Il fascino delle Ninfe
bellezze in fuga
di Alessandro Stavru
LE FIGLIE DI ZEUS fanciulle dell’acqua e della natura, tornano ad affascinare gli studiosi, soprattutto i filosofi. Da Giorgio Agamben a Susanna Mati, nuovi saggi riprendono a indagare sulla natura misteriosa e doppia di queste creature
Da leggere:
C’è, in questo periodo, un ritorno di fiamma del fascino delle ninfe, almeno per la filosofia. Freschi di stampa, infatti sono: Ninfe (Bollati Boringhieri, pp. 57, euro 6,50) in cui Giorgio Agamben indaga su queste figure che sono una delle chiavi più ricche per penetrare la mitologia degli antichi e il rapporto tra Anima e Sessualità, e Ninfa in labirinto di Susanna Mati (Moretti&Vitali, pp. 145, euro 16). Tra i testi «classici», ricordiamo: Jennifer Larson, Greek Nymphs, Oxford University Press, Oxford/New York; Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna, Il Saggiatore; Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi; Walter F. Otto, Le Muse, Fazi.
«Nove generazioni di uomini nel fiore degli anni vive la gracchiante cornacchia; il cervo quattro volte più della cornacchia, il corvo invecchia dopo tre vite del cervo; ma la fenice dopo nove del corvo. E noi, Ninfe dalle belle chiome, figlie di Zeus e gioco, viviamo dieci volte più della fenice». Queste parole, tramandate da Esiodo e pronunciate da una Ninfa, sollevano uno dei più spinosi problemi della mitologia classica: sono le Ninfe eterne, e dunque divinità in senso pieno, oppure mortali, e pertanto esseri demoniaci? A questa domanda non è possibile dare una risposta univoca, dato che le Ninfe venivano venerate in innumerevoli culti, disseminati su tutto il suolo greco. Ogni luogo della natura selvatica era abitato da Ninfe: i monti dalle Oreadi, i boschi dalle Alseidi, i prati dalle Leimoniadi, le valli dalle Napee, i laghi e gli stagni dalle Limniadi, le sorgenti dalle Naiadi, le piante dalle Driadi, il mare dalle Nereidi, il cielo dalle Pleiadi. In virtù di questa loro infinita pluralità, le Ninfe non possedevano un nome proprio, se non quello che mutuavano dalla sorgente, dallo stagno o dall’albero cui davano vita. Sintomatico è il caso delle Amadriadi, letteralmente «coloro che vivono quanto gli alberi»: cessano di vivere nel momento in cui muore la pianta che abitano.
Corteggiate da dei e uomini, le Ninfe sono di una bellezza irresistibile. Al loro fascino soggiacciono Zeus, Apollo, Dioniso, Hermes e Poseidone, ma anche innumerevoli eroi. L’esempio più celebre è quello di Odisseo, tenuto prigioniero per oltre dieci anni da Circe e da Calipso. Significativo è anche il racconto di Dafne, che per sfuggire alle avances di Apollo si trasformò in alloro. Oppure la storia di Clizia, amata dal dio del sole Helios e poi miseramente abbandonata: incapace di rassegnarsi, fissò per nove giorni l’oggetto del suo desiderio, finché, consunta d’inedia e dolore, fu mutata nel girasole.
Come scrive Walter F. Otto, la bellezza fa parte dell’essenza delle Ninfe poiché «è frutto del silenzio in quanto perfezione... all’occhio devoto il silenzio si palesa proprio attraverso la bellezza». Si tratta di un silenzio sublime, di un «tacere primordiale» che paradossalmente si esprime attraverso la musica. Di qui i canti e le danze che accompagnano le Ninfe in ogni momento della loro esistenza. Altre attività che le caratterizzano sono la caccia, la guarigione e l’educazione (accudirono nientemeno che Zeus, Apollo e Dioniso). Al pari delle celebri Moire, le Ninfe sono inoltre divinità tessitrici. Adornate di magnifici pepli, stendono un velo che congiunge i destini umani a quelli divini. Sorvegliano l’ordito del velo nuziale e proteggono le nozze femminili. Infatti il termine nymphe definisce la fanciulla, la vergine o la donna pronta al matrimonio. È imparentato con il verbo latino nubere, «prendere marito» (da cui la nostra «nubile»).
