giovedì 1 marzo 2007

il manifesto 1.3.07
Sacrifici di governo

di Gabriele Polo


Benvenuti nel meraviglioso mondo di Pallaro. Il senatore «sudamericano» ha dato - insieme al democristiano Marco Follini - la maggioranza politica al governo Prodi, che passa l'esame di palazzo Madama anche senza il voto dei senatori a vita. Era la condizione che il presidente della Repubblica aveva posto.
Gli elettori di centrosinistra tirano un respiro di sollievo, grazie al sacrificio - a termine - dei reprobi Rossi e Turigliatto: rovesciando il ragionamento fatto la scorsa settimana a proposito dell'incoscienza dei dissidenti di sinistra, si potrebbe dire che il governo lo hanno salvato loro. Ma il vero sacrificio lo hanno fatto i laici del centrosinistra, con la legge sulle unioni civili prima incautamente inserita tra le centralità dell'esecutivo, poi edulcorata in un testo insoddisfacente sotto le pressioni della Chiesa, infine espulsa dai pensieri di Romano Prodi a favore della famiglia «tradizionale», con soddisfazione estrema del senatore Andreotti.
Quali altri sacrifici dovranno fare l'Unione e il suo programma per restare in piedi è difficile prevedere. Ma non si tratterà di poca cosa. Perché a questo punto i giochi si faranno a tutto campo, in particolare sulla riforma elettorale, e l'ipotesi di maggioranze variabili apre la strada a provvedimenti sempre più moderati, in particolare sulla politica estera, i diritti civili, l'economia e il lavoro. Già tra qualche giorno di fronte alla scadenza del rifinanziamento della missione militare in Afghanistan si cercheranno i voti sostitutivi delle annunciate e legittime diserzioni a sinistra.
La sinistra parlamentare sarà chiamata al difficilissimo compito di contrastare una deriva centrista e lobbista. Potrà limitare il danno solo se si ripenserà: se saprà valorizzare l'iniziativa sociale, ascoltare l'opposizione fuori dal Parlamento e ripensarsi complessivamente a partire dalla coscienza dei propri limiti (primo dei quali è che il mandato parlamentare non esaurisce l'agire politico, anzi ne è sempre meno elemento centrale).
Sappiamo di correre il rischio di essere noiosi. Lo ripetiamo da almeno un paio d'anni: senza una cultura politica alternativa la sinistra esiste solo come recitazione. Cioè non esiste.

l'Unità 1.3.07
Liberazione polemizza con Vendola:
importante è la politica, non la governabilità


«Originale e insolita», così il direttore di liberazione definisce la polemica che apre verso Nichi Vendola, governatore della Puglia, intervistato dal Corsera. «Davvero sull’altare della governabilità può essere sacrificato l’agnello delle lotte di massa? Davvero la cultura che cerchiamo, in fondo, è solo la cultura di governo?».
Sansonetti ricorda: io vengo dal Pci, poi dal Pds e dai Ds e fu l’ossessione della governabilità a spingere quel partito «sul terreno scivoloso del liberalismo», lontano «dalla sinistra, dalle sue idee di fondo». E che impone alla sinistra «un cortocircuito tra senso del governo (e persino senso del dovere) e pensiero politico, e progetto e cultura politica». All’opposto, conclude Sansonetti, dobbiamo cercare una cultura di sinistra. Una delle cui variabili è il governo, non l’inverso.

l'Unità 1.3.07
Schiavi, indiani, americani
Chi sono i più «americani»
di Sara Antonelli


Il «mea culpa» sembra comunque sincero
Ma, se l’America è la terra dell’uguaglianza come può spiegare il suo passato di sangue?

IN VIRGINIA, la terra di Pocahontas, il parlamento ha approvato una risoluzione nella quale lo Stato chiede scusa per la schiavitù dei neri e per lo sterminio dei popoli nativi. Un segno che l’opera iniziata da Martin Luther King non è conclusa


La risoluzione 728 approvata sabato 24 febbraio 2007 dai delegati e senatori dello stato della Virginia costituisce un piccolo manuale di storia americana. Le diciotto premesse alla risoluzione che «Esprime profondo rincrescimento verso la schiavitù involontaria degli africani e lo sfruttamento dei nativi americani e invita alla riconciliazione di tutti i virginiani», attraversano, infatti, non solo gli eventi salienti, ma soprattutto le contraddizioni che da sempre scorrono parallele alla storia degli ideali democratici che sostengono sia questo stato - la Virginia - sia gli Stati Uniti.
Il testo della risoluzione congiunta 728 si apre annunciando una celebrazione che mette al centro della storia Usa proprio la Virginia: «PREMESSO che nel 2007 cade il quattrocentesimo anniversario del primo insediamento inglese permanente Americhe a Jamestown». È qui, infatti, che giunse la Compagnia della Virginia di Londra, la prima ad ottenere una patente coloniale da re Giacomo: poche centinaia di uomini guidati da John Smith, un avventuriero i cui resoconti di viaggio ebbero un ruolo centrale nella colonizzazione inglese in Nord America. Oggi ricordiamo John Smith soprattutto per aver visto Pocahontas, il film animato Disney che racconta in chiave romantica l’incontro, proprio nei boschi che circondavano Jameston, del suo incontro con la bella principessa indiana; o anche il più recente The New World di Terrence Malik, dove uno Smith (Colin Farrell), pur rapito dall’innocenza del paesaggio naturale e da Pocahontas, cerca di tenere a bada la disgraziata colonia di Jamestown decimata dalla fame e dalle malattie.
Naturalmente, le premesse stringatissime di una risoluzione non consentono di trattare in dettaglio questa prima difficile fase della colonizzazione del Nord America né di dilungarci sull’impatto della cultura popolare nella trasmissione degli episodi storici apparentemente più accattivanti. Il testo, infatti, corre rapido a un altro punto, a un’altra premessa, a un altro episodio edificante: «PREMESSO che l’eredità dell’insediamento di Jamestown e della colonia della Virginia è composta di idee, di istituzioni, di una storia tipica dell’esperimento democratico americano e di una costellazione di libertà sancite nella Dichiarazione dei Diritti della Virginia e nella Costituzione della Virginia e degli Stati Uniti». Nota storica impeccabile: il diritto di primogenitura della Virginia è sia geografico sia politico, perché la Dichiarazione redatta dal virginiano Thomas Jefferson e letta a Filadelfia il 4 luglio del 1776 si ispira apertamente a quella, approvata soltanto due settimane prima, dallo stato della Virginia. E visto che primogenitura non vuol dire preminenza, ecco allora, a scanso di equivoci, il terzo punto: «PREMESSO che la principale espressione degli ideali che ci uniscono come popolo si trovano nella Dichiarazione di Indipendenza che proclama “di per sé evidente” la verità “che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”».
Dal quarto punto in avanti lo stringato racconto delle glorie virginiane-americane fin qui delineato comincia a scricchiolare: «PREMESSO che, nonostante il carattere “evidente” di questi principi fondamentali, le norme morali della libertà e dell’uguaglianza sono state trasgredite per gran parte della storia della Virginia e dell’America… e (quinto punto) PREMESSO che tali trasgressioni includono il maltrattamento e lo sfruttamento dei nativi americani e l’istituzione immorale della schiavitù umana, pratiche e sistemi antitetici e non conciliabili con i principi fondamentali di uguaglianza e libertà umane e (sesto punto) PREMESSO che i nativi americani popolavano il territorio di tutto il Nuovo Mondo e che erano i “prima popolazione” che i coloni inglesi incontrarono sbarcando sulle coste del Nord America, a Jamestown nel 1607 e…».
Mentre si va avanti a leggere ci accorgiamo che nella risoluzione comincia ad aprirsi uno iato tra le parole altisonanti dell’inizio e la realtà storica delle vessazioni, tra gli ideali e la pratica politica; che questo testo diventa un mea culpa nei confronti degli esclusi, degli invisibili, di quelli che sono stati sepolto dalla retorica della libertà e dell’uguaglianza, primi tra tutti i popoli nativi. Perché la Virginia non deve farsi perdonare solo la schiavitù - come si sono limitati a titolare i giornali - ma anche - anzi, prima ancora della schiavitù - il genocidio degli indiani: d’altro canto l’una non esiterebbe senza l’altro. Ed ecco, allora, che nel racconto avvincente della risoluzione 728 irrompono gli indiani Powhatan. Non per attaccare il misero fortino di Jamestown - si badi bene - bensì per fornire cibo e assistenza ai pochi superstiti di una spedizione decimata da malattie e carestia. In cambio, però, ebbero leggi che gradatamente limitarono le loro libertà, oltre naturalmente all’annientamento. Subito dopo vengono menzionati i primi africani giunti come schiavi (involuntary immigrants) in Nord America, anche loro a Jamestown, nel 1619. Segue il breve ma efficace resoconto di come siano stati brutalizzati, umiliati, privati dei loro diritti più elementari e discriminati. E di come che tutto questo sia stato possibile proprio grazie alla legislazione che vige in Virginia e negli Stati Uniti, le stesse legislazioni che comprendono gli alti principi riportati poco sopra, e che ora sembrano il prologo beffardo e ingannevole di una tragedia a tinte fosche.
Premesso tutto questo e premesso che non esistono scuse per questi crimini, e considerato il sincero pentimento del corpo governativo, e dunque della popolazione, nonché il ruolo di primo piano giocato dallo stato nelle più recenti battaglie per i diritti civili, la Virginia - prosegue la risoluzione - proprio in occasione dei quattrocento anni dalla fondazione di Jamestown, può tuttavia incoraggiare lo spirito di riconciliazione ed evitare gli errori e le ingiustizie perpetrate impunemente in passato.
Uno dei propositi - neppure troppo scoperto - della risoluzione 728 è evitare di rovinare le celebrazioni per i quattrocento anni della città di Jamestown. Le sue modalità, tuttavia, ricalcano lo spirito di uomini e donne, il più delle volte nativi o di discendenza africana, che in passato, nelle epoche in cui i torti potevano ancora essere raddrizzati, hanno messo in luce i paradossi della democrazia americana. Cambia il tono, perché dal serrato confronto polemico di ieri, oggi abbiamo le scuse ufficiali; l’evidenza del paradosso da cui scaturiscono sia le polemiche sia le scuse è lo stesso: se l’America è la terra della libertà e dell’uguaglianza dei diritti, come spiegare lo sterminio delle popolazioni native e come ammettere l’esistenza della schiavitù (oppure del patriarcato e di altre forme di oppressione sanzionate dalla legge)? Oggi la Virginia ammette che sì, si è trattato di un paradosso politico foriero di crimini orrendi e il mondo applaude; in passato si lottava, si combatteva nelle aule di tribunale, nelle sedi politiche, tra le pagine di libri e giornali, spesso rischiando dei pericolosi agitatori anti-patriottici, oppure rischiando la vita e il linciaggio. Ovviamente, molti di quei nemici del popolo non facevano altro che chiedere di rispettare i principi democratici di libertà e eguaglianza, e la legge, naturalmente. Lo facevano ingaggiando una battaglia retorica con i principi di libertà e uguaglianza volta a dimostrare la loro non applicazione, ma per questo venivano spesso accusati di sacrilegio.
Si leggano le pagine della prima autobiografia indiana, Son of the Forest (1836), là dove il pequot William Apess avvicina l’indiano re Filippo, che difese la sua terra dall’invasione dei coloni inglesi, ai patrioti americani che nel 1776 si ribellarono al dominio di Giorgio III. E se re Filippo fu addirittura «l’uomo più grande mai vissuto in America… eguale, se non superiore a… Washington»; e se la sua guerra, seppure non vittoriosa fu «gloriosa come la rivoluzione americana», perché condotta in nome del benessere del suo popolo allora perché non celebrarlo, visto che, paradossalmente, nessuna altra guerra può dirsi più americana della sua, essendo egli presente nel territorio del Nord America da molto prima che arrivassero gli inglesi? E, saltando da un paradosso all’altro, si prenda l’orazione pronunciata nel 1852 dall’ex schiavo Frederick Douglass in occasione della Festa dell’indipendenza, là dove, per spiegare cosa davvero significasse quel giorno per chi, come lui, era stato in catene, Douglass pronunciò il suo discorso non il 4 di luglio, come imporrebbe il calendario patriottico, bensì il giorno seguente, il 5 luglio. Non per trascuratezza, ovviamente, bensì per segnalare una distanza tra i principi elencati nella Dichiarazione e la realtà, e per preparare allo svelamento dei veri significati del vocabolario retorico dell’America: negli Stati Uniti, spiegò Douglass, «libertà» significa «licenziosità sacrilega», mentre «grandezza nazionale» significa «tronfia vanità» e «celebrazione» significa «vergogna». La distanza tra i principi politici degli stati Uniti e la loro reale applicazione è anche il tema che sostiene il discorso pronunciato da Martin Luther King il 28 agosto del 1963 ai piedi del Lincoln Memorial di Washington. In quell’occasione, nel cono d’ombra gettato dall’immensa statua del presidente che guarda pensoso verso il Campidoglio, proprio sotto al tempio neoclassico sulle cui pareti è scolpito, tra altri discorsi, il Proclama di emancipazione degli schiavi (emanato da Abraham Lincoln il 1 gennaio del 1863), King aveva invitato il paese a dare finalmente sostanza al sogno democratico promesso dalla Dichiarazione d’indipendenza del luglio del 1776; un sogno politico grandioso, la cui validità proprio Lincoln - esattamente cento anni prima di King - aveva già ribadito nelle parole commosse di un celebre discorso tenuto a Gettysburg nel novembre del 1863, durante la Guerra civile (1861-1895).
Lo scorso 10 febbraio, il governatore dell’Illinois Barack Obama ha annunciato l’intenzione di voler correre per le prossime presidenziali americane del 2008 sui gradini della Old State Capitol di Springfield: lo stesso luogo in cui nel 1858 Abraham Lincoln aveva accettato di correre per il suo partito alle elezioni presidenziali del 1860. In quell’occasione Lincoln aveva esposto il suo programma in un discorso passato alla storia come «Una casa divisa non sta in piedi». Con questa immagine presa in prestito dal Vangelo, Lincoln intendeva ammonire i suoi concittadini: una nazione tagliata in due, geograficamente, culturalmente e politicamente dalla schiavitù e per questo destinata a dissolversi. «Bisogna diventare una cosa - disse polemicamente Lincoln nel 1858 - una nazione schiavista - oppure una nazione libera». Ma con questo aggettivo Lincoln intendeva libera davvero e non solo sulla carta.
Se due anni fa tutto il mondo ha assistito all’umiliazione della popolazione nera di New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina, e se oggi fa notizia la candidatura del primo nero e della prima donna alla Casa Bianca, ciò e segno che non tutto va per il verso giusto, che gli Stati Uniti, come qualsiasi altro luogo al mondo, sono perfettibili e che l’opera di vigilanza iniziata da Apess e proseguita da Douglass, da King e da tanti altri non può dirsi conclusa.

