapia che ci fa (giustamente) inorridire e urta la nostra sensibilità, ma che lo psichiatra e fisiologo romano (nato nel 1877), di sentimenti politici nettamente progressisti, concepì all´insegna di una valenza – cosa che agli occhi odierni risulta quasi paradossale – per così dire "umanitaria".
A raccogliere gli scritti del medico, restituendogli direttamente la voce, nel libro "Ugo Cerletti. Scritti sull´elettroshock" (Franco Angeli, pp. 234, euro 20), è una giovane (classe ´73) ricercatrice dell´università milanese della Bicocca, Roberta Passione, bolognese adottiva di residenza e, soprattutto, di studi, essendo allieva di una delle maggiori storiche italiane della psichiatria, Valeria Babini, che l´ha indirizzata verso questo pista di ricerca (destinata a un´altra puntata importante tra qualche mese, quando uscirà per i tipi di Aliberti, nella collana di Studi universitari, la prima biografia completa di questo personaggio).
Dagli scritti raccolti (riferiti al periodo 1940-1952 e pubblicati sulla "Rivista sperimentale di freniatria", il neurologo non appare affatto lo "scienziato pazzo" o il Mengele che certuni hanno tentato di descrivere, bensì uno studioso serio e scrupoloso intenzionato a trovare nuovi rimedi per il trattamento della schizofrenia. Nel solco del filone materialista delle scienze biologiche e della vita inaugurato nel nostro paese dal grande scienziato olandese Jacob Moleschott, e quale allievo di Augusto Tamburini (il vate della psichiatria positivistica italiana, che aveva operato anche nel manicomio di Reggio Emilia), Cerletti si pone una serie di quesiti sulla localizzazione della coscienza (in un anticipo quasi delle scienze cognitive ora tanto à la page). Giungendo, così, nel 1938 (dopo ripetute sperimentazioni sul cervello di cavie animali), a mettere a punto l´elettroshock per superare le precedenti (e devastanti per il paziente) terapie di shock malarico, insulinico e cardiazolico (fondata, quest´ultima, su un derivato sintetico della canfora). Insomma, non un dottor Stranamore, e men che meno un "mostro sadico", ma uno scienziato tardopositivista alla ricerca di nuove strade per la cura di quella che veniva considerata una malattia incurabile e "perduta".
Liberazione 27,2,07
Ascoltate Andreotti e capirete. Il pogrom mediatico contro la sinistra
di Andrea Colombo
Il senatore Giulio Andreotti ci tiene alla chiarezza. Vuole che tutti capiscano perché il governo Prodi è stato sconfitto nel celebre mercoledì delle ceneri, e per esserne ben certo lo ha ripetuto a tutti e tre i principali giornali italiani contemporaneamente. Tre interviste decisamente non esclusive al “Corriere” a “Repubblica” e alla “Stampa” per un concetto solo: il suo voto è stato contro i Dico, non contro la politica estera. E’ lecito sospettare che a motivare il voto gemello del senatore Pininfarina siano state questioni a loro volta prive d’attinenza con lo scacchiere internazionale.
La triplice intervista del senatore a vita è una meritoria operazione di chiarezza. C’è il caso che apra gli occhi persino ai direttori e agli editorialisti dei medesimi quotidiani. Non lo sapremo mai. Se anche scoprissero, gli inesperti, che la sconfitta del governo non è stata determinata dalla politica estera né provocata dall’ala sinistra della coalizione e neppure da quei due ”dissidenti”, farebbero finta di niente e continuerebbero a puntare l’indice sull’irresponsabilità massimalista. Conoscono la comunicazione, ci si muovono come squali nell’acqua. Sanno perfettamente che qualsiasi bugia diventa verità, se ripetuta un sufficiente numero di volte e da un sufficiente numero di voci. E in questo caso il coro è addirittura unanime.
Però la canzone che intona resta falsa. Con o senza il voto di Franco Turigliatto e Nando Rossi il governo sarebbe stato sconfitto. A tirarlo a fondo non sono stati i dubbi afghani e vicentini della sinistra d’alternativa, ma quelli ispirati da cattolicissime coscienze. Il dibattito sulla politica estera è stato solo circostanza ideale per il colpo di mano. E persino quell’occasione ghiotta non era stata determinata dalla fantasie barricadiere della sinistra ma dall’allegro dissenso di un manipolo di austeri senatori centristi. Gente quadrata: Lamberto Dini, Sergio Zavoli, Andrea Manzella.
Gli articoli e le dichiarazioni rilasciate da uno stuolo di leader politici in questi giorni andrebbero consegnate in blocco agli esperti della comunicazione più che agli osservatori politici. Costituiscono un modello senza precedenti e forse impareggiabile di pogrom mediatico. Cosacchi e shtetl incendiate a parte, le regole del pogrom sono state rispettate tutte, con certosina cura. Il nemico era stato indicato con larghissimo anticipo, gli animi riscaldati a dovere per mesi. Il capo d’accusa principale non era questo o quel comportamento ma l’esistenza stessa del “nemico” in questione. La sinistra, appunto.
Il casus belli, nello specifico il “non voto” dei due ormai famosissimi senatori, è stato colto con tempismo ammirevole e meno encomiabile cinismo. Al resto hanno pensato gli editoriali menzogneri, le trasmissioni televisive trasformate in processi pubblici, l’indignazione posticcia dei leader politici e quella sincera (ma infondata e provocata ad arte) della gente, i furori da commedia dell’arte.
Come in ogni pogrom degno del nome, l’apparente irrazionalità cela un disegno freddo e perseguito da tempo: mettere una volta per tutte a tacere l’ala sinistra della coalizione, eliminare, o mettere in condizioni di non nuocere, quelle forze che alcuni, all’interno dell’Unione, non hanno mai smesso di considerare “nemici interni”.
Che il disegno sia questo è palese: nasconderselo sarebbe ipocrita, così come negare l’oggettiva difficoltà del momento. Se la manovra raggiungerà l’obiettivo è impossibile prevederlo. In compenso è facile prevedere quali sarebbero le conseguenze qualora un progetto tanto miope e distante dalla realtà avesse successo. Se la sinistra d’alternativa finisse messa all’angolo e ridotta all’impotenza, l’Unione perderebbe gli ultimi legami con le sue radici vitali. La frattura con la sua base sociale, e anche elettorale, diventerebbe insanabile.
Perché con tutta la sua astuzia apparente, il pogrom di questi giorni è conseguenza di una colpevole miopia politica: la convinzione che a ostacolare la marcia dell’Unione e a danneggiarla nei consensi siano state le resistenze della sua ala sinistra, e non, come capirebbe chiunque si decidesse a circolare a piedi o in autobus, il contrario, il freno opposto a ogni tentativo di innovazione reale e non solo parolaio. Non è un errore nuovo, è vero. Ma perseverare è pur sempre diabolico.