L’etimologia più significativa della Ninfa rinvia però a un’altra dimensione. Numphe significa infatti anche «fonte» o «acqua sorgiva». L’equivalente sostantivo latino lympha, e soprattutto l’aggettivo lymphaticus («folle») rivelano l’autentica natura del liquido ninfale. Si tratta, scrive Salustio, di un principio cosmico generativo: «le Ninfe sono preposte alla generazione, giacché tutto ciò che è generato è in flusso». Di qui l’analogia tra le Ninfe e le anime che si ritrova in Plotino e in Porfirio. Ma di qui, soprattutto, la follia delle Ninfe. Coloro che abitavano nei dintorni degli antri delle Ninfe erano detti nympholeptoi, «posseduti dalle Ninfe». Erano «ebbri per ispirazione di un essere divino», dice Aristotele. Nel possederli, la Ninfa, li metteva in rapporto con un sapere di superiore provenienza, in virtù del quale diventavano parte integrante del divino. Scrive in proposito Roberto Calasso che «per i Greci, la possessione fu una forma primaria della conoscenza, nata molto prima dei filosofi... Tutta la psicologia omerica, degli uomini e degli dei, è attraversata dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme, profili».
Le Ninfe presiedono a ogni divina possessione, prima fra tutte quella erotica. Racconta a questo proposito Pindaro che Afrodite portò agli uomini l’«uccello delirante» Inyx, dal quale ebbe origine il desiderio sessuale; ma Inyx altri non era che una splendida Ninfa, trasformata in uccello da Hera per aver offerto un filtro d’amore a Zeus. Anche la possessione filosofica era connessa alle Ninfe: in un celebre passo del Fedro, Socrate confessa di essere «posseduto dalle Ninfe», e ad esse decide di rivolgere una preghiera alla fine del dialogo. Come nota Calasso, in questo caso «la Ninfa è la materia mentale che fa agire e che subisce l’incantamento»; infatti, «il delirio suscitato dalle Ninfe nasce dall’acqua e da un corpo che ne emerge, così come l’immagine mentale affiora dal continuo della coscienza». Fonte di sublime ispirazione, l’acqua delle Ninfe è però anche estremamente pericolosa. I suoi effetti nefasti si abbattono sul bellissimo Ila, l’amante di Eracle che, sbarcato a Kios con la spedizione degli Argonauti in una notte di luna piena e allontanatosi per cercare dell’acqua, viene trascinato sott’acqua dalle fatali Ninfe.
Questo aspetto terribile delle Ninfe spiega perché nel Medioevo esse furono relegate ai margini dell’immaginario collettivo, se non addirittura scambiate con le streghe o altre entità demoniache. Dopo secoli di oblio, nel Rinascimento tornarono alla ribalta soprattutto con Dante, le cui «Ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni» segnano un momento di svolta importante. La leggerezza della Ninfa dantesca esprime infatti quel che Aby Warburg chiamerà il «gesto vivo» dell’antichità pagana. Un gesto che nella Nascita di San Giovanni Battista del Ghirlandaio si esprime nell’elegante movimento del drappeggio e dei capelli della Ninfa, agitati da una «brezza immaginaria» invisibile nel resto dell’affresco. È questo dolce tremito a far rivivere il mondo antico nella Firenze di Lorenzo de’ Medici: «Queste Ninfe ed altre genti sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza».
La dimensione dantesca subisce un brusco capovolgimento in Boccaccio, nel quale le Ninfe si fanno pura carnalità, oggetto di un amore profano e caduco: «le Ninfe Castalide, alle quali queste malvagie femine si vogliono assomigliare, non t’abbandoneranno già mai... è a loro grado il potere stare, andare e usare teco». Nasce qui la ninfa dei giorni nostri, simbolo di misoginia e fatuità erotica. L’abiezione della «femina» dà luogo a un materialismo senza speranza. E a poco vale la preghiera che Boccaccio rivolge alle divinità in fuga: «O Ninfa, non te ne gire, ferma il piè, ninfa, sovra la campagna, ch’io non ti seguo per farti morire!». Come scrive Eliot, «le Ninfe sono ormai dipartite».