l'Unità 1.3.07
ANNO GRAMSCIANO
Comitato per le celebrazioni a 70 anni dalla morte di Gramsci. Lo presiede Zangheri
di Luca Domenichini


Per il settantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci - avvenuta il 27 aprile 1937 - si è insediato il «Comitato per l'anno gramsciano», che ne organizzerà le celebrazioni- Lo presiede lo storico Renato Zangheri. Il programma del Comitato che si è insediato ieri a Roma è «ricco e ampio», come spiega Piero Fassino durante l’incontro del gruppo che coordinerà le iniziative in Italia e nel mondo. Dice Fassino: «Investirà i "luoghi" gramsciani: dalla Sardegna a Torino, da Ustica a Turi, oltre alle principali città italiane».
Ecco le date: il 27 aprile a Cagliari, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sarà presentato il primo volume della Edizione Nazionale degli scritti di Antonio Gramsci. Il 27 e 28 aprile a Roma il Convegno Internazionale «Gramsci, la cultura e il mondo» con la presenza di storici e politologi europei, statuntensi, latinoamericani, cinesi, indiani e del mondo arabo. Il 13 e 15 dicembre a Turi, in Puglia, si rifletterà su «Gramsci nel suo tempo». Per novembre, al Teatro Stabile di Torino, una tavola rotonda con alcuni esponenti delle nuove generazioni di studiosi all'interno di un programma di letture gramsciane. Di più, nel corso delle iniziative sono previste anche celebrazioni di livello internazionale con eventi e manifestazioni culturali promossi dall'Istituto Gramsci a Berkeley, Pechino, Mosca, Buenos Aires.
Il Comitato, presieduto da Zangheri, ha lo scopo di favorire e coordinare le iniziative «che sono di tre tipi - come spiega il presidente dell'Istituto Gramsci, Giuseppe Vacca - con appuntamenti promossi sia dai Centri gramsciani, sia dal partito all'interno delle sezioni e in sede istituzionale».
Del comitato fanno parte Piero Fassino, Massimo D'Alema, Giovanni Berlinguer, gli storici e politologi Aldo Agosti, Emma Fattorini, Tullio De Mauro e i presidenti degli Istituti Gramsci di Roma, Torino, Cagliari, Firenze, Trieste, Bologna, Bari, Ancona e Palermo.

Repubblica 1.3.07
Il fantasma dell'Anticristo
La crociata di Biffi contro "chi istiga all'idolatria"

di Filippo Ceccarelli


Ambientalisti e ecumenisti sotto tiro nell´intervento che prende le mosse dagli scritti profetici del filosofo Solov´ev
Da Pecoraro a Berlusconi, una lunga lista di "diavolacci" possibili. E nell´elenco biffiano sembra di vedere anche i cattolici democratici
In piazza Montecitorio un gruppo di cristiani integralisti manifesta, con un frate che invoca la conversione di Marco Pannella
Nel giorno del voto di fiducia l´ex vescovo di Bologna evoca la maggioranza

Siccome erano già in pochi, nella risolta crisi di governo e in tutto quello che gli ruotava attorno è entrato anche l´Anticristo. E´ un ingresso a suo modo abbastanza laterale, da non addetti ai lavori o quasi, nel senso che proprio ieri l´ha evocato il cardinale Giacomo Biffi nelle meditazioni quaresimali davanti al Papa e alla Curia. Tra parentesi: a qualche centinaio di metri da Palazzo Madama.
Biffi sarebbe stato un grande giornalista. Ha una splendida penna, mostra un tempismo perfetto e usa immagini potenti. Giuliano Ferrara ed altri entusiastici teo-con gli riconoscono pure una notevole capacità di cogliere al volo i valori in gioco. Ma questo è già più arbitrario e impegnativo da cogliere. Di sicuro si può convenire sul fatto che il cardinale ha un certo gusto per le provocazioni.
Questa di ieri, che muove dagli scritti profetici del filosofo russo Vladimir Solov´ev, dice che l´Anticristo potrebbe presentarsi, o nascondersi, dietro un pacifista, un ecologista ed un ecumenista.
Come dire, forzando quel tanto che le parole esprimono nelle loro vibrazioni, che il «Messia malvagio» potrebbe benissimo stare sotto le bandiere arcobaleno; e/o riconoscersi nella guida di Alfonso Pecoraro Scanio, per dire; o/e ritrovarsi in Parlamento in quella porzione di eletti della Margherita che risulta più legata all´esperienza dei cattolici democratici e della sinistra dc. Che pure ardente, nella sua lunga storia politico-ecclesiale, all´ecumenismo non è che si sia dedicata granché.
Forse perché annoiati, o immersi nel clima, a diversi senatori in attesa della lunga chiama nell´aula «bomboniera» del Senato, la nota di agenzia cardinalizia ha fatto un effetto un po´ strano, ma tutto sommato piuttosto rivelatore. Perché dall´identikit dell´Anticristo era nettamente escluso qualsiasi tratto distintivo del centrodestra. E se pure Solov´ev è passato a miglior vita agli albori del secolo scorso, beh, insomma: pacifismo, ambientalismo e riconoscimento della necessità di dialogare con altre religioni e civiltà rientrano a pieno titolo nel complesso di valori riconosciuti nelle varie e periodiche «carte» che pochissimi leggono, ma che i saggi e gli ottimati del centrosinistra continuano incessantemente a scrivere.
A rigor di logica e di sonante, terrifica evocazione, nel profilo biffiano mancava la figura del gay. Ma a ben vedere era anch´essa compresa nella suddetta abominevole triade. A meno che la triste sorte toccata ai Dico, cancellati dalla corsia preferenziale del rinnovato governo Prodi, non avesse consigliato oltretevere un supplemento di prudenza. Ma tant´è.
Ieri mattina, neanche a farlo apposta giorno consacrato a san Romano (monaco), alcuni iper-cattolici tradizionalisti si sono messi a pregare con i loro rosari davanti a Montecitorio per la caduta dell´esecutivo, sempre a causa delle unioni civili: «Questo governo - hanno spiegato - va contro natura e contro Dio, ha i piedi d´argilla e cadrà». Probabile, peraltro. Erano pochi, una ventina, e mansueti: ma le inedite orazioni parlamentari confermano senza dubbio la netta impressione di un ritorno millenaristico e se il termine non suonasse qui a sproposito, anche parecchio manicheo. «Verrà il giorno - ha tuonato un frate, come nei Promessi Sposi - in cui anche Pannella si convertirà». Può darsi anche questo. Comunque il diavolaccio radicale, si è già ampiamente beccato pure lui a suo tempo accuse anticristiche. Così come, per ragioni d´ineffabile contabilità, il suo seguace Cappato si ritrova seduto al Parlamento di Bruxelles sul banco numero 666, che sarebbe quello del Dragone, o della Bestia, e con l´Anticristo siamo lì.
L´amnesia dell´eterno, d´altra parte, e la più strenua attenzione all´«aldiqua» generano curiosi cortocircuiti e sorprendenti omissioni. Ma anche su questo, pazienza. L´Anticristo è argomento vasto e figura così antica da trovarsi nei libri appartenenti al genere apocalittico dell´Antico Testamento. Ma il punto che forse qui vale sottolineare è che nel corso dei secoli tale spaventosa nomea, che prefigurando la fine dei tempi spaventa i bambini più sensibili, ha sempre trovato qualcuno o qualcosa a cui essere appiccicata: imperatori romani (Nerone, Diocleziano, Caligola) e bizantini; eretici e fondatori di religioni concorrenti (da Maometto a Lutero); poi grandi rivoluzionari sociali e condottieri militari come Napoleone (con loro grande soddisfazione), e Hitler, Stalin, il comunismo, il denaro, la televisione, fino a Bin Laden e a Marilyn Manson che a onor del vero ha chiarito: «Se cercate l´Anticristo, non sono io».
E magari è nell´uomo cercarlo - nei giochi enigmistici e di carte, nella roulette, nei codici informatici, nella pubblicità, nel web - ma nella politica, intesa come terreno di scontro, la ricerca è ancora più insaziabile. Per cui ogni tanto si alza qualcuno e dice che qualcun altro magari non è proprio l´Anticristo, però è un suo seguace e quindi in pratica sì, lo è. E valga qui l´esempio di Umberto Eco, che per il suo Pendolo di Foucault ebbe storie con la rivista Studi Cattolici; e poi nei confronti di Gianni Vattimo che presa una cotta per il pensiero del cistercense Gioacchino da Fiore e candidatosi come sindaco a San Giovanni in Fiore, sulla Sila, si ritrovò discretamente insolentito dal clero locale con argomenti da Inquisizione. Questo per dire i rischi connessi alla proliferazione polemologica degli Anticristi.
E tuttavia, per quanto giornalista, sul tema Biffi è un´autorità e sa certamente di che cosa sta parlando. «Attenti all´Anticristo» è il titolo di una sua prolusione al meeting ciellino di Rimini, anno 1991 dell´era sbardelliana. Prolusione poi sviluppata nel testo «Pinocchio, Peppone, l´Anticristo e altre divagazioni», libro presentato nel 2005 anche da Giulio Andreotti, ieri proclamato dai teo-dem «defensor fidei», fino all´altroieri notoriamente identificato con il nomignolo di «Belzebù»: a parziale conferma che perfino la più rimbombante, sulfurea e ultimativa demonizzazione tende a sonnecchiare sotto la dittatura del relativismo. Ma non è questo il punto curioso e in qualche modo terminale dell´anticristismo para e meta crisaiolo.
Sull´argomento si è esercitato anche don Gianni Baget Bozzo, il cappellano del berlusconismo. E grosso modo (davvero) il suo falso e seducente profeta ha a che fare - o almeno così lo bacchettò a suo tempo l´Avvenire - con i supposti impicci recati alla Chiesa dal Concilio, questione anch´essa non proprio freschissima. Il bello - se si vuole e ci si accontenta - è che nell´estate del 1999 Francesco Cossiga... Sì, proprio lui: poteva mancare Cossiga all´appello politico e alla casistica sulla Bestia che da secoli personifica l´impostura del male? No, e infatti quell´estate Cossiga si portò a San Teodoro proprio «L´avvento dell´Anticristo» di Vladimir Solov´ev, il libro ieri citato dal cardinal Biffi. Ebbene: cosa ti va a confidare, il presidente emerito della Repubblica, alla Nuova Sardegna, ultimata la lettura? «Giravo pagina e quasi per caso pensavo a Silvio Berlusconi. Sì perché ci sono tratti di Berlusconi che ricordano l´Anticristo. Il suo sorriso senz´anima mi ispira uno strano timore spirituale, qualcosa che ti può intaccare l´anima». Fece un respiro, sempre più pensieroso: «Se fossi in lui mi ripiegherei con umiltà in me stesso».
Com´è noto, il Cavaliere non seguì il consiglio. Anzi, citò pure lui l´Anticristo, per dire che bisognava dire cose del genere per dare il senso dello scontro finale, definitivo. Ma questo scontro in realtà sembra che non finisca mai. E ieri era ancora lì a baccagliare. Ha sempre tempo di diventare pacifista, ecologista ed ecumenico. Ma intanto, come si chiedeva già secoli orsono Dionigi il Certosino: «Ma non ne abbiamo ancora abbastanza di questo maledetto Anticristo?». Forse bisogna solo non aver troppa paura del futuro. Dio vede e provvede.

