venerdì 2 marzo 2007

Liberazione 17.2.07
Parla l’ambasciatore, autore di un libro sui rapporti tra Stato e cattolici
Romano: «La Chiesa è ingerente? Ha paura. Non è più maggioranza»
di Tonino Bucci


Intervista all’ambasciatore, autore di un libro sulla storia italiana e i rapporti tra lo Stato e le gerarchie vaticane.
«Oggi in Italia esiste una parte significativa della società che vuole una legge sulle coppie di fatto»
Sergio Romano: «La famiglia è cambiata. E la Chiesa si spaventa»

Coppie di fatto e Dico, ultimo anello di una catena. Prima c’è stata l’eutanasia, prima ancora la fecondazione assistita e le staminali, c’è stato un tempo in cui era la clonazione a far parlare le gerarchie vaticane. Sull’embrione no, l’attenzione non è mai calata e l’aborto è sempre un dente dolente per le sfere ecclesiastiche. E’ cambiato qualcosa negli ultimi decenni, le ingerenze clericali nella politica sono più forti che in passato? Oppure non dobbiamo stupirci più di tanto perché Stato e Chiesa, in Italia, hanno sempre avuto una storia tormentata, di conflitti e di compromessi, dal non expedit di Pio IX ai Patti Lateranensi, dalla nascita del partito popolare alle leggi sul divorzio e l’aborto. Questo rapporto a doppio segno tra cattolici e laici, a volte di guerra aperta, a volte invece di vera e propria sudditanza dei secondi rispetto ai primi, ha attraversato oltre un secolo. Sergio Romano ha studiato questa storia e in un suo libro ancora recente, Libera Chiesa. Libero Stato? , sosteneva che l’Italia è un paese anomalo nel quale coesistono, l’uno di fianco all’altro, due autorità, due governi, due poteri - l’uno spirituale, l’altro temporale - in potenziale concorrenza fraloro. L’ambasciatore non è uomo di sinistra, anzi. E’ un conservatore? Può essere ma di quelli che hanno il merito di raccontare le cose con realismo, senza infingimenti. La sua idea è che il nostro paese non sia mai stato a sufficienza liberale e che la Chiesa abbia spesso sconfinato nella vita politica, causa anche la debolezza altrui. E’ convinto, però, che l’offensiva delle gerarchie vaticane contro la legge sulle coppie di fatto, «c’è una minoranza significativa ormai che la vuole» - sia dovuta più che altro a debolezza. «La Chiesa ha paura», dice. Paura di non riuscire più a controllare la società italiana in via di trasformazione. Un contrappeso non c’è, in Italia manca una politica liberale che si limiti a dare regole a una società che le chiede. E dal suo punto di vista Romano lancia una frecciatina alla sinistra: crede a uno «Stato etico» ed «educatore», che indichi un modello di comportamento nella vita privata, sia pure alternativo. Gli si potrebbe obiettare, naturalmente, che i Dico - nella loro versione annacquata – servono invece a garantire la libertà degli individui di poter convivere come meglio credono senza obbligo di sottostare a modelli imposti dall’alto, religiosi o tradizionali che siano. Ma tant’è. Comunque a un primo sguardo il protagonismo della Chiesa nel dibattito pubblico sembra aumentato. Soprattutto per quel che riguarda temi da sempre considerati rilevanti per il messaggio cattolico: la nascita, la vita, la malattia, la morte, l’amore.
Ma davvero questi temi riguardano soltanto la sfera privata? Oppure riguardano la politica e quelli della Chiesa sono semplici sconfinamenti?
Non dimentichiamo che anche in altre epoche la Chiesa è intervenuta nella politica italiana. Le elezioni del 1948 videro da parte sua una partecipazione forte. L’organizzazioned dei comitati civici avvenne alll’interno dell’Azione cattolica. La Chiesa era presente e consapevole. Il clero delle parrocchie era attivo e impegnato. Ci fu addirittura il decreto di scomunica dei comunisti ad opera di Pio XII anche se non venne mai applicato per davvero. Insomma di sconfinamenti nella storia ce ne sono stati tanti. Però la situazione oggi è cambiata. Per due ragioni. La prima, è che la Chiesa ha paura. Aveva paura anche prima, nel 1948 c’era il pericolo comunista. Ma allora esisteva un alleato forte della Chiesa, gli Stati Uniti, con i quali aveva rapporti eccellenti. La Chiesa si sentiva il volto spirituale di un blocco contro la minaccia comunista. Oggi si sente più isolata perché l’Europa sta diventando sempre meno cristiana. Il cristianesimo come pratica devozionale sta diventando minoritario in tutto il continente. La scienza, lo sviluppo della società e le nuove tecnologie stanno mettendo in discussione i tre momenti fondamentali dell’esistenza, la nascita, la procreazione e la morte. Si può nascere morire e procreare in modo diverso da quello tradizionale e questo naturalmente preoccupa la Chiesa. Qualsiasi modifica dell’istituto familiare costituisce una minaccia a quello che è stato sempre il veicolo tradizionale per la trasmissione el messaggio cristiano. Quindi ha paura. La Chiesa è su posizioni difensive soprattutto in Europa. Altrove no, sta andando bene paradossalmente anche se sulla sua strada trova l’Islam che sta facendo grandi progressi.
La fine della Dc che mediava gli interessi della Chiesa con quelli generali della società non ha, paradossalmente, spinto il Vaticano a occuparsi di politica in prima persona?
Questa è la seconda ragione. La Chiesa interferisce oggi di più proprio perché non esiste la Democrazia Cristiana. Quando c’era la Dc sapeva che esisteva un partito cattolico con la sua identità politico-religiosa. Quel partito aveva responsabilità di governo e, nel contesto internazionale dell’epoca, non gli si poteva rendere la vita impossibile mettendolo di fronte a degli aut-aut. La Chiesa era costretta perciò a moderare le proprie richieste, a parte il fatto che in quegli anni non si ponevano problemi così traumatici per il Vaticano come quelli di oggi: eutanasia, clonazione, fecondazione assistita, unioni fra omosessuali... Quando il partito confessionale si è dissolto, tutti i laici in Italia hanno pensato che fosse una buona cosa. Ecco, lì ci siamo sbagliati alla grande. E’ avvenuto il contrario. Non abbiamo previsto che i cattolici si sarebbero sparsi su tutto l’arco politico e che la Chiesa avrebbe avuto più leve su cui manovrare. Liberata dalla responsabilità di dare retta al partito democratico cristiano la Chiesa si è sentita più libera. Teniamo poi conto che i papi non sono più italiani. Anche questo ha avuto il suo effetto. Le preoccupazioni erano tante, i papi erano presi anche da altre cose, anche se sono stati sempre attenti un retroterra territoriale in Italia.
Ratzinger è attento a quel che succede in Italia. Giovanni Paolo II guardava più al mondo?
Alla Polonia, soprattutto. Era assorbito dal suo paese. Mentre questo ultimo papa non si occupa della Germania. Aggiungiamo anche un sistema politico italiano fragile che è ancora in fase di transizione. La fragilità dell’uno è sempre la forza dell’altro.
Non sarà per questo che una buona parte della classe politica guarda alla Chiesa in cerca di modelli e valori assoluti?
La parola valore mi dà i brividi. Esistono nuclei conservatori che si oppongono ai cambiamenti di costume e delle nuove tecnologie e che rappresentano serbatoi di voti. Non è roba da buttar via. Che ci siano forze politiche che per non perdere consenso, si interessano a questa parte di elettorato sensibile alle parole d’ordine della Chiesa non mi sorprende.
Ma è poi vero che la Chiesa abbia ancora una presa maggioritaria sulla nostra società?
Chi può saperlo? Tenderei a dire che esiste una minoranza importante, una minoranza agissant direbbero i francesi, che agisce e che vuole decisamente questa legge sul “terzo matrimonio” di cui essa ritiene abbia bisogno la società italiana.

il Riformista 2.3.07
Affari. Si diffonde la pratica dei "Counselors"
Non mi sento bene, vado dal filosofo
di Livia Profeti