l’Unità 28.2.07
Sì di Londra agli esperimenti su embrioni uomo-animale
Blair era intenzionato a dire no ma gli scienziati hanno protestato: importanti per arrivare alla cura di gravi malattie
di Pietro Greco
IL GOVERNO INGLESE sarebbe intenzionato a consentire la sperimentazione dei cosiddetti «embrioni chimera», ovvero la creazione per motivi di ricerca di cellule embrionali in cui il nucleo è umano e il citoplasma è di mucca o di coniglio. Lo annuncia il giornale londinese Times, che a inizio febbraio aveva ospitato una lettera con cui 45 fra scienziati, compresi tre premi Nobel, bioeticisti e politici chiedevano per l'appunto la rimozione di ogni divieto. La lettera privata si era aggiunta alle proteste ufficiali di alcune istituzioni scientifiche, tra cui Human Genetics Commission, ovvero la commissione tecnica che consiglia il governo inglese sui temi genetici.
Tutti partono dall'idea che la clonazione per trasferimento di nucleo possa diventare una fonte di cellule staminali embrionali, che a loro volta potrebbero un giorno essere utilizzate nella lotta a gravi malattie degenerative. Si tratta, insomma, di una pista di ricerca, importante, ma dagli esiti non scontati. Il fatto è che la clonazione ha bisogno di cellule uovo capace di accogliere il nucleo di un'altra cellula e iniziare un percorso di sviluppo che i biologi chiamano ontogenetico e che noi possiamo definire di crescita di un individuo. Nei primi stadi di questo sviluppo, si formano le cellule staminali embrionali. La ricerca presenta ancora molti nodi da sciogliere. E uno dei principali è la carenza di cellule uovo. Ottenerne in gran quantità significa chiedere ad alcune donne di sottoporsi a poco piacevoli cure ormonali. Di qui l'idea: usiamo cellule uovo di animali. Quelle di mucca o di coniglio sembrano le più indicate. Questo hanno chiesto, tempo fa, molti scienziati inglesi al governo di Sua Maestà. Ottenendo in cambio una risposta interlocutoria. Il governo era intenzionato a rispondere solo nel prossimo autunno, e l'orientamento era per il no. I sondaggi sembravano indicare una sorta di repulsione da parte del pubblico.
Ma i 45 estensori della lettera al Times di inizio febbraio hanno fatto notare che il campione interrogato non era rappresentativo degli inglesi, ma solo di alcune comunità religiose. E che il no si sarebbe trasformato in un serio pregiudizio per le ricerche degli scienziati inglesi. Di qui l'inatteso cambiamento di parere. Il governo autorizzerà la creazione di «embrioni chimere», sotto il controllo e i vincoli dell'autorità britannica per la fertilizzazione umana e l'embriologia. I primi a beneficiarne saranno, con ogni probabilità, gli scienziati del King's College e del North East England Stem Cell Institute (Nesci). La comunità scientifica e quella dei bioeticisti sono divise su questo specifico argomento. Alcuni scienziati fanno notare che l'embrione chimera conterrà al 99% genoma umano, ma avrà circa l'1% di genoma animale, sotto forma di Dna mitocondriale, che si trasmette solo per linea materna. E contro questa eventualità giocano due precauzioni scientifiche. Non mescolare in generale molecole biologiche umane e animali e, in particolare il Dna, a causa di possibili effetti non conosciuti. Altri scienziati sostengono che non ci sono prove di rischi particolari. E quindi, per scopi di ricerca, gli «embrioni chimera» possono essere realizzati. Anche da un punto di vista bioetico le posizioni sono speculari. Da un lato c'è chi - come i bioeticisti cattolici - vedono in questa concessione un nuovo attacco all'intangibilità dell'uomo e della sua costituzione genetica. E dall'altro c'è chi sostiene che i rischi minimi vadano corsi perché in gioco (sia pure in prospettiva) c'è la salute di milioni di persone.
l’Unità 28.2.07
Poesie civili in cerca di una polis
di Francesca De Sanctis
IL LIBRO Pietro Ingrao, Walter Veltroni e Valerio Magrelli hanno presentato ieri a Roma la raccolta di versi di Pietro Spataro: drammi e passioni del nostro tempo
Per un attimo il tempo sembra aver fatto un improvviso passo indietro nella lunga e gloriosa storia de l’Unità. Come i passi di un gambero, pare che il conto alla rovescia si sia fermato agli anni ’92-96. Redattori, tipografi, grafici, perfino quasi l’intero ufficio centrale dei redattori capo de l’Unità 2 ieri pomeriggio si sono dati appuntamento nella Sala Pietro da Cortona in Campidoglio (Roma). Davanti ad un tavolo siede l’attuale vicedirettore vicario di questo giornale, Pietro Spataro, stavolta in veste di poeta. E da quel tavolo, infatti, i relatori parlano della sua seconda raccolta appena pubblicata dalla casa editrice Manni: Cercando una città (pagine 121, euro 13,00).