Repubblica 1.3.07
La grande prova del governo minimo
di Francesco Merlo


Per il cardinale lasciare la Cei senza aver fatto cadere la legge sulle unioni di fatto sarebbe come farsi crocifiggere
La battaglia di Ruini sui Dico non riguarda tanto il contenuto del progetto quanto l´atteggiamento di Prodi

Si sa che ai pittori di piccola statura si devono gli affreschi e a quelli alti e grossi si devono invece le miniature. Ebbene, oggi nasce il governo piccolo piccolo, cheforse durerà poco, ma non è detto che non sia abbastanza. Ha un programma che da 281 pagine è stato ridotto alla sua minima lunghezza, vale a dire a una sola paginetta suddivisa in dodici punti, che potrebbero persino piacere agli italiani, non solo perché il troppo storpia, ma soprattutto perché l´obesità della politica è considerata un male sociale, e si può ritrovare il gusto delle cose nell´ideologia delle piccole cose. Anzi, qualche volta, a certe cose intere sono preferibili le mezze cose.
Pensate, per esempio, come sarebbe bello se i ministri Bianchi, Pecoraro Scanio, Mastella, Ferrero, Damiano e Di Pietro, sentendosi finalmente debordanti e impresentabili, aspirassero all´autodimezzamento, o praticassero l´autoriduzione come, del resto, imporrebbe il programmino che, al puntino 11, affida a Silvio Sircana l´intera comunicazione del governo.
D´altra parte, come si è visto in Senato, anche Prodi ha messo a dieta le proprie ambizioni. Ha addirittura promesso una leadership senza adipe, palestrata. E noi, che crediamo che il progresso umano è dovuto allo sforzo dei piccoli proprio perché insofferenti del poco spazio che occupano, ebbene noi guarderemo con attenzione l´arguzia e l´irascibilità del presidente piccolo piccolo.
Insomma ci aspettiamo che il piccolo Prodi, nell´impossibilità di far valere il suo punto di vista, e di compiere la sua riforma generale, cerchi, non appena potrà, di avere una rivincita, e dunque, da bravo piccolo, si innamori di poche cose grandi, come la riforma delle pensioni per esempio, e si lanci in un solo progetto vasto, come la riforma elettorale da realizzare insieme all´opposizione, e soprattutto si spenda e rischi se stesso nella laicità, in quei Dico che permetterebbero anche a Gesù di sorridere e di benedire la grandezza di un governo piccolo piccolo.
Tante volte abbiamo scritto che non ci risulta che Cristo stia davvero con Ruini in questa sua ossessione di trasformare l´Italia in una gigantesca Dc, in questa sua smania di frequentare i corridoi della politica. All´infinito potremmo ripetere che, secondo noi, i cattolici italiani non seguono le indicazioni, i moniti e le fobie del cardinale Ruini. Questa volta, però, il punto della questione non è questo. Quel che infatti si capisce nella battaglia di Ruini contro i Dico è che la parte ostica e insopportabile, la parte da addomesticare, non è il contenuto reale del progetto, che è moderato, compromissorio, e forse, da un punto di vista liberale, persino pasticciato, ma nella ribellione appunto di Romano Prodi. Ecco quel che c´è sul cammino del governo piccolo: un nemico grande che cova un rancore grande.
Si sa che Ruini celebrò il matrimonio di Romano Prodi. Per quasi venti anni è stato il suo confessore, come lo è stato del resto di moltissimi leader democristiani, da Forlani ad Andreotti (e chissà quante ne sa). Ma è in casa Prodi che, in quegli anni, sceglieva di passare e di festeggiare il Natale.
Si sa com´è Ruini: è un uomo che mangia poco, non beve, non fuma, e si appassiona solo alla dottrina e alla politica, al punto da avere promosso la beatificazione di De Gasperi, che fece i miracoli del Centrismo e della Dc, la quale fu, secondo Ruini, al tempo stesso «il male e il meglio dell´Italia», concetto ossimorico e tuttavia indispensabile alla politica nazionale e alla pratica delle sue due etiche. Negli anni di Tangentopoli, Norberto Bobbio disse di Ruini: «Non capisco come possa essere il più grande sostenitore della Dc e al tempo stesso condannare il sistema».
Figlio di un primario ospedaliero, Ruini viene dalla rossa Sassuolo, la città delle piastrelle che vanta due celebrità: il cardinale appunto, la cui tortuosa intelligenza è come una fosforescenza che scintilla su uno sfondo nero, e Caterina Caselli, quella che cantava, lei sì beatamente, «la verità ti fa male, lo so». Buono sciatore, gran passeggiatore, gli occhi celesti (c´è una logica nei colori dell´Uomo?), un bel cranio a pera spennacchiato, il naso a scimitarra lungo affilato e storto, Ruini è più temuto che amato. Riservato, taciturno, scostante, una voce stridula, è un uomo allo stesso tempo autoritario ed obbediente. E nella Chiesa comandare e obbedire, si sa, è tutt´ uno. Alcuni parroci di Roma lo chiamano monsignor Ruina e però, malgrado la leggenda, Ruini non è uomo di destra, è moderatamente moderato, centrista appunto, come il beato De Gasperi. E anzi si è formato mescolando San Tommaso (sul quale fece una dottissima tesi) con il padre del modernismo Karl Rahner, quello che il Baget Bozzo prima maniera bollava come «pervertitore dell´ortodossia». E invece Ruini è un gendarme della Sacra Dottrina e un politico finissimo, di quelli che non perdonano, molto più severo con i presunti traditori che con i nemici. Affaticato e stanco, Ruini, come si sa, sta per lasciare il suo posto. Ebbene, lasciarlo con i Dico firmati da Romano Prodi per lui sarebbe come farsi crocifiggere.
Dunque Ruini non farà l´errore di sottovalutare un governo piccolo piccolo. Sa come toccare i cuori, poi pungerli, poi medicarli per pungerli ancora. Ecco: si può misurare la piccolezza del governo dai nuovi piccoli uomini sui quali si regge, il troskista Turigliatto, il comunista Rossi, il piccolissimo De Vita del partito dei consumatori che si vanta di controllare il voto di Rossi e dunque di avere in pugno Prodi. Si può misurarne la piccolezza dalla stramberia di nominare un portavoce unico che, smilzo e con una visione anoressica del mondo, ha simpaticamente detto a Mastella che voleva parlargli: «Non ho tempo». Forse la comunicazione del governo piccolo piccolo potrebbe avvenire con il sistema degli sms, che è fondato, come si sa, sull´abolizione delle vocali che sono appunto il grasso del linguaggio.
Di sicuro sono molti i rimandi e troppe le metafore per un governo dimezzato: si va dalle mezze maniche alla mezze calzette, alla consapevolezza nascosta di essere mezzi uomini, come diceva Sciascia. Ma se si misura il governo dalla grandezza del suo nemico e dalla forza che sta dispiegando, se si considera la sproporzione, uno sopra e uno sotto la misura, un aldiqua e un aldilà del buon senso, ebbene allora: occhio ai piccoli.
Come tutto un uomo può essere contenuto in un aforisma o in una barzelletta, e come la storia può essere scandita da singole ore fatali, dai celebri «Momenti» di Stephen Zweig, così alla grandezza di un governo piccolo piccolo potrebbe bastare una sola vittoria.

Repubblica 1.3.07
S'inaugura domani a Palazzo Strozzi
Quando l'Atene d'Italia scoprì il nuovo della pittura
di Paolo Vagheggi

Una collezione di capolavori
I gialli, gli azzurri, i rossi di Cézanne
gli accesi colori di un secolo nuovo


I dipinti portano il visitatore all'inizio del Novecento quando i capolavori erano ancora nel capoluogo toscano
Ricostruite le straordinarie raccolte di Egisto Fabbri e Charles Loeser tra i primi collezionisti del maestro

