mercoledì 28 febbraio 2007

l’Unità 28.2.07
Il fascino delle Ninfe
bellezze in fuga
di Alessandro Stavru


LE FIGLIE DI ZEUS fanciulle dell’acqua e della natura, tornano ad affascinare gli studiosi, soprattutto i filosofi. Da Giorgio Agamben a Susanna Mati, nuovi saggi riprendono a indagare sulla natura misteriosa e doppia di queste creature

Da leggere:
C’è, in questo periodo, un ritorno di fiamma del fascino delle ninfe, almeno per la filosofia. Freschi di stampa, infatti sono: Ninfe (Bollati Boringhieri, pp. 57, euro 6,50) in cui Giorgio Agamben indaga su queste figure che sono una delle chiavi più ricche per penetrare la mitologia degli antichi e il rapporto tra Anima e Sessualità, e Ninfa in labirinto di Susanna Mati (Moretti&Vitali, pp. 145, euro 16). Tra i testi «classici», ricordiamo: Jennifer Larson, Greek Nymphs, Oxford University Press, Oxford/New York; Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna, Il Saggiatore; Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi; Walter F. Otto, Le Muse, Fazi.

«Nove generazioni di uomini nel fiore degli anni vive la gracchiante cornacchia; il cervo quattro volte più della cornacchia, il corvo invecchia dopo tre vite del cervo; ma la fenice dopo nove del corvo. E noi, Ninfe dalle belle chiome, figlie di Zeus e gioco, viviamo dieci volte più della fenice». Queste parole, tramandate da Esiodo e pronunciate da una Ninfa, sollevano uno dei più spinosi problemi della mitologia classica: sono le Ninfe eterne, e dunque divinità in senso pieno, oppure mortali, e pertanto esseri demoniaci? A questa domanda non è possibile dare una risposta univoca, dato che le Ninfe venivano venerate in innumerevoli culti, disseminati su tutto il suolo greco. Ogni luogo della natura selvatica era abitato da Ninfe: i monti dalle Oreadi, i boschi dalle Alseidi, i prati dalle Leimoniadi, le valli dalle Napee, i laghi e gli stagni dalle Limniadi, le sorgenti dalle Naiadi, le piante dalle Driadi, il mare dalle Nereidi, il cielo dalle Pleiadi. In virtù di questa loro infinita pluralità, le Ninfe non possedevano un nome proprio, se non quello che mutuavano dalla sorgente, dallo stagno o dall’albero cui davano vita. Sintomatico è il caso delle Amadriadi, letteralmente «coloro che vivono quanto gli alberi»: cessano di vivere nel momento in cui muore la pianta che abitano.
Corteggiate da dei e uomini, le Ninfe sono di una bellezza irresistibile. Al loro fascino soggiacciono Zeus, Apollo, Dioniso, Hermes e Poseidone, ma anche innumerevoli eroi. L’esempio più celebre è quello di Odisseo, tenuto prigioniero per oltre dieci anni da Circe e da Calipso. Significativo è anche il racconto di Dafne, che per sfuggire alle avances di Apollo si trasformò in alloro. Oppure la storia di Clizia, amata dal dio del sole Helios e poi miseramente abbandonata: incapace di rassegnarsi, fissò per nove giorni l’oggetto del suo desiderio, finché, consunta d’inedia e dolore, fu mutata nel girasole.
Come scrive Walter F. Otto, la bellezza fa parte dell’essenza delle Ninfe poiché «è frutto del silenzio in quanto perfezione... all’occhio devoto il silenzio si palesa proprio attraverso la bellezza». Si tratta di un silenzio sublime, di un «tacere primordiale» che paradossalmente si esprime attraverso la musica. Di qui i canti e le danze che accompagnano le Ninfe in ogni momento della loro esistenza. Altre attività che le caratterizzano sono la caccia, la guarigione e l’educazione (accudirono nientemeno che Zeus, Apollo e Dioniso). Al pari delle celebri Moire, le Ninfe sono inoltre divinità tessitrici. Adornate di magnifici pepli, stendono un velo che congiunge i destini umani a quelli divini. Sorvegliano l’ordito del velo nuziale e proteggono le nozze femminili. Infatti il termine nymphe definisce la fanciulla, la vergine o la donna pronta al matrimonio. È imparentato con il verbo latino nubere, «prendere marito» (da cui la nostra «nubile»).
L’etimologia più significativa della Ninfa rinvia però a un’altra dimensione. Numphe significa infatti anche «fonte» o «acqua sorgiva». L’equivalente sostantivo latino lympha, e soprattutto l’aggettivo lymphaticus («folle») rivelano l’autentica natura del liquido ninfale. Si tratta, scrive Salustio, di un principio cosmico generativo: «le Ninfe sono preposte alla generazione, giacché tutto ciò che è generato è in flusso». Di qui l’analogia tra le Ninfe e le anime che si ritrova in Plotino e in Porfirio. Ma di qui, soprattutto, la follia delle Ninfe. Coloro che abitavano nei dintorni degli antri delle Ninfe erano detti nympholeptoi, «posseduti dalle Ninfe». Erano «ebbri per ispirazione di un essere divino», dice Aristotele. Nel possederli, la Ninfa, li metteva in rapporto con un sapere di superiore provenienza, in virtù del quale diventavano parte integrante del divino. Scrive in proposito Roberto Calasso che «per i Greci, la possessione fu una forma primaria della conoscenza, nata molto prima dei filosofi... Tutta la psicologia omerica, degli uomini e degli dei, è attraversata dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme, profili».
Le Ninfe presiedono a ogni divina possessione, prima fra tutte quella erotica. Racconta a questo proposito Pindaro che Afrodite portò agli uomini l’«uccello delirante» Inyx, dal quale ebbe origine il desiderio sessuale; ma Inyx altri non era che una splendida Ninfa, trasformata in uccello da Hera per aver offerto un filtro d’amore a Zeus. Anche la possessione filosofica era connessa alle Ninfe: in un celebre passo del Fedro, Socrate confessa di essere «posseduto dalle Ninfe», e ad esse decide di rivolgere una preghiera alla fine del dialogo. Come nota Calasso, in questo caso «la Ninfa è la materia mentale che fa agire e che subisce l’incantamento»; infatti, «il delirio suscitato dalle Ninfe nasce dall’acqua e da un corpo che ne emerge, così come l’immagine mentale affiora dal continuo della coscienza». Fonte di sublime ispirazione, l’acqua delle Ninfe è però anche estremamente pericolosa. I suoi effetti nefasti si abbattono sul bellissimo Ila, l’amante di Eracle che, sbarcato a Kios con la spedizione degli Argonauti in una notte di luna piena e allontanatosi per cercare dell’acqua, viene trascinato sott’acqua dalle fatali Ninfe.
Questo aspetto terribile delle Ninfe spiega perché nel Medioevo esse furono relegate ai margini dell’immaginario collettivo, se non addirittura scambiate con le streghe o altre entità demoniache. Dopo secoli di oblio, nel Rinascimento tornarono alla ribalta soprattutto con Dante, le cui «Ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni» segnano un momento di svolta importante. La leggerezza della Ninfa dantesca esprime infatti quel che Aby Warburg chiamerà il «gesto vivo» dell’antichità pagana. Un gesto che nella Nascita di San Giovanni Battista del Ghirlandaio si esprime nell’elegante movimento del drappeggio e dei capelli della Ninfa, agitati da una «brezza immaginaria» invisibile nel resto dell’affresco. È questo dolce tremito a far rivivere il mondo antico nella Firenze di Lorenzo de’ Medici: «Queste Ninfe ed altre genti sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza».
La dimensione dantesca subisce un brusco capovolgimento in Boccaccio, nel quale le Ninfe si fanno pura carnalità, oggetto di un amore profano e caduco: «le Ninfe Castalide, alle quali queste malvagie femine si vogliono assomigliare, non t’abbandoneranno già mai... è a loro grado il potere stare, andare e usare teco». Nasce qui la ninfa dei giorni nostri, simbolo di misoginia e fatuità erotica. L’abiezione della «femina» dà luogo a un materialismo senza speranza. E a poco vale la preghiera che Boccaccio rivolge alle divinità in fuga: «O Ninfa, non te ne gire, ferma il piè, ninfa, sovra la campagna, ch’io non ti seguo per farti morire!». Come scrive Eliot, «le Ninfe sono ormai dipartite».

l’Unità 28.2.07
Sì di Londra agli esperimenti su embrioni uomo-animale
Blair era intenzionato a dire no ma gli scienziati hanno protestato: importanti per arrivare alla cura di gravi malattie
di Pietro Greco


IL GOVERNO INGLESE sarebbe intenzionato a consentire la sperimentazione dei cosiddetti «embrioni chimera», ovvero la creazione per motivi di ricerca di cellule embrionali in cui il nucleo è umano e il citoplasma è di mucca o di coniglio. Lo annuncia il giornale londinese Times, che a inizio febbraio aveva ospitato una lettera con cui 45 fra scienziati, compresi tre premi Nobel, bioeticisti e politici chiedevano per l'appunto la rimozione di ogni divieto. La lettera privata si era aggiunta alle proteste ufficiali di alcune istituzioni scientifiche, tra cui Human Genetics Commission, ovvero la commissione tecnica che consiglia il governo inglese sui temi genetici.
Tutti partono dall'idea che la clonazione per trasferimento di nucleo possa diventare una fonte di cellule staminali embrionali, che a loro volta potrebbero un giorno essere utilizzate nella lotta a gravi malattie degenerative. Si tratta, insomma, di una pista di ricerca, importante, ma dagli esiti non scontati. Il fatto è che la clonazione ha bisogno di cellule uovo capace di accogliere il nucleo di un'altra cellula e iniziare un percorso di sviluppo che i biologi chiamano ontogenetico e che noi possiamo definire di crescita di un individuo. Nei primi stadi di questo sviluppo, si formano le cellule staminali embrionali. La ricerca presenta ancora molti nodi da sciogliere. E uno dei principali è la carenza di cellule uovo. Ottenerne in gran quantità significa chiedere ad alcune donne di sottoporsi a poco piacevoli cure ormonali. Di qui l'idea: usiamo cellule uovo di animali. Quelle di mucca o di coniglio sembrano le più indicate. Questo hanno chiesto, tempo fa, molti scienziati inglesi al governo di Sua Maestà. Ottenendo in cambio una risposta interlocutoria. Il governo era intenzionato a rispondere solo nel prossimo autunno, e l'orientamento era per il no. I sondaggi sembravano indicare una sorta di repulsione da parte del pubblico.
Ma i 45 estensori della lettera al Times di inizio febbraio hanno fatto notare che il campione interrogato non era rappresentativo degli inglesi, ma solo di alcune comunità religiose. E che il no si sarebbe trasformato in un serio pregiudizio per le ricerche degli scienziati inglesi. Di qui l'inatteso cambiamento di parere. Il governo autorizzerà la creazione di «embrioni chimere», sotto il controllo e i vincoli dell'autorità britannica per la fertilizzazione umana e l'embriologia. I primi a beneficiarne saranno, con ogni probabilità, gli scienziati del King's College e del North East England Stem Cell Institute (Nesci). La comunità scientifica e quella dei bioeticisti sono divise su questo specifico argomento. Alcuni scienziati fanno notare che l'embrione chimera conterrà al 99% genoma umano, ma avrà circa l'1% di genoma animale, sotto forma di Dna mitocondriale, che si trasmette solo per linea materna. E contro questa eventualità giocano due precauzioni scientifiche. Non mescolare in generale molecole biologiche umane e animali e, in particolare il Dna, a causa di possibili effetti non conosciuti. Altri scienziati sostengono che non ci sono prove di rischi particolari. E quindi, per scopi di ricerca, gli «embrioni chimera» possono essere realizzati. Anche da un punto di vista bioetico le posizioni sono speculari. Da un lato c'è chi - come i bioeticisti cattolici - vedono in questa concessione un nuovo attacco all'intangibilità dell'uomo e della sua costituzione genetica. E dall'altro c'è chi sostiene che i rischi minimi vadano corsi perché in gioco (sia pure in prospettiva) c'è la salute di milioni di persone.

l’Unità 28.2.07
Poesie civili in cerca di una polis
di Francesca De Sanctis


IL LIBRO Pietro Ingrao, Walter Veltroni e Valerio Magrelli hanno presentato ieri a Roma la raccolta di versi di Pietro Spataro: drammi e passioni del nostro tempo

Per un attimo il tempo sembra aver fatto un improvviso passo indietro nella lunga e gloriosa storia de l’Unità. Come i passi di un gambero, pare che il conto alla rovescia si sia fermato agli anni ’92-96. Redattori, tipografi, grafici, perfino quasi l’intero ufficio centrale dei redattori capo de l’Unità 2 ieri pomeriggio si sono dati appuntamento nella Sala Pietro da Cortona in Campidoglio (Roma). Davanti ad un tavolo siede l’attuale vicedirettore vicario di questo giornale, Pietro Spataro, stavolta in veste di poeta. E da quel tavolo, infatti, i relatori parlano della sua seconda raccolta appena pubblicata dalla casa editrice Manni: Cercando una città (pagine 121, euro 13,00).
Curioso che tra di loro ci sia l’allora direttore de l’Unità, Walter Veltroni, oggi sindaco della città, e Valerio Magrelli, firma storica del giornale. Ci sono anche l’autrice Piera Mattei e Pietro Ingrao, che firma anche l’introduzione al libro di Spataro. «Per questo - dice - non ero molto sicuro di voler partecipare a questa presentazione, ho già scritto quello che penso». Poi però inizia il suo dialogo, a tratti rivolto solo all’autore del libro, con il quale parla sottovoce, quasi alla ricerca di una conferma prima di condividere con la platea i suoi pensieri. «È un libro drammatico - dice senza esitare - e a volte non proprio all’altezza della tensione interiore. In alcuni versi è come se Pietro tirasse un freno, per prendere fiato». Spataro lo guarda dritto negli occhi, non dice nulla, mentre le sue dita continuano a giocherellare con una penna.
Poi Ingrao si rivolge a Magrelli, che siede «alla sua sinistra: materiale intendo», mette subito in chiaro. «La parte del libro che più mi ha trascinato è quella che va verso la conclusione tragica del tempo esaminato». Per Magrelli in Cercando una città c’è la stessa tensione che aveva trovato nella prima raccolta di Spataro, Al posto della cometa, «in questo caso però il libro si apre alle poesie civili, dove convivono il pubblico e il privato. E come si intuisce dal titolo stesso una città reale e ideale si intrecciano». Ed è così in tutto il volume.
Cartografie, mestieri (dal falegname all’elettricista, dall’operaio al muratore; bellissima la poesia Uno in più che recita «Da oggi sei un esubero quindi / non sarai più esuberante»), volti del passato e del presente (Pintor, Berlinguer, Luzi, Che Guevara...), viaggi, tragedie del mondo. «Mentre stavo raggiungendo questa sala ho ricevuto un sms di un’agenzia che diceva: “In Iraq una bomba uccide 18 ragazzini” - racconta Veltroni - e ho pensato al verso di Spataro “non sa la bomba l’indirizzo giusto”». L’autore ne approfitta per ingraziarlo di essere «portatore di un’idea politica ancora in grado di muovere le passioni di uomini e donne». Quel verso tratto dalla poesia intitolata Il pensiero della bomba piace a molti in quella sala, Ingrao compreso. Più voci rileggono la poesia, anche Paola Pitagora che ha accompagnato la presentazione del libro con le sue letture insieme al violino di Giovanni Bruno Galvani. Quella bomba che «non sa dove abita la vita» e «inerte porta morte» continua a cadere, ma un segno di speranza nel libro c’è: ancora si può continuare a cercare.