Curioso che tra di loro ci sia l’allora direttore de l’Unità, Walter Veltroni, oggi sindaco della città, e Valerio Magrelli, firma storica del giornale. Ci sono anche l’autrice Piera Mattei e Pietro Ingrao, che firma anche l’introduzione al libro di Spataro. «Per questo - dice - non ero molto sicuro di voler partecipare a questa presentazione, ho già scritto quello che penso». Poi però inizia il suo dialogo, a tratti rivolto solo all’autore del libro, con il quale parla sottovoce, quasi alla ricerca di una conferma prima di condividere con la platea i suoi pensieri. «È un libro drammatico - dice senza esitare - e a volte non proprio all’altezza della tensione interiore. In alcuni versi è come se Pietro tirasse un freno, per prendere fiato». Spataro lo guarda dritto negli occhi, non dice nulla, mentre le sue dita continuano a giocherellare con una penna.
Poi Ingrao si rivolge a Magrelli, che siede «alla sua sinistra: materiale intendo», mette subito in chiaro. «La parte del libro che più mi ha trascinato è quella che va verso la conclusione tragica del tempo esaminato». Per Magrelli in Cercando una città c’è la stessa tensione che aveva trovato nella prima raccolta di Spataro, Al posto della cometa, «in questo caso però il libro si apre alle poesie civili, dove convivono il pubblico e il privato. E come si intuisce dal titolo stesso una città reale e ideale si intrecciano». Ed è così in tutto il volume.
Cartografie, mestieri (dal falegname all’elettricista, dall’operaio al muratore; bellissima la poesia Uno in più che recita «Da oggi sei un esubero quindi / non sarai più esuberante»), volti del passato e del presente (Pintor, Berlinguer, Luzi, Che Guevara...), viaggi, tragedie del mondo. «Mentre stavo raggiungendo questa sala ho ricevuto un sms di un’agenzia che diceva: “In Iraq una bomba uccide 18 ragazzini” - racconta Veltroni - e ho pensato al verso di Spataro “non sa la bomba l’indirizzo giusto”». L’autore ne approfitta per ingraziarlo di essere «portatore di un’idea politica ancora in grado di muovere le passioni di uomini e donne». Quel verso tratto dalla poesia intitolata Il pensiero della bomba piace a molti in quella sala, Ingrao compreso. Più voci rileggono la poesia, anche Paola Pitagora che ha accompagnato la presentazione del libro con le sue letture insieme al violino di Giovanni Bruno Galvani. Quella bomba che «non sa dove abita la vita» e «inerte porta morte» continua a cadere, ma un segno di speranza nel libro c’è: ancora si può continuare a cercare.
Repubblica 28.2.07
Il Paese della follia
di Filippo Ceccarelli
Per il "Financial Times" l'Italia è, nella Ue, maglia nera della salute mentale
Dominano isterie da talk-show ed esibizionismi. Neanche il sesso è più materia riservata
Berlusconi è solito scaldare i fans urlando: "Sono un visionario, vi piaccio così?"
Da Prodi a D´Alema, sempre più spesso i politici sbottano: "Ma siamo matti..."
Roba da matti, appunto. La crisi di governo, e un po´ anche la sua soluzione, come il segno, lo specchio, la conseguenza di un più generale disagio psichico. Di un impazzimento, per metterla giù dura. La novità degli ultimissimi tempi è che questa possibile interpretazione comincia a circolare anche all´estero.
«Sir», ha scritto l´altro giorno al direttore del Financial Times il professor Andrew Oswald, economista dell´università di Warwick, è giusto mettere l´accento sui problemi economici dell´Italia. Ma da un´approfondita inchiesta da me condotta risulta che lo stato di salute mentale («mental health») dell´Italia è chiaramente il peggiore d´Europa. Nei vari parametri della ricerca – insonnia, tensione, autostima, senso di inadeguatezza, infelicità, depressione – i numeri italiani «ci hanno sorpreso».