La filosofia cerca il suo sbocco professionale e si propone in Italia come “cura dell'anima”: la consulenza filosofica. Nata in Germania nel 1981 dalle conversazioni che il tedesco Achenbach intratteneva con i suoi ospiti, da qualche anno sta cercando di farsi strada anche in Italia.
La sua applicazione è ancora esigua, ma crescono divulgazione e formazione post-laurea. Il costo di tale formazione non sembra essere alla portata di tutti, anche se è difficile evincerlo tra l'insieme di convegni, corsi, master universitari e le molte associazioni private, che aspirano alla creazione di un albo professionale specifico. A titolo di esempio, se il seminario pomeridiano di un famoso maître à penser può richiedere anche 210 euro, il blasonato master biennale alla Ca' Foscari di Venezia ne costa 6.000, mentre ne sono sufficienti 1.500 per quello di Roma Tre, annuale.
Sono molti i filosofi noti che a diverso titolo e vicinanza sono entrati nell'orbita della consulenza filosofica: Vattimo, Volpi, Bodei, Natoli, Ferraris solo per citarne alcuni. Il suo vero nume tutelare è però Umberto Galimberti, che già nel 2003 sostenne il primato della filosofia sulla psicoterapia, ipotizzando su Repubblica che quest'ultima fosse nata solo a causa di una “diserzione” della prima. Già vicepresidente dell'associazione Phronesis e direttore scientifico del master veneziano, il filosofo svolge anche direttamente formazione e cura per Apogeo, una collana dedicata al fenomeno.
In un contesto di allarme mondiale sui disagi psichici in aumento, per Maurizio di Bartolo la consulenza filosofica cerca di occupare quella fetta di mercato «tra il lettino e il confessionale», uno spazio in espansione perché legato all'altrettanta crescente confusione tra sanità e malattia mentale, una differenza diventata “virtuale” (Golem L'Indispensabile n. 4/05). I problemi che i consulenti filosofici cercano di affrontare si sovrappongono infatti a quelli delle psicoterapie e psicoanalisi, ma i counselors rifiutano la definizione di terapia psichica e preferiscono parlare di cura dell'anima: un dialogo socratico che dovrebbe guidare il consultante alla comprensione, e quindi realizzazione, della propria “filosofia personale”.
Da un punto di vista teorico, se per Galimberti i nomi di riferimento sono quelli di Heidegger, Binswanger e Jaspers (La casa di psiche), secondo Pier Aldo Rovatti le idee fondamentali sono quelle del francese Foucault (La filosofia può curare?). Rovatti rivendica anche la prossimità della consulenza filosofica con le posizioni di Franco Basaglia, l'ispiratore della nostra legge del '78 sul trattamento della malattia mentale, tuttora in vigore. La querelle pare destinata ad una pacifica integrazione, anche perché sia Foucault che Basaglia hanno diversi debiti con le icone galimbertiane.
L'aria di famiglia si respira infatti nelle parole di Neri Pollastri, uno dei primi counselors italiani, membro fondatore di Phronesis, il quale assicura che nella consulenza filosofica non c'è alcuna terapia (parola detestata sia dal foucaultiano Rovatti che dal filo-fenomenologo Galimberti), perché «l'intervento efficace» non spetta al consulente, bensì alla persona stessa che deve essere lasciata libera di agire «secondo la propria filosofia personale».
Non solo in teoria quindi, ma anche nella prassi la consulenza filosofica mostra la sua parentela con l'heideggeriana daseinanalisi di Ludwing Binswanger. Anche il nume della psichiatria fenomenologica faceva infatti lunghe chiacchierate con i suoi pazienti e come i counselors non interveniva terapeuticamente, a volte però con esiti tragici. Lo storico Hirschmüller rivela infatti nel suo Ellen West: tre tentativi di cura e il loro fallimento (Il sogno della farfallan. 1/05) che nel '21 Binswanger “liberò” la paziente dalla sua clinica di Kreuzlingen anche se ben consapevole che ella si sarebbe suicidata, cosa che regolarmente avvenne. Anni dopo, nel '44, senza rimpiangere la decisione di allora, egli giustificò il suicidio della giovane donna, alla luce della daseinanalisi, come un atto di libertà e di “autentico” compimento della propria esistenza.
Il primo a sancire la superiorità della filosofia esistenziale sulle altre scienze umane fu proprio Martin Heidegger, che nel '27 scrisse in Essere e Tempo che essa veniva «prima di qualsiasi psicologia, antropologia, e, a maggior ragione, biologia». Da lì a 5 anni sarebbe diventato il primo rettore-Führer della storia del nazionalsocialismo. Ci sarà da domandarsi qualcosa?

l’Unità 2.3.07
SAGGI Un pamphlet di Luciano Canfora lo dimostra tra ricorsi e paralleli storici: dalle guerre del Peloponneso alla guerra in Iraq del 2002
«Esportare la libertà»? Da sempre un imbroglio a danno dei popoli
di Bruno Gravagnuolo


Che esportare la libertà fosse un mito destinato al fallimento lo sapeva bene Immanuel Kant, che pure era filosofo alieno dalla Realpolitik e dagli arcana imperii. Infatti nel 1795 nel suo celebre Per la pace perpetua, metteva in guardia da coloro che in nome della libertà, politica o di commercio, reclamavano il diritto a intervenire nelle vicende di altri stati. Mascheratura di interessi, diceva. Talché aggiungeva, col diritto di intervento umanitario occorreva andarci cauti. Sottoponendolo a tali e tante clausole di diritto cosmopolitico da renderlo quasi impossibile.
Sullo stesso tema arriva un breviario elegante e prezioso. Intitolato appunto: Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (Mondadori, pp. 104, euro12). Scritto da Luciano Canfora, grande filologo, erudito e saggista, protagonista l’anno passato della polemica con l’editore tedesco che censurò il suo La democrazia. Storia di un’ideologia (Laterza) bloccandone la pattuita pubblicazione. E a motivo di un suo presunto filo-stalinismo, nel discorrere di Stalin e Urss. In realtà Canfora, che è comunista non pentito, va letto per quello che è: un storico realpolitiker e controcorrente. Che ama far le bucce alla banalità del senso comune liberale. E con una vena da sottile controversista, proclive anche al caso indiziario. Come nel suo bel libro sull’esecuzione di Giovanni Gentile, trama multipla in cui entravano in gioco non solo gli esecutori materiali, ma altri attori di sfondo (fascisti, servizi inglesi).
Bene qual è il senso del volumetto? Nient’altro che « temprare lo scettro ai regnatori», come avrebbe detto il Foscolo «interprete» di Machiavelli. Vale a dire mostrare che l’esportazione della libertà è solo la proiezione ideologica e strategica della politica di potenza su larga scala. E scala gepolitica s’intende. Dalla grande guerra del Peloponneso(431-404) fino alle guerre irachena e afghana dei nostri giorni. Con incunaboli vari a riprova, quali l’appello motu proprio di Pio IX alla Francia contro la Repubblica romana, in favore della «vera libertà». Le guerre napoleoniche, il «grande gioco» inglese in Afganisthan, le occupazioni dell’Armata Rossa all’est dopo il 1945, le ribellioni regionali tra i blocchi dopo Jalta: Ungheria, Cile, Argentina. Su su sino all’ordine imperiale unipolare attuale: la «Pax» americana.
Tra paralleli e ricorsi storici, dipanati con abilità da Canfora, non solo si mostra che costringere i popoli alla libertà è contraddittorio. Ma anche che sempre la costrizione alla libertà e magari alla rivoluzione coincide con ben precisi assestamenti geopolitici di potenza.Vale per le campagne napoleoniche, benché in Europa abbiano i prodotto sussulti di rivoluzioni passive modernizzanti come scriveva Gramsci. Vale per l’imperialismo Usa: dalla dottrina Monroe all’arbitrato in medioriente. E vale per il dominio ex sovietico, che trasformò la rottura dell’Ottobre 1917 in un sistema egemonico guidato dallo stato guida (benché contestato dalla Cina). Qui Canfora non usa il termine «impero». E però in certi periodi vi fu anche sfruttamento dei «satelliti». Inoltre egli critica l’Urss per aver appoggiato illusoriamente le «borghesie nazionali», invece dei Pc nel mondo arretrato. Il che ha favorito il fondamentalismo. Eppure non per questo quel sistema crollò. Crollò semmai per costituiva incapacità autoriproduttiva. Per il primitivismo congenito di quel socialismo barbarico e giacobino. Costretto sin da subito a dominare brutalmente. Per sopravvivere ed espandersi.

l’Unità 2.3.07
LA MOSTRA A Palazzo Strozzi le opere dell’artista raccolte dai collezionisti Egisto Paolo Fabbri e Charles A. Loeser
Quando Cézanne era «di casa» a Firenze
di Gianni Caverni


Ci sarebbe da non crederci! Proprio a Firenze, città da tempo immemorabile piuttosto restia ad accogliere le novità, soprattutto in campo artistico, c’era, fra l’Ottocento e il Novecento, la più grande collezione di opere di Cézanne. Una cinquantina di pezzi messi insieme da due giovani e appassionati collezionisti americani venuti a vivere in riva all’Arno: Egisto Paolo Fabbri e Charles Alexander Loeser.
I Fabbri, emigrati negli Stati Uniti dove avevano messo insieme una straordinaria ricchezza, si trasferirono a Firenze nel 1885. Egisto Paolo aveva studiato pittura a New York, e continuò a farlo qui nello studio di Michele Gordigiani. Frequenti i suoi viaggi a Parigi dove alla fine si stabilì nel 1896 per tornare infine nel 1913. Mise insieme ben 32 dipinti del maestro di Aix, allora la più grande collezione d’Europa e di America.
Loeser comprò a Parigi i primi Cézanne nel 1896, ne raccolse 15 che affiancò alla collezione di disegni e di arte antica, si trasferì sulle colline fiorentine, vicino a Bernard Berenson che aveva conosciuto ad Harward. I protagonisti di questa mostra sono decisamente loro, la loro lungimiranza e la loro vitalità, testimoni di un’attenzione che doveva in qualche modo essere anche della città, almeno nelle sue componenti più colte e cosmopolite. Certo spesso quei quadri così poco «facili» dovevano suscitare qualche perplessità fra gli amici che frequentavano la loro casa, e, raccontò lo stesso Loeser, più di una riserva su Cézanne espresse sir Winston Churcill, più noto daltronde come statista che come pittore se pur dilettante.
Con questa mostra, curata da Francesca Bardazzi e Carlo Sisi e voluta dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, si inaugura la stagione espositiva della Fondazione Palazzo Strozzi. Tornano così a Firenze più di venti opere del maestro francese dopo che la collezione, soprattutto quella di Egisto Paolo Fabbri, era stata via via smantellata. Opere di altissima qualità come La signora Cézanne sulla poltrona rossa, Casa sulla Marna (che Loeser donò al Presidente degli Stati Uniti e che Jaqueline Kennedy volle nello studio giallo della Casa Bianca), Le bagnanti, l’autoritratto con berretto. Articolata in cinque sezioni, la mostra offre l’opportunità di vedere raccolte opere di grande suggestione: di Van Gogh Il giardiniere della Galleria d’arte moderna di Roma, di Matisse il piccolo ma straordinario Alberi presso Melun proveniente da Belgrado, di Sargent A Torre Galli, donne in un giardino da Londra. E poi alcuni bronzi, gessi e cere di Medardo Rosso, e ancora Fattori, Gordigiani, Soffici, Andreotti, Ghiglia, Rosai. Washington, New York, Londra, San Pietroburgo, Detroit sono alcune delle città dalle cui collezioni pubbliche e private provengono le opere. Oltre alla rinnovata limpida bellezza di Palazzo Strozzi, oltre alle opere di colui che giustamente è considerato il padre di tutta la pittura moderna, oltre alle opere degli artisti italiani e stranieri suoi contemporanei, si finisce per scoprire l’ottima qualità anche della pittura di Egisto Paolo Fabbri.