Repubblica 28.2.07
Il Paese della follia
di Filippo Ceccarelli


Per il "Financial Times" l'Italia è, nella Ue, maglia nera della salute mentale
Dominano isterie da talk-show ed esibizionismi. Neanche il sesso è più materia riservata
Berlusconi è solito scaldare i fans urlando: "Sono un visionario, vi piaccio così?"
Da Prodi a D´Alema, sempre più spesso i politici sbottano: "Ma siamo matti..."

Roba da matti, appunto. La crisi di governo, e un po´ anche la sua soluzione, come il segno, lo specchio, la conseguenza di un più generale disagio psichico. Di un impazzimento, per metterla giù dura. La novità degli ultimissimi tempi è che questa possibile interpretazione comincia a circolare anche all´estero.
«Sir», ha scritto l´altro giorno al direttore del Financial Times il professor Andrew Oswald, economista dell´università di Warwick, è giusto mettere l´accento sui problemi economici dell´Italia. Ma da un´approfondita inchiesta da me condotta risulta che lo stato di salute mentale («mental health») dell´Italia è chiaramente il peggiore d´Europa. Nei vari parametri della ricerca – insonnia, tensione, autostima, senso di inadeguatezza, infelicità, depressione – i numeri italiani «ci hanno sorpreso».
Laggiù sono messi malissimo, conclude l´autore della psico-indagine. Molto peggio di quanto se ne rendano conto, viene da pensare, fra Montecitorio e Palazzo Madama.
E certo non suona consolatorio, ma se le valutazioni del professor Oswald sono affidabili, per una volta l´Italia si riflette pienamente nella sua classe politica ai suoi massimi livelli. Si ricorderà come a novembre, esasperato dalle critiche alla Finanziaria, il presidente Prodi fosse esploso: «Qui ormai siamo in un paese impazzito».
Ecco. A tre mesi di distanza da quello che sembrava poco più che uno sfogo, per lampi e frammenti opportunamente virgolettabili la caduta del governo ha riportato in campo il tema della follia. Ha detto a botta calda il ministro degli Esteri D´Alema: «Siamo un paese di matti». Si è lamentato il senatore dissidente Rossi: «Dicono che sono un matto». E l´altro, Turigliatto: «Non sono un folle». E quell´altro ancora, Pallaro, sia pure con un´alzata di spalle: «Qui sono tutti matti». Sorge il sospetto: e se lo fossero davvero? Se la politica avesse di colpo perso la testa e la ragione?
L´onorevole di An Ciccioli, che di professione fa lo psichiatra, si è spinto più in là: «Il centrosinistra è affetto da psicopatologia dissociativa, sindrome per cui la mente non riconosce parti del corpo e viceversa». La classe dirigente, ha concluso una recentissima ricerca della Luiss, «è depressa». Sia come sia, all´agenzia Adn-Kronos è parso naturale di bussare alla porta di un altro clinico del ramo, il professor Di Giannantonio, dell´università di Chieti, che ha risposto segnalando le ripercussioni emotive di tali eventi. Stress convulso, rabbia, frutrazioni: «In questi - ha riconosciuto - ci si agita spesso a vuoto, si mangia male e si bevono troppi caffè».
Ora. Di solito è saggio guardarsi dalle diagnosi selvagge e ancora di più da quelle politicamente mirate. Quando venne affondato il primo governo Prodi, per dire, si sviluppò un vano dibattito sul narcisismo di Bertinotti. Così come da almeno un decennio abbondano le più irrilevanti analisi sulla presunta megalomania di Berlusconi. Eppure, al netto della polemica e dell´insulto facile, quello che dura un giorno e poi svanisce, colpisce la facilità con cui da qualche tempo l´argomento della follia viene invocato nel discorso pubblico dai suoi stessi protagonisti.
Oppure appare piuttosto visibile per conto suo, questa diffusa perdita dell´autocontrollo, e si esercita con la dovuta complicità dei media in certe vistose manifestazioni che spesso violano i confini del decoro e del buonsenso. Isterie da talk-show, paranoie complottistiche, un flusso ininterrotto di elementi legati alla magia e alla superstizione (iella, scaramanzie, talismani recati sempre più di frequente ai leader, che li accettano di buon grado). Quindi accentuata ricorrenza di confessioni personali (sesso, per lo più) e di tematiche «basse» (si pensi alla questione del bagno della Camera o all´uso politico e simbolico delle mutande). E infine - ma su questo terreno la fine appare un concetto assai relativo - vera e propria voluttà di autodegradazione, sia pure light e a scopo d´intrattenimento, comunque attivata sul labile confine che un tempo separava la satira dalla realtà e che oggi, per dire, ha condotto un certo numero di uomini politici prendersi a torte in faccia sul palcoscenico del Bagaglino.
Va da sé - e tanto più va da sé in occasione dell´anniversario di Franco Basaglia - che la vera pazzia è un´altra cosa, un´altra storia, un dramma doloroso. E che per fare il leader, forse, un pizzico ce ne vuole pure. Dopo tutto il Cavaliere, cui si deve una prefazione ad Erasmo, la rivendica addirittura, questa sua vena, e la tira fuori quando deve mobilitare le emozioni della sua folla, e allora grida al culmine del calore: «Siete d´accordo con la lucida follia visionaria di chi vi parla?». E quelli: «Sììììì!». Sul nesso impalpabile fra stramberia e potere ha scritto pagine biografiche e indimenticabili Francesco Cossiga, già designato «caso clinico» (da De Mita) che a suo tempo recuperò e fece sua la figura shakesperiana del «Fool», il giullare: «Io faccio il matto - e qui alcune volte il Capo dello Stato strizzava anche l´occhio - ma non sono matto. Io dico la verità».
E tuttavia: appare poco plausibile che tutti oggi dicano la verità. Forse era sincero Veltroni allorché in campagna elettorale fu beccato dai giornalisti a scrivere a su un bigliettino a Casini la formula ormai di moda, o di prammatica: «Qui sono tutti matti». Forse lo pensava davvero anche Prodi quando pochi mesi dopo, rispondendo a una domanda di un giornalista sullo stato di salute di Berlusconi, disse: «Non lo chieda a me: non sono un medico».
La cosa buffa, semmai, e a suo modo anche un po´ folle, è che questo permanente rinfacciarsi la malattia mentale finisce per apparire sospetto. Come se ormai priva di riferimenti sociali, e desiderosa di accorciare le distanze con il pubblico a colpi di strilli artificiali, lacrime indotte, palpitazioni strategiche ed esibizionismi coatti, la classe politica fosse rimasta prigioniera della sua stessa e nuda emotività. A un passo da delirio, ma senza saperlo. Forse.
Sembra, come ha raccontato Casini in tv, che poco prima della crisi i due eterni contendenti, Prodi e Berlusconi, si siano incontrati più o meno in segreto; e guardandosi negli occhi abbiano convenuto che nei rispettivi schieramenti «ognuno aveva i suoi matti». E «liberiamocene!» avrebbe proposto di slancio il Cavaliere. Si ignora la risposta del presidente del Consiglio. Ma qui, in fondo, si chiude il cerchio delle italiche mattane: vere e presunte, procurate o spontanee, individuali e collettive, con buona pace del professor Oswald e dell´università di Warwick.

Repubblica 28.2.07
La spiritualità degli atei
di Enzo Bianchi

L'autore è fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose

È possibile che i non credenti si confrontino con i cristiani sulle domande attorno al senso della vita?
In Italia alcuni si esercitano a offendere la fede dei credenti e ci si nega reciprocamente la capacità di etica universale

Ormai in Italia il confronto tra credenti cattolici e non cristiani, agnostici o atei è sempre più segnato da conflittualità e polemiche che a volte diventano derisione e disprezzo reciproco. Va detto con franchezza: siamo lontani dallo spirito espresso da Paolo VI con parole ormai dimenticate: "Noi dedichiamo uno sforzo pastorale di riflessione per cercare di cogliere negli atei nell´intimo del loro pensiero i motivi del loro dubbio e della loro negazione di Dio".
E´ vero che oggi l´ateismo militante non è più attestato come negli anni sessanta, ma l´orizzonte agnostico, oggi ancor più esteso di allora, richiede in realtà lo stesso sforzo da parte dei cristiani per tessere un dialogo che si nutra di ricerca comune, di ascolto, di dibattito tra vie diverse. Invece da una parte, quella dei credenti, le posizioni sono sovente difensive perché nutrite di paura e di vittimismo, mentre da parte di alcuni non cristiani si arriva a deridere la fede, ad affermare che proprio i cristiani sono incapaci di avere un´etica, che la fede è fomentatrice di integralismo, intolleranza e violenza. Veementi attacchi anticristiani da una parte, dall´altra mancanza di ascolto e persino demonizzazione del "non credente", giudicato "incapace di moralità".
E così, qua e là echeggia una parola di Dostoevskij: "Se Dio non esiste, tutto è permesso!", considerando chi non crede come persona priva di spiritualità e di morale. Ma allora, è praticabile un dialogo convinto, rispettoso, capace di essere anche fecondo? E´ possibile che i non credenti si confrontino con i cristiani sulle domande attorno al senso della vita? E´ possibile che il cammino di "umanizzazione", essenziale all´umanità per non cadere nella barbarie, sia percorso insieme? Ma affinché questo cammino si apra occorrono alcune urgenze che cerco di delineare.
Agnostici e atei non credono in Dio, non si sentono coinvolti da questa presenza perché non la sentono reale, ma sono consapevoli che invece le religioni che professano Dio fanno parte della storia umana, della società, del mondo. Come essi non trovano ragioni per credere, altri invece le trovano e sono felici: gli uni pensano che questo mondo basti loro, gli altri sono soddisfatti di avere la fede. Ma proprio questo fa dire che l´umanità è una, che di essa fanno parte religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità. Spiritualità non intesa in stretto senso religioso, ma come vita interiore profonda, come fedeltà-impegno nelle vicende umane, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla dimensione estetica e alla creazione di bellezza nei rapporti umani. Spiritualità, soprattutto, come antidoto al nichilismo che è lo scivolo verso la barbarie: nichilismo che credenti e non credenti dovrebbero temere maggiormente nella sua forza di negazione di ogni progetto, di ogni principio etico, di ogni ideologia. Purtroppo questo nichilismo viene sovente definito relativismo, finendo per confondere il linguaggio del dialogo e del confronto e portando all´incomprensione reciproca. Ed è lo stesso nichilismo che, paradossalmente, può assumere la forma del fanatismo in cui ci sono certezze assolute, dogmatismi, intolleranza che accecano fino a rendere una persona disposta a morire e a far morire.
No al nichilismo, dunque, ma allora emerge l´urgenza di riconoscere la presenza di una spiritualità anche negli atei e negli agnostici, capaci di mostrare che, se anche Dio non esiste, non per questo ci si può permettere tutto: persone che sanno scegliere cosa fare in base a principi etici di cui l´uomo in quanto tale è capace. E la grande tradizione cattolica chiede ai cristiani di riconoscere che l´uomo, qualsiasi essere umano, proprio perché, secondo la nostra fede, è creato a immagine e somiglianza di Dio, è "capax boni", capace di discernere tra bene e male in virtù di un indistruttibile sigillo posto nel suo cuore e della ragione di cui è dotato. I non credenti sono capaci di combattere l´orrore, la violenza, l´ingiustizia; sono capaci di riconoscere "principi" e "valori", di formulare diritti umani, di perseguire un progresso sociale e politico attraverso un´autentica umanizzazione.
Si tratta, per tutti, di essere fedeli alla terra, fedeli all´uomo, vivendo e agendo umanamente, credendo all´amore, parola sì abusata oggi e sovente svuotata di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il "luogo" cui l´essere umano si sente chiamato. Credenti e non credenti non possono essere insensibili ad affermazioni che percorrono come un adagio i testi biblici e che sono stati ripresi dalla tradizione: "Solo l´amore è più forte della morte... Solo l´amore resterà per l´eternità...". Del resto la fede – questa adesione a Dio sentito come una presenza soprattutto a causa del coinvolgimento che il cristiano vive con Gesù Cristo – non sta nell´ordine del "sapere" e neppure in quello dell´acquisizione: si crede nella libertà, accogliendo un dono che non ci si può dare da sé. Analogamente gli atei, nell´ordine del sapere non possono dire "Dio non c´è": è, infatti, un´affermazione che possono fare solo nell´ambito della convinzione.
Vorrei che noi cristiani potessimo ascoltare atei e agnostici, potessimo confrontarci con loro, senza inimicizie, soprattutto attraverso un confronto delle nostre spiritualità, di ciò che in profondità ci muove nel nostro agire. Lo spirito dell´uomo è troppo importante perché lo si lasci nelle mani di fanatici e di intolleranti oppure di spiritualisti alla moda. Certo, ogni religione si nutre di spiritualità, ma c´è posto anche per una spiritualità senza religione, senza Dio.
Ma nella specifica situazione italiana dovremmo prestare attenzione anche ad un altro elemento, facendo tesoro di un aneddoto storico. Mussolini confidò un giorno al suo ministro degli Esteri: "Io sono cattolico e anticristiano!". Eredi di questa posizione se ne possono trovare tuttora in Italia: persone non credenti né in Cristo né nel suo vangelo, ma pronti a difendere valori culturali "cattolici". Non è questo che intendo quando parlo di spiritualità degli atei: penso invece a un sentire che rende possibile un confronto proprio sui valori del Vangelo, sul suo messaggio umanizzante a servizio dell´uomo.
Credo ci sia posto per una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di coloro che sono in cerca della verità perché non soddisfatti di risposte prefabbricate, di verità definite una volta per tutte. E´ una spiritualità che si nutre dell´esperienza dell´interiorità, della ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà della morte come parola originaria e con l´esperienza del limite; una spiritualità che conosce l´importanza anche della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare. E´ una spiritualità che si alimenta dell´alterità: va incontro agli altri, all´altro e resta aperta all´Altro se mai si rivelasse. Ne La Peste, Camus scriveva: "Poter essere santi senza Dio è il solo problema concreto che io oggi conosco". Oggi potremmo parafrasare questa affermazione dicendo che il solo autentico problema è essere impegnati in una ricerca spirituale al fine di fare della vita umana un´opera d´arte, un cammino di piena umanizzazione. Sì, in Francia pensatori come Luc Ferry o André Comte-Sponville, non cristiani e non credenti, propongono nella lotta contro la barbarie incipiente una spiritualità anche per gli atei. Da noi in Italia, invece, alcuni paiono esercitarsi a offendere la fede dei credenti e a negarsi reciprocamente la capacità di etica universale, di umanesimo... Io resto testardamente convinto che, in quanto esseri umani, non siamo estranei gli uni agli altri e che siamo pertanto chiamati ad ascoltarci e a cercare insieme.