Laggiù sono messi malissimo, conclude l´autore della psico-indagine. Molto peggio di quanto se ne rendano conto, viene da pensare, fra Montecitorio e Palazzo Madama.
E certo non suona consolatorio, ma se le valutazioni del professor Oswald sono affidabili, per una volta l´Italia si riflette pienamente nella sua classe politica ai suoi massimi livelli. Si ricorderà come a novembre, esasperato dalle critiche alla Finanziaria, il presidente Prodi fosse esploso: «Qui ormai siamo in un paese impazzito».
Ecco. A tre mesi di distanza da quello che sembrava poco più che uno sfogo, per lampi e frammenti opportunamente virgolettabili la caduta del governo ha riportato in campo il tema della follia. Ha detto a botta calda il ministro degli Esteri D´Alema: «Siamo un paese di matti». Si è lamentato il senatore dissidente Rossi: «Dicono che sono un matto». E l´altro, Turigliatto: «Non sono un folle». E quell´altro ancora, Pallaro, sia pure con un´alzata di spalle: «Qui sono tutti matti». Sorge il sospetto: e se lo fossero davvero? Se la politica avesse di colpo perso la testa e la ragione?
L´onorevole di An Ciccioli, che di professione fa lo psichiatra, si è spinto più in là: «Il centrosinistra è affetto da psicopatologia dissociativa, sindrome per cui la mente non riconosce parti del corpo e viceversa». La classe dirigente, ha concluso una recentissima ricerca della Luiss, «è depressa». Sia come sia, all´agenzia Adn-Kronos è parso naturale di bussare alla porta di un altro clinico del ramo, il professor Di Giannantonio, dell´università di Chieti, che ha risposto segnalando le ripercussioni emotive di tali eventi. Stress convulso, rabbia, frutrazioni: «In questi - ha riconosciuto - ci si agita spesso a vuoto, si mangia male e si bevono troppi caffè».
Ora. Di solito è saggio guardarsi dalle diagnosi selvagge e ancora di più da quelle politicamente mirate. Quando venne affondato il primo governo Prodi, per dire, si sviluppò un vano dibattito sul narcisismo di Bertinotti. Così come da almeno un decennio abbondano le più irrilevanti analisi sulla presunta megalomania di Berlusconi. Eppure, al netto della polemica e dell´insulto facile, quello che dura un giorno e poi svanisce, colpisce la facilità con cui da qualche tempo l´argomento della follia viene invocato nel discorso pubblico dai suoi stessi protagonisti.
Oppure appare piuttosto visibile per conto suo, questa diffusa perdita dell´autocontrollo, e si esercita con la dovuta complicità dei media in certe vistose manifestazioni che spesso violano i confini del decoro e del buonsenso. Isterie da talk-show, paranoie complottistiche, un flusso ininterrotto di elementi legati alla magia e alla superstizione (iella, scaramanzie, talismani recati sempre più di frequente ai leader, che li accettano di buon grado). Quindi accentuata ricorrenza di confessioni personali (sesso, per lo più) e di tematiche «basse» (si pensi alla questione del bagno della Camera o all´uso politico e simbolico delle mutande). E infine - ma su questo terreno la fine appare un concetto assai relativo - vera e propria voluttà di autodegradazione, sia pure light e a scopo d´intrattenimento, comunque attivata sul labile confine che un tempo separava la satira dalla realtà e che oggi, per dire, ha condotto un certo numero di uomini politici prendersi a torte in faccia sul palcoscenico del Bagaglino.
Va da sé - e tanto più va da sé in occasione dell´anniversario di Franco Basaglia - che la vera pazzia è un´altra cosa, un´altra storia, un dramma doloroso. E che per fare il leader, forse, un pizzico ce ne vuole pure. Dopo tutto il Cavaliere, cui si deve una prefazione ad Erasmo, la rivendica addirittura, questa sua vena, e la tira fuori quando deve mobilitare le emozioni della sua folla, e allora grida al culmine del calore: «Siete d´accordo con la lucida follia visionaria di chi vi parla?». E quelli: «Sììììì!». Sul nesso impalpabile fra stramberia e potere ha scritto pagine biografiche e indimenticabili Francesco Cossiga, già designato «caso clinico» (da De Mita) che a suo tempo recuperò e fece sua la figura shakesperiana del «Fool», il giullare: «Io faccio il matto - e qui alcune volte il Capo dello Stato strizzava anche l´occhio - ma non sono matto. Io dico la verità».