Repubblica 2.3.07
Si può scegliere come nascere?
La nuova polemica tra la chiesa e la scienza
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Il Papa ha di recente ammonito la ricerca ossessiva del "figlio perfetto"
In che modo l´intervento sulla natura umana può convivere con la nostra etica

È noto che Darwin trasse spunto, nel formulare la teoria della selezione naturale, dall´osservazione delle pratiche di incrocio fra animali domestici, che erano diffuse da millenni e venivano applicate metodicamente dagli allevatori del suo tempo, accoppiando gli esemplari migliori per ottenere vacche e cavalli, pecore e cani dotati delle qualità più desiderabili (la cosiddetta selezione artificiale). Nel 1883, un anno dopo la morte di Darwin, suo cugino Francis Galton, uno scienziato eclettico che aveva contribuito a più rami del sapere, suggerì che attraverso incroci opportuni sarebbe stato possibile migliorare la razza umana, al pari di qualunque razza animale, così da ottenere individui provvisti di eccellenti qualità fisiche e morali. Galton promosse un movimento d´opinione che battezzò con un neologismo tratto dal greco, "eugenica", cioè "di buona nascita".
Le idee di Galton ebbero vasta risonanza. L´Inghilterra vittoriana era ossessionata dal grande numero di emarginati e poveracci di cui la rivoluzione industriale aveva riempito le sue strade: analfabeti, accattoni, bevitori, imbecilli, delinquenti.
Soprattutto, i benpensanti si preoccupavano nel vedere questa classe di derelitti riprodursi più vigorosamente della classe media e della classe operaia. Nella totale ignoranza della distinzione fra ciò che è biologico (innato) e ciò che è culturale (appreso), tipica dei tempi, Galton sosteneva, in sostanza, l´opportunità di incoraggiare le persone più dotate a unirsi in matrimonio e proliferare, onde arricchire di queste doti le nuove generazioni. E ciò che oggi chiamiamo eugenica positiva. Le sue idee furono adottate dai socialisti fabiani, da cui sarebbe nato in quegli anni il partito laburista, nella convinzione di potere così riformare gradualmente la società migliorando la qualità dei suoi membri. «L´eugenica è l´autodeterminazione dell´evoluzione umana» recita un manifesto eugenista del 1921.
Oltreoceano, negli Stati Uniti, questo movimento avrebbe però preso un´altra strada. Sulla spinta di studi genealogici che mostravano come famiglie di malviventi avessero continuato a delinquere per generazioni, e nella convinzione che le tendenze criminali si ereditassero per via genetica, si affermò un movimento di eugenica negativa, volto cioè a impedire che gli individui ritenuti socialmente pericolosi o inutili generassero figli.
Le leggi che governano l´eredità, formulate da Gregor Mendel oltre trent´anni prima, furono riscoperte nel 1900, dando vita negli anni successivi ad un´intensa attività di ricerca volta a capire come si manifestavano in vari organismi, compreso l´uomo.
Un biologo americano, Charles Davenport, persuaso che qualsiasi caratteristica umana fosse inesorabilmente determinata dai geni, raccolse un numero enorme di genealogie, facendo di ogni erba un fascio e documentando la ricomparsa di tratti fisici o morali in successive generazioni, dando per scontato che le capacità musicali come la propensione alla violenza fossero tratti ereditari alla stessa stregua dell´albinismo o di malattie quali la corea di Huntington.
Oggi, con un secolo di ricerca genetica alle spalle, abbiamo ben chiaro come i tratti del comportamento siano fondamentalmente il prodotto dell´ambiente di crescita, dell´educazione ricevuta, delle scelte individuali, e come i geni abbiano sì una parte, ma sovente minoritaria, nel determinare queste caratteristiche. Ma ai tempi di Davenport, le sue conclusioni pseudoscientifiche incontrarono il favore di un vasto movimento di opinione, che già organizzava nelle fiere di paese concorsi per le "famiglie più adatte", accanto a quelli per tori, porcelli e cani, incoraggiando la riproduzione dei più sani e più virtuosi. In parallelo, si andava diffondendo la convinzione che in vista di una società migliore sarebbe stato meglio impedire agli asociali di riprodursi. Il movimento per l´eugenica si rivelò una lobby potente e nei primi decenni del secolo ben trenta stati americani promulgarono leggi di sterilizzazione coatta nei confronti di provati «criminali, idioti, stupratori e ritardati mentali». Al 1941, circa 60.000 persone erano state così sterilizzate, la metà nella sola California. Altri paesi seguirono l´esempio statunitense: la Germania nazista, la Svizzera e i paesi scandinavi.
I primi test sul quoziente di intelligenza avevano avuto vasta diffusione fin dal principio del secolo. Tenuti rigorosamente in inglese e applicati ad immigranti analfabeti, davano risultati catastrofici per chi proveniva dall´Europa meridionale come da ogni altra regione povera del mondo, rafforzando la convinzione che alcune "razze", come quella "mediterranea" e i neri africani, fossero geneticamente inferiori e "degenerate". La legge federale del 1924 che limitava severamente l´immigrazione di chi proveniva da tali paesi (Italia compresa) fu applaudita come il trionfo del movimento per l´eugenica. Applicando gli stessi criteri, il matrimonio fra bianchi e neri fu vietato in parecchi stati (in alcuni il divieto perdurò fino al tempo del movimento per i diritti civili del 1963).
Ma il vero trionfo dell´eugenica si sarebbe manifestato nella Germania nazista. Nel 1933, una legge decretava la sterilizzazione coatta di ogni individuo "inadatto alla propagazione", nelle parole di Hitler: 225.000 persone la subirono nell´arco di tre anni. Al tempo stesso, il regime incoraggiava gli ufficiali delle SS ad avere il maggior numero possibile di figli (naturalmente con donne di "pura razza ariana"). La categoria degli "inadatti" si sarebbe estesa, negli anni successivi, a comprendere criminali e comunisti, omosessuali e deficienti, ebrei e zingari. Una legge del 1936 vietava il matrimonio e ogni rapporto sessuale tra tedeschi ed ebrei. Dal 1939, l´eutanasia di chi "non merita di vivere" fu vista come una soluzione preferibile alla sterilizzazione (perché spendere per nutrire pazzi e carcerati, degenerati ed ebrei)? Si avviò la costruzione delle camere a gas.
Il grande massacro che ne seguì spiega perché l´eugenica sia screditata, come orientamento e come pratica, dalla fine della guerra in poi. Gli scienziati migliori l´avevano condannata senza mezzi termini fin dai tempi della sua prima affermazione. Alfred Russell Wallace, che aveva scoperto la selezione naturale contemporaneamente a Darwin, la definiva, nel 1912: «l´intrigante interferenza di arroganti pratiche scientifico-religiose». «Gli eugenisti ortodossi vanno in direzione opposta ai fatti più certi della scienza della genetica», scriveva Raymond Pearl nel 1928.
La genetica del dopoguerra ha riconosciuto l´importanza preponderante dell´ambiente di crescita e della trasmissione culturale nel plasmare i caratteri del comportamento, ma per la verità alle persone di buon senso doveva essere evidente già cent´anni fa che se è frequente che molti figli di industriali, di musicisti o di criminali continuino nella stessa attività, è prima di tutto perché crescono con i genitori. La genetica ha proposto una strategia alternativa, molto più umana dell´eugenica negativa, con cui non ha nulla a che fare: sottoporre a interruzione di gravidanza entro il terzo mese gli embrioni che darebbero origine a bambini affetti da malattie gravi e incurabili, un procedimento accettato dai Paesi più civili, fra i quali è compresa in questo caso, stranamente, anche l´Italia (grazie, Pannella!). Si evita così la nascita di futuri pazienti affetti da malattie incurabili (oggi, e - non facciamoci illusioni - per molto tempo ancora): vengono risparmiati i loro dolori e le gravi sofferenze dei famigliari. Ma il procedimento fa esattamente ciò che avrebbe fatto la selezione naturale, la grande madre della vita, perché quasi nessuno di questi pazienti si sarebbe riprodotto. Quindi non fa eugenica negativa. A una parte molto influente della Chiesa cattolica questo non è piaciuto e ha preferito stabilire che l´anima entra nel corpo con lo spermatozoo, facendo così di ogni aborto un omicidio.