Repubblica Lettere a Corrado Augias 28.2.07
Gentile Dott Augias, un lettore difendeva giorni fa il celibato sacerdotale sottolineandone "il valore profetico, dimostrativo della verità". Ho 43 anni sono stato per 12 anni sacerdote e priore di una comunità di un importante ordine monastico.
Ho vissuto con serenità il celibato fino al momento in cui mi sono innamorato di una donna. Un evento a causa del quale ho rinunciato con gioia ai non pochi privilegi della mia posizione. Nonostante concordi sul fatto che l'astinenza possa essere per alcune persone o per un periodo, un valore, la realtà è purtroppo, molto spesso diversa.
Negli anni trascorsi in monastero ho visto la quasi totalità delle persone patire moltissimo l'impossibilità di manifestare apertamente la propria affettività. Io stesso sono stato oggetto per l'intero periodo di molestie e pressioni perché mi rifiutavo di "cedere" agli inviti di alcuni confratelli che esigevano da me, in nome di una presunta "amicizia spirituale", prestazioni in contrasto con i miei sentimenti e il mio orientamento affettivo nonché con le regole del Diritto Canonico.
Sono stato più volte invitato in quanto priore a manifestare un'"intima vicinanza" anche ai novizi per porre rimedio alla carenza di vocazioni con una risposta "naturale" al loro bisogno di affetto, essendo la profonda solitudine la principale causa di abbandono da parte dei postulanti. Come si può ancora una volta vedere (e questo è ancora più triste in un'Istituzione che continua a condannare le unioni omosessuali), tra il dire e il fare c'è di mezzo molto più che il mare.
Ma se anche così non fosse, se tutti fossero in grado di negare la parte costitutiva del proprio essere umano per dedicare a Dio un amore indiviso, il problema rimane comunque quello di una Chiesa che a tavolino decide il bene e il male per tutti e non si lascia cambiare dalla vita e dalle persone, a differenza di Gesù che invece non metteva nemmeno Dio e la sua legge al di sopra dell'uomo.
Se lo spazio lo consentisse vorrei raccontarle quanta 'verità' ho trovato in certe pagine della letteratura. Sono propenso a pensare che la realtà della vita sia di gran lunga più debitrice all'arte che non alla teologia.

Alberto Stucchi
albertostucchi@fastwebnet. it


La lettera alla quale il signor Stucchi si riferisce è quella di un lettore che recriminava la superficialità con la quale il problema del celibato dei sacerdoti cattolici viene trattato da chi non sia 'del mestiere', come me per esempio.
La testimonianza di oggi mi sembra notevole non tanto per la scelta finale fatta. Amor omnia vincit, come si usa dire; quando ci si innamora di una creatura che sembri degna del nostro amore, tutto il resto passa in secondo piano, anche le scelte che parevano definitive. Sono decine di migliaia in Italia i sacerdoti che hanno deciso di tornare a una vita normale nel secolo.
Nella vicenda del signor Stucchi ciò che a me pare notevole è ciò che precede, vale a dire gli inviti, le pressioni, l'insistenza a intraprendere rapporti di 'intima vicinanza' tra confratelli o con i novizi. Può darsi che si sia trattato di un caso isolato. Può darsi che il signor Stucchi, preso dal suo cocente dilemma personale, abbia travisato. Voglio crederlo, lo spero.

martedì 27 febbraio 2007

Repubblica 27.2.07
Quel duello che non finisce mai
Dietro lo scontro tra radicali e riformisti
L'incerto futuro di una coalizione dove coesistono estremisti e riformatori
Dopo il voto in Senato che ha portato alle dimissioni di Prodi
di Anthony Giddens

In Gran Bretagna è stato appena pubblicato un libro molto interessante che si intitola What´s Left?. Ne è autore Nick Cohen, un insigne giornalista di sinistra, socialista sin da giovane, ma che oggi riconosce che il socialismo è morto da quando l´utopia di un´economia post-capitalista non è più all´ordine del giorno. La morte del socialismo, dice Cohen, ha portato una "tetra liberazione" a chi era schierato con la sinistra più radicale. Al posto di prefigurarsi un futuro socialista, adesso questa sinistra è libera di accompagnarsi a qualsiasi movimento, purché sia contro lo status quo e, più specificatamente, contro l´America. Qualsiasi cosa possa pregiudicare la posizione dell´America nel mondo è sottoscrivibile. Chiunque sia contro gli Stati Uniti tout court è patrocinabile. Tutto ciò spinge la sinistra radicale in direzione di alcune visioni del mondo del tutto irrazionali.
Perché mai, si chiede Cohen, la sinistra sottovaluta la minaccia che l´Islam militante rappresenta per i valori dell´Occidente? Questa forma di Islam incarna tutto ciò verso cui la sinistra fa mostra di provare avversione: è contro la libertà di espressione, non ammette i valori liberali e crede nell´oppressione dichiarata del sesso femminile, ivi compresi i delitti d´onore. Perché la Palestina è una causa per la quale la sinistra si batte, ma così non è per la Cina, il Sudan, lo Zimbabwe, il Congo e la Corea del Nord? Perché coloro che hanno marciato manifestando contro l´invasione dell´Iraq non hanno condannato il regime fascista di Saddam Hussein con la stessa veemenza con la quale hanno avversato la guerra?
Nel momento in cui il governo Prodi è caduto perché due senatori non erano disposti ad accettare la presenza dei soldati italiani in Afghanistan o l´allargamento della base Nato di Vicenza, questi sono interrogativi pertinenti. I Taliban si preparano a scagliare un´offensiva in primavera e la Nato sta portando avanti in Afghanistan un incarico molto importante, che vede coinvolti i soldati di vari Paesi. Davvero i contrari a questa missione preferirebbero che l´Afghanistan facesse ritorno a una società dominata da una consorteria religiosa che è tra le più intolleranti e prevaricatrici al mondo? Si può essere d´accordo o in disaccordo con l´iniziale intervento militare in Afghanistan, ma adesso abbandonare quel Paese sarebbe il colmo della follia e dell´irresponsabilità.
Nondimeno, la sinistra oggi è divisa al proprio interno. La sinistra radicale non solo è una variante più avventurosa di riformismo: essa ha altresì una visione completamente diversa del mondo, una che potremmo a ragion veduta definire reazionaria. Gli odierni radicali di sinistra sono conservatori sotto mentite spoglie. Persistono ad avere una mentalità da Guerra Fredda, ben dopo la scomparsa di quel mondo bipolare. Tuttora sperano…che cosa?
Un ritorno al socialismo o al comunismo non potrà verificarsi, dal momento che era errato - così oggi noi riteniamo - il presupposto dal quale partivano entrambi, vale a dire il fatto che lo Stato potesse sostituirsi ai mercati nell´adeguare la produzione alle necessità umane. Soltanto i mercati capaci di reagire ogni giorno a milioni di indici dei prezzi saranno in grado di affrontare le enormi complessità delle economie moderne. Questo non significa che dovremmo essere alla mercé dei mercati, non più di quanto siamo alla mercé dello Stato. Una società positiva che la sinistra dovrebbe sostenere a livello locale, nazionale e globale è quella che sa controbilanciare un mercato efficiente e un governo democratico e dinamico, unitamente a una sfera civile solida, che prende parte a ogni processo; un ordine sociale contrassegnato dalla libertà di azione e di espressione, dalla legalità e dall´uguaglianza tra uomini e donne. Questi sono ideali concreti, non fantasie utopistiche, e sono ideali per i quali vale la pena combattere. La caduta del socialismo non corrisponde alla fine della sinistra. L´obiettivo di creare una società che sappia abbinare prosperità e solidarietà a un basso livello di ineguaglianza è quanto mai vivo.
È triste per me, sostenitore tenace di un centrosinistra coeso in Italia, constatare che pochi individui – di sinistra – potrebbero ancora una volta riconsegnare il governo del Paese alla destra politica. Che genere di politica è mai questa nella quale non vi è senso della responsabilità collettiva, nella quale il bene più grande del Paese è sacrificato sull´altare della correttezza politica? A un osservatore esterno tutto ciò appare privo di senso. A me sembra che alcune persone appartenenti alla sinistra tradizionale molto semplicemente non siano pronte ad accettare le responsabilità di governo. Sono felici soltanto all´opposizione, quando di ogni cosa è possibile biasimare la destra, in modo alquanto conveniente e familiare. Ciò ben si confà a quello che afferma Cohen: solo quando si sa contro cosa si è, e non per che cosa ci si batte, allora, innegabilmente, si è più contenti all´opposizione.
La sinistra tradizionale forse oggi può ancora trovare qualcuno da ammirare, Hugo Chavez in Venezuela, per esempio, o Evo Morales in Bolivia, o forse ancora, Fidel Castro. Anche loro ascrivono tutti i mali del mondo agli americani, oppure alle grandi e cattive corporation. Nondimeno, si guardi con attenzione a quello che questi leader stanno facendo nei loro Paesi: Chavez in Venezuela sta distruggendo la democrazia, promette di utilizzare i proventi del petrolio nazionale per aiutare gli indigenti, ma da quando egli ha assunto la leadership la percentuale di chi è in situazione di povertà è di fatto cresciuta. Morales sta nazionalizzando l´industria petrolifera boliviana, mettendo così in fuga quegli stessi investitori d´oltreoceano di cui l´industria del Paese ha urgentemente bisogno, se intende essere competitiva e contribuire allo sviluppo di quella povera nazione. Cuba da quaranta anni è una dittatura, con un´infrastruttura economica che è andata letteralmente a pezzi da quando gli aiuti provenienti dall´Unione Sovietica sono cessati. Per contro, sotto i governi riformisti di Ricardo Lagos, e attualmente di Michelle Bachelet, il Cile è diventato la nazione di maggior successo dell´America del Sud. Questo è il Paese al quale gli altri della regione dovrebbero guardare, per prenderlo a modello per il loro stesso futuro. La percentuale di persone che vivevano sotto la soglia di povertà è scesa dal 30 per cento e più di dodici anni fa all´odierno 18 per cento.
L´Italia ha un bisogno disperato di riforme e innovazione. Dal mio punto di vista soltanto un centrosinistra progressista potrà fornirgliele. Sia nel caso in cui l´attuale governo sopravviva, sia nel caso in cui esso invece non sopravviva, i progressisti in Italia devono continuare a perseguire un raggruppamento politico efficiente e integrato. Meglio ancora, un unico Partito Democratico, in grado di arrivare al potere e restarvi, senza più dover dipendere - ammesso che ciò sia possibile - da coalizioni fragili ed effimere, delle quali fanno parte gruppi politici la cui visione appartiene a un mondo ormai scomparso. Questo è un obiettivo da perseguire con rigenerato vigore e rinnovato impegno, qualsiasi cosa accada a breve termine.