E tuttavia: appare poco plausibile che tutti oggi dicano la verità. Forse era sincero Veltroni allorché in campagna elettorale fu beccato dai giornalisti a scrivere a su un bigliettino a Casini la formula ormai di moda, o di prammatica: «Qui sono tutti matti». Forse lo pensava davvero anche Prodi quando pochi mesi dopo, rispondendo a una domanda di un giornalista sullo stato di salute di Berlusconi, disse: «Non lo chieda a me: non sono un medico».
La cosa buffa, semmai, e a suo modo anche un po´ folle, è che questo permanente rinfacciarsi la malattia mentale finisce per apparire sospetto. Come se ormai priva di riferimenti sociali, e desiderosa di accorciare le distanze con il pubblico a colpi di strilli artificiali, lacrime indotte, palpitazioni strategiche ed esibizionismi coatti, la classe politica fosse rimasta prigioniera della sua stessa e nuda emotività. A un passo da delirio, ma senza saperlo. Forse.
Sembra, come ha raccontato Casini in tv, che poco prima della crisi i due eterni contendenti, Prodi e Berlusconi, si siano incontrati più o meno in segreto; e guardandosi negli occhi abbiano convenuto che nei rispettivi schieramenti «ognuno aveva i suoi matti». E «liberiamocene!» avrebbe proposto di slancio il Cavaliere. Si ignora la risposta del presidente del Consiglio. Ma qui, in fondo, si chiude il cerchio delle italiche mattane: vere e presunte, procurate o spontanee, individuali e collettive, con buona pace del professor Oswald e dell´università di Warwick.
Repubblica 28.2.07
La spiritualità degli atei
di Enzo Bianchi
L'autore è fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose
È possibile che i non credenti si confrontino con i cristiani sulle domande attorno al senso della vita?
In Italia alcuni si esercitano a offendere la fede dei credenti e ci si nega reciprocamente la capacità di etica universale
Ormai in Italia il confronto tra credenti cattolici e non cristiani, agnostici o atei è sempre più segnato da conflittualità e polemiche che a volte diventano derisione e disprezzo reciproco. Va detto con franchezza: siamo lontani dallo spirito espresso da Paolo VI con parole ormai dimenticate: "Noi dedichiamo uno sforzo pastorale di riflessione per cercare di cogliere negli atei nell´intimo del loro pensiero i motivi del loro dubbio e della loro negazione di Dio".
E´ vero che oggi l´ateismo militante non è più attestato come negli anni sessanta, ma l´orizzonte agnostico, oggi ancor più esteso di allora, richiede in realtà lo stesso sforzo da parte dei cristiani per tessere un dialogo che si nutra di ricerca comune, di ascolto, di dibattito tra vie diverse. Invece da una parte, quella dei credenti, le posizioni sono sovente difensive perché nutrite di paura e di vittimismo, mentre da parte di alcuni non cristiani si arriva a deridere la fede, ad affermare che proprio i cristiani sono incapaci di avere un´etica, che la fede è fomentatrice di integralismo, intolleranza e violenza. Veementi attacchi anticristiani da una parte, dall´altra mancanza di ascolto e persino demonizzazione del "non credente", giudicato "incapace di moralità".
E così, qua e là echeggia una parola di Dostoevskij: "Se Dio non esiste, tutto è permesso!", considerando chi non crede come persona priva di spiritualità e di morale. Ma allora, è praticabile un dialogo convinto, rispettoso, capace di essere anche fecondo? E´ possibile che i non credenti si confrontino con i cristiani sulle domande attorno al senso della vita? E´ possibile che il cammino di "umanizzazione", essenziale all´umanità per non cadere nella barbarie, sia percorso insieme? Ma affinché questo cammino si apra occorrono alcune urgenze che cerco di delineare.