FIRENZE. S'impegna a seguire più strade, la mostra Cézanne a Firenze che s'inaugura domani a Palazzo Strozzi, promossa dalla Cassa di Risparmio di Firenze e curata da Francesca Bardazzi e Carlo Sisi: a rendere alla città, pur soltanto per alcuni mesi, una memoria concreta della quasi incredibile concentrazione di opere di Cézanne che vi trovò casa all´inizio del XX secolo, grazie al collezionismo illuminato di due uomini, Egisto Fabbri e Charles Loeser, che avevano, a partire dagli anni Novanta dell´Ottocento, acquisito a Parigi numerosi e importanti suoi dipinti; a rivisitare la grande mostra sull´impressionismo (la prima in Italia) tenutasi al Lyceum di Firenze nel 1910, per iniziativa e grazie agli studi e alle conoscenze di Ardengo Soffici, che aveva vissuto per lunghi anni a Parigi e che su La Voce aveva pubblicato alcuni fondamentali scritti di prima apertura sul movimento; a documentare, infine, l´impatto che quella mostra ebbe sulla cultura artistica italiana, e toscana in particolare, ben prima che la retrospettiva dedicata al padre della pittura moderna ospitata dalla Biennale di Venezia nel 1920 (anch´essa, peraltro, innervata soprattutto dai Cézanne "fiorentini") rendesse disponibile a un pubblico più vasto le sue opere.
Fabbri detenne oltre trenta Cézanne; Loeser quindici; così che, insieme ad uno dei ritratti di Victor Chocquet (dipinto da Cézanne nel 1889 circa) posseduto da Gustavo Sforni, Firenze poté contare su un nucleo di opere del maestro di Aix allora unico al di fuori della Francia e di Mosca. Benché gelosamente custoditi - né paragonabili in questo alla divulgazione che i due collezionisti russi Schukin e Morozov facevano delle loro collezioni, aperte a scadenze regolari al pubblico che le volesse visitare - non è difficile immaginare come questa singolarissima concentrazione, in una città e in un Paese tutt´altro che pronti e capaci di volgere lo sguardo alle vicende più attuali della pittura europea contemporanea, non potesse rimanere senza conseguenze nell´orientamento delle più giovani generazioni. Che - unitamente alla nuova percezione, giunta solo dopo la morte del maestro livornese (1908), della grandezza del primo Fattori macchiaiolo, e della sua tarda produzione incisa - proprio da Cézanne infatti mostrarono di voler muovere i loro passi: e la mostra di oggi documenta questa suggestione largamente operante ad esempio in Alfredo Muller, Edoardo Gordigiani e Oscar Ghiglia, oltre che negli stessi Egisto Fabbri e Gustavo Sforni, anch´essi pittori; e ancora, ovviamente, Soffici, Carena, Rosai, fino a Medardo Rosso, cui fu dedicata nel 1910 una intera sezione nell´ambito della mostra fiorentina sull´impressionismo.
Fiore all´occhiello della rassegna odierna sono però i venti Cézanne che i curatori sono riusciti a richiamare a Firenze da tutto il mondo; quindici dei quali transitati attraverso le collezioni Fabbri (nove) e Loeser (sei), e molti dei quali non più presentati in Italia dopo la già ricordata Biennale di Venezia del ‘20: giacché presero presto, quei dipinti, le vie maggiori del collezionismo internazionale. E il nostro Paese li perse non solo per una oggettiva sua minorità sul piano economico, ma anche per cecità critica e trascuratezze amministrative, quando rinunciò a far valere una prelazione nella loro acquisizione ancora possibile: e rimane, questa perdita, non certo l´unica ma probabilmente la più grave che sia toccata alla vicenda del collezionismo italiano della pittura moderna.
Il nucleo più cospicuo dei dipinti in mostra è relativo agli anni che vanno dalla prima maturità di Cézanne alla fine degli anni Ottanta: in particolare dalle due versioni dei Bagnanti della seconda metà degli anni Settanta, provenienti da Detroit e dal Metropolitan di New York alla Casa sulla riva della Marna, uno degli otto dipinti che Loeser volle donare alla Presidenza degli Stati Uniti, e che è oggi direttamente prestato dalla Casa Bianca. Nei Cinque bagnanti di Detroit (appartenuto a Fabbri, che ne fece una bella copia) un colore singolarmente acceso, e racchiuso in un forte contorno marginale, è usualmente indicato come uno dei possibili antecedenti di Gauguin: che Cézanne, che aveva poca stima del più giovane compagno, accusò poi, forse proprio pensando a questo suo quadro, «di avermi rubato la mia piccola sensazione». Nella Casa sulla riva della Marna è invece giunta a compimento quella scheggiatura del colore in porzioni geometrizzate iniziata quasi quindici anni prima e presente, oggi a Firenze, già in un paesaggio di Pontoise d´inizio decennio.
Ma il vertice della qualità è forse da ravvisare in due ritratti: il primo, quello di Madame Cézanne sulla poltrona rossa, proveniente da Boston, e l´altro, assai più tardo, raffigurante un Uomo seduto, della Galleria Nazionale di Oslo (già visto di recente in Italia alla mostra livornese Cézanne, Fattori e il Novecento in Italia del 1997). Madame Cézanne si data al 1877: che è l´ultimo anno che vede Cézanne in qualche modo implicato con l´impressionismo, di cui si tiene in primavera la terza mostra di gruppo - l´ultima, appunto, a cui egli parteciperà. Questo dipinto ce ne offre forse una ragione: tanto definitivo vi appare il grado di adesione ai dettami del movimento - l´abolizione delle ombre, trasformate in un colore d´acqua, e l´adesione intera della figura, erosa nella sua massa, alla superficie - che Cézanne poté ritenere che, proseguendo su questa strada, egli avrebbe perso il possesso dell´integrità della cosa, cui non volle mai rinunciare. Tanto dopo, l´Uomo seduto di Oslo (1898-1900) è un altro immenso capolavoro: Cézanne, di cui s´approssimano gli anni ultimi, ha riconquistato da tempo il possesso del volume e della pesantezza della realtà: ma non rinuncia a porre queste sue conquiste in dialettica con l´imperio moderno alla superficie, dunque a una pittura che non sia mera imitazione del visibile. E la conflagrazione si chiude in quel corpo, immenso e gracile, che s´accampa al centro della tela come un gigante antico, e insieme a stento resiste ai colpi dello spazio che sembra ripiegarglisi addosso, come una oscura minaccia.

La rassegna evoca il clima effervescente d´una città internazionale dove approdarono Egisto Fabbri e Charles Loeser entrambi appassionati d´arte
In esposizione un centinaio di dipinti:venti appartengono al maestro francese, gli altri ad artisti da lui influenzati. Ec´è ancheun´opera di Van Gogh
Storia di equivoci Per una serie di incomprensioni come lamentò Giuliano Briganti questi celebri lavori non furono acquisiti dai musei italiani
Solo per gli intimi Racconta Berenson che lo storico dell´arte conservava le "Bagnanti" nella camera da letto

Parigi, primo decennio della seconda metà dell´Ottocento. Tra i visitatori del Louvre, non ancora preso d´assalto, c´è un giovane appena ventenne, figlio di un banchiere di Aix-en-Provence. Il suo nome è Paul Cézanne. Sogna di diventare un grande pittore, di trasformare l´Impressionismo «in qualcosa di solido e duraturo come l´arte dei musei». Si ferma davanti ai capolavori di Paolo Veronese, alle Nozze di Cana, opera contemplata "in estasi", scrisse poi Henri Gasquet, sussurrando parole d´ammirazione per quel maestro, sommo nell´arte di trasfondere "la pienezza dell´idea nei colori", nel rappresentare figure che risultano "gioiose come se avessero respirato una musica misteriosa", o "rivestite d´una dolce gloria" sotto la "medesima luce attenuata e calda". E si esercita realizzando delle copie di Veronese.
Firenze, 2 marzo 2007, Palazzo Strozzi. Una delle copie veronesiane di Cézanne, la Cena in casa di Simone, probabilmente eseguita tra il 1860 e il 1870, da poco ritrovata in una raccolta privata, apre la mostra Cézanne a Firenze, che celebra il centenario della morte dell´artista attraverso i dipinti che appartenevano a due collezionisti americani, Egisto Paolo Fabbri e Charles Alexander Loeser, entrambi arrivati nel capoluogo toscano intorno al 1890.
A quel tempo Firenze non era più la capitale del Granducato di Toscana e neppure la capitale d´Italia. Erano anni difficili, apparentemente sordi culturalmente, in realtà pronti per nuove straordinarie esplosioni, ovvero la Metafisica e il Futurismo. Ma la città appariva come una capitale anglofona, segnata dalla presenza di una comunità che fu ironicamente marchiata con il termine "anglobecera", ma che non per questo si sentì offesa come avevano testimoniato l´amore di Keats e Shelley, che davanti alla piramide del parco delle Cascine aveva trovato l´ispirazione per l´Ode al vento dell´Ovest. Era Firenze la vera capitale del Grand Tour. E la regina Vittoria in persona vi soggiornò nel 1888, nel 1893 e nel 1894, col suo seguito e vari personaggi del governo. Nel maggio del 1891 arrivarono anche il Principe Leopoldo di Prussia, cugino del Kaiser, e l´Arciduchessa Stefania d´Austria, vedova di Rodolfo.
Quasi senza volerlo era dunque una città internazionale quella dove si trasferirono Paolo Egisto Fabbri e Charles Alexander Loeser, casualmente nello stesso periodo, pittore il primo, storico dell´arte il secondo, entrambi ricchi di famiglia ed entrambi collezionisti di Cézanne. Fabbri arrivò a possederne 32, Loeser 15. La presenza di queste raccolte nel 1910 arricchì la prima mostra italiana dell´Impressionismo che si tenne a Firenze nelle sale del Lyceum, e dieci anni più tardi, nel 1920, fornirono linfa vitale alla sala che la Biennale di Venezia dedicò a Cézanne. Ed è questo clima artistico che vuol ricostruire la mostra di Palazzo Strozzi attraverso un centinaio di dipinti: una ventina di Cézanne appartenuti a Fabbri e Loeser, il Giardiniere di Van Gogh, esposto nel 1910, ottanta opere di artisti amici dei due collezionisti o influenzati dalla visione dei quadri del maestro come Edoardo Gordigiani e Alfredo Muller, Maurice Denis, o gli americani Mabel e Bancel La Farge, nonché i dipinti di Egisto Fabbri.
Nei Cézanne di Firenze esplodono i verdi, i gialli, i rossi. Dominano opere che possono apparire, annotò Ardengo Soffici, "incompiute", ma che in realtà sono dei capolavori creati dall´artista "aggrappandosi a quel che le sue forze gli garantivano". Ecco dunque Madame Cézanne sulla poltrona rossa, monumentale ed espressivo ritratto della moglie, Hortensie Fiquet, ora a Boston, che folgorò il poeta Rainer Maria Rilke, appartenuto a Egisto Fabbri che lo teneva appeso nella sala da pranzo del palazzo fiorentino di via Cavour, o le Bagnanti che arrivano dal Metropolitan di New York, della raccolta che Charles Loeser, così ha raccontato Bernard Berenson, conservava nello spogliatoio e nella camera da letto mostrandola solo a pochi intimi.
Quella camera da letto, come la sala da pranzo di Fabbri, è idealmente ricostruita in una delle cinque sezioni della mostra che ricostruisce la storia di Loeser e di Fabbri e che chiude con quei toscani che elaborarono in un loro linguaggio lo stile di Cézanne, da Ardengo Soffici a Oscar Ghiglia, agli scultori Libero Andreotti e Romano Romanelli. Al contempo presso il museo nazionale Alinari della fotografia di piazza Santa Maria Novella una mostra dedicata a Firenze al tempo di Cézanne presenta una sequenza di scatti d´epoca che contestualizzano quest´avventura: dal ritratto di Egisto Fabbri all´interno della villa fiesolana di Arnold Böcklin, dove l´artista morì nel 1901, maestro di un simbolismo romantico che influenzò fortemente Giorgio de Chirico.
Proprio a Firenze nell´anno dell´esposizione impressionista, il 1910, De Chirico avvertì la prima "rivelazione" metafisica guardando piazza Santa Croce: «Ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all´occhio della mia mente...». Prese forma L´enigma di un pomeriggio d´autunno. Al contempo era una città dove nascevano e morivano straordinarie riviste letterarie: Il Marzocco (1896), Leonardo (1903), Hermes (1904), La Voce (1907). Ma era anche una "fortezza del passatismo", come la definì Marinetti, ed ormai prossima ad essere il centro di memorabili scontri tra i futuristi.
Questa era la Firenze di un Cézanne che in Toscana non era ancora riconosciuto come maestro del moderno ma di cui Picasso aveva già inghiottito e digerito la lezione dipingendo uno dei suoi capolavori, Les demoiselles d´Avignon, che inaugurò il periodo cubista. È ben chiaro il richiamo alle figure delle Bagnanti a cui Cézanne dedicò numerose tele, presenti a Palazzo Strozzi nelle versioni prestate dal Detroit Institute e dal Metropolitan di New York, provenienti dalla raccolta Loeser, giovane e ricco rampollo di una famiglia di immigrati tedeschi arrivata negli Stati Uniti con due dollari e un orologio d´argento, che accumulò una fortuna prima grazie alle pellicce e poi a una catena di grandi magazzini. Non aveva problemi economici Charles. Frequentava Parigi, i pittori e l´alta società. I Cézanne li acquistava da Vollard. Ne era geloso e li mostrò a pochi e scelti ospiti. Tra questi vi fu anche Winston Churchill che tra l´altro di dilettava di pittura ma che, a quanto pare, non ne fu "conquistato" come ricordano memorie dell´epoca. Charles Loeser fu anche un grande collezionista di arte antica. Quando morì nel 1928 lasciò gli otto Cézanne, quelli "di maggior valore" al «presidente degli Stati Uniti e ai suoi successori nella carica per ornamento della Casa Bianca a Washington». Uno, la Casa sulla Marna è stato prestato per l´esposizione di Palazzo Strozzi. Nel testamento non dimenticò Firenze. Il quartiere del Mezzanino di Palazzo Vecchio ancor oggi ospita la "donazione Loeser": ritratti di Pietro Lorenzetti, Pontormo, Bronzino, sculture di Tino di Camaino e del Rustici.
Simile la storia di Egisto Fabbri, figlio di immigrati ed anche lui ricchissimo, che fin dall´adolescenza «scelse la pittura come professione« anche se i risultati non furono eccelsi. Ma fu tra i protagonisti della vita culturale europea e soprattutto parigina e come Loeser, disse sarcasticamente Berenson, «egli amava intrattenersi con i re di tutta Europa». Pissarro fu suo maestro, Mary Cassatt lo presentò a Degas, conosceva Sargent, frequentava Walter Pach, scrisse a Cézanne, di cui acquistava i quadri da Vollard, ma non fu ricevuto. Eppure continuò quella collezione che portò a Firenze e che poi fu costretto a vendere. Sotto la spinta della conversione al cattolicesimo, negli anni Venti, avviò la ricostruzione in stile romanico della chiesa di Serravalle in Casentino, distrutta da un terremoto. Finanziariamente fu un disastro. E l´unica strada per risolvere una situazione "molto penosa" fu la cessione dei Cézanne. Allora non vi furono acquisizioni da parte dei musei italiani. E ancor oggi Cézanne è praticamente assente nelle esposizioni permanenti delle nostre istituzioni. Come scrisse Giuliano Briganti fu "una dolente storia di incomprensione, di ignoranza e di occasioni mancate". Cézanne si vede solo in occasione di una mostra. Come quella di Palazzo Strozzi.