(traduzione di Anna Bissanti)

Le due sinistre e il duello mai finito
I rischi della demagogia e l'impotenza dei governi
Se l'estremismo diventa antipolitica
di Adriano Sofri

Alibi. Lo schema delle "due sinistre" è invecchiato ed è diventato un alibi per tutte le meschinità e le insipienze
Moralità. Naturalmente non è vietato né immorale desiderare la rivoluzione. Ma è fuori luogo in un'alleanza elettorale

I posteri hanno un´aria severa, che incute soggezione: spetta a loro giudicare. Poveri posteri: e trattarli piuttosto come nipotini? Per tanto tempo la sinistra è stata proiettata nel futuro, risucchiata dal futuro: La società futura, Avanti!. Ora sono le radici a tirarci indietro. Ci sentiamo legati agli antenati, com´è giusto, e ai "diritti acquisiti", ma più indifferenti ai posteri. Eppure quelli che verranno dipendono da noi, e, in un certo senso, perfino quelli che vennero. Possiamo rovinarli.
Ci sono due sinistre. Però la cosa è complicata, perché sono più di due. E soprattutto perché l´idea delle due sinistre finisce per spiegare cose che hanno un´altra spiegazione, più grossolana. La frontiera fra una sinistra libertaria e una statalista non ha perso di rilievo, né quella fra il "movimento" e il "fine". La sinistra del "fine ultimo" sospetta nella democrazia formale una truffa rispetto alla disuguaglianza sostanziale. La sinistra riformatrice ("riformista" è già una categoria ideologica) non subordina le libertà personali a una disciplina collettiva, sta attenta a non usare violenza agli equilibri sociali, perché ne ha sperimentato la fragilità e i contraccolpi. Gli aggettivi vacillano. A cominciare dal dualismo progressista-conservatore, dal momento che la fede nel progresso (scommessa temeraria e conveniente, come già quella sull´esistenza di Dio) ha dovuto segnare il passo, se non battere in ritirata, e che la conservazione, come per le risorse naturali e il retaggio di intelligenza e bellezza, è un´aspirazione comune. L´aggettivo "moderato" non ha guadagnato in chiarezza dall´uso (e l´abuso) che se ne fa per l´islam non estremista, e da noi oscilla fra il senso della misura e il pregiudizio di una tepidezza opposta alla "radicalità". Radicale è il più usurpato degli aggettivi. C´è una sinistra estremista, quella che prende la parte per il tutto, e diffida del tutto come di un inganno ai danni dei propri presunti difesi. Ieri una riunione operaia veniva così riassunta: «Non ci importa se cade il governo, a noi interessa la busta paga». Bisogna vergognarsi della irrilevanza materiale e morale cui si è relegato il lavoro degli operai, ma non riesco a credere alla caricatura disegnata da quella frase. Non so quale pigrizia abbia regalato alla sinistra estremista il titolo di radicale. Anche nella sinistra ha allignato il meglio e il peggio della storia, e l´autocertificazione è ormai l´unica fonte di accredito. E´ tuttavia difficile riconoscere in una buona sinistra chi chiami Israele "nazista", o minimizzi l´infamia delle foibe. E´ difficile chiamare "sinistra" lo scambio fra l´amore per la pace e l´omissione di soccorso ai perseguitati, o l´unilateralismo del disarmo che sgombera il passo all´unilateralismo della guerra. Quando esponenti della sinistra estremista arrivano in Parlamento o addirittura al governo, sono tentati di attribuire alla propria presenza un ruolo strumentale - si chiamava "entrismo", quando lo praticavano i trotzkisti dentro i grossi partiti comunisti: i grossi partiti comunisti non ci sono più, i trotzkisti sì - o di rendere conto a una loro nicchia di consonanti. Se gli capiterà il colpaccio, magari di far cadere il governo, avranno il mazzetto di congratulazioni che compete al "coraggio" e alla "coerenza". Naturalmente, non è vietato né immorale desiderare la rivoluzione; è fuori luogo in un´alleanza elettorale. Fausto Bertinotti ha appena sostenuto che la politica della sinistra non può avere nel governo la propria bussola: ci mancherebbe altro. Ma neanche perderla, la bussola. La domanda è reversibile: c´è una politica della sinistra che tragga più forza da un governo di destra?
Ma è davvero questa - le "due sinistre" - la radice della delusione per una maggioranza che pure era stata così augurata da una metà del paese, e che aveva promesso di affratellare il paese intero? Penso di no. Penso che questo schema, così ripetitivo, delle "due sinistre", sia diventato un alibi per tutti, una nobilitazione di meschinità e insipienze più vicine. Che il "massimalismo" dei partitini di estrema sinistra sia un distintivo senza conseguenze, che serva a segnare un territorio, e abbia poco a che fare con la pratica sociale. L´ala "riformista" della coalizione è a sua volta inadempiente, e tira a campare. Interrotta fuori, la cosiddetta dialettica fra governo e opposizione si riproduce per intero dentro la maggioranza, dove tutti sono l´opposizione di tutti, e il governo è rinviato a nuovo ordine. La pletora di partiti poco più che personalizzati, ciascuno dotato del potere di veto e della voluttà dell´ultimatum, ciascuno concorrente diretto, più che del proprio antagonista all´altro estremo dello schieramento, del proprio vicino stretto, Di Pietro di Mastella, Diliberto di Giordano, è un alibi al quieto vivere. Fabio Mussi si è inalberato perché ho definito insensato il suo proposito scissionista: lo ribadisco, che la minaccia di scissione, indipendentemente dalle divergenze di merito, è contraddittoria con la partecipazione al governo, e fa il verso al voto sfasciatore dei "puri" in Senato. Che cosa ne può venire, se non un ennesimo partitino, un ennesimo gruppo parlamentare? Il socialismo, si obietta, non si esaurisce nel Partito Democratico: ma è il Partito Democratico che non può esaurirsi nel socialismo. Oltretutto, dirigenti che vengono da una prossimità personale lunga trenta o quarant´anni devono trovare un modo di maneggiare i loro reciproci rapporti, di cui ciascuno sa che influiscono sulle scelte politiche almeno quanto le idee dichiarate.
Quando un nodo è troppo aggrovigliato, conviene allargare le maglie della rete. Può non bastare a sciogliere il nodo, ma vale ad allentarlo, e aspettare un tempo migliore. Dopo la catastrofe, le nazioni europee si sono salvate solo grazie all´unione, e alla progressiva "cessione di sovranità". L´intenzione del Partito Democratico segue, sulla sua scala, lo stesso criterio. "Sovranità" è in questo caso potere e sottopotere: difficili da cedere, tanto più quando i partiti hanno perduto la loro identità ideologica e "religiosa" e hanno invece rafforzato gli apparati burocratici. Non immagino un "disinteresse" dell´impresa politica. Il disinteresse della politica "religiosa" copriva sacrifici umani e abnegazioni mortificanti. Tuttavia la secolarizzazione, o, se preferite, "liberalizzazione" dell´impegno politico ha esagerato in voracità: basta guardare alle candidature elettorali. Non sarebbe giusto deplorare l´irresponsabilità di eletti di "estrema sinistra", più che non si sia fatto per la spregiudicatezza di eletti di "estremo centro" passati sulla navetta dei Valori.
Questa politica nutre l´antipolitica: è già essa stessa antipolitica. Il regime italiano non è stato del tutto travolto da caudillismi e populismo solo perché lo è stato in gran parte: il berlusconismo costituendo un caso esemplare di populismo; quanto a caudillismi, ce n´è stata un´intera sequela, ciascuno abbastanza leggero da prendere una cresta d´onda e contentarsi alla ricaduta di un resto di referendum o di partitello. Oggi il sistema politico è in bilico fra il vaccino populista e caudillista, e la dose capace di ammazzare un cavallo, e un paese. Magari antipolitica e politica fossero incarnate da centrodestra e centrosinistra. La demagogia nella sinistra che si crede intransigente è impressionante: la politica "ufficiale" come corruzione e intrigo, la propria politica come alterità di tempra morale, perfino il "tanto peggio tanto meglio" - meglio l´Afghanistan dei talebani, meglio l´Italia di Gasparri e Calderoli.
La frantumazione della rappresentanza in tante satrapie deforma la domanda di fondo della politica: con chi ci si può unire, da chi ci si deve dividere? Nel mondo infuriano fame e malattia; proliferano le armi nucleari; si consumano le risorse e la bellezza. La politica dei partiti e del governo sfiora di rado queste questioni, e spesso le aggrava. Bisogna immaginarsi nel mondo, e farlo immaginare agli altri. L´investimento appassionato nell´aggettivo "altro" (fino all´ "altro mondo") ne mostra il desiderio, e insieme mostra la corda: perché la buona politica dev´essere "altra" e insieme coinvolgere il governo così com´è. Fino a poco fa la politica era l´espressione migliore del volontariato - ora è l´opposto. Ma non sarà il volontariato a togliere l´atomica a Pyongyang e a vietarla a Teheran. "Altro" è anche alla radice di altruismo, e se gli umani pure nel pieno del naufragio continuano ad azzannarsi, è un fatto che la campana del naufragio è suonata, e se ne sono accorti tutti, anche i governi, e l´idealismo del soccorso al mondo e il realismo del si salvi chi può devono trovare un punto di contatto. Se il governo serve ad assecondare la vita che continua - l´ordinaria amministrazione, ma anche l´amministrazione è sempre più straordinaria - e non è fatto per risolvere i grandi problemi, è fatto almeno per non aggravarli, e magari aiutare ad affrontarli. A Bologna Sergio Cofferati è alle prese con eccellenti orchestrali che, avendo prolungato di dieci minuti una prova, esigono in compenso un giorno di riposo: donde duri scioperi. Se ora, come bisogna augurarsi, Prodi riuscisse a esercitare la dittatura scalfarista, applaudiremmo di nuovo la prova d´orchestra felliniana.

Repubblica 27.2.07
Un conflitto che dura da oltre un secolo
La linea stregata che divide la Sinistra
di Edmondo Berselli


Partiti. In passato c'era un conflitto tra i diversi partiti storici per contendersi la rappresentanza della classe operaia
Movimento. L'antagonismo oggi è movimentista, si riconosce nei centri sociali ed è ostile alla globalizzazione

C´è davvero una linea stregata che attraversa i partiti e i pensieri di sinistra. Rivoluzione o riforme; sovvertimento o miglioramento del capitalismo; lotta di classe o governo: questa alternativa è una dannazione del Novecento socialista. Anche se oggi non descrive compiutamente la differenza fra le "due sinistre" viste all´opera nell´ultima crisi di governo.
Ad applicare rigidamente gli schemi dello scontro tra i fautori del "programma massimo" e i gradualisti, ci si ritrova difilato dentro la polemica nel Partito socialista fra i massimalisti come Giacinto Menotti Serrati e i riformisti guidati da Filippo Turati, e poi nel clima della scissione di Livorno del ‘21, allorché Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti diedero vita al Partito comunista.
Alle spalle c´era la Grande guerra, che in tutta Europa aveva lacerato i socialisti, dividendo gli internazionalisti dai nazionalisti, con i socialisti tedeschi che accettarono di votare i crediti per la guerra del Kaiser. Eduard Bernstein, l´ideologo della socialdemocrazia, votò i crediti, mentre Karl Kautski (che aveva collaborato con Engels ed era diventato "il rinnegato" in seguito alla formulazione del programma riformista di Erfurt nel 1891), si schierò contro, come l´"estremista" Rosa Luxemburg.
A guardare in avanti si sarebbe visto invece il crollo delle democrazie, con l´avvento del fascismo e del nazismo, senza che la comune opposizione di socialisti e comunisti alle dittature servisse a ricucire i rapporti: anzi, è nei primi anni Trenta che la Terza Internazionale formula la teoria del "socialfascismo", che considera i partiti socialdemocratici "oggettivamente" alleati del capitalismo borghese.
Finite le guerre, spazzati via Hitler e Mussolini, ci voleva un altro potente principio per dividere di nuovo e drammaticamente la sinistra. Al criterio divisivo della scelta ideologica fra rivoluzione e riforme si aggiunse il fattore implacabile introdotto dalla spartizione di Yalta. Con il mondo diviso in due blocchi, dopo che in Italia i comunisti erano stati sbarcati dal governo da Alcide De Gasperi, e il revisionista Giuseppe Saragat impersonava la sinistra di governo, sarebbe stato necessario attraversare il durissimo scontro politico del 18 aprile 1948, con la creazione del Fronte popolare e il Partito socialista avviato a una netta subalternità ideologica, politica e organizzativa verso il Pci; e attendere la tragedia ungherese del 1956, le ripercussioni indotte dall´invasione sovietica e dalla "fraterna" repressione di Budapest, per riaprire la dialettica a sinistra, e condurre il Psi su una posizione autonoma rispetto ai comunisti.
Ma in quegli anni dominati dalle discussioni sulla possibile collaborazione socialista al governo, "l´apertura a sinistra", che sarebbe sfociata nel primo centrosinistra di Fanfani, Moro e Nenni, il confronto fra le due sinistre era ancora tutto legato al ruolo dei partiti storici della classe operaia. Difatti, non appena nel 1963 viene varato il governo di centrosinistra, un pezzo del Psi si sgancia, e con il sostegno del Pcus si schiera in funzione neofrontista, costituendo il Psiup, partito di "unità proletaria" (quarant´anni dopo, tornando su quella vicenda, uno dei protagonisti della scissione, Vittorio Foa, si rivolgerà a Miriam Mafai e implicitamente al Pci, nel libro Il silenzio dei comunisti, dicendo: «Ripenso oggi con rammarico che voi allora non avete impedito la nostra scissione...»).
Negli anni Settanta l´alternativa tra riforme e rivoluzione è stata all´ordine del giorno soprattutto come contrapposizione tra la forza organizzata del Pci e la galassia dei movimenti extraparlamentari, con la variante tragica introdotta dal partito armato: l´aria da "album di famiglia" di cui parlò Rossana Rossanda a proposito delle Brigate rosse era comunque uno degli esiti di una storia ideologica identificabile.
Adesso invece, dopo la caduta del blocco comunista e l´avvento della globalizzazione economica le due sinistre possiedono un identikit non definibile in chiave partitica: certo, la sinistra riformista è costituita da partiti riconducibili alla tradizione socialdemocratica; ma la sinistra radicale non è decifrabile soltanto in relazione ai partiti come Rifondazione comunista, soprattutto dopo che un leader di cultura non comunista, Fausto Bertinotti, ha tentato di istituzionalizzare l´antagonismo, scegliendo statutariamente la linea della non violenza e della partecipazione a governi "moderati".
L´altra sinistra, la sinistra al di là della linea, oggi trova nei partiti antagonisti tutt´al più un alloggio a basso costo. Ma la vera casa comune del radicalismo è di nuovo di tipo movimentista. Una componente trockijsta può esserci dentro Rifondazione, ma la costellazione degli antagonisti si sviluppa più estesamente nei centri sociali, nelle formazioni associative ostili al pilastro ideologico della globalizzazione, il "pensiero unico" neoliberista.
La separazione di oggi quindi è lontana da quella novecentesca: per gli alterglobalisti, i pacifisti assoluti e tutto l´ambiente della diversità politica radicale è possibile convivere con la sinistra classica, ma non tanto di più. Delle due sinistre, una è ancora e più che mai parlamentare, l´altra è ibrida: non si trasformerà in un partito, talvolta ne colonizza alcuni settori, se ne fa rappresentare senza sposarli, continua a privilegiare l´azione diretta rispetto alle mediazioni politiche.
Per Giorgio Napolitano la piazza non può e non deve sostituire le istituzioni. Secondo Massimo D´Alema una certa sinistra estranea alle istituzioni "non serve al paese". Forse sarebbe stato più preciso dire che quella certa sinistra non serve politicamente alla sinistra ufficiale e governativa, e l´eco di una vecchia separazione si fa ancora sentire: anche se in un secolo è cambiato tutto e oggi l´alternativa corre fra la sinistra di governo e una sinistra fluttuante, non controllabile, diffusa nelle banlieue e nel precariato, in ogni caso insensibile all´identità e alla logica dei partiti, vecchi o nuovi che siano.