Agnostici e atei non credono in Dio, non si sentono coinvolti da questa presenza perché non la sentono reale, ma sono consapevoli che invece le religioni che professano Dio fanno parte della storia umana, della società, del mondo. Come essi non trovano ragioni per credere, altri invece le trovano e sono felici: gli uni pensano che questo mondo basti loro, gli altri sono soddisfatti di avere la fede. Ma proprio questo fa dire che l´umanità è una, che di essa fanno parte religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità. Spiritualità non intesa in stretto senso religioso, ma come vita interiore profonda, come fedeltà-impegno nelle vicende umane, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla dimensione estetica e alla creazione di bellezza nei rapporti umani. Spiritualità, soprattutto, come antidoto al nichilismo che è lo scivolo verso la barbarie: nichilismo che credenti e non credenti dovrebbero temere maggiormente nella sua forza di negazione di ogni progetto, di ogni principio etico, di ogni ideologia. Purtroppo questo nichilismo viene sovente definito relativismo, finendo per confondere il linguaggio del dialogo e del confronto e portando all´incomprensione reciproca. Ed è lo stesso nichilismo che, paradossalmente, può assumere la forma del fanatismo in cui ci sono certezze assolute, dogmatismi, intolleranza che accecano fino a rendere una persona disposta a morire e a far morire.
No al nichilismo, dunque, ma allora emerge l´urgenza di riconoscere la presenza di una spiritualità anche negli atei e negli agnostici, capaci di mostrare che, se anche Dio non esiste, non per questo ci si può permettere tutto: persone che sanno scegliere cosa fare in base a principi etici di cui l´uomo in quanto tale è capace. E la grande tradizione cattolica chiede ai cristiani di riconoscere che l´uomo, qualsiasi essere umano, proprio perché, secondo la nostra fede, è creato a immagine e somiglianza di Dio, è "capax boni", capace di discernere tra bene e male in virtù di un indistruttibile sigillo posto nel suo cuore e della ragione di cui è dotato. I non credenti sono capaci di combattere l´orrore, la violenza, l´ingiustizia; sono capaci di riconoscere "principi" e "valori", di formulare diritti umani, di perseguire un progresso sociale e politico attraverso un´autentica umanizzazione.
Si tratta, per tutti, di essere fedeli alla terra, fedeli all´uomo, vivendo e agendo umanamente, credendo all´amore, parola sì abusata oggi e sovente svuotata di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il "luogo" cui l´essere umano si sente chiamato. Credenti e non credenti non possono essere insensibili ad affermazioni che percorrono come un adagio i testi biblici e che sono stati ripresi dalla tradizione: "Solo l´amore è più forte della morte... Solo l´amore resterà per l´eternità...". Del resto la fede – questa adesione a Dio sentito come una presenza soprattutto a causa del coinvolgimento che il cristiano vive con Gesù Cristo – non sta nell´ordine del "sapere" e neppure in quello dell´acquisizione: si crede nella libertà, accogliendo un dono che non ci si può dare da sé. Analogamente gli atei, nell´ordine del sapere non possono dire "Dio non c´è": è, infatti, un´affermazione che possono fare solo nell´ambito della convinzione.
Vorrei che noi cristiani potessimo ascoltare atei e agnostici, potessimo confrontarci con loro, senza inimicizie, soprattutto attraverso un confronto delle nostre spiritualità, di ciò che in profondità ci muove nel nostro agire. Lo spirito dell´uomo è troppo importante perché lo si lasci nelle mani di fanatici e di intolleranti oppure di spiritualisti alla moda. Certo, ogni religione si nutre di spiritualità, ma c´è posto anche per una spiritualità senza religione, senza Dio.
Ma nella specifica situazione italiana dovremmo prestare attenzione anche ad un altro elemento, facendo tesoro di un aneddoto storico. Mussolini confidò un giorno al suo ministro degli Esteri: "Io sono cattolico e anticristiano!". Eredi di questa posizione se ne possono trovare tuttora in Italia: persone non credenti né in Cristo né nel suo vangelo, ma pronti a difendere valori culturali "cattolici". Non è questo che intendo quando parlo di spiritualità degli atei: penso invece a un sentire che rende possibile un confronto proprio sui valori del Vangelo, sul suo messaggio umanizzante a servizio dell´uomo.