Repubblica 2.3.07
Storia di un sapere che il nazismo utilizzò in chiave razzista
Quando l’eugenetica è diventata un tabù
di Francesco Cassata


Che cosa abbraccia. L’eugenetica non è solo la sterilizzazione obbligatoria, ma anche il controllo delle nascite e le campagne contro la talassemia

Nel dibattito pubblico italiano, tutta l´efficacia simbolica del discorso ostile alla biomedicina e alla genetica contemporanee deriva dall´impiego polemico e strumentale di connotazioni fortemente negative della parola "eugenica". Si tratti di fecondazione assistita, di clonazione umana terapeutica o di eutanasia, è sempre questa parola-tabù a comparire. E ad accompagnarla è sempre l´evocazione di uno spettro: quello dello sterminio nazista. La diagnosi preimpianto - per citare solo un esempio - sarebbe la "punta dell´iceberg", il primo passo in un "piano inclinato", che conduce necessariamente alla violenza del nazismo.
Dal punto di vista storiografico, un primo limite di tale reductio ad Hitlerum del concetto di eugenica consiste nell´assolutizzazione dell´esempio nazista, eretto a paradigma totalizzante di un´eugenica interpretata sostanzialmente come "pseudo-scienza razzista e antisemita". In realtà, ogni passaggio di questa argomentazione si rivela, agli occhi dello storico, superficiale e infondato. Innanzitutto, è difficile liquidare genericamente come "pseudo-scienza" quello che rimane un primo tentativo di approccio sperimentale al problema dell´eredità umana. Non solo molti fra i più importanti statistici, biologi e genetisti del novecento erano eugenisti (ad esempio, Ronald A. Fisher, Wilhelm Weinberg, Hermann J. Muller), ma anche numerose acquisizioni nel campo della genetica medica - si pensi soltanto al "metodo dei gemelli" - sono scaturite da ricerche di impronta eugenetica. Allo stesso modo, l´equivalenza fra eugenica e razzismo è altrettanto fallace. Nella Germania weimariana, la maggior parte degli eugenisti non era né razzista né antisemita: il termine Eugenik era stato appositamente coniato dagli ambienti scientifici berlinesi per sostituire la nozione di Rassenhygiene, largamente compromessa con i circoli bavaresi del razzismo völkisch. E l´influenza degli eugenisti "filo-ariani" non fu mai così debole come negli anni che precedettero l´affermazione politica del nazionalsocialismo. Non vi è dubbio che preoccupazioni classiste e razziste abbiano alimentato lo sviluppo dell´eugenica britannica e statunitense: se il bersaglio principale dell´Eugenics Education Society londinese era, infatti, il sottoproletariato (residuum o pauper class), ritenuto pericoloso per il suo basso livello intellettivo e la sua alta fertilità, negli Stati Uniti ad alimentare l´ideologia e la prassi eugenetica fu soprattutto l´incubo del "suicidio razziale" della nazione americana, prodotto dalle ondate di "plasma germinale difettoso" degli immigrati giunti dall´Europa dell´Est, dai Balcani, dall´Italia. Non a caso la legge restrittiva dell´immigrazione del 1924 - il Johnson-Reed Restriction Act - verrà elaborata con la consulenza di eugenisti statunitensi come Harry Laughlin e Charles B. Davenport.
Sarebbe, tuttavia, errato limitare l´eugenica agli orizzonti ideologici delle élite conservatrici. Con la sua progettualità modernizzatrice e la sua logica tecnocratica, il programma eugenetico attirò, infatti, le attenzioni, nella prima metà del Novecento, dei new liberal, dei fabiani britannici (si pensi a George Bernard Shaw o ai coniugi Webb), dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi, dei "progressisti" americani, dei radicali e comunisti francesi. Negli anni Trenta, biologi di orientamento marxista come Lancelot Hogben o John B. S. Haldane sostennero l´idea di un´eugenica "bolscevica": soltanto l´eliminazione delle disuguaglianze prodotte dal sistema capitalistico avrebbe consentito il pieno sviluppo delle potenzialità biologiche degli individui. Nello stesso periodo, l´interpretazione "razionale" della maternità suggerita dall´eugenica suscita gli entusiasmi dei movimenti neomalthusiani e dei gruppi femministi, alimentando le prime campagne per la depenalizzazione dell´aborto, per il controllo delle nascite, per l´educazione anticoncezionale delle donne: ben noti sono i nomi di Margaret Sanger e di Marie Stopes, paladine del birth control rispettivamente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
Non soltanto sul piano degli orientamenti ideologici, ma anche su quello delle politiche eugenetiche il quadro internazionale appare estremamente complesso e sfumato. A partire dai primi decenni del Novecento, infatti, all´eugenica "nordica", essenzialmente anglo-americana e tedesco-scandinava, contraddistinta da birth control, sterilizzazioni e certificati prematrimoniali obbligatori, si contrappone - in paesi come l´Italia, la Francia, il Belgio e diversi stati dell´America centro-meridionale - un´eugenica "latina", i cui precetti rientrano generalmente negli ambiti dell´assistenza materno-infantile, della medicina sociale preventiva, del natalismo demografico.
All´assolutizzazione del modello nazionalsocialista, l´uso pubblico del concetto di eugenica alterna paradossalmente la sua banalizzazione. I nazisti, in sostanza, non avrebbero inventato nulla: le democrazie statunitensi e scandinave non hanno anch´esse approvato delle leggi di sterilizzazione? L´analisi delle connessioni - pur esistenti e accuratamente studiate dagli storici - fra l´eugenica americana e quella nazista, lungi dall´aiutare a comprendere la complessa rete delle affinità e delle divergenze, viene invece invocata per sostenere un´identità: l´americanismo è un nazismo. Né miglior sorte tocca alle socialdemocrazie scandinave, le cui politiche eugenetiche, fortemente legate ai processi di elaborazione dei modelli locali di Welfare State, vengono anch´esse immediatamente assimilate alla Rassenhygiene tedesca. L´eugenica nazista, eretta in precedenza a categoria onnicomprensiva, si fa ora opaca: non molta strada separa così Adolf Hitler da Theodore Roosevelt, Heinrich Himmler da Gunnar Myrdal. Ad essere banalizzata è ovviamente la drammatica originalità storica - tanto qualitativa quanto quantitativa - dell´eugenica nazista: soltanto la legge sulla sterilizzazione del 14 luglio 1933 prevedeva, infatti, la coercizione e l´uso della violenza fisica contro i disabili; e nei primi quattro anni di applicazione, furono tra i 320 mila e i 400 mila i cittadini tedeschi sterilizzati in questo modo. E soltanto nella Germania nazista si giunse all´elaborazione di un programma di eutanasia (l´operazione T4) finalizzato all´assassinio di malati di mente, invalidi e anziani.
Alla luce di queste considerazioni, una messa a punto storiografica deve essere considerata come il primo passo verso il superamento dell´uso pubblico distorto del concetto di eugenica. E questo per due ragioni. Innanzitutto, per un necessario dovere di obiettività: nel nome dell´eugenica molte teorie e politiche differenti sono state formulate e realizzate. L´eugenica non è soltanto Madison Grant o Josef Mengele, ma anche Julian Huxley o Havelock Ellis; non è soltanto la sterilizzazione obbligatoria, ma anche il controllo delle nascite, il free love, le campagne anti talassemia.
In secondo luogo, perché la complessità storiografica può far luce sull´ambiguità semantica attuale della parola "eugenica". Una delle principali sorgenti delle convulse discussioni sul problema dell´eugenica scaturisce, infatti, proprio dal fatto che gli interlocutori, nel loro uso del termine, non cessano di oscillare tra l´accezione più larga (una coppia sogna di avere bambini privi di gravi anomalie) e quella più ristretta (uno Stato attua un programma esplicito di azione eugenetica). La riflessione storiografica sull´eugenica può in tal senso favorire, nell´ottica del presente, una ridefinizione semantica del concetto, incentrata sulla distinzione fra le due diverse accezioni in gioco: da un lato, un significato forte, che interpreta l´eugenica come il progetto di miglioramento dei caratteri genetici di una popolazione, attuato da uno Stato per mezzo di provvedimenti coercitivi; dall´altro, un significato debole, che identifica, invece, le pratiche selettive della genetica contemporanea basate sul rispetto dell´etica medica e dell´autonomia riproduttiva dell´individuo. Soltanto attraverso una precisa distinzione fra i due significati, storiograficamente fondata, la parola "eugenica" potrà conservare ancora un qualche senso nel dibattito pubblico italiano, cessando di essere un mero strumento di delegittimazione del nemico ideologico.