Repubblica 27.2.07
Quando dubita la Chiesa
Un convegno di storici a Roma

di Adriano Prosperi

Escono dagli archivi del Sant´Uffizio i quesiti teologici spesso angosciosi che da molte parti giungevano a Roma. Con le relative risposte
Il caso drammatico di un trovatello diventato vescovo che si scoprì non essere battezzato
Uno dei problemi riguardava gli ebrei convertiti a forza in Spagna e Portogallo

La parola "forse", così lieve all´apparenza e così poetica, può essere all´origine di drammi terribili, di vere e proprie tempeste morali. Sotto il segno del dubbio si colloca il futuro, quello individuale come quello dei popoli e – sempre più – dell´ambiente naturale dove viviamo; ma anche per il passato il forse si affaccia di continuo a scuotere le convinzioni e le conoscenze. Come mostra la periodica revisione delle certezze storiche che abbiamo ereditato o su cui fondiamo le nostre scelte. Eppure tutto questo è niente in confronto alla violenza di cui si può caricare la messa in forse del passato e del futuro quando è in gioco quella "certezza di cose sperate" che è la fede religiosa proiettata verso il destino eterno delle anime.
Per questo è stato interessante seguire il convegno di storici che si è svolto nei giorni scorsi presso l´Ecole Française di Roma e che ha posto al centro dei suoi lavori il dubbio, o meglio i molti dubbi sull´amministrazione dei sacramenti di cui dovette occuparsi nei secoli scorsi la sapienza teologica della Chiesa. Erano dubbi che nascevano nella mente di sacerdoti e di semplici fedeli e che si affidavano per la soluzione alla Congregazione del Sant´Uffizio dell´Inquisizione, oggi Congregazione per la Dottrina della Fede.
Corrono quasi dieci anni da quando gli archivi della Congregazione si sono aperti agli studiosi e non sono mancate le occasioni per prendere atto delle scoperte che vi si sono fatte, ma questa è stata la prima volta che si sono confrontate le diverse ricerche di storici italiani e francesi su di un settore specifico della documentazione di quell´archivio: precisamente quella dei "dubbi intorno ai Sacramenti", una sezione dove si raccolgono le domande, spesso cariche di angoscia, che venivano sottoposte a Roma e le risposte che la Congregazione dava dopo avere esaminato le questioni con l´aiuto dei propri esperti di teologia e di diritto.
Prendiamo ad esempio il Battesimo. Ci fu un caso drammatico nel primo ´700, quello di un trovatello cresciuto in un istituto religioso e diventato vescovo. Ma non lo avevano battezzato fidandosi di un messaggio trovato fra le fasce. Improvvisamente insorse un dubbio nella sua mente. Forse l´anonima madre prima di abbandonarlo non lo aveva battezzato, forse quel biglietto l´aveva scritto un ateo in vena di scherzi sacrileghi. Dunque quest´uomo che aveva consacrato altri sacerdoti forse non possedeva il requisito primo per potersi dire cristiano e non aveva trasmesso agli altri quello che credeva. Alla base del patto che la Chiesa stringeva coi suoi membri c´era la promessa di attingere ai tesori infiniti della grazia divina attraverso i canali dei sacramenti: canali, anzi veri e propri fiumi, come li rappresentarono fin dal Medioevo le immagini del sangue salvifico sgorgante dal corpo crocefisso di Gesù.
Sul modo di attingere a quei fiumi inesauribili la cultura ecclesiastica aveva calato regole precise, figlie del diritto romano e di quella speciale scienza del sacro che dominava il sapere, la teologia. Osservando quelle regole definite dai decreti del Concilio di Trento e tradotte in formule precise dal Rituale Romano di Paolo V si aveva la certezza dell´efficacia del sacramento, indipendentemente dalla disposizione soggettiva o dalle qualità morali di chi lo amministrava. La sua efficacia entrava in funzione nel ricevente e lo trasformava, così come – usando una immagine fisica forse più familiare alla nostra cultura di quelle elaborate per secoli dalla teologia - il trapianto di un organo modifica colui che lo riceve.
Sarebbe sbagliato però sottovalutare l´importanza di quei dubbi religiosi. Dalla loro soluzione dipendeva non solo la pace di coscienze inquiete ma anche la sorte di intere moltitudini. Gli ebrei convertiti e battezzati a forza in Portogallo e in Spagna, ad esempio, furono considerati veri cristiani a tutti gli effetti e, dopo qualche incertezza e qualche rinvio, furono trattati di conseguenza, per cui se li si trovava ancora dediti alle pratiche rituali ebraiche venivano considerati apostati e molto spesso condannati al rogo.
Dubbi del genere insorgevano anche molto spesso nella mente di missionari che avevano la responsabilità di intere popolazioni in terre non europee. Era facile sbagliare nell´uso della formula rituale del Battesimo che, tradotta in algonkino o in cinese, rischiava di assumere un significato diverso. E c´erano le complicazioni create dalla divisione religiosa europea. Un missionario francese del ‘600, nato da famiglia calvinista e convertitosi al cattolicesimo, scoprì un giorno che i genitori lo avevano battezzato con acqua di rose, non con l´acqua naturale benedetta che il rito cattolico esigeva. Era valido quel battesimo? E se non lo era che cosa si doveva pensare di tutti quei sacramenti che lui aveva amministrato? Aveva battezzato numerosissimi nuovi cristiani in terre di missione e celebrato tanti matrimoni, per non parlare delle infinite confessioni ascoltate. Tutti quei presunti cristiani erano rimasti pagani, i loro matrimoni erano concubinati, le loro anime erano attese all´inferno e loro non lo sapevano.
Davanti all´abisso di tante vite costruite sull´inganno involontario di una grazia che non era stata realmente trasmessa lo colse un senso di vertigine e cadde in una depressione che pervade le suppliche inviate alle autorità romane. Tante storie di come il mondo entrò allora nella comunità religiosa della Chiesa cattolica e la rese di fatto universale. Il nostro presente che si specchia in queste carte antiche può approfittarne per scoprire molti aspetti di se stesso e del suo mutamento. Non solo aspetti del vissuto religioso o delle dottrine teologiche ma anche di mutamenti più sottili e più profondi. Per indicarne uno, possiamo dire che c´è qui un segno importante di qualcosa che oggi, al di là della permanenza di chiese e di fedi e di sacramenti, è venuto meno: il valore delle parole.
La nostra cultura conosce le voragini amministrative e finanziarie che possono aprirsi quando si scopre una firma falsa. Ma non ha più nessuna percezione del valore che aveva la parola in tempi di culture orali, quando una stretta di mano e una promessa legavano più strettamente di qualunque vincolo materiale. Pensiamo al matrimonio, questo difficile contratto che aveva lungamente atteso un pieno riconoscimento nel sistema simbolico della vita religiosa. Anche la sistemazione cattolica tridentina della materia dovette fare perno sul valore della promessa pronunziata dai contraenti: rimase e fu ribadito il valore della parola pubblicamente pronunziata. Ma il rito dovette essere celebrato in chiesa davanti a un´autorità ecclesiastica e le parole dell´impegno assunto, unica base del matrimonio, dovettero lasciare traccia scritta in un registro parrocchiale. La vittoria piena dello scritto doveva seguire col tempo. Oggi è totale. È una involontaria ironia della storia che una legge elaborata per regolare impegni di convivenza e di affetto diversi dal matrimonio ufficiale prenda oggi in Italia il proprio nome dalla prima persona singolare del verbo "dire".

Repubblica 27.2.07
La gerarchia ecclesiastica e i cambiamenti della società
di Marco Politi

La sfida culturale è questa: evitare di ripiombare nel XXI secolo in guerre di partiti religiosi ognuno dei quali brandisce il nome di Dio per richieste "non negoziabili" Laddove la politica è negoziato, anche compromesso tra diverse visioni del mondo
Dice Ratzinger che la "fede in Italia è minacciata". Parole pesanti. Chiunque viaggi per l´Italia, assistendo ad una vitalità religiosa – gioiosa, che si esprime in mille rivoli nelle pieghe della società – fatica a riconoscersi in questa profezia

Se l´Italia è la trincea di Dio, allora ogni pressione, invadenza e ricatto della gerarchia ecclesiastica su Parlamento e governo diventano leciti. Se la famiglia rischia la rovina, allora è urgente negare il riconoscimento alle coppie di fatto. Se il rapporto naturale tra uomo e donna sta franando, allora è missione divina cancellare la pubblica accettazione del patto d´amore tra due partner gay.
Bisogna andare alle radici culturali dell´atteggiamento di Benedetto XVI per capire la durezza dello scontro in atto, che ha per posta la laicità dello Stato. O, per essere più semplici, il diritto dei cittadini tutti di farsi democraticamente le leggi senza attendere il timbro di un´autorità confessionale. Perché la sfida culturale è questa: evitare di ripiombare nel XXI secolo in guerre di partiti religiosi, ognuno dei quali brandisce il nome di Dio per richieste «non negoziabili». Laddove la politica è negoziato, confronto, anche compromesso tra diverse visioni del mondo.
Dice Ratzinger al clero romano che la «fede in Italia è minacciata». Parole pesanti. Chiunque viaggi per l´Italia, assistendo ad una vitalità religiosa – gioiosa, attivissima, che si esprime in mille rivoli nelle pieghe della società – fatica a riconoscersi in questa profezia. E qualsiasi osservatore straniero, che guardi al cattolicesimo italiano florido di associazioni, movimenti, gruppi, giornali, televisioni, scuole, università, ospedali, centri caritativi, e con un´istituzione ecclesiastica ben sostenuta dal bilancio statale, sbarrerebbe gli occhi dinanzi all´irreale allarme per una Chiesa minacciata.
Ma papa Ratzinger è ancora più pessimista. «Siamo di fronte ad una multiforme azione, tesa a scardinare le radici cristiane della civiltà occidentale», ha proclamato nel novembre scorso al congresso dei settimanali cattolici italiani. Sembra di risentire i «profeti di sventura» che Giovanni XXIII, aprendo il concilio Vaticano II, invitava sorridendo a lasciare da parte.
Corrisponde questo atteggiamento allo stato d´animo dei milioni di «cattolici quotidiani», che vanno a messa, si impegnano in parrocchia, pregano, riflettono su Dio e la propria esistenza e comunque, con minore o maggiore pratica, si sentono parte della comunità dei cristiani? No. Va detto con assoluta franchezza. Quando da alti pulpiti si sente risuonare minacciosamente «Non possumus», andrebbe subito domandato: non possumus chi?
Il cattolico quotidiano del Duemila vive tranquillamente accanto ai diversamente credenti, senza complessi da stato d´assedio, senza l´ossessione di imporre la propria visione. E tutta la questione delle convivenze di fatto e delle stesse coppie gay è vissuta da anni molto serenamente, pragmaticamente, con umana sensibilità dalla maggioranza degli italiani a qualunque credenza si richiamino. Perché una cosa è chiarissima: la vicenda delle unioni civili non è uno scontro tra cattolici e laici. Non è oggetto di una guerra tra fedi. Ciò che emerge è il gap tra la gerarchia ecclesiastica e la società italiana come è nella realtà.
Per i cattolici quotidiani, e gli altri, le coppie di fatto non sono un astratta drago rovina-famiglie. Sono i nostri figli, i nostri amici, spesso noi stessi. Uomini e donne in carne e ossa, senza ideologie, con la fatica dell´esistenza e il desiderio di essere un po´ felici. E le aborrite unioni gay le incontriamo a cena, sui posti di lavoro, nei luoghi dove passiamo le nostre vacanze. E sono normali cittadini e normali conviventi.
C´è un passo straordinario nella relazione che il presidente della Cei, cardinale Ruini, ha letto al consiglio permanente dei vescovi nel gennaio scorso: «Esaminando in concreto la realtà delle unioni di fatto, quelle tra persone di sesso diverso sono certamente in aumento». Si tratta di un milione di uomini e donne, giovani e adulti, di cui i cattolici sono la grande maggioranza. Stupefacente è il tono en passant con cui il porporato dà per scontata una rivoluzione profonda avvenuta negli ultimi trent´anni. Arrivare a questa cifra significa che centinaia di migliaia di figli della Chiesa non considerano una puttana la ragazza che ha rapporti prematrimoniali, non considerano vergognosi concubini due partner che vivono assieme, non considerano peccato gli anticoncezionali, il divorzio, le interruzioni di gravidanza (esattamente come milioni di altri credenti sposati in chiesa o in municipio). In altre parole hanno impostato la propria vita secondo regole diametralmente opposte a quelle ossessivamente indicate per decenni dalla gerarchia ecclesiastica. E ciò nondimeno continuano il loro dialogo con Dio, vanno a messa, e spesso si impegnano in iniziative ecclesiali.
Il problema, allora, non è la Chiesa, la comunità dei fedeli. Il problema è di una gerarchia ecclesiastica incapace di guardare con umanità ai problemi di una società in trasformazione, in cui la «famiglia» è radicalmente diversa da quella di cinquant´anni fa. Una gerarchia che pretende di rappresentare in politica i cittadini cattolici, che né esistenzialmente né politicamente hanno dato all´istituzione ecclesiastica un mandato del genere. Il paradosso, semmai, è che non tutti i vescovi condividono l´immagine di una società contemporanea «nemica» della Chiesa, mentre una serie di politici – per pura convenienza – scelgono la Cei invece dei cittadini.
Forse è l´ora di rivalutare la libertà delle coscienze, nel Parlamento e fuori. In Europa democristiani e socialisti, liberali e conservatori hanno da tempo risolto civilmente questi problemi.