Credo ci sia posto per una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di coloro che sono in cerca della verità perché non soddisfatti di risposte prefabbricate, di verità definite una volta per tutte. E´ una spiritualità che si nutre dell´esperienza dell´interiorità, della ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà della morte come parola originaria e con l´esperienza del limite; una spiritualità che conosce l´importanza anche della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare. E´ una spiritualità che si alimenta dell´alterità: va incontro agli altri, all´altro e resta aperta all´Altro se mai si rivelasse. Ne La Peste, Camus scriveva: "Poter essere santi senza Dio è il solo problema concreto che io oggi conosco". Oggi potremmo parafrasare questa affermazione dicendo che il solo autentico problema è essere impegnati in una ricerca spirituale al fine di fare della vita umana un´opera d´arte, un cammino di piena umanizzazione. Sì, in Francia pensatori come Luc Ferry o André Comte-Sponville, non cristiani e non credenti, propongono nella lotta contro la barbarie incipiente una spiritualità anche per gli atei. Da noi in Italia, invece, alcuni paiono esercitarsi a offendere la fede dei credenti e a negarsi reciprocamente la capacità di etica universale, di umanesimo... Io resto testardamente convinto che, in quanto esseri umani, non siamo estranei gli uni agli altri e che siamo pertanto chiamati ad ascoltarci e a cercare insieme.
Repubblica Lettere a Corrado Augias 28.2.07
Gentile Dott Augias, un lettore difendeva giorni fa il celibato sacerdotale sottolineandone "il valore profetico, dimostrativo della verità". Ho 43 anni sono stato per 12 anni sacerdote e priore di una comunità di un importante ordine monastico.
Ho vissuto con serenità il celibato fino al momento in cui mi sono innamorato di una donna. Un evento a causa del quale ho rinunciato con gioia ai non pochi privilegi della mia posizione. Nonostante concordi sul fatto che l'astinenza possa essere per alcune persone o per un periodo, un valore, la realtà è purtroppo, molto spesso diversa.
Negli anni trascorsi in monastero ho visto la quasi totalità delle persone patire moltissimo l'impossibilità di manifestare apertamente la propria affettività. Io stesso sono stato oggetto per l'intero periodo di molestie e pressioni perché mi rifiutavo di "cedere" agli inviti di alcuni confratelli che esigevano da me, in nome di una presunta "amicizia spirituale", prestazioni in contrasto con i miei sentimenti e il mio orientamento affettivo nonché con le regole del Diritto Canonico.
Sono stato più volte invitato in quanto priore a manifestare un'"intima vicinanza" anche ai novizi per porre rimedio alla carenza di vocazioni con una risposta "naturale" al loro bisogno di affetto, essendo la profonda solitudine la principale causa di abbandono da parte dei postulanti. Come si può ancora una volta vedere (e questo è ancora più triste in un'Istituzione che continua a condannare le unioni omosessuali), tra il dire e il fare c'è di mezzo molto più che il mare.
Ma se anche così non fosse, se tutti fossero in grado di negare la parte costitutiva del proprio essere umano per dedicare a Dio un amore indiviso, il problema rimane comunque quello di una Chiesa che a tavolino decide il bene e il male per tutti e non si lascia cambiare dalla vita e dalle persone, a differenza di Gesù che invece non metteva nemmeno Dio e la sua legge al di sopra dell'uomo.
Se lo spazio lo consentisse vorrei raccontarle quanta 'verità' ho trovato in certe pagine della letteratura. Sono propenso a pensare che la realtà della vita sia di gran lunga più debitrice all'arte che non alla teologia.
Alberto Stucchi
albertostucchi@fastwebnet. it
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La lettera alla quale il signor Stucchi si riferisce è quella di un lettore che recriminava la superficialità con la quale il problema del celibato dei sacerdoti cattolici viene trattato da chi non sia 'del mestiere', come me per esempio.
La testimonianza di oggi mi sembra notevole non tanto per la scelta finale fatta. Amor omnia vincit, come si usa dire; quando ci si innamora di una creatura che sembri degna del nostro amore, tutto il resto passa in secondo piano, anche le scelte che parevano definitive. Sono decine di migliaia in Italia i sacerdoti che hanno deciso di tornare a una vita normale nel secolo.
Nella vicenda del signor Stucchi ciò che a me pare notevole è ciò che precede, vale a dire gli inviti, le pressioni, l'insistenza a intraprendere rapporti di 'intima vicinanza' tra confratelli o con i novizi. Può darsi che si sia trattato di un caso isolato. Può darsi che il signor Stucchi, preso dal suo cocente dilemma personale, abbia travisato. Voglio crederlo, lo spero.