Repubblica 2.3.07
Un nuovo fronte di discussione bioetica
Dove comincia la vita umana
di Michele Aramini


Paralleli. Interferire sulle nascite è un po’ come scartare tutti quei prodotti industriali che si ritengono difettosi

L´intervento di Benedetto XVI ai membri della Pontificia Accademia Pro Vita, di qualche giorno, fa ha aperto un nuovo fronte di discussione bioetica. Il Papa ha detto che: «nei Paesi più sviluppati cresce l´interesse per la ricerca biotecnologica più raffinata, per instaurare sottili ed estese metodiche di eugenismo fino alla ricerca ossessiva del "figlio perfetto", con la diffusione della procreazione artificiale e di varie forme di diagnosi tendenti ad assicurarne la selezione. Una nuova ondata di eugenetica discriminatoria trova consensi in nome del presunto benessere degli individui». L´eugenismo è una realtà sempre più diffusa e il Papa invita a sottoporlo a riflessione critica.
La crescita di pratiche selettive nei confronti degli embrioni non è per nulla un fatto casuale. Da tempo ormai N. Agar nel suo saggio Liberal eugenetic ha proposto un "manifesto" che teorizza una nuova eugenetica: «Se precettori specializzati, programmi di training, persino la somministrazione dell´ormone della crescita per aumentare di qualche pollice la statura, rientrano nell´ambito discrezionale con cui i genitori allevano i figli, perché mai sarebbe meno legittimo un intervento genetico teso a migliorare i normali caratteri della prole?».
Si parla di nuova eugenetica perché si vorrebbe marcare una distanza rispetto alla vecchia eugenetica di stampo darwiniana e poi nazista. Si dovrebbe ricordare infatti il movimento culturale anglosassone derivato dalle teorie di Darwin, che perseguiva due obiettivi: l´eugenetica positiva, consistente nell´aumento dei soggetti particolarmente "validi" e l´eugenetica negativa, consistente nella limitazione della capacità riproduttiva dei soggetti non adatti attraverso la sterilizzazione. Il nazismo poi realizzerà questo secondo obiettivo con il programma di eliminazione fisica di queste persone.
La nuova eugenetica ha gli stessi obiettivi della precedente, ma si differenzia per il fatto che li persegue con tecniche più raffinate, ed è figlia della predominanza del modello economico di considerazione dell´uomo. Questo modello economicistico è così tanto diffuso da sembrare ai più del tutto ovvio. Con l´eccezione della Chiesa Cattolica, delle altre grandi voci religiose e di pochi anche se qualificati filosofi (Habermas, Spaemann, ecc.), sembra che non ci sia sufficiente spirito critico per respingerlo. Questo modello chiede che all´uomo si applichi lo stesso modello di valutazione che si usa per i prodotti industriali. È noto che i prodotti difettosi si debbono scartare. Ma non basta scartare, occorre pure vincere la gara per la qualità totale (Toyota docet). Perciò trovano giustificazione le tecniche per diagnosticare, eliminare embrioni e si propone ovviamente anche la rimodulazione del Dna.
A dare manforte all´idea di uomo-prodotto si aggiungono i vari "figli" dell´economia: il pensiero debole, pronto a giustificare e supportare ogni desiderio di gratificazione degli adulti; il nichilismo neopagano che ha sempre nostalgia del potere arbitrario sull´uomo.
Infine lo scivolamento verso l´eugenismo viene aiutato dalla diminuzione dei costi soggettivi delle pratiche eugenetiche. Essi sono in costante diminuzione, in particolare nel momento in cui all´eliminazione dei neonati handicappati ed allo stretto controllo forzoso sugli accoppiamenti subentra la sterilizzazione chimica o chirurgica dei ritardi gravi; l´anamnesi prematrimoniale in chiave mendeliana; la diagnosi prenatale e lo screening genetico; la fecondazione artificiale e la manipolazione diretta sul Dna dei gameti umani. Questi ultimi interventi suscitano la naturale empatia nei confronti dei soggetti coinvolti, al punto da renderne imbarazzante il rifiuto, anche se fosse motivato dai valori umanitari ed individualisti a cui si riferiscono gli stessi che li vogliono realizzare. In altre parole, come si fa a rinunciare a un uomo "migliore", anche se per averlo dobbiamo violare la sua autonomia?
La "serena" realizzazione del progetto eugenetico richiede poi che si attui una modificazione del linguaggio, in modo da escludere dall´umanità coloro su cui si vuole sperimentare, fino alla eventuale distruzione. Così abbiamo la distinzione insostenibile tra essere umano e persona umana proposta da Singer. I diritti, compreso quello alla vita, vanno riservati alla persona umana capace di vita relazionale e vita mentale superiore. Ovviamente l´embrione umano è classificato solo come un essere umano privo di qualsiasi diritto, anche di quello elementare di vivere. La distinzione, pur insostenibile filosoficamente, è così comoda che pochi sono disposti a rinunciarvi.
In tal modo diventa facile eliminare, secondo la logica dell´eugenetica negativa, i geni malati attraverso l´eliminazione degli embrioni, portatori della tara genetica.
Dal punto di vista morale (solo cattolica o universale?), va ribadita la condanna di tutte le pratiche uccisive degli embrioni. Viene addotta la giustificazione che vengono distrutti in nome della qualità della vita. Ma non esiste alcuna qualità dove non c´è la vita. In realtà si tratta di una violazione della pari dignità di ogni vita umana, fatta in nome di quella riduzione di uomo a prodotto di cui parlavamo e per la quale un prodotto non perfetto si butta via.
Anche per quanto riguarda l´eugenetica positiva e gli studi che intendono modificare il Dna dei gameti, in modo da avere soggetti con specifiche caratteristiche, siamo nel campo dell´illiceità morale. Infatti con l´alterazione del patrimonio genetico si viola il principio di uguaglianza tra gli uomini.
Su questo aspetto la riflessione filosofica ha posto qualche domanda rilevante: abbiamo il diritto di interferire nella vita degli altri? Non si tratta di una indebita violazione dell´autonomia personale di chi deve nascere? Inoltre, in base a quale criterio si può costringere un essere umano a subire un modello impostogli da un altro? Non si tratta forse di arbitrio ingiustificabile?
Domande superflue nell´ottica del mercato. Scegliere un prodotto di consumo non è un male. Per qualcuno, forse per molti, scegliere un figlio con determinate caratteristiche comincia a somigliare alla scelta di un prodotto.
Si potrà ancora invertire la rotta? Si, se riusciamo a recuperare l´idea che generare un figlio è la cosa più profondamente umana che è data su questa terra. E che la tecnologia più sofisticata deve essere usata per curare e non per eliminare gli esseri umani.

Corriere della Sera 2.3.07
Coppie gay, è bufera contro Andreotti
Il senatore: «Sono all'antica, le unioni le vedo solo tra un uomo e una donna». E tra le righe evoca l'equazione omosessuale-pedofilo


ROMA — Per l'ex senatore comunista Emanuele Macaluso «Giulio Andreotti è rimasto agli anni Sessanta: allora persino il matrimonio civile era considerato concubinato dalla Chiesa... Oggi non riesce a comprendere dove va la società». Il senatore a vita non nega: «Sono all'antica e le unioni le vedo solo tra un uomo e una donna». La polemica sui Dico divide ora il mondo politico tra omofobi e omofili. Non è più soltanto una battaglia ideologica sulla famiglia o uno scontro giuridico sulle tutele per le coppie non sposate.
A scatenare la bagarre sui gay è stato Giulio Andreotti che ha preso il testimone dello schieramento anti-Dico. Al «Messaggero» ieri ha evocato, tra battute degne del miglior Berlusconi («Noi abbiamo sudato lacrime e sangue per fare la riforma agraria e dare la terra ai contadini. Invece, oggi, vogliono dare il contadino al contadino»), anche il rischio che l'omosessualità porti anche alla pedofilia: «Ora capisco perché mia madre da ragazzino non voleva mandarmi al cinema. Temeva facessi brutti incontri, perfino in quel cinemetto in via dei Prefetti, dove ti davano anche la merenda».
Nel centrosinistra la replica è affidata all'ex presidente dell'Arcigay Franco Grillini («E' omofobo») e ai radicali. Per il resto, «per salvare il governo» dice Macaluso, nessuno attacca. «Non accetto che si finisca con l'equazione no ai Dico no ai gay - protesta Giulia Bongiorno, deputata di An, ma molto vicina ad Andreotti - Io sono per superare le discriminazioni e non ho pregiudiziali contro gli omosessuali, però penso che i Dico siano giuridicamente sbagliati perché servono solo a fare una battaglia ideologica». La pregiudiziale sui gay spacca anche l'Udc. Luca Volontè interviene per spiegare che «i fondatori della psicologia moderna descrivono l'omosessualità come patologia clinica», mentre Francesco D'Onofrio ritiene che la battaglia anti-Dico non debba essere basata sulla questione omosessuale: «Sono irritatissimo che passi l'equazione che i cattolici sono naturalmente omofobici e i laici filogay».
G. Fre.