Repubblica 27.2.07
La storia del luogo dove venivano deposti i bebè, legata a ospedali, chiese e tradizioni locali. Perché i figli illegittimi erano esclusi dalla società
Tutti i figli della "ruota", dal Medioevo a oggi
Firenze, 1445: la prima culla per gli abbandonati. Durò fino all´800, ora è tornata

La notizia che oggi si possa di nuovo ricorrere alla "ruota" per deporvi un neonato fa pensare a una storia secolare che ha accompagnato da vicino quella degli ospedali in epoca medievale e moderna.
Celebre è l´ospedale degli Innocenti che si trova in Piazza Santissima Annunziata a Firenze. Fondato nel 1419 per accogliere l´infanzia abbandonata, fu uno dei primissimi orfanotrofi d´Europa. Il nome stesso dell´Ospedale si ispirò all´episodio biblico della Strage degli Innocenti, narrato nel Vangelo secondo Matteo: Erode, re della Giudea, ordinò un massacro di bambini allo scopo di uccidere Gesù, della cui nascita a Betlemme era stato informato dai Magi.
Il progetto per la costruzione dell´edificio fu affidato a Filippo Brunelleschi, che edificò uno dei più interessanti complessi edilizi dell´architettura rinascimentale. L´ospedale fu inaugurato nel 1445. I bambini venivano abbandonati in una specie di pila dell´acqua santa, posta alla destra del loggiato; nella seconda metà del secolo XVII la pila fu sostituita con una "rota", ossia una pietra girevole posta all´estremità opposta del loggiato. I bambini venivano allattati da balie esterne, scelte dall´Ospedale, il quale si preoccupava poi di trovare famiglie dei dintorni - per lo più contadine - che li allevassero dietro compenso. L´Ospedale era responsabile della loro tutela fisica e morale fino all´età di 18 anni per i maschi. Alle femmine l´Ospedale offriva ospitalità fino al matrimonio e poteva provvedere anche alla loro dote.
A Firenze, la "ruota" - così come era stata elaborata nel Quattrocento - rimase in uso per secoli, almeno fino alla metà dell´Ottocento. Così fu anche in quasi tutte le regioni d´Italia. Ad Aversa, ad esempio, la "ruota" esistente nell´ospedale della Real Casa Santa dell´Annunziata fu chiusa il 12 febbraio 1881. A Napoli era già stata chiusa qualche anno prima, il 27 giugno 1875. Anche ad Aversa, i neonati venivano introdotti in un cilindro di legno - detto "il torno" - ed erano poi accolti all´interno dello stabile.
I bambini abbandonati venivano chiamati "gettatelli", ma in altre regioni d´Italia, come a Roma, prendevano il nome di "Proietti"; in Toscana e in Umbria, potevano essere chiamati invece "Diotiguardi" e "Diotiallevi". O più generalmente con il cognome di "Esposito".
L´esposizione dei bambini aveva cause molteplici, a seconda dei periodi. Certo è che, dal Cinquecento in poi e con la Controriforma, l´abitudine di abbandonare i bambini dipese anche dal fatto che - contrariamente a quanto era avvenuto nel Medioevo - i figli illegittimi venivano ritenuti illegali e perciò esclusi dalla società. Abbandonare il proprio figlio ad un´opera pia, ad un ospedale provvisto di una ‘ruota´, serviva, paradossalmente, ad assicurargli un avvenire.
Per quasi mezzo millennio, dunque, la società europea, in Italia, ma anche nel resto dell´Europa, si organizzò per accogliere i bambini che la società voleva abbandonare - se non addirittura "gettare" - per i motivi più diversi. Gli storici hanno a buon ragione parlato di una vera e propria ‘strage degli Innocenti´, con esplicito riferimento al racconto biblico.
È interessante notare che le fondazioni dei primi Ospedali degli Innocenti risalgono ai primi decenni del Quattrocento. Quell´intero secolo è del resto contrassegnato da fondazioni di case pie o di ospedali per bambini esposti, in quasi tutta l´Europa, soprattutto in Italia. Le ragioni di un fenomeno così ampio, e anche ben documentato, sono anzitutto di carattere demografico e sociale. All´inizio del Quattrocento, l´Europa esce da una delle più gravi crisi demografiche della sua storia. La Grande Peste decimò negli anni 1347-1349 un terzo della popolazione europea. Erano quasi otto secoli che l´Europa non aveva conosciuto epidimie di peste. La Peste di Giustiniano apparteneva al lontano VI secolo! Ma la Peste Nera del 1348 non fu un avvenimento isolato. Già 1360, l´Europa subì un secondo assalto epidemico, e da allora fu un susseguirsi di epidemie fino all´inizio del Settecento.
La crisi demografica della seconda metà del Trecento provocò, in modo certo inatteso e tragico, un rinnovato spettacolare interesse per l´infanzia e per la famiglia, le cui radici storiche risalgono però all´inizio del secolo precedente. È il periodo in cui nasce un nuovo culto, quello di san Giuseppe, un personaggio che è praticamente assente nell´Alto e basso Medioevo dalla storia della spiritualità europea. Con l´inizio del Trecento, il culto di san Giuseppe - di cui il Pavese Opicino de´ Canistri ci offre un disegno già intorno al 1330 - incontra un sempre più largo interesse. Il culto di s. Giuseppe preannuncia quello della "santa famiglia", che diventerà intorno al 1500 - pensiamo a Raffaello - uno dei grandi temi dell´arte rinascimentale.
Dal Quattrocento in poi, la società seppe rivolgere uno sguardo nuovo, più attento e articolato, nei confronti dell´infanzia e della gioventù. Persino la storia di ospedali più antichi, come quello di Santo Spirito in Sassia, fondato all´inizio del Duecento da Innocenzo III per viandanti e pellegrini, fu riscritta intorno al 1475, sulla base di una vera e propria "leggenda": Innocenzo III avrebbe fondato l´ospedale di S. Spirito per salvare i bambini che gente scellerata usava gettare nel Tevere. E per raccontare questa "storia di fondazione", Sisto IV dotò l´Ospedale di una stupenda serie di affreschi, che si può ancor oggi ammirare.
Anche nei secoli precedenti, la Chiesa medievale aveva lottato con forza per la protezione dell´infanzia, in particolare contro l´infancidio che fu una delle grandi piaghe sociali dell´Alto Medio Evo. Si trattava spesso di infanticidi involontari, lo dicono anche i sinodi, perché genitori, dormendo con i propri neonati per mancanza di spazio e per la rarità dei letti, correvano il rischio di soffocarli.

il manifesto 27.2.07
Dico, la storia si ripete
di Ida Dominijanni


Il cardinal Andreotti s'è messo tranquillo leggendo i dodici punti di Prodi e ha deciso che quasi quasi, dopo averlo fatto cadere, stavolta lo vota: visto che i Dico sono scomparsi, «e questo è condivisibile», sarà bene lavorare per la stabilità di governo, dato che con la guerra in Iran alle porte la situazione internazionale sta diventando delicata. Pare di sognare: la situazione internazionale era delicata pure una settimana fa, ma siccome alle porte c'erano i Dico il governo poteva andare a farsi benedire, e il cardinal Andreotti ce l'ha mandato bocciandolo giusto sulla politica estera. Ma ci tiene a precisare che non l'ha fatto su comando del Vaticano: «C'è stata una coincidenza obiettiva tra la mia posizione e quella delle gerarchie ecclesiastiche. Non c'era bisogno che me lo ricordasse il Sant'Uffizio come dovevo comportarmi». E chi potrebbe dubitarne? Semmai sarà stato lui a dare la linea al Sant'Uffizio.
Cose da paese anormale, che sarà bene non archiviare come i Dico medesimi che invece saranno archiviati di sicuro. Accade altrove, vedasi la Spagna di Zapatero, che i governi progressisti, non avendo le risorse necessarie per fare qualcosa di sinistra nelle politiche sociali, si sbilancino sul fronte dei diritti di libertà, e ne ricevano in cambio ampi consensi. In Italia un governo progressista dev'essere moderato sull'uno e sull'altro fronte, se no i cardinali, prelati e laici, lo fanno cadere. Questa è la condizione nonché la storia nazionale, che suggerisce qualche correzione al dibattito corrente sui rapporti fra sinistra moderata e sinistra radicale, nel quale dibattito sembra sempre che ci sia una sinistra moderata che vuole fare tante ragionevoli riforme e una sinistra radicale che glielo impedisce col suo massimalismo. Quando invece è vero l'inverso: in un paese anormale com'è l'Italia, per avere il divorzio e lo statuto dei lavoratori, due riforme ragionevolissime, c'è voluto il Sessantotto e ha rischiato pure di non bastare. Senza la pressione di una sinistra radicale, sociale più che istituzionale, e magari in grado di premere con più creatività e intelligenza di quanto non faccia quella attuale, la strada del riformismo in Italia non sarebbe più liscia: sarebbe semplicemente barrata.
Quanti consensi costerà al governo Prodi l'archiviazione dei Dico? Sono misurazioni difficili da fare, per partiti ormai privi di sensori verso il mutamento sociale. Ma anche qui la storia insegna: nel lontano 1974 larga parte del Pci diffidava del voto femminile al referendum sul divorzio, eppure eravamo già in pieno femminismo. Oggi, cedere all'omofobia cattolica significa oltretuttodimenticarsi che i Dico riguardano, oltre agli omosessuali, moltissime convivenze eterosessuali, ovvero la forma maggioritaria che la famiglia sta assumendo in occidente. Con il che la questione della crisi arriva al punto da cui dovrebbe partire, quello del rapporto fra la classe politica di centrosinistra e la società italiana. E qui si arena, nel buio della rappresentazione prima che della rappresentanza.
(...)

il manifesto 27.2.07
Lungo il cammino dell'utopia rivoluzionaria
Un libro di Antonio Ghirelli titolato «Aspettando la rivoluzione. Cento anni di sinistra italiana» uscito per la Mondadori
di Valentino Parlato

Aspettando la rivoluzione, di Antonio Ghirelli è un libro di straordinaria utilità (dico utilità) in questa brutta e lutulenta stagione nella quale gli ideali si riducono a interessi o si esasperano nella disperazione autolesionista. Antonio Ghirelli, che è duttile e tenace compagno, un socialista di qualità in poco meno di duecentocinquanta pagine ci racconta - senza distacco «scientifico», ma con partecipazione umana - cento anni di storia della sinistra italiana.
A cominciare dagli anarchici, da quello straordinario e tragico personaggio che fu Carlo Cafiero, dalla banda del Matese, e poi ancora ad Andrea Costa, a Filippo Turati (forse il più intelligente protagonista del socialismo italiano), fino a Pietro Nenni e ai sui incontri con Benito Mussolini.
Il leit motiv è l'attesa della rivoluzione, sempre aspettata e sempre rinviata. Il che potrebbe costituire la vera sostanza della rivoluzione («il movimento è tutto» aveva detto qualcuno), ma nel libro c'è l'amarezza dell'attesa sempre prolungata e anche il rovello del perché. Perché la rivoluzione, più precisamente la trasformazione della società, la conquista dell'eguaglianza e della libertà non è stata possibile. Perché i capitalisti continuano a comandare, perché il capitalismo impone i suoi meccanismi anche in Cina, dove ci sarebbe un potere comunista e dove una rivoluzione indubbiamente c'è stata?
Franco Rodano scriveva che il capitalismo era il nuovo Proteo, capace di cambiare continuamente di forma tanto da essere inafferrabile. Rodano, con intelligenza, era un po' fatalista e ci diceva che se continuiamo ancora ad aspettare la rivoluzione non è tanto colpa nostra, quanto piuttosto merito del Proteo-Capitalismo. Antonio Ghirelli, forse meno fatalista e più fiducioso, sta attento agli errori e ai limiti di tutti quelli, che, come noi, aspettavamo e aspettano ancora la rivoluzione.
Piero Craveri nella sua recensione, sul Sole 24 Ore di domenica 11 febbraio, individua la causa della vana attesa «nell'irriducibile contrasto interno alla sinistra tra la sua componente riformista e quella più radicale». Certo, nella narrazione di Ghirelli, che è piena di riferimenti storici approfonditi, questo contrasto è messo in evidenza molto bene, ma resta - a mio parere - un interrogativo. Perché in Italia ci sono state più riforme nella situazione descritta da Craveri, che non nei tempi di trionfante riformismo?
Certo, aspettavamo la rivoluzione, ma nel frattempo quante riforme ha prodotto la pressione del Pci, che poi, quasi sempre, votava no? Giorgio Amendola, per il quale io ero un ragazzo di bottega, cercò (con successo) di spiegarmelo. Il Pci votò contro la Cassa del Mezzogiorno, ma senza le lotte del Pci la Cassa del Mezzogiorno non ci sarebbe stata. E così l'Iri e addirittura il ministero per la programmazione con Antonio Giolitti, e i patti agrari e l'equo canone e il Piano del lavoro della Cgil di Di Vittorio e poi ancora lo Statuto dei lavoratori di Gino Giugni, che, certo, fu gambizzato dai «rivoluzionari».
Tutto questo per dire che, certo, il contrasto tra riformisti e rivoluzionari non è buono, ma ancora peggio stanno le cose quando si scende al riformismo debole, oppure - anche con qualche buona intenzione - (penso al ministro Bersani) al riformismo liberale, quello che dice di volere liberare il mercato dai vincoli corporativi.
Il punto è che oggi non c'è più contrasto tra riformisti e rivoluzionari, c'è la morta gora e c'è (Antonio Ghirelli consentirà) un tale impoverimento e corporativizzazione della politica che i contrasti del passato tra riformisti e rivoluzionari ci sembrano un motore da Ferrari.
Il libro di Ghirelli è - lo ripeto - ottimo e di grande utilità per chi lo legga, ma non condivido affatto l'ultima frase: «La ragione profonda della crisi sta, tuttavia, nell'incertezza in cui si dibatte la sinistra tra il richiamo alla vecchia cultura del movimento, compresi naturalmente i rancori e i risentimenti del passato, e l'esigenza di misurarsi con la nuova società e il suo incontenibile dinamismo».
Dove Ghirelli vede questo dinamismo non lo so, ma lui che è un vecchio e serio compagno, proprio nei giorni scorsi sul Riformista ha scritto un articolo dal titolo «Saremo il primo paese senza socialisti?». Appunto. È l'incontenibile dinamismo.