L'esposizione "Cézanne a Firenze"

Sottotitolo: "Due collezionisti e la mostra dell'Impressionismo nel 1910" è aperta fino al 29 luglio a Palazzo Strozzi (a fianco un autoritratto). Orario: tutti i giorni dalle 9 alle 20, il giovedì fino alle 23. Catalogo Electa. Informazioni tel. 055 2645155. Prenotazioni e prevendita 055 2469600. Internet www.cezanneafirenze.it Biglietto d'ingresso intero 10 euro. L'esposizione "Firenze al tempo di Cézanne" al museo Alinari di piazza Santa Maria Novella è aperta tutti i giorni dalle 9,30 alle 19,30, il sabato fino alle 23,30. Chiuso il mercoledì. Il catalogo è Alinari.

Repubblica 1.3.07
Critica della ragion cristiana
In libreria un pamphlet di Odifreddi
La tesi che il Cristianesimo sia indegno della razionalità umana è molto antica
L´autore, da bravo matematico inpertinente si è preparato a fondo per questa sua guerra contro la Chiesa e contro la religione
di Giovanni Filoramo


Riflettendo, sulla Repubblica del 21 febbraio, circa i motivi per cui scrivere libri contro la religione è diventato oggi un bestseller, Gabriele Romagnoli individuava tre motivi: è giunto il tempo di non avere più soggezione («rispetto») delle idee religiose; domina la sfiducia in due chimere: il moderatismo religioso e il dialogo tra le fedi; non per ultimo, l´insofferenza per l´ingerenza crescente, anzi inarrestabile, della religione nella vita sociale, ha superato ogni limite.
Si tratta di tre buoni motivi, che però sollevano un interrogativo di fondo. Per stare al caso americano dei libri citati di Dawkins e Harris: i sondaggi più recenti d´opinione continuano a confermare che, richiesti di rispondere al quesito se l´uomo è stato creato da Dio nel corso degli ultimi dieci anni o in seguito a un processo evolutivo guidato da Dio o unicamente come effetto di un processo di evoluzione naturale, circa la metà degli americani scelgono la prima opzione, mentre buona parte dei rimanenti propendono per la seconda. Se ne dovrebbe dedurre che i libri di Dawkins e Harris servono a tener su il morale di quel 10% o poco più (quanto basta, comunque, a creare un bestseller negli USA), che si ostinano a pensare che Dio, ammesso che esista, non ha nulla a che fare con l´evoluzione.
Un´osservazione analoga si potrebbe fare per il libro italiano di M. Ferraris, portato ad esempio da Romagnoli, dal momento che il mercato librario ha attribuito un successo molto maggiore ad altri libri, di segno opposto, come L´inchiesta su Gesù di Augias e Pesce. Scrivere, naturalmente bene e in modo convincente, contro la religione può, dunque, convincere chi è già convinto: ma fino a che punto questi libri raggiungono quel pubblico, non dico di credenti dubbiosi e in ricerca, ma prima ancora di agnostici e indifferenti, che costituisce la realtà dominante di una società postsecolare?
Questo interrogativo si ripropone leggendo il libro di Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), in uscita oggi da Longanesi (pagg. 240, euro 16). Anche se non è (ancora) un bestseller, esso si inserisce perfettamente in questa ormai lunga lista, in cui sembra rinascere a nuova vita un genere letterario che pareva caduto, con la secolarizzazione e il confinamento della religione nella sfera del privato, nel dimenticatoio: la critica (radicale) alla religione, ricondotta opportunamente nel caso di Odifreddi entro i confini della religione di casa nostra: il cristianesimo nella sua versione cattolica.
La tesi di fondo, secondo cui «il Cristianesimo è indegno della razionalità e dell´intelligenza dell´uomo», non è certo peregrina e accompagna la storia di questa religione fin dalle fasi più antiche della sua espansione. Già per Celso, un filosofo pagano che, verso la fine del II secolo, l´attacca con violenza sulla base di una solida conoscenza delle sue fonti e delle sue origini, il cristianesimo è essenzialmente una religione di stupidi (i «cretini» di Odifreddi), che, nella stupidità e nella rozzezza dei suoi aderenti, ha le ragioni del proprio successo.
Col tempo, l´elenco dei suoi denigratori è cresciuto almeno quanto quello dei suoi difensori. Gli attacchi all´istituzione si accompagnano, in epoca moderna, con lo smontaggio sistematico, messo in atto dalla moderna critica biblica, dell´edificio dogmatico costruito intorno alla Bibbia. Cresce l´elenco dei misfatti di cui la chiesa è accusata: chi si voglia dilettare non ha che da compulsare i numerosi volumi di Storia criminale del cristianesimo cui ha dedicato la vita uno studioso tedesco, K. H. Dreschner. Che cosa si può ancora aggiungere a questo dossier, per «schiacciare l´infame» oggi?
Dei tre motivi ricordati da Romagnoli, quello che ha mosso Odifreddi nel suo atto di accusa è, ancora una volta, l´ultimo: le ingerenze del cristianesimo in generale e della Chiesa cattolica in particolare nella vita pubblica, con il suo corteo di atei devoti e di devoti clericali, per cui si restringono (o scompaiono) le possibilità di mediazione, proprie del moderatismo religioso e di chi ricerca il dialogo. A la guerre comme à la guerre! E a questa guerra, in cui il rinnovato anticlericalismo, di cui il libro è testimone vibrante, «costituisce più una difesa della laicità dello Stato che un attacco alla religione della Chiesa», Odifreddi si è preparato, come per ogni guerra che si rispetti, in modo serio, anche se, non rinunciando al suo ruolo di «matematico impertinente», secondo per altro le regole del genere, costella il libro di battute fulminanti e di attacchi sarcastici.
Le tappe di questa via crucis sono classiche: smontaggio del testo sacro (Antico e Nuovo Testamento) attraverso la messa in luce di incoerenze, antropomorfismi, violenze, prestiti camuffati da verità, costruzioni di nuovi miti (come in fondo tende a sostenere l´autore a proposito di Gesù); illogicità delle principali credenze cristiane e così di seguito. Insomma, una storia dell´impostura al passo con i tempi, documentata e sarcastica, che delizierà chi vuole sentirsi confortato nella propria «ateologia» o potrà far riflettere quei lettori, giovani e non giovani, che nell´ignoranza culturale e in particolare religiosa tipica della nostra società, non hanno familiarità con questo tipo di problemi. Ma, per ritornare all´interrogativo di fondo, riuscirà a far tacere l´avversario?
L´autore non me ne voglia se esprimo qualche dubbio al proposito.
Le religioni in grado di resistere nel tempo sono monete a due facce. La prima, oggetto degli strali polemici della neoletteratura atea, è la dimensione «umana troppo umana», legata alle necessità di una fede o di una rivelazione che, per diventare un credo collettivo - e non semplicemente un rifugio privato - si deve adattare, spesso e volentieri fino a corrompersi e a tradire il messaggio originale, alle tentazioni del mondo: dunque, una vittima predestinata alle critiche degli spirituali, laici e devoti. La seconda è la fede, il filo diretto e, per definizione, sottratto alla ragione, con la fonte della verità, ma prima ancora della salvezza: una «riserva di senso» comunitaria, prima che individuale, che non sembra aver perso il suo fascino proprio per i territori di caccia che le competono.
L´Apocalisse attribuita a Giovanni può apparire un «delirio, di pertinenza più della psicanalisi che della teologia»; può darsi, ma un «delirio» che storicamente si è rivelato un serbatoio inesauribile di movimenti collettivi alla ricerca di un senso della storia svelato nei segni della fine. Su questo piano, come lo stesso autore alla fine riconosce, la scienza non può competere con la religione. Purché quest´ultima sia vitale e non ridotta a una pura richiesta ideologica di potere, come oggi troppo spesso succede: ma, come insegna Machiavelli, il critico moderno più radicale del cristianesimo ecclesiastico, a questo punto la fede, non è più fede, perché si è trasformata in «virtù» politica.