Liberazione 2.3.07
Giordano: «Una crisi per impedire la partecipazione. Il Prc riparte da lì»

Intervista al segretario di Rifondazione comunista: «No ad una legge elettorale che cancelli le forze politiche, ma neanche una via refrendaria per la nascita di nuovi soggetti politici». Oggi alla Camera il voto di fiducia al governo Prodi

A Caserta - chi ricorda quel vertice? - si disse che aveva vinto la sinistra dell'Unione. Col «sì» alla base di Vicenza, poi, si scrisse tutto il contrario: che la sinistra aveva perso. E adesso? Insomma, Rifondazione è più forte o più debole dopo la fiducia al Senato? Franco Giordano è nel suo ufficio a Viale del Policlinico. La domanda non gli piace. «Scusa se lo dico ma è molto riduttivo mettere così la questione. Perché è una domanda che ci costringe sempre dentro l'annosa querelle del rapporto fra le due sinistre. Antagonisti contro moderati. E' un criterio che ci impedisce però di capire quel che è accaduto».
Perché, cosa è accaduto?
La verità è che tutta l'Unione ha subito una battuta di arresto. Mi chiedi cosa è successo? In due parole: proprio mentre la maggioranza produceva il massimo di innovazione sulla politica internazionale, cercando e trovando una sintonia col proprio popolo, col movimento pacifista, curiosamente ci siamo accorti che nel «Palazzo» non c'erano i numeri.
I numeri non ci sarebbero stati comunque. Anche con i due sentori dissidenti.
E io non ho mai detto che tutto questo è avvenuto perché due senatori hanno scelto la strada dell'isolamento, la strada solitaria che li ha portati ad abbandonare un percorso comune. Però quel comportamento ha reso invisibili le reali intenzioni di chi ha messo in minoranza il governo. Ha impedito di leggere immediatamente quel che si giocava su quel voto.
E cioè?
In aula abbiamo misurato il peso delle resistenze a quel processo di innovazione.
Ora si ricomincia. Come?
Fra le tante cose che ha detto Prodi una cosa mi ha colpito: la sua insistenza sulla collegialità della coalizione, sulla maggiore compattezza. E anche, lasciamelo dire, la sua insistenza nel rapporto diverso che vuole stabilire col nostro popolo.
Parli spesso di popolo dell'Unione. Ma in realtà un po' tutti gli analisti dicono che questo governo da tempo è in calo di consensi. Non è la tua impressione?
Anch'io ho visto le difficoltà di questi mesi. Ma in questi giorni ho visto anche come quelle stesse persone ci hanno chiesto - e con che forza - di continuare l'esperienza del governo Prodi. E attenzione: non ce l'hanno chiesto per ragioni di "emergenza democratica". Non c'è solo la paura che torni Berlusconi. Le nostre persone ci chiedono una cosa semplice: che quella straordinaria stagione che abbiamo chiamato dei movimenti, quella che ha permesso di sconfiggere le destre, vada fino in fondo. Arrivi a compimento, insomma.
Tu dici che il paese reale più che la politica ha salvato Prodi? E' così?
Io dico che Prodi ha sollecitato quello che m'è sembrata una vera e propria irruzione del sociale nella politica. Ha parlato di povertà, di precarietà, ha parlato di pensioni minime, di valori ambientali. Ha parlato della casa, delle case che mancano. Ha parlato di pace, di rispetto della Costituzione.
Ha parlato anche di riforma elettorale.
Noi dirigenti politici siamo accusati spesso di non essere molto chiari. Io, invece, lo voglio essere. E ti dico che siamo consapevoli, come tutti, delle difficoltà determinate da questa brutta legge elettorale, alla quale ci siamo opposti. Non è un mistero che siamo a favore d'un sistema proporzionale alla tedesca. Certo, so anche bene che siamo parte di un'aggregazione composita, per cui dovremo arrivare ad un accordo che tenga insieme due esigenze. Il rispetto della rappresentanza e l'attenzione all'efficacia dell'azione di governo. Ma una cosa deve essere chiara: che ci opporremo a qualsiasi tentativo di cancellazione delle forze politiche.
Insomma, Rifondazione non ci sta alle spinte ipermaggioritarie?
Tutti dovremmo imparare dalla lezione che ci viene dall'ultima legge. Una legge fatta su misura per qualcuno, fatta da metà del Parlamento contro l'altra. Insomma, la prossima riforma elettorale non potrà essere fatta per interessi privati.
Che vuol dire?
Che non si può fare una riforma per far nascere nuovi soggetti politici. Inventandosi, magari, una via referendaria ai nuovi partiti. Ecco, questo sarebbe inaccettabile.
Il concetto è chiaro. Ma questo, al di là della riforma elettorale, questo che significa? Che Rifondazione non si sente più nell'angolo? Che ha ancora la forza di porre i suoi temi?
Io sono convinto che chi ha provocato la crisi avesse come obiettivo prioritario quello che chiamiamo modello partecipativo. Un'idea della politica, insomma, aperta alla società, ai movimenti. Quella che tenacemente abbiamo provato ad imporre. Su questo però non possiamo in alcun modo farci intimidire. Dobbiamo insistere. E' il nostro compito, il nostro obiettivo. Dobbiamo far entrare dentro l'Unione i temi sociali.
Dentro l'Unione, insisti. Dentro le scelte del governo Prodi. Parli come se sapessi che questo governo duri a lungo. Invece molti già disegnano scenari futuri, con altre maggioranze.
Per noi, invece, non ci sono alternative a questa coalizione. E credo che qualsiasi tentativo di governo istituzionale o di larghe intese farebbe solo tornare indietro le lancette dell'orologio sociale. Oltre che essere devastante dal punto di vista democratico.
Ma se così è, se a Prodi non c'è alternativa, che fine faranno i "dico"?
L'iter parlamentare è avviato. E Rifondazione si batterà con tutte le sue forze per la loro approvazione. Con una annotazione.
Quale?
Che molti osservatori ci invitano ad approdare al tema della modernità. Loro con questa parola intendono altro - politiche economiche e sociali regressive - però questo ci dicono. Bene, mi chiedo: è concepibile che ci chiede di diventare moderni poi cancelli dal linguaggio della politica il tema dei diritti civili? Chi è che si deve modernizzare?
Ancora. Molti sostengono che comunque dopo una fiducia con Follini questo governo s'è spostato al centro...
Una lettura davvero troppo semplicistica. Che resta sempre dentro l'autonomia della politica. Come se un senatore - che ha un progetto diverso dal mio ma di cui ho sempre apprezzato il suo ancoraggio ai valori democratici - come se un senatore, dicevo, spostasse equilibri. Che dipendono, invece, dai movimenti, dai conflitti, dal sociale.
Comunque, molti lo sostengono. E fra questi, Diliberto, che dice: Prodi si sposta al centro, uniamo tutta la sinistra per compensare questo scivolamento.
Io credo che debba essere accolto bene qualsiasi cosa che vada nella direzione di sgombrare gli elementi competitivi fra le forze della sinistra. E' importante. Ma insisto a costo di sembrare monotematico: sono convinto che le novità non si giocano nel rapporto fra stati maggiori. Ma nel rapporto fra politica e società, fra politica e movimenti. Ecco come immagino una nuova dialettica a sinistra.
E' più o meno quel che sollecitava l'intervista a Liberazione del Presidente della Camera, no?
La condivido integralmente. E non c'è dubbio che Bertinotti scarti ogni ipotesi di semplificazione organizzativistica, eviti con cura ogni semplificazione legate a nuovi contenitori. O a modelli che siano la semplice somma di quel che c'è. No, Fausto ci ha chiesto un'altra cosa: di promuovere una vera e propria offensiva culturale, a cominciare proprio da quale idea abbiamo del socialismo. Una discussione a tutto campo, capace di incalzare tutta la sinistra, anche quella tradizionale. Vogliamo discutere, insomma, sottraendoci ai limiti imposti dalle vicende politiche di tutti i giorni. Questo per noi è la costruzione della Sinistra europea.
C'è chi ragiona in un altro modo. E vede un legame fra progetti e contingenza politica. «Europa», per esempio, il giornale di Rutelli, scrive che il partito democratico va fatto prima del previsto perché c'è il rischio che Prodi cada. E una crisi senza partito riformista sarebbe pericolosa. Come commenti?
Che non sono d'accordo. Soprattutto sulla filosofia che c'è dietro queste parole. Può dirle solo chi tende a far coincidere nuovi soggetti politici con l'idea del governo. Ma non credo che sia la strada giusta. Un partito, una formazione si costruisce con un'idea del mondo, con una percezione, un angolo di visuale della società. Questo è il nostro metodo.
L'ultima cosa. La crisi, la sua nascita e la sua conclusione, come la racconti tu è molto diversa dalla crisi raccontata in questi giorni dai quotidiani. Dai grandi quotidiani nazionali. Che idea ti sei fatta dei media in questo passaggio?
Non credo di dire nulla di originale se spiego che i media, i grandi quotidiani registrano soggettività politiche precise. Quelle di chi, da tempo, chiede di ridimensionare il nostro ruolo, il nostro peso. Ci hanno provato anche stavolta, mi pare evidente. Ma - come dire? - Rifondazione ha davvero la pelle dura.
Stefano Bocconetti (venerdì 2 marzo)

giovedì 1 marzo 2007

il manifesto 1.3.07
Sacrifici di governo

di Gabriele Polo


Benvenuti nel meraviglioso mondo di Pallaro. Il senatore «sudamericano» ha dato - insieme al democristiano Marco Follini - la maggioranza politica al governo Prodi, che passa l'esame di palazzo Madama anche senza il voto dei senatori a vita. Era la condizione che il presidente della Repubblica aveva posto.
Gli elettori di centrosinistra tirano un respiro di sollievo, grazie al sacrificio - a termine - dei reprobi Rossi e Turigliatto: rovesciando il ragionamento fatto la scorsa settimana a proposito dell'incoscienza dei dissidenti di sinistra, si potrebbe dire che il governo lo hanno salvato loro. Ma il vero sacrificio lo hanno fatto i laici del centrosinistra, con la legge sulle unioni civili prima incautamente inserita tra le centralità dell'esecutivo, poi edulcorata in un testo insoddisfacente sotto le pressioni della Chiesa, infine espulsa dai pensieri di Romano Prodi a favore della famiglia «tradizionale», con soddisfazione estrema del senatore Andreotti.
Quali altri sacrifici dovranno fare l'Unione e il suo programma per restare in piedi è difficile prevedere. Ma non si tratterà di poca cosa. Perché a questo punto i giochi si faranno a tutto campo, in particolare sulla riforma elettorale, e l'ipotesi di maggioranze variabili apre la strada a provvedimenti sempre più moderati, in particolare sulla politica estera, i diritti civili, l'economia e il lavoro. Già tra qualche giorno di fronte alla scadenza del rifinanziamento della missione militare in Afghanistan si cercheranno i voti sostitutivi delle annunciate e legittime diserzioni a sinistra.
La sinistra parlamentare sarà chiamata al difficilissimo compito di contrastare una deriva centrista e lobbista. Potrà limitare il danno solo se si ripenserà: se saprà valorizzare l'iniziativa sociale, ascoltare l'opposizione fuori dal Parlamento e ripensarsi complessivamente a partire dalla coscienza dei propri limiti (primo dei quali è che il mandato parlamentare non esaurisce l'agire politico, anzi ne è sempre meno elemento centrale).
Sappiamo di correre il rischio di essere noiosi. Lo ripetiamo da almeno un paio d'anni: senza una cultura politica alternativa la sinistra esiste solo come recitazione. Cioè non esiste.