Repubblica Bologna 27.2.07
Un libro di Roberta Passione rivaluta la figura dello scienziato che negli anni Trenta sviluppò questa terapia
Il medico che inventò l'elettroshock
Vita e opere del dottor Cerletti: un progressista, altroché barbaro
di Massimiliano Panerari

Ci sono pagine della storia della scienza – e, in particolare, di quella medica – che valgono un libro di narrativa, ben più avvincenti di quei reality che tengono incollati gli italiani alla televisione.
Un volume uscito da poco ripropone alcune pagine scritte direttamente da un oggi quasi misconosciuto protagonista della medicina italiana, che ebbe notevole (e contestatissima) notorietà. Stiamo parlando di Ugo Cerletti, il cui nome è associato all´invenzione dell´elettroshock, una terapia che ci fa (giustamente) inorridire e urta la nostra sensibilità, ma che lo psichiatra e fisiologo romano (nato nel 1877), di sentimenti politici nettamente progressisti, concepì all´insegna di una valenza – cosa che agli occhi odierni risulta quasi paradossale – per così dire "umanitaria".
A raccogliere gli scritti del medico, restituendogli direttamente la voce, nel libro "Ugo Cerletti. Scritti sull´elettroshock" (Franco Angeli, pp. 234, euro 20), è una giovane (classe ´73) ricercatrice dell´università milanese della Bicocca, Roberta Passione, bolognese adottiva di residenza e, soprattutto, di studi, essendo allieva di una delle maggiori storiche italiane della psichiatria, Valeria Babini, che l´ha indirizzata verso questo pista di ricerca (destinata a un´altra puntata importante tra qualche mese, quando uscirà per i tipi di Aliberti, nella collana di Studi universitari, la prima biografia completa di questo personaggio).
Dagli scritti raccolti (riferiti al periodo 1940-1952 e pubblicati sulla "Rivista sperimentale di freniatria", il neurologo non appare affatto lo "scienziato pazzo" o il Mengele che certuni hanno tentato di descrivere, bensì uno studioso serio e scrupoloso intenzionato a trovare nuovi rimedi per il trattamento della schizofrenia. Nel solco del filone materialista delle scienze biologiche e della vita inaugurato nel nostro paese dal grande scienziato olandese Jacob Moleschott, e quale allievo di Augusto Tamburini (il vate della psichiatria positivistica italiana, che aveva operato anche nel manicomio di Reggio Emilia), Cerletti si pone una serie di quesiti sulla localizzazione della coscienza (in un anticipo quasi delle scienze cognitive ora tanto à la page). Giungendo, così, nel 1938 (dopo ripetute sperimentazioni sul cervello di cavie animali), a mettere a punto l´elettroshock per superare le precedenti (e devastanti per il paziente) terapie di shock malarico, insulinico e cardiazolico (fondata, quest´ultima, su un derivato sintetico della canfora). Insomma, non un dottor Stranamore, e men che meno un "mostro sadico", ma uno scienziato tardopositivista alla ricerca di nuove strade per la cura di quella che veniva considerata una malattia incurabile e "perduta".

Liberazione 27,2,07
Ascoltate Andreotti e capirete. Il pogrom mediatico contro la sinistra
di Andrea Colombo


Il senatore Giulio Andreotti ci tiene alla chiarezza. Vuole che tutti capiscano perché il governo Prodi è stato sconfitto nel celebre mercoledì delle ceneri, e per esserne ben certo lo ha ripetuto a tutti e tre i principali giornali italiani contemporaneamente. Tre interviste decisamente non esclusive al “Corriere” a “Repubblica” e alla “Stampa” per un concetto solo: il suo voto è stato contro i Dico, non contro la politica estera. E’ lecito sospettare che a motivare il voto gemello del senatore Pininfarina siano state questioni a loro volta prive d’attinenza con lo scacchiere internazionale.
La triplice intervista del senatore a vita è una meritoria operazione di chiarezza. C’è il caso che apra gli occhi persino ai direttori e agli editorialisti dei medesimi quotidiani. Non lo sapremo mai. Se anche scoprissero, gli inesperti, che la sconfitta del governo non è stata determinata dalla politica estera né provocata dall’ala sinistra della coalizione e neppure da quei due ”dissidenti”, farebbero finta di niente e continuerebbero a puntare l’indice sull’irresponsabilità massimalista. Conoscono la comunicazione, ci si muovono come squali nell’acqua. Sanno perfettamente che qualsiasi bugia diventa verità, se ripetuta un sufficiente numero di volte e da un sufficiente numero di voci. E in questo caso il coro è addirittura unanime.
Però la canzone che intona resta falsa. Con o senza il voto di Franco Turigliatto e Nando Rossi il governo sarebbe stato sconfitto. A tirarlo a fondo non sono stati i dubbi afghani e vicentini della sinistra d’alternativa, ma quelli ispirati da cattolicissime coscienze. Il dibattito sulla politica estera è stato solo circostanza ideale per il colpo di mano. E persino quell’occasione ghiotta non era stata determinata dalla fantasie barricadiere della sinistra ma dall’allegro dissenso di un manipolo di austeri senatori centristi. Gente quadrata: Lamberto Dini, Sergio Zavoli, Andrea Manzella.
Gli articoli e le dichiarazioni rilasciate da uno stuolo di leader politici in questi giorni andrebbero consegnate in blocco agli esperti della comunicazione più che agli osservatori politici. Costituiscono un modello senza precedenti e forse impareggiabile di pogrom mediatico. Cosacchi e shtetl incendiate a parte, le regole del pogrom sono state rispettate tutte, con certosina cura. Il nemico era stato indicato con larghissimo anticipo, gli animi riscaldati a dovere per mesi. Il capo d’accusa principale non era questo o quel comportamento ma l’esistenza stessa del “nemico” in questione. La sinistra, appunto.
Il casus belli, nello specifico il “non voto” dei due ormai famosissimi senatori, è stato colto con tempismo ammirevole e meno encomiabile cinismo. Al resto hanno pensato gli editoriali menzogneri, le trasmissioni televisive trasformate in processi pubblici, l’indignazione posticcia dei leader politici e quella sincera (ma infondata e provocata ad arte) della gente, i furori da commedia dell’arte.
Come in ogni pogrom degno del nome, l’apparente irrazionalità cela un disegno freddo e perseguito da tempo: mettere una volta per tutte a tacere l’ala sinistra della coalizione, eliminare, o mettere in condizioni di non nuocere, quelle forze che alcuni, all’interno dell’Unione, non hanno mai smesso di considerare “nemici interni”.
Che il disegno sia questo è palese: nasconderselo sarebbe ipocrita, così come negare l’oggettiva difficoltà del momento. Se la manovra raggiungerà l’obiettivo è impossibile prevederlo. In compenso è facile prevedere quali sarebbero le conseguenze qualora un progetto tanto miope e distante dalla realtà avesse successo. Se la sinistra d’alternativa finisse messa all’angolo e ridotta all’impotenza, l’Unione perderebbe gli ultimi legami con le sue radici vitali. La frattura con la sua base sociale, e anche elettorale, diventerebbe insanabile.
Perché con tutta la sua astuzia apparente, il pogrom di questi giorni è conseguenza di una colpevole miopia politica: la convinzione che a ostacolare la marcia dell’Unione e a danneggiarla nei consensi siano state le resistenze della sua ala sinistra, e non, come capirebbe chiunque si decidesse a circolare a piedi o in autobus, il contrario, il freno opposto a ogni tentativo di innovazione reale e non solo parolaio. Non è un errore nuovo, è vero. Ma perseverare è pur sempre diabolico.

lunedì 26 febbraio 2007

Liberazione 25 2.07
Bertinotti: «Contro l’antipolitica ricostruire una cultura politica di sinistra»
Intervista al Presidente della Camera: «Sospendiamo la discussione su come organizzarci e iniziamo quella su cosa fare»
«La sinistra radicale deve saper risolvere il problema dell’efficacia, quindi dell’unità. Solo così potrà confrontarsi con l’ala riformista»
intervista di Piero Sansonetti


Bertinotti, cosa sta succedendo nella politica italiana? Che giudizio dai sulla battaglia che ha squassato il paese in questi giorni? Come ti sembra la soluzione trovata alla crisi? Cosa pensi dell’atteggiamento....
Bertinotti non mi fa finire la domanda, mi interrompe e mi spiega che è molto contento di fare una intervista con “Liberazione”, e che gli va di parlare di politica, e del futuro della sinistra, e dei movimenti, e delle idee che servono per combattere le grandi battaglie di questi anni; però non ha intenzione di entrare nel merito delle discussioni sugli equilibri parlamentari e sulle scelte istituzionali e di governo. Non sarebbe corretto se il Presidente della Camera, in un momento politico così delicato, entrasse nella battaglia parlamentare con un’intervista al giornale del suo partito.
D’accordo. Non provo nemmeno tanto ad insistere. Cambio domanda.

Bertinotti, la sinistra radicale in questa fase è costretta a passare dall’utopia alla realpolitik. Non rischia in qualche modo di cambiare natura, di cambiare pelle?

«L’utopia, nella nostra storia, noi l’abbiamo sempre affrontata criticamente. Né rifiutata né esaltata. L’utopia è una categoria che in alcune fasi della storia del movimento operaio è stata decisiva. E’ molto forte nella fase primordiale, poi in qualche modo viene messa in discussione dal socialismo scientifico, da Marx. E addirittura è spazzata via nel periodo successivo, quando prevale una idea “deterministica”, e si pensa che il passaggio dal capitalismo al socialismo sia quasi un automatismo, un fatto storico inevitabile e naturale, come era stato il passaggio dal feudalesimo al capitalismo. Si sostiene che lo sbocco socialista è inscritto nel naturale sviluppo delle forze produttive. Quando è che avviene la riscoperta dell’Utopia? Tutte le volte che ci si rende conto della “dura replica della storia”. Soprattutto alla fine del secolo appena concluso, quando la storia replica alle illusioni del ’900, agli sbagli concreti, agli orrori concreti, e allora l’Utopia diventa una occasione, una chance per ricostruire, per non chiudere il discorso, per tenere aperta una prospettiva...»

Cesare Luporini nell’89 parlava di socialismo come orizzonte da tenere fermo...

«Esatto, in quella fase l’utopia ha un ruolo molto importante. Però io penso che il movimento operaio abbia sempre avuto questo rapporto con l’Utopia: l’ha concepita come una possibilità per scrutare l’orizzonte, come uno strumento di politica e di ricerca, ma mai come scopo, come contenuto esclusivo della politica. Poi arriva la globalizzazione e la critica della globalizzazione e l’Utopia, credo io, cambia ancora natura, si rigenera, diventa concreta».

In che modo diventa concreta?

«Si trasforma nella critica del capitalismo. Qual è lo slogan più famoso del movimento altermondialista»?

Un altro mondo è possibile...

«Appunto. Esamina le tre parole. La prima (“un altro”) rappresenta il cambiamento, l’alter-nativa, il rovesciamento di alcuni punti fermi della società: con il nostro vecchio linguaggio potremmo dire la “fuoriuscita dal capitalismo”. La seconda parola (“mondo”) afferma il carattere globale, mondiale della politica. E la terza parola è la definizione della concretezza: “possibile”. Siamo nel reale, nel realistico, siamo fuori dal sogno».

Non c’è un contrasto, difficile da comporre, tra questa linea utopica-concreta della sinistra e le esperienze di governo, cioè la realpolitik?
Bertinotti ci pensa un po’. Raccoglie i pensieri e cerca le parole giuste.

«Vedi - mi dice - io non sottovaluto affatto l’esperienza di governo. Quella che è in corso in Italia e in altri paesi occidentali. Però credo che non possiamo “appendere” la politica a questo. Cioè appendere l’“utopia concreta”, della quale stavamo parlando, alla conquista del governo. La partecipazione al governo è una esperienza molto importante per la sinistra: ma se diventa la bussola, se diventa l’essenziale, se diventa il prisma di rifrazione attraverso il quale si guarda la realtà, la si definisce e si fissano le proprie analisi, allora non si capisce più niente, si perde l’orientamento».

Ti faccio un’obiezione. La grande opinione pubblica, mi sembra, è uscita dal novecento con due convinzioni, forti e in contrasto tra loro. La prima è che i governi facciano schifo. La seconda è che l’unica cosa che conta, in politica, è il governo, e che la politica si conclude nella gara per chi lo conquista. Non è così? E se è così non è sbagliato sottovalutare il valore dell’essere al governo?