Al dio dell'antica Grecia è dedicata una mostra al Colosseo
Le immagini di Eros, da efebo perfetto a bimbetto alato
Sculture e pitture vascolari ci rimandano i mille volti della più potente e oscura divinità
Claudia Longino
Scuote l'anima mia Eros, come vento sul monte che irrompe entro le querce. (Saffo)
Entità cosmica primordiale, principio animatore e ordinatore dell'universo, costruttore di relazioni sociali, ma anche ferita, disordine, sofferenza. Espugna e non si lascia tenere in pugno, nodo che avvince eppure lama che da noi stessi ci discinde: ha molti nomi e molte facce, molte genealogie, ma è sempre Eros, la divinità dell'antica Grecia a cui il Colosseo dedica la sua nuova mostra, che sarà allestita dal 3 marzo al 16 settembre negli ambulacri del secondo ordine.
Curata dal soprintendente di Roma Angelo Bottini, la grande esposizione tenterà di indagare i diversi, e a volte contrastanti, aspetti della figura del Dio, che, nonostante tutto, è quella meno chiaramente definita. Al Colosseo saranno esposte opere rare, come la pisside attica a figure rosse dal Wagner Museum di Wurzburg che raffigura Anteros (il mitico fratello di Eros, considerato come lui – almeno secondo la più nota genealogia – figlio di Ares, dio della guerra, e Afrodite, dea della bellezza, ma personificazione dell'Amore Corrisposto), ma anche reperti molto noti, tra cui il celebre "Eros arciere" dei Musei Capitolini oppure la splendida "Afrodite accovacciata", dal Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.
Il legame tra le due divinità – Eros e Afrodite – con cui si apre il percorso espositivo, è un tema fondamentale da esplorare per comprendere a fondo la fisionomia di Eros, le cui funzioni sono complementari e al tempo stesso autonome rispetto alla dea. Quest'ultima è la divinità che rappresenta ed evoca l'unione e il godimento sessuale, mentre Eros è una forza più astratta e irresistibile assieme, vento inarrestabile della passione (ma anche nume, vento divino che parla con le sue sillabe arcane attraverso le foglie), come recita Saffo. A questa forza impetuosa neppure gli dei possono resistere. Lo stesso Zeus, signore dell'Olimpo, viene colpito dalle sue frecce: un gruppo di opere racconta i miti che coinvolgono il dio, nelle sue unioni con Leda ed Europa.
Ma non è solo mito: anche i comuni mortali sono vittime di Eros, o suoi prescelti, sempre nel solco dell'ambiguità del dio. D'altronde, nell'antica Grecia le relazioni "erotiche" avevano una parte determinante nella formazione etico-sociale dell'individuo, come dimostrano, tra le altre opere in mostra, due "kylikes" attiche a figure rosse dal Museo archeologico nazionale di Firenze con esplicite scene erotiche, oppure lo "skyphos" attico dal Museo archeologico nazionale di Taranto con giovani atleti nel ginnasio (un dono-elogio dell'amante all'amato).
I rapporti eterosessuali o matrimoniali compaiono invece nel piatto apulo dal Museo etrusco di Villa Giulia, nonché in un gruppo fittile di figurine a banchetto proveniente dal Louvre, e anche nella 'kylix' attica di Scite (dal Louvre).
Nel IV secolo a.C. la figura di Eros è al centro della riflessione filosofica, e dalle pagine di Platone lo ritroviamo nelle sculture di Prassitele (in mostra una copia dell'Eros dal Museo archeologico nazionale di Parma). Il mito di Eros e Psiche, come allegoria del percorso dell'anima fino all'unione col divino, è illustrato dal "Gruppo di Amore e Psiche" del Museo Nazionale romano di Palazzo Altemps e nel piccolo "Eros che abbraccia Psiche" dal Louvre.
Dal IV secolo in poi, dal punto di vista figurativo, l'immagine di Eros cambia: il giovane efebo diventa un bambino, il "putto", che si moltiplica nelle scene e nei contesti più diversi, perdendo vigore e acquistando talora una valenza puramente decorativa. Povero dio.

mercoledì 28 febbraio 2007

l’Unità 28.2.07
Il fascino delle Ninfe
bellezze in fuga
di Alessandro Stavru


LE FIGLIE DI ZEUS fanciulle dell’acqua e della natura, tornano ad affascinare gli studiosi, soprattutto i filosofi. Da Giorgio Agamben a Susanna Mati, nuovi saggi riprendono a indagare sulla natura misteriosa e doppia di queste creature

Da leggere:
C’è, in questo periodo, un ritorno di fiamma del fascino delle ninfe, almeno per la filosofia. Freschi di stampa, infatti sono: Ninfe (Bollati Boringhieri, pp. 57, euro 6,50) in cui Giorgio Agamben indaga su queste figure che sono una delle chiavi più ricche per penetrare la mitologia degli antichi e il rapporto tra Anima e Sessualità, e Ninfa in labirinto di Susanna Mati (Moretti&Vitali, pp. 145, euro 16). Tra i testi «classici», ricordiamo: Jennifer Larson, Greek Nymphs, Oxford University Press, Oxford/New York; Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna, Il Saggiatore; Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi; Walter F. Otto, Le Muse, Fazi.

«Nove generazioni di uomini nel fiore degli anni vive la gracchiante cornacchia; il cervo quattro volte più della cornacchia, il corvo invecchia dopo tre vite del cervo; ma la fenice dopo nove del corvo. E noi, Ninfe dalle belle chiome, figlie di Zeus e gioco, viviamo dieci volte più della fenice». Queste parole, tramandate da Esiodo e pronunciate da una Ninfa, sollevano uno dei più spinosi problemi della mitologia classica: sono le Ninfe eterne, e dunque divinità in senso pieno, oppure mortali, e pertanto esseri demoniaci? A questa domanda non è possibile dare una risposta univoca, dato che le Ninfe venivano venerate in innumerevoli culti, disseminati su tutto il suolo greco. Ogni luogo della natura selvatica era abitato da Ninfe: i monti dalle Oreadi, i boschi dalle Alseidi, i prati dalle Leimoniadi, le valli dalle Napee, i laghi e gli stagni dalle Limniadi, le sorgenti dalle Naiadi, le piante dalle Driadi, il mare dalle Nereidi, il cielo dalle Pleiadi. In virtù di questa loro infinita pluralità, le Ninfe non possedevano un nome proprio, se non quello che mutuavano dalla sorgente, dallo stagno o dall’albero cui davano vita. Sintomatico è il caso delle Amadriadi, letteralmente «coloro che vivono quanto gli alberi»: cessano di vivere nel momento in cui muore la pianta che abitano.
Corteggiate da dei e uomini, le Ninfe sono di una bellezza irresistibile. Al loro fascino soggiacciono Zeus, Apollo, Dioniso, Hermes e Poseidone, ma anche innumerevoli eroi. L’esempio più celebre è quello di Odisseo, tenuto prigioniero per oltre dieci anni da Circe e da Calipso. Significativo è anche il racconto di Dafne, che per sfuggire alle avances di Apollo si trasformò in alloro. Oppure la storia di Clizia, amata dal dio del sole Helios e poi miseramente abbandonata: incapace di rassegnarsi, fissò per nove giorni l’oggetto del suo desiderio, finché, consunta d’inedia e dolore, fu mutata nel girasole.
Come scrive Walter F. Otto, la bellezza fa parte dell’essenza delle Ninfe poiché «è frutto del silenzio in quanto perfezione... all’occhio devoto il silenzio si palesa proprio attraverso la bellezza». Si tratta di un silenzio sublime, di un «tacere primordiale» che paradossalmente si esprime attraverso la musica. Di qui i canti e le danze che accompagnano le Ninfe in ogni momento della loro esistenza. Altre attività che le caratterizzano sono la caccia, la guarigione e l’educazione (accudirono nientemeno che Zeus, Apollo e Dioniso). Al pari delle celebri Moire, le Ninfe sono inoltre divinità tessitrici. Adornate di magnifici pepli, stendono un velo che congiunge i destini umani a quelli divini. Sorvegliano l’ordito del velo nuziale e proteggono le nozze femminili. Infatti il termine nymphe definisce la fanciulla, la vergine o la donna pronta al matrimonio. È imparentato con il verbo latino nubere, «prendere marito» (da cui la nostra «nubile»).
L’etimologia più significativa della Ninfa rinvia però a un’altra dimensione. Numphe significa infatti anche «fonte» o «acqua sorgiva». L’equivalente sostantivo latino lympha, e soprattutto l’aggettivo lymphaticus («folle») rivelano l’autentica natura del liquido ninfale. Si tratta, scrive Salustio, di un principio cosmico generativo: «le Ninfe sono preposte alla generazione, giacché tutto ciò che è generato è in flusso». Di qui l’analogia tra le Ninfe e le anime che si ritrova in Plotino e in Porfirio. Ma di qui, soprattutto, la follia delle Ninfe. Coloro che abitavano nei dintorni degli antri delle Ninfe erano detti nympholeptoi, «posseduti dalle Ninfe». Erano «ebbri per ispirazione di un essere divino», dice Aristotele. Nel possederli, la Ninfa, li metteva in rapporto con un sapere di superiore provenienza, in virtù del quale diventavano parte integrante del divino. Scrive in proposito Roberto Calasso che «per i Greci, la possessione fu una forma primaria della conoscenza, nata molto prima dei filosofi... Tutta la psicologia omerica, degli uomini e degli dei, è attraversata dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme, profili».
Le Ninfe presiedono a ogni divina possessione, prima fra tutte quella erotica. Racconta a questo proposito Pindaro che Afrodite portò agli uomini l’«uccello delirante» Inyx, dal quale ebbe origine il desiderio sessuale; ma Inyx altri non era che una splendida Ninfa, trasformata in uccello da Hera per aver offerto un filtro d’amore a Zeus. Anche la possessione filosofica era connessa alle Ninfe: in un celebre passo del Fedro, Socrate confessa di essere «posseduto dalle Ninfe», e ad esse decide di rivolgere una preghiera alla fine del dialogo. Come nota Calasso, in questo caso «la Ninfa è la materia mentale che fa agire e che subisce l’incantamento»; infatti, «il delirio suscitato dalle Ninfe nasce dall’acqua e da un corpo che ne emerge, così come l’immagine mentale affiora dal continuo della coscienza». Fonte di sublime ispirazione, l’acqua delle Ninfe è però anche estremamente pericolosa. I suoi effetti nefasti si abbattono sul bellissimo Ila, l’amante di Eracle che, sbarcato a Kios con la spedizione degli Argonauti in una notte di luna piena e allontanatosi per cercare dell’acqua, viene trascinato sott’acqua dalle fatali Ninfe.
Questo aspetto terribile delle Ninfe spiega perché nel Medioevo esse furono relegate ai margini dell’immaginario collettivo, se non addirittura scambiate con le streghe o altre entità demoniache. Dopo secoli di oblio, nel Rinascimento tornarono alla ribalta soprattutto con Dante, le cui «Ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni» segnano un momento di svolta importante. La leggerezza della Ninfa dantesca esprime infatti quel che Aby Warburg chiamerà il «gesto vivo» dell’antichità pagana. Un gesto che nella Nascita di San Giovanni Battista del Ghirlandaio si esprime nell’elegante movimento del drappeggio e dei capelli della Ninfa, agitati da una «brezza immaginaria» invisibile nel resto dell’affresco. È questo dolce tremito a far rivivere il mondo antico nella Firenze di Lorenzo de’ Medici: «Queste Ninfe ed altre genti sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza».
La dimensione dantesca subisce un brusco capovolgimento in Boccaccio, nel quale le Ninfe si fanno pura carnalità, oggetto di un amore profano e caduco: «le Ninfe Castalide, alle quali queste malvagie femine si vogliono assomigliare, non t’abbandoneranno già mai... è a loro grado il potere stare, andare e usare teco». Nasce qui la ninfa dei giorni nostri, simbolo di misoginia e fatuità erotica. L’abiezione della «femina» dà luogo a un materialismo senza speranza. E a poco vale la preghiera che Boccaccio rivolge alle divinità in fuga: «O Ninfa, non te ne gire, ferma il piè, ninfa, sovra la campagna, ch’io non ti seguo per farti morire!». Come scrive Eliot, «le Ninfe sono ormai dipartite».

l’Unità 28.2.07
Sì di Londra agli esperimenti su embrioni uomo-animale
Blair era intenzionato a dire no ma gli scienziati hanno protestato: importanti per arrivare alla cura di gravi malattie
di Pietro Greco