l'Unità 1.3.07
Liberazione polemizza con Vendola:
importante è la politica, non la governabilità


«Originale e insolita», così il direttore di liberazione definisce la polemica che apre verso Nichi Vendola, governatore della Puglia, intervistato dal Corsera. «Davvero sull’altare della governabilità può essere sacrificato l’agnello delle lotte di massa? Davvero la cultura che cerchiamo, in fondo, è solo la cultura di governo?».
Sansonetti ricorda: io vengo dal Pci, poi dal Pds e dai Ds e fu l’ossessione della governabilità a spingere quel partito «sul terreno scivoloso del liberalismo», lontano «dalla sinistra, dalle sue idee di fondo». E che impone alla sinistra «un cortocircuito tra senso del governo (e persino senso del dovere) e pensiero politico, e progetto e cultura politica». All’opposto, conclude Sansonetti, dobbiamo cercare una cultura di sinistra. Una delle cui variabili è il governo, non l’inverso.

l'Unità 1.3.07
Schiavi, indiani, americani
Chi sono i più «americani»
di Sara Antonelli


Il «mea culpa» sembra comunque sincero
Ma, se l’America è la terra dell’uguaglianza come può spiegare il suo passato di sangue?

IN VIRGINIA, la terra di Pocahontas, il parlamento ha approvato una risoluzione nella quale lo Stato chiede scusa per la schiavitù dei neri e per lo sterminio dei popoli nativi. Un segno che l’opera iniziata da Martin Luther King non è conclusa


La risoluzione 728 approvata sabato 24 febbraio 2007 dai delegati e senatori dello stato della Virginia costituisce un piccolo manuale di storia americana. Le diciotto premesse alla risoluzione che «Esprime profondo rincrescimento verso la schiavitù involontaria degli africani e lo sfruttamento dei nativi americani e invita alla riconciliazione di tutti i virginiani», attraversano, infatti, non solo gli eventi salienti, ma soprattutto le contraddizioni che da sempre scorrono parallele alla storia degli ideali democratici che sostengono sia questo stato - la Virginia - sia gli Stati Uniti.
Il testo della risoluzione congiunta 728 si apre annunciando una celebrazione che mette al centro della storia Usa proprio la Virginia: «PREMESSO che nel 2007 cade il quattrocentesimo anniversario del primo insediamento inglese permanente Americhe a Jamestown». È qui, infatti, che giunse la Compagnia della Virginia di Londra, la prima ad ottenere una patente coloniale da re Giacomo: poche centinaia di uomini guidati da John Smith, un avventuriero i cui resoconti di viaggio ebbero un ruolo centrale nella colonizzazione inglese in Nord America. Oggi ricordiamo John Smith soprattutto per aver visto Pocahontas, il film animato Disney che racconta in chiave romantica l’incontro, proprio nei boschi che circondavano Jameston, del suo incontro con la bella principessa indiana; o anche il più recente The New World di Terrence Malik, dove uno Smith (Colin Farrell), pur rapito dall’innocenza del paesaggio naturale e da Pocahontas, cerca di tenere a bada la disgraziata colonia di Jamestown decimata dalla fame e dalle malattie.
Naturalmente, le premesse stringatissime di una risoluzione non consentono di trattare in dettaglio questa prima difficile fase della colonizzazione del Nord America né di dilungarci sull’impatto della cultura popolare nella trasmissione degli episodi storici apparentemente più accattivanti. Il testo, infatti, corre rapido a un altro punto, a un’altra premessa, a un altro episodio edificante: «PREMESSO che l’eredità dell’insediamento di Jamestown e della colonia della Virginia è composta di idee, di istituzioni, di una storia tipica dell’esperimento democratico americano e di una costellazione di libertà sancite nella Dichiarazione dei Diritti della Virginia e nella Costituzione della Virginia e degli Stati Uniti». Nota storica impeccabile: il diritto di primogenitura della Virginia è sia geografico sia politico, perché la Dichiarazione redatta dal virginiano Thomas Jefferson e letta a Filadelfia il 4 luglio del 1776 si ispira apertamente a quella, approvata soltanto due settimane prima, dallo stato della Virginia. E visto che primogenitura non vuol dire preminenza, ecco allora, a scanso di equivoci, il terzo punto: «PREMESSO che la principale espressione degli ideali che ci uniscono come popolo si trovano nella Dichiarazione di Indipendenza che proclama “di per sé evidente” la verità “che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”».
Dal quarto punto in avanti lo stringato racconto delle glorie virginiane-americane fin qui delineato comincia a scricchiolare: «PREMESSO che, nonostante il carattere “evidente” di questi principi fondamentali, le norme morali della libertà e dell’uguaglianza sono state trasgredite per gran parte della storia della Virginia e dell’America… e (quinto punto) PREMESSO che tali trasgressioni includono il maltrattamento e lo sfruttamento dei nativi americani e l’istituzione immorale della schiavitù umana, pratiche e sistemi antitetici e non conciliabili con i principi fondamentali di uguaglianza e libertà umane e (sesto punto) PREMESSO che i nativi americani popolavano il territorio di tutto il Nuovo Mondo e che erano i “prima popolazione” che i coloni inglesi incontrarono sbarcando sulle coste del Nord America, a Jamestown nel 1607 e…».
Mentre si va avanti a leggere ci accorgiamo che nella risoluzione comincia ad aprirsi uno iato tra le parole altisonanti dell’inizio e la realtà storica delle vessazioni, tra gli ideali e la pratica politica; che questo testo diventa un mea culpa nei confronti degli esclusi, degli invisibili, di quelli che sono stati sepolto dalla retorica della libertà e dell’uguaglianza, primi tra tutti i popoli nativi. Perché la Virginia non deve farsi perdonare solo la schiavitù - come si sono limitati a titolare i giornali - ma anche - anzi, prima ancora della schiavitù - il genocidio degli indiani: d’altro canto l’una non esiterebbe senza l’altro. Ed ecco, allora, che nel racconto avvincente della risoluzione 728 irrompono gli indiani Powhatan. Non per attaccare il misero fortino di Jamestown - si badi bene - bensì per fornire cibo e assistenza ai pochi superstiti di una spedizione decimata da malattie e carestia. In cambio, però, ebbero leggi che gradatamente limitarono le loro libertà, oltre naturalmente all’annientamento. Subito dopo vengono menzionati i primi africani giunti come schiavi (involuntary immigrants) in Nord America, anche loro a Jamestown, nel 1619. Segue il breve ma efficace resoconto di come siano stati brutalizzati, umiliati, privati dei loro diritti più elementari e discriminati. E di come che tutto questo sia stato possibile proprio grazie alla legislazione che vige in Virginia e negli Stati Uniti, le stesse legislazioni che comprendono gli alti principi riportati poco sopra, e che ora sembrano il prologo beffardo e ingannevole di una tragedia a tinte fosche.
Premesso tutto questo e premesso che non esistono scuse per questi crimini, e considerato il sincero pentimento del corpo governativo, e dunque della popolazione, nonché il ruolo di primo piano giocato dallo stato nelle più recenti battaglie per i diritti civili, la Virginia - prosegue la risoluzione - proprio in occasione dei quattrocento anni dalla fondazione di Jamestown, può tuttavia incoraggiare lo spirito di riconciliazione ed evitare gli errori e le ingiustizie perpetrate impunemente in passato.
Uno dei propositi - neppure troppo scoperto - della risoluzione 728 è evitare di rovinare le celebrazioni per i quattrocento anni della città di Jamestown. Le sue modalità, tuttavia, ricalcano lo spirito di uomini e donne, il più delle volte nativi o di discendenza africana, che in passato, nelle epoche in cui i torti potevano ancora essere raddrizzati, hanno messo in luce i paradossi della democrazia americana. Cambia il tono, perché dal serrato confronto polemico di ieri, oggi abbiamo le scuse ufficiali; l’evidenza del paradosso da cui scaturiscono sia le polemiche sia le scuse è lo stesso: se l’America è la terra della libertà e dell’uguaglianza dei diritti, come spiegare lo sterminio delle popolazioni native e come ammettere l’esistenza della schiavitù (oppure del patriarcato e di altre forme di oppressione sanzionate dalla legge)? Oggi la Virginia ammette che sì, si è trattato di un paradosso politico foriero di crimini orrendi e il mondo applaude; in passato si lottava, si combatteva nelle aule di tribunale, nelle sedi politiche, tra le pagine di libri e giornali, spesso rischiando dei pericolosi agitatori anti-patriottici, oppure rischiando la vita e il linciaggio. Ovviamente, molti di quei nemici del popolo non facevano altro che chiedere di rispettare i principi democratici di libertà e eguaglianza, e la legge, naturalmente. Lo facevano ingaggiando una battaglia retorica con i principi di libertà e uguaglianza volta a dimostrare la loro non applicazione, ma per questo venivano spesso accusati di sacrilegio.
Si leggano le pagine della prima autobiografia indiana, Son of the Forest (1836), là dove il pequot William Apess avvicina l’indiano re Filippo, che difese la sua terra dall’invasione dei coloni inglesi, ai patrioti americani che nel 1776 si ribellarono al dominio di Giorgio III. E se re Filippo fu addirittura «l’uomo più grande mai vissuto in America… eguale, se non superiore a… Washington»; e se la sua guerra, seppure non vittoriosa fu «gloriosa come la rivoluzione americana», perché condotta in nome del benessere del suo popolo allora perché non celebrarlo, visto che, paradossalmente, nessuna altra guerra può dirsi più americana della sua, essendo egli presente nel territorio del Nord America da molto prima che arrivassero gli inglesi? E, saltando da un paradosso all’altro, si prenda l’orazione pronunciata nel 1852 dall’ex schiavo Frederick Douglass in occasione della Festa dell’indipendenza, là dove, per spiegare cosa davvero significasse quel giorno per chi, come lui, era stato in catene, Douglass pronunciò il suo discorso non il 4 di luglio, come imporrebbe il calendario patriottico, bensì il giorno seguente, il 5 luglio. Non per trascuratezza, ovviamente, bensì per segnalare una distanza tra i principi elencati nella Dichiarazione e la realtà, e per preparare allo svelamento dei veri significati del vocabolario retorico dell’America: negli Stati Uniti, spiegò Douglass, «libertà» significa «licenziosità sacrilega», mentre «grandezza nazionale» significa «tronfia vanità» e «celebrazione» significa «vergogna». La distanza tra i principi politici degli stati Uniti e la loro reale applicazione è anche il tema che sostiene il discorso pronunciato da Martin Luther King il 28 agosto del 1963 ai piedi del Lincoln Memorial di Washington. In quell’occasione, nel cono d’ombra gettato dall’immensa statua del presidente che guarda pensoso verso il Campidoglio, proprio sotto al tempio neoclassico sulle cui pareti è scolpito, tra altri discorsi, il Proclama di emancipazione degli schiavi (emanato da Abraham Lincoln il 1 gennaio del 1863), King aveva invitato il paese a dare finalmente sostanza al sogno democratico promesso dalla Dichiarazione d’indipendenza del luglio del 1776; un sogno politico grandioso, la cui validità proprio Lincoln - esattamente cento anni prima di King - aveva già ribadito nelle parole commosse di un celebre discorso tenuto a Gettysburg nel novembre del 1863, durante la Guerra civile (1861-1895).
Lo scorso 10 febbraio, il governatore dell’Illinois Barack Obama ha annunciato l’intenzione di voler correre per le prossime presidenziali americane del 2008 sui gradini della Old State Capitol di Springfield: lo stesso luogo in cui nel 1858 Abraham Lincoln aveva accettato di correre per il suo partito alle elezioni presidenziali del 1860. In quell’occasione Lincoln aveva esposto il suo programma in un discorso passato alla storia come «Una casa divisa non sta in piedi». Con questa immagine presa in prestito dal Vangelo, Lincoln intendeva ammonire i suoi concittadini: una nazione tagliata in due, geograficamente, culturalmente e politicamente dalla schiavitù e per questo destinata a dissolversi. «Bisogna diventare una cosa - disse polemicamente Lincoln nel 1858 - una nazione schiavista - oppure una nazione libera». Ma con questo aggettivo Lincoln intendeva libera davvero e non solo sulla carta.
Se due anni fa tutto il mondo ha assistito all’umiliazione della popolazione nera di New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina, e se oggi fa notizia la candidatura del primo nero e della prima donna alla Casa Bianca, ciò e segno che non tutto va per il verso giusto, che gli Stati Uniti, come qualsiasi altro luogo al mondo, sono perfettibili e che l’opera di vigilanza iniziata da Apess e proseguita da Douglass, da King e da tanti altri non può dirsi conclusa.