«Penso che sia vero quello che dici, ma è solo la constatazione dello stato delle cose. Poi bisogna capire perché questo avviene. L’enorme importanza che assumono i governi rispetto all’opinione pubblica è data dalla debolezza della politica. L’Europa vive oggi una crisi della politica. E dentro questa crisi c’è una crisi della politica della sinistra. E questa crisi della sinistra è parte di una crisi più grande ancora che è la crisi della democrazia. L’indebolimento dei grandi soggetti della politica di massa - i partiti, i sindacati, cioè le grandi coalizioni sociali, politiche, di idee, di comunità - ha lasciato sulla scena pubblica, quasi desertificata, due soli protagonisti: l’opinione pubblica e il governo. Soli, l’una di fronte all’altro. Senza mediazioni, senza cerniere, senza organismi collettivi in grado di produrre politica e di trasformare in politica le domande e i conflitti. Il governo a questo punto non assume più la sua importanza in quanto “produttore di opere” - e non si giudica più per le opere che compie - ma ingigantisce la propria immagine e il proprio peso per deficit degli altri soggetti della politica. Li surroga, perché è rimasto solo di fronte al popolo. Se noi accettiamo questo stato di cose accettiamo la vittoria dell’antipolitica».

Perché centralità dei governi vuol dire antipolitica?

«Perché l’antipolitica - in assenza della politica - diventa il meccanismo di relazione tra opinione pubblica e governo. Sostituisce l’esplicazione del conflitto. Ne vuoi la riprova quasi aritmetica? In Europa, in tutte le competizioni elettorali degli ultimi anni, i governi in carica hanno perso (c’è la sola eccezione di Blair, che comunque ha ricevuto un notevole ridimensionamento elettorale). Ti ricordi Aznar prima delle elezioni? Sembrava imbattibile, un semidio, era diventato il simbolo del governante moderno e vincente. E’ andato alle elezioni e ha perso. Ti ricordi Schroeder? Era una potenza assoluta, governava con poteri enormi, quando ebbe l’impressione che Oskar La Fontaine potesse disturbare la sua azione, cacciò La Fontaine dal governo. Poi è andato al voto e ha perso. E così Jospin, e così Berlusconi e così tutti gli altri.
Perché? In assenza di organismi politici cresce la delega e l’antipolitica. Sono due facce di uno stesso equilibrio precario. Fatto di tre passaggi già prefissati: delega, rassegnazione e poi stroncatura. E’ un equilibrio molto rischioso, perché risucchia la democrazia, la mette in mora. E l’antipolitica ormai inizia a filtrare nella politica, a permearla, a conquistarla».

Per esempio nel berlusconismo.

«Certo, è un esempio evidente. Ma io vedo l’antipolitica farsi largo anche nel centrosinistra. Per essere diplomatici non parliamo dell’Italia. Guardiamo alla Francia: nella campagna elettorale di Ségolène Royal c’è molta antipolitica, c’è un populismo dolce. Ségolène Royal ha preso le domande dell’antipolitica, le critiche dell’antipolitica e le ha fatte sue. Capisci? L’antipolitica avanza, anche perché contiene alcuni elementi di critica alla politica che sono assolutamente fondati, moderni, e sono in ragione della crisi della politica. Questa condizione genera crisi progressiva della democrazia».

Qual è il motivo di questo dilagare dell’antipolitica?

«Io credo che questa società, che è una società ingiusta, generi conflitto. Questo mi sembra un fatto assodato, innegabile. Più esattamente, genera conflitti (al plurale). Conflitti di lavoro, comunitari, di genere, professionali, corporativi, identitarii...Questi conflitti non producono vittorie o sconfitte a secondo di chi governa. C’è una autonomia tra conflitti e governi. Un movimento vince o perde non in virtù delle condizioni di governo nelle quali agisce. Quello che non accade è che questi movimenti possano sedimentare delle conquiste. Il problema, cioè, è che questi movimenti, quando vincono, non “conquistano” ma semplicemente “impediscono”. E quindi non riescono, attraverso le loro vittorie, a costruire democrazia. Agiscono dentro la crisi della democrazia, suppliscono alla crisi della democrazia attraverso le loro lotte, ma non producono gli anticorpi alla crisi della democrazia. Cioè non riescono ad avere i risultati politici del ciclo precedente. I movimenti del secolo scorso conquistavano “casematte” e producevano spostamenti stabili dell’opinione pubblica. Questi movimenti che abbiamo oggi in campo talvolta sono anche molto forti, sconfiggono nemici potentissimi, ma non costruiscono senso comune e consenso di massa. Ora capisci che qui conta il vuoto della politica, l’assenza di soggetti in grado di essere collettori di queste domande e di queste spinte, e anche di queste conquiste “ad impedire”».

L’assenza, direi, non è assoluta: c’è la sinistra radicale, c’è Rifondazione...

«Svolgono un ruolo importantissimo. Ottengono anche molti successi. Qui però dobbiamo parlare della “massa critica” cioè della possibilità di creare tendenza. Non esiste ancora, nella sinistra radicale, un soggetto in grado di misurarsi su questa dimensione, di raggiungere la massa critica. Questo provoca un altro tipo di conseguenze che provo a spiegare: succede che in Europa i conflitti tradizionali si scindano, si dividono in due e cambino natura. Noi oggi assistiamo a due gruppi di conflitti. Un gruppo che riguarda le differenze tra destra e sinistra, e che è molto visibile, molto acceso quando le sinistre sono all’opposizione. E l’altro gruppo che riguarda il contrasto tra “alto” e “basso” della società, cioè tra ceto dirigente e base, e questo secondo tipo di conflitto è assai più forte quando la sinistra è al governo. Questi due conflitti si incrociano. La contesa tra alto e basso diventa il veicolo dell’antipolitica».

Perché con la sinistra al governo prevale il conflitto alto-basso

«Perché i governi di sinistra spesso non riescono a giovarsi della forza e della spinta dei movimenti. Questo attenua il conflitto destra-sinistra, lo esclude dal palazzo, e dunque lascia spazio all’altro tipo di conflitto».

Quale è la strada per uscire da questo vuoto?

«Non c’è nessun’altra possibilità che la ricostruzione di soggetti politici organizzati. Ma perché questo avvenga occorre ricostruire una cultura politica e una cultura politica di sinistra».

Scusa, ma non vedo la possibilità di ricostruire soggetti politici e cultura di sinistra se non avviene che pezzi diversi, e uomini diversi, e settori diversi della politica di sinistra ricomincino a pensare, a parlarsi tra loro e a confrontarsi e a produrre pensiero comune... Non credo che esista una singola forza della sinistra in grado di risolvere il problema che poni tu.

«Penso così anch’io. Io credo che ci sia una via d’uscita a questa crisi solo se si uniscono forze e si mette al primo punto il problema della cultura politica e del che fare. Bisogna sganciarsi da quello che è stato fatto prevalentemente sin qui. Cioè l’ingegneria organizzativa dei partiti, che viene dopo l’ingegneria istituzionale eccetera. E’ stato sempre così in questi anni. La politica che riesce solo a pensare a come disegnare e assestare se stessa: quale legge elettorale, quale geografia dei partiti, quali meccanismi di divisione del potere... Resta fuori il rapporto con i popoli, con i movimenti, e il problema di quale cultura serve per affrontare un progetto politico e sociale di società. Mi piacerebbe se i vari pezzi della sinistra riuscissero a concentrarsi su questo, a produrre idee su questi problemi invece di perdere tempo a progettare nuovi schemi, nuove architetture di partiti...»

Se capisco, tu dici: chiudiamo il tormentone sulle nuove aggregazioni o disgregazione dei partiti, e concentriamoci sui rapporti tra politica e società. Cioè, invece di costruire partiti nuovi costruiamo politica nuova...

«Si, proprio così. Sospendiamo la discussione su come organizzarci e iniziamo quella su cosa fare. E proviamo a ragionare sul tema della cultura politica e della crisi del rapporto tra politica e società, anche attraversando i partiti tradizionali, senza porci il problema di come li attraversiamo, ma di cosa riusciamo a unire e quali idee e soluzioni possiamo produrre».

Dentro questo ragionamento c’è una nuova unità della sinistra?

«Si, penso di sì. Per affrontare la crisi della politica bisogna affrontare la questione di come raggiungere la “massa critica”. Se non lo affronti, questo tema, se lo rinvii a chissà quando, potrai seminare in eterno e benissimo, ma non riuscirai mai a raccogliere. Questa massa critica deve essere trasversale. Deve costringerci a fare politica attraverso».

Scusa, ma non capisco benissimo. Mi fai un esempio.

«Prendiamo la politica estera italiana. E’ stata realizzata dal governo e prima ancora nella stesura del programma. E’ una politica estera che ha un senso e che dà un contributo all’Europa. Benissimo. Ma io mi chiedo: perché le sinistre possono solo concorrere alla politica estera del governo, e non hanno loro - loro in quanto sinistre - una idea comune di politica estera, di relazioni internazionali, di pace? E quindi una Cultura politica, una idea del mondo, e poi una idea dell’Europa, eccetera eccetera.
Questo stesso ragionamento vale anche sul conflitto sociale, o sull’ambiente, o sul conflitto di genere, o sui diritti del lavoro...»

In questo quadro come si affronta il rapporto tra la sinistra radicale e quella riformista. Sono categorie ancora valide?

«Sul piano degli schieramenti politici sono categorie ancora reali. Se le manteniamo queste due definizioni, allora, in termini tradizionali, si dovrebbe dire: si devono incontrare queste due sinistre e devono confrontarsi. Se però ci misuriamo sul piano delle culture politiche, e non degli schieramenti, le cose diventano un po’ diverse. Vediamo. Le sinistre radicali, su questo piano, hanno diversi profili. Io credo che ormai tenda ad essere prevalente il profilo di quella sinistra radicale che si è rifondata in rapporto ai movimenti di questo secolo. Le culture ortodosse della sinistra, che si configurano ancora in contrapposizione alla socialdemocrazia, sono meno significative. La sinistra radicale vincente è quella che incontra il femminismo, l’ecologismo eccetera. Nell’altro campo cosa succede: i riformisti hanno una grande forza quantitativa, che però è segnata da uno smarrimento della cultura politica. I partiti socialisti europei fanno riferimento, in buona parte, a quella cultura che Riccardo Bellofiore chiama il liberal-sociale. Che vuol dire? Che pensano che i correttivi per ridurre il disagio sociale e aumentare i diritti devono avvenire senza mettere in discussione il paradigma della competitività. Anche se - vedi Francia, vedi Fabius - resta vivo un pezzo di socialdemocrazia fortemente di sinistra. La tendenza però è quella liberal-sociale. Per potere fare fecondamente un laboratorio politico delle sinistre, questa tendenza liberal-sociale andrebbe in qualche modo ridimensionata. Non per una ragione ideologica ma perché la profondità della crisi sociale - ma anche della crisi politica - dice che tu oggi devi indicare una idea di modello - sociale,economico, democratico - è di questo che ha bisogno l’Europa. Non un aggiustamento: una costruzione. Però io non penso a una discussione con steccati ideologici preventivi. Le discriminanti non vengono dalle “identità” dei partecipanti alla discussione, ma dai temi della discussione. Se si stabilisce che si affrontano i temi della politica - del modello, del progetto di società - e non della amministrazione, si esclude chi concepisce la politica come un semplice atto amministrativo, che è la chiave del liberal-sociale. Oggi la sinistra è fotografabile in questo modo: le sinistre riformiste prevalgono sul piano delle organizzazioni, le culture radicali prevalgono sul piano delle culture politiche».

Perché la sinistra radicale ha questa forza e questa debolezza?

«Perché non è in grado di avanzare una proposta che tocchi il problema della massa critica. Per questo l’elettore, spesso, dice: “hai ragione tu ma scelgo lui”. Si presenta il problema dell’efficacia della politica. E’ un problema capitale per il movimento e per chi ha dei bisogni. Io sono costretto a dire che tu sei bravo ma non riesci a risolvere il mio problema, anche se hai delle ottime idee per risolverlo. E allora scelgo quell’altro che magari risponde malissimo al mio bisogno, ma io penso sempre che però se volesse rispondere bene, potrebbe... Se la sinistra radicale non è in grado di risolvere il problema dell’efficacia, e quindi il problema dell’unità, allora le forze riformiste avranno sempre un vantaggio, perché partono con un vantaggio di consensi e quindi hanno dalla loro, come apparentemente già risolto, il problema dell’unità».

Bertinotti, nella battaglia politica di questa fase è chiaro che c’è un problema: l’intervento massiccio e potente dei poteri forti, che alterano i rapporti di forza nello scontro politico. Cosa bisogna fare?

«Bisogna analizzare i poteri forti. Analizzarli scientificamente nella loro forza. Evitare di pensare che quei poteri siano “complotti”. Siano congiure da sventare. Non è così: sono forze. Che contano sulla cultura. Io non lo vedo il rappresentante del potere forte che alza il telefono e ordina. No, ha arato il terreno della politica e a un certo punto raccoglie i frutti, gli effetti. Bisogna allora capire dove sta la loro forza. Non è solo che hanno il potere. Hanno il potere e tendono a costruire processi egemonici. Sono costruttori di opinione pubblica, lavorano sul consenso. Il problema è quello di individuare il loro punto di forza e contrapporsi in campo aperto. Mi vien da dire: “rispettosamente”. Nel senso che riconosco il fondamento della loro posizione, e io penso di sconfiggerli perché so proporre un punto di vista più alto, più forte e più capace di aggregare consenso: un punto di vista tendenzialmente capace di proporsi come universale. Vinco solo su quel terreno lì. Solo se supero. Non se piango, protesto, invoco strane regole. A volte mi sembra che noi facciamo come faceva l’eroico Tecoppa: pretendeva che gli avversari spadaccini restassero immobili in attesa che lui li infilzasse...»
Piero Sansonetti