IL GOVERNO INGLESE sarebbe intenzionato a consentire la sperimentazione dei cosiddetti «embrioni chimera», ovvero la creazione per motivi di ricerca di cellule embrionali in cui il nucleo è umano e il citoplasma è di mucca o di coniglio. Lo annuncia il giornale londinese Times, che a inizio febbraio aveva ospitato una lettera con cui 45 fra scienziati, compresi tre premi Nobel, bioeticisti e politici chiedevano per l'appunto la rimozione di ogni divieto. La lettera privata si era aggiunta alle proteste ufficiali di alcune istituzioni scientifiche, tra cui Human Genetics Commission, ovvero la commissione tecnica che consiglia il governo inglese sui temi genetici.
Tutti partono dall'idea che la clonazione per trasferimento di nucleo possa diventare una fonte di cellule staminali embrionali, che a loro volta potrebbero un giorno essere utilizzate nella lotta a gravi malattie degenerative. Si tratta, insomma, di una pista di ricerca, importante, ma dagli esiti non scontati. Il fatto è che la clonazione ha bisogno di cellule uovo capace di accogliere il nucleo di un'altra cellula e iniziare un percorso di sviluppo che i biologi chiamano ontogenetico e che noi possiamo definire di crescita di un individuo. Nei primi stadi di questo sviluppo, si formano le cellule staminali embrionali. La ricerca presenta ancora molti nodi da sciogliere. E uno dei principali è la carenza di cellule uovo. Ottenerne in gran quantità significa chiedere ad alcune donne di sottoporsi a poco piacevoli cure ormonali. Di qui l'idea: usiamo cellule uovo di animali. Quelle di mucca o di coniglio sembrano le più indicate. Questo hanno chiesto, tempo fa, molti scienziati inglesi al governo di Sua Maestà. Ottenendo in cambio una risposta interlocutoria. Il governo era intenzionato a rispondere solo nel prossimo autunno, e l'orientamento era per il no. I sondaggi sembravano indicare una sorta di repulsione da parte del pubblico.
Ma i 45 estensori della lettera al Times di inizio febbraio hanno fatto notare che il campione interrogato non era rappresentativo degli inglesi, ma solo di alcune comunità religiose. E che il no si sarebbe trasformato in un serio pregiudizio per le ricerche degli scienziati inglesi. Di qui l'inatteso cambiamento di parere. Il governo autorizzerà la creazione di «embrioni chimere», sotto il controllo e i vincoli dell'autorità britannica per la fertilizzazione umana e l'embriologia. I primi a beneficiarne saranno, con ogni probabilità, gli scienziati del King's College e del North East England Stem Cell Institute (Nesci). La comunità scientifica e quella dei bioeticisti sono divise su questo specifico argomento. Alcuni scienziati fanno notare che l'embrione chimera conterrà al 99% genoma umano, ma avrà circa l'1% di genoma animale, sotto forma di Dna mitocondriale, che si trasmette solo per linea materna. E contro questa eventualità giocano due precauzioni scientifiche. Non mescolare in generale molecole biologiche umane e animali e, in particolare il Dna, a causa di possibili effetti non conosciuti. Altri scienziati sostengono che non ci sono prove di rischi particolari. E quindi, per scopi di ricerca, gli «embrioni chimera» possono essere realizzati. Anche da un punto di vista bioetico le posizioni sono speculari. Da un lato c'è chi - come i bioeticisti cattolici - vedono in questa concessione un nuovo attacco all'intangibilità dell'uomo e della sua costituzione genetica. E dall'altro c'è chi sostiene che i rischi minimi vadano corsi perché in gioco (sia pure in prospettiva) c'è la salute di milioni di persone.

l’Unità 28.2.07
Poesie civili in cerca di una polis
di Francesca De Sanctis


IL LIBRO Pietro Ingrao, Walter Veltroni e Valerio Magrelli hanno presentato ieri a Roma la raccolta di versi di Pietro Spataro: drammi e passioni del nostro tempo

Per un attimo il tempo sembra aver fatto un improvviso passo indietro nella lunga e gloriosa storia de l’Unità. Come i passi di un gambero, pare che il conto alla rovescia si sia fermato agli anni ’92-96. Redattori, tipografi, grafici, perfino quasi l’intero ufficio centrale dei redattori capo de l’Unità 2 ieri pomeriggio si sono dati appuntamento nella Sala Pietro da Cortona in Campidoglio (Roma). Davanti ad un tavolo siede l’attuale vicedirettore vicario di questo giornale, Pietro Spataro, stavolta in veste di poeta. E da quel tavolo, infatti, i relatori parlano della sua seconda raccolta appena pubblicata dalla casa editrice Manni: Cercando una città (pagine 121, euro 13,00).
Curioso che tra di loro ci sia l’allora direttore de l’Unità, Walter Veltroni, oggi sindaco della città, e Valerio Magrelli, firma storica del giornale. Ci sono anche l’autrice Piera Mattei e Pietro Ingrao, che firma anche l’introduzione al libro di Spataro. «Per questo - dice - non ero molto sicuro di voler partecipare a questa presentazione, ho già scritto quello che penso». Poi però inizia il suo dialogo, a tratti rivolto solo all’autore del libro, con il quale parla sottovoce, quasi alla ricerca di una conferma prima di condividere con la platea i suoi pensieri. «È un libro drammatico - dice senza esitare - e a volte non proprio all’altezza della tensione interiore. In alcuni versi è come se Pietro tirasse un freno, per prendere fiato». Spataro lo guarda dritto negli occhi, non dice nulla, mentre le sue dita continuano a giocherellare con una penna.
Poi Ingrao si rivolge a Magrelli, che siede «alla sua sinistra: materiale intendo», mette subito in chiaro. «La parte del libro che più mi ha trascinato è quella che va verso la conclusione tragica del tempo esaminato». Per Magrelli in Cercando una città c’è la stessa tensione che aveva trovato nella prima raccolta di Spataro, Al posto della cometa, «in questo caso però il libro si apre alle poesie civili, dove convivono il pubblico e il privato. E come si intuisce dal titolo stesso una città reale e ideale si intrecciano». Ed è così in tutto il volume.
Cartografie, mestieri (dal falegname all’elettricista, dall’operaio al muratore; bellissima la poesia Uno in più che recita «Da oggi sei un esubero quindi / non sarai più esuberante»), volti del passato e del presente (Pintor, Berlinguer, Luzi, Che Guevara...), viaggi, tragedie del mondo. «Mentre stavo raggiungendo questa sala ho ricevuto un sms di un’agenzia che diceva: “In Iraq una bomba uccide 18 ragazzini” - racconta Veltroni - e ho pensato al verso di Spataro “non sa la bomba l’indirizzo giusto”». L’autore ne approfitta per ingraziarlo di essere «portatore di un’idea politica ancora in grado di muovere le passioni di uomini e donne». Quel verso tratto dalla poesia intitolata Il pensiero della bomba piace a molti in quella sala, Ingrao compreso. Più voci rileggono la poesia, anche Paola Pitagora che ha accompagnato la presentazione del libro con le sue letture insieme al violino di Giovanni Bruno Galvani. Quella bomba che «non sa dove abita la vita» e «inerte porta morte» continua a cadere, ma un segno di speranza nel libro c’è: ancora si può continuare a cercare.

Repubblica 28.2.07
Il Paese della follia
di Filippo Ceccarelli


Per il "Financial Times" l'Italia è, nella Ue, maglia nera della salute mentale
Dominano isterie da talk-show ed esibizionismi. Neanche il sesso è più materia riservata
Berlusconi è solito scaldare i fans urlando: "Sono un visionario, vi piaccio così?"
Da Prodi a D´Alema, sempre più spesso i politici sbottano: "Ma siamo matti..."

Roba da matti, appunto. La crisi di governo, e un po´ anche la sua soluzione, come il segno, lo specchio, la conseguenza di un più generale disagio psichico. Di un impazzimento, per metterla giù dura. La novità degli ultimissimi tempi è che questa possibile interpretazione comincia a circolare anche all´estero.
«Sir», ha scritto l´altro giorno al direttore del Financial Times il professor Andrew Oswald, economista dell´università di Warwick, è giusto mettere l´accento sui problemi economici dell´Italia. Ma da un´approfondita inchiesta da me condotta risulta che lo stato di salute mentale («mental health») dell´Italia è chiaramente il peggiore d´Europa. Nei vari parametri della ricerca – insonnia, tensione, autostima, senso di inadeguatezza, infelicità, depressione – i numeri italiani «ci hanno sorpreso».
Laggiù sono messi malissimo, conclude l´autore della psico-indagine. Molto peggio di quanto se ne rendano conto, viene da pensare, fra Montecitorio e Palazzo Madama.
E certo non suona consolatorio, ma se le valutazioni del professor Oswald sono affidabili, per una volta l´Italia si riflette pienamente nella sua classe politica ai suoi massimi livelli. Si ricorderà come a novembre, esasperato dalle critiche alla Finanziaria, il presidente Prodi fosse esploso: «Qui ormai siamo in un paese impazzito».
Ecco. A tre mesi di distanza da quello che sembrava poco più che uno sfogo, per lampi e frammenti opportunamente virgolettabili la caduta del governo ha riportato in campo il tema della follia. Ha detto a botta calda il ministro degli Esteri D´Alema: «Siamo un paese di matti». Si è lamentato il senatore dissidente Rossi: «Dicono che sono un matto». E l´altro, Turigliatto: «Non sono un folle». E quell´altro ancora, Pallaro, sia pure con un´alzata di spalle: «Qui sono tutti matti». Sorge il sospetto: e se lo fossero davvero? Se la politica avesse di colpo perso la testa e la ragione?
L´onorevole di An Ciccioli, che di professione fa lo psichiatra, si è spinto più in là: «Il centrosinistra è affetto da psicopatologia dissociativa, sindrome per cui la mente non riconosce parti del corpo e viceversa». La classe dirigente, ha concluso una recentissima ricerca della Luiss, «è depressa». Sia come sia, all´agenzia Adn-Kronos è parso naturale di bussare alla porta di un altro clinico del ramo, il professor Di Giannantonio, dell´università di Chieti, che ha risposto segnalando le ripercussioni emotive di tali eventi. Stress convulso, rabbia, frutrazioni: «In questi - ha riconosciuto - ci si agita spesso a vuoto, si mangia male e si bevono troppi caffè».
Ora. Di solito è saggio guardarsi dalle diagnosi selvagge e ancora di più da quelle politicamente mirate. Quando venne affondato il primo governo Prodi, per dire, si sviluppò un vano dibattito sul narcisismo di Bertinotti. Così come da almeno un decennio abbondano le più irrilevanti analisi sulla presunta megalomania di Berlusconi. Eppure, al netto della polemica e dell´insulto facile, quello che dura un giorno e poi svanisce, colpisce la facilità con cui da qualche tempo l´argomento della follia viene invocato nel discorso pubblico dai suoi stessi protagonisti.
Oppure appare piuttosto visibile per conto suo, questa diffusa perdita dell´autocontrollo, e si esercita con la dovuta complicità dei media in certe vistose manifestazioni che spesso violano i confini del decoro e del buonsenso. Isterie da talk-show, paranoie complottistiche, un flusso ininterrotto di elementi legati alla magia e alla superstizione (iella, scaramanzie, talismani recati sempre più di frequente ai leader, che li accettano di buon grado). Quindi accentuata ricorrenza di confessioni personali (sesso, per lo più) e di tematiche «basse» (si pensi alla questione del bagno della Camera o all´uso politico e simbolico delle mutande). E infine - ma su questo terreno la fine appare un concetto assai relativo - vera e propria voluttà di autodegradazione, sia pure light e a scopo d´intrattenimento, comunque attivata sul labile confine che un tempo separava la satira dalla realtà e che oggi, per dire, ha condotto un certo numero di uomini politici prendersi a torte in faccia sul palcoscenico del Bagaglino.
Va da sé - e tanto più va da sé in occasione dell´anniversario di Franco Basaglia - che la vera pazzia è un´altra cosa, un´altra storia, un dramma doloroso. E che per fare il leader, forse, un pizzico ce ne vuole pure. Dopo tutto il Cavaliere, cui si deve una prefazione ad Erasmo, la rivendica addirittura, questa sua vena, e la tira fuori quando deve mobilitare le emozioni della sua folla, e allora grida al culmine del calore: «Siete d´accordo con la lucida follia visionaria di chi vi parla?». E quelli: «Sììììì!». Sul nesso impalpabile fra stramberia e potere ha scritto pagine biografiche e indimenticabili Francesco Cossiga, già designato «caso clinico» (da De Mita) che a suo tempo recuperò e fece sua la figura shakesperiana del «Fool», il giullare: «Io faccio il matto - e qui alcune volte il Capo dello Stato strizzava anche l´occhio - ma non sono matto. Io dico la verità».
E tuttavia: appare poco plausibile che tutti oggi dicano la verità. Forse era sincero Veltroni allorché in campagna elettorale fu beccato dai giornalisti a scrivere a su un bigliettino a Casini la formula ormai di moda, o di prammatica: «Qui sono tutti matti». Forse lo pensava davvero anche Prodi quando pochi mesi dopo, rispondendo a una domanda di un giornalista sullo stato di salute di Berlusconi, disse: «Non lo chieda a me: non sono un medico».
La cosa buffa, semmai, e a suo modo anche un po´ folle, è che questo permanente rinfacciarsi la malattia mentale finisce per apparire sospetto. Come se ormai priva di riferimenti sociali, e desiderosa di accorciare le distanze con il pubblico a colpi di strilli artificiali, lacrime indotte, palpitazioni strategiche ed esibizionismi coatti, la classe politica fosse rimasta prigioniera della sua stessa e nuda emotività. A un passo da delirio, ma senza saperlo. Forse.
Sembra, come ha raccontato Casini in tv, che poco prima della crisi i due eterni contendenti, Prodi e Berlusconi, si siano incontrati più o meno in segreto; e guardandosi negli occhi abbiano convenuto che nei rispettivi schieramenti «ognuno aveva i suoi matti». E «liberiamocene!» avrebbe proposto di slancio il Cavaliere. Si ignora la risposta del presidente del Consiglio. Ma qui, in fondo, si chiude il cerchio delle italiche mattane: vere e presunte, procurate o spontanee, individuali e collettive, con buona pace del professor Oswald e dell´università di Warwick.

Repubblica 28.2.07
La spiritualità degli atei
di Enzo Bianchi

L'autore è fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose

È possibile che i non credenti si confrontino con i cristiani sulle domande attorno al senso della vita?
In Italia alcuni si esercitano a offendere la fede dei credenti e ci si nega reciprocamente la capacità di etica universale

Ormai in Italia il confronto tra credenti cattolici e non cristiani, agnostici o atei è sempre più segnato da conflittualità e polemiche che a volte diventano derisione e disprezzo reciproco. Va detto con franchezza: siamo lontani dallo spirito espresso da Paolo VI con parole ormai dimenticate: "Noi dedichiamo uno sforzo pastorale di riflessione per cercare di cogliere negli atei nell´intimo del loro pensiero i motivi del loro dubbio e della loro negazione di Dio".
E´ vero che oggi l´ateismo militante non è più attestato come negli anni sessanta, ma l´orizzonte agnostico, oggi ancor più esteso di allora, richiede in realtà lo stesso sforzo da parte dei cristiani per tessere un dialogo che si nutra di ricerca comune, di ascolto, di dibattito tra vie diverse. Invece da una parte, quella dei credenti, le posizioni sono sovente difensive perché nutrite di paura e di vittimismo, mentre da parte di alcuni non cristiani si arriva a deridere la fede, ad affermare che proprio i cristiani sono incapaci di avere un´etica, che la fede è fomentatrice di integralismo, intolleranza e violenza. Veementi attacchi anticristiani da una parte, dall´altra mancanza di ascolto e persino demonizzazione del "non credente", giudicato "incapace di moralità".
E così, qua e là echeggia una parola di Dostoevskij: "Se Dio non esiste, tutto è permesso!", considerando chi non crede come persona priva di spiritualità e di morale. Ma allora, è praticabile un dialogo convinto, rispettoso, capace di essere anche fecondo? E´ possibile che i non credenti si confrontino con i cristiani sulle domande attorno al senso della vita? E´ possibile che il cammino di "umanizzazione", essenziale all´umanità per non cadere nella barbarie, sia percorso insieme? Ma affinché questo cammino si apra occorrono alcune urgenze che cerco di delineare.
Agnostici e atei non credono in Dio, non si sentono coinvolti da questa presenza perché non la sentono reale, ma sono consapevoli che invece le religioni che professano Dio fanno parte della storia umana, della società, del mondo. Come essi non trovano ragioni per credere, altri invece le trovano e sono felici: gli uni pensano che questo mondo basti loro, gli altri sono soddisfatti di avere la fede. Ma proprio questo fa dire che l´umanità è una, che di essa fanno parte religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità. Spiritualità non intesa in stretto senso religioso, ma come vita interiore profonda, come fedeltà-impegno nelle vicende umane, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla dimensione estetica e alla creazione di bellezza nei rapporti umani. Spiritualità, soprattutto, come antidoto al nichilismo che è lo scivolo verso la barbarie: nichilismo che credenti e non credenti dovrebbero temere maggiormente nella sua forza di negazione di ogni progetto, di ogni principio etico, di ogni ideologia. Purtroppo questo nichilismo viene sovente definito relativismo, finendo per confondere il linguaggio del dialogo e del confronto e portando all´incomprensione reciproca. Ed è lo stesso nichilismo che, paradossalmente, può assumere la forma del fanatismo in cui ci sono certezze assolute, dogmatismi, intolleranza che accecano fino a rendere una persona disposta a morire e a far morire.
No al nichilismo, dunque, ma allora emerge l´urgenza di riconoscere la presenza di una spiritualità anche negli atei e negli agnostici, capaci di mostrare che, se anche Dio non esiste, non per questo ci si può permettere tutto: persone che sanno scegliere cosa fare in base a principi etici di cui l´uomo in quanto tale è capace. E la grande tradizione cattolica chiede ai cristiani di riconoscere che l´uomo, qualsiasi essere umano, proprio perché, secondo la nostra fede, è creato a immagine e somiglianza di Dio, è "capax boni", capace di discernere tra bene e male in virtù di un indistruttibile sigillo posto nel suo cuore e della ragione di cui è dotato. I non credenti sono capaci di combattere l´orrore, la violenza, l´ingiustizia; sono capaci di riconoscere "principi" e "valori", di formulare diritti umani, di perseguire un progresso sociale e politico attraverso un´autentica umanizzazione.
Si tratta, per tutti, di essere fedeli alla terra, fedeli all´uomo, vivendo e agendo umanamente, credendo all´amore, parola sì abusata oggi e sovente svuotata di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il "luogo" cui l´essere umano si sente chiamato. Credenti e non credenti non possono essere insensibili ad affermazioni che percorrono come un adagio i testi biblici e che sono stati ripresi dalla tradizione: "Solo l´amore è più forte della morte... Solo l´amore resterà per l´eternità...". Del resto la fede – questa adesione a Dio sentito come una presenza soprattutto a causa del coinvolgimento che il cristiano vive con Gesù Cristo – non sta nell´ordine del "sapere" e neppure in quello dell´acquisizione: si crede nella libertà, accogliendo un dono che non ci si può dare da sé. Analogamente gli atei, nell´ordine del sapere non possono dire "Dio non c´è": è, infatti, un´affermazione che possono fare solo nell´ambito della convinzione.
Vorrei che noi cristiani potessimo ascoltare atei e agnostici, potessimo confrontarci con loro, senza inimicizie, soprattutto attraverso un confronto delle nostre spiritualità, di ciò che in profondità ci muove nel nostro agire. Lo spirito dell´uomo è troppo importante perché lo si lasci nelle mani di fanatici e di intolleranti oppure di spiritualisti alla moda. Certo, ogni religione si nutre di spiritualità, ma c´è posto anche per una spiritualità senza religione, senza Dio.
Ma nella specifica situazione italiana dovremmo prestare attenzione anche ad un altro elemento, facendo tesoro di un aneddoto storico. Mussolini confidò un giorno al suo ministro degli Esteri: "Io sono cattolico e anticristiano!". Eredi di questa posizione se ne possono trovare tuttora in Italia: persone non credenti né in Cristo né nel suo vangelo, ma pronti a difendere valori culturali "cattolici". Non è questo che intendo quando parlo di spiritualità degli atei: penso invece a un sentire che rende possibile un confronto proprio sui valori del Vangelo, sul suo messaggio umanizzante a servizio dell´uomo.
Credo ci sia posto per una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di coloro che sono in cerca della verità perché non soddisfatti di risposte prefabbricate, di verità definite una volta per tutte. E´ una spiritualità che si nutre dell´esperienza dell´interiorità, della ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà della morte come parola originaria e con l´esperienza del limite; una spiritualità che conosce l´importanza anche della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare. E´ una spiritualità che si alimenta dell´alterità: va incontro agli altri, all´altro e resta aperta all´Altro se mai si rivelasse. Ne La Peste, Camus scriveva: "Poter essere santi senza Dio è il solo problema concreto che io oggi conosco". Oggi potremmo parafrasare questa affermazione dicendo che il solo autentico problema è essere impegnati in una ricerca spirituale al fine di fare della vita umana un´opera d´arte, un cammino di piena umanizzazione. Sì, in Francia pensatori come Luc Ferry o André Comte-Sponville, non cristiani e non credenti, propongono nella lotta contro la barbarie incipiente una spiritualità anche per gli atei. Da noi in Italia, invece, alcuni paiono esercitarsi a offendere la fede dei credenti e a negarsi reciprocamente la capacità di etica universale, di umanesimo... Io resto testardamente convinto che, in quanto esseri umani, non siamo estranei gli uni agli altri e che siamo pertanto chiamati ad ascoltarci e a cercare insieme.

Repubblica Lettere a Corrado Augias 28.2.07
Gentile Dott Augias, un lettore difendeva giorni fa il celibato sacerdotale sottolineandone "il valore profetico, dimostrativo della verità". Ho 43 anni sono stato per 12 anni sacerdote e priore di una comunità di un importante ordine monastico.
Ho vissuto con serenità il celibato fino al momento in cui mi sono innamorato di una donna. Un evento a causa del quale ho rinunciato con gioia ai non pochi privilegi della mia posizione. Nonostante concordi sul fatto che l'astinenza possa essere per alcune persone o per un periodo, un valore, la realtà è purtroppo, molto spesso diversa.
Negli anni trascorsi in monastero ho visto la quasi totalità delle persone patire moltissimo l'impossibilità di manifestare apertamente la propria affettività. Io stesso sono stato oggetto per l'intero periodo di molestie e pressioni perché mi rifiutavo di "cedere" agli inviti di alcuni confratelli che esigevano da me, in nome di una presunta "amicizia spirituale", prestazioni in contrasto con i miei sentimenti e il mio orientamento affettivo nonché con le regole del Diritto Canonico.
Sono stato più volte invitato in quanto priore a manifestare un'"intima vicinanza" anche ai novizi per porre rimedio alla carenza di vocazioni con una risposta "naturale" al loro bisogno di affetto, essendo la profonda solitudine la principale causa di abbandono da parte dei postulanti. Come si può ancora una volta vedere (e questo è ancora più triste in un'Istituzione che continua a condannare le unioni omosessuali), tra il dire e il fare c'è di mezzo molto più che il mare.
Ma se anche così non fosse, se tutti fossero in grado di negare la parte costitutiva del proprio essere umano per dedicare a Dio un amore indiviso, il problema rimane comunque quello di una Chiesa che a tavolino decide il bene e il male per tutti e non si lascia cambiare dalla vita e dalle persone, a differenza di Gesù che invece non metteva nemmeno Dio e la sua legge al di sopra dell'uomo.
Se lo spazio lo consentisse vorrei raccontarle quanta 'verità' ho trovato in certe pagine della letteratura. Sono propenso a pensare che la realtà della vita sia di gran lunga più debitrice all'arte che non alla teologia.

Alberto Stucchi
albertostucchi@fastwebnet. it


La lettera alla quale il signor Stucchi si riferisce è quella di un lettore che recriminava la superficialità con la quale il problema del celibato dei sacerdoti cattolici viene trattato da chi non sia 'del mestiere', come me per esempio.
La testimonianza di oggi mi sembra notevole non tanto per la scelta finale fatta. Amor omnia vincit, come si usa dire; quando ci si innamora di una creatura che sembri degna del nostro amore, tutto il resto passa in secondo piano, anche le scelte che parevano definitive. Sono decine di migliaia in Italia i sacerdoti che hanno deciso di tornare a una vita normale nel secolo.
Nella vicenda del signor Stucchi ciò che a me pare notevole è ciò che precede, vale a dire gli inviti, le pressioni, l'insistenza a intraprendere rapporti di 'intima vicinanza' tra confratelli o con i novizi. Può darsi che si sia trattato di un caso isolato. Può darsi che il signor Stucchi, preso dal suo cocente dilemma personale, abbia travisato. Voglio crederlo, lo spero.