l'Unità 1.3.07
ANNO GRAMSCIANO
Comitato per le celebrazioni a 70 anni dalla morte di Gramsci. Lo presiede Zangheri
di Luca Domenichini


Per il settantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci - avvenuta il 27 aprile 1937 - si è insediato il «Comitato per l'anno gramsciano», che ne organizzerà le celebrazioni- Lo presiede lo storico Renato Zangheri. Il programma del Comitato che si è insediato ieri a Roma è «ricco e ampio», come spiega Piero Fassino durante l’incontro del gruppo che coordinerà le iniziative in Italia e nel mondo. Dice Fassino: «Investirà i "luoghi" gramsciani: dalla Sardegna a Torino, da Ustica a Turi, oltre alle principali città italiane».
Ecco le date: il 27 aprile a Cagliari, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sarà presentato il primo volume della Edizione Nazionale degli scritti di Antonio Gramsci. Il 27 e 28 aprile a Roma il Convegno Internazionale «Gramsci, la cultura e il mondo» con la presenza di storici e politologi europei, statuntensi, latinoamericani, cinesi, indiani e del mondo arabo. Il 13 e 15 dicembre a Turi, in Puglia, si rifletterà su «Gramsci nel suo tempo». Per novembre, al Teatro Stabile di Torino, una tavola rotonda con alcuni esponenti delle nuove generazioni di studiosi all'interno di un programma di letture gramsciane. Di più, nel corso delle iniziative sono previste anche celebrazioni di livello internazionale con eventi e manifestazioni culturali promossi dall'Istituto Gramsci a Berkeley, Pechino, Mosca, Buenos Aires.
Il Comitato, presieduto da Zangheri, ha lo scopo di favorire e coordinare le iniziative «che sono di tre tipi - come spiega il presidente dell'Istituto Gramsci, Giuseppe Vacca - con appuntamenti promossi sia dai Centri gramsciani, sia dal partito all'interno delle sezioni e in sede istituzionale».
Del comitato fanno parte Piero Fassino, Massimo D'Alema, Giovanni Berlinguer, gli storici e politologi Aldo Agosti, Emma Fattorini, Tullio De Mauro e i presidenti degli Istituti Gramsci di Roma, Torino, Cagliari, Firenze, Trieste, Bologna, Bari, Ancona e Palermo.

Repubblica 1.3.07
Il fantasma dell'Anticristo
La crociata di Biffi contro "chi istiga all'idolatria"

di Filippo Ceccarelli


Ambientalisti e ecumenisti sotto tiro nell´intervento che prende le mosse dagli scritti profetici del filosofo Solov´ev
Da Pecoraro a Berlusconi, una lunga lista di "diavolacci" possibili. E nell´elenco biffiano sembra di vedere anche i cattolici democratici
In piazza Montecitorio un gruppo di cristiani integralisti manifesta, con un frate che invoca la conversione di Marco Pannella
Nel giorno del voto di fiducia l´ex vescovo di Bologna evoca la maggioranza

Siccome erano già in pochi, nella risolta crisi di governo e in tutto quello che gli ruotava attorno è entrato anche l´Anticristo. E´ un ingresso a suo modo abbastanza laterale, da non addetti ai lavori o quasi, nel senso che proprio ieri l´ha evocato il cardinale Giacomo Biffi nelle meditazioni quaresimali davanti al Papa e alla Curia. Tra parentesi: a qualche centinaio di metri da Palazzo Madama.
Biffi sarebbe stato un grande giornalista. Ha una splendida penna, mostra un tempismo perfetto e usa immagini potenti. Giuliano Ferrara ed altri entusiastici teo-con gli riconoscono pure una notevole capacità di cogliere al volo i valori in gioco. Ma questo è già più arbitrario e impegnativo da cogliere. Di sicuro si può convenire sul fatto che il cardinale ha un certo gusto per le provocazioni.
Questa di ieri, che muove dagli scritti profetici del filosofo russo Vladimir Solov´ev, dice che l´Anticristo potrebbe presentarsi, o nascondersi, dietro un pacifista, un ecologista ed un ecumenista.
Come dire, forzando quel tanto che le parole esprimono nelle loro vibrazioni, che il «Messia malvagio» potrebbe benissimo stare sotto le bandiere arcobaleno; e/o riconoscersi nella guida di Alfonso Pecoraro Scanio, per dire; o/e ritrovarsi in Parlamento in quella porzione di eletti della Margherita che risulta più legata all´esperienza dei cattolici democratici e della sinistra dc. Che pure ardente, nella sua lunga storia politico-ecclesiale, all´ecumenismo non è che si sia dedicata granché.
Forse perché annoiati, o immersi nel clima, a diversi senatori in attesa della lunga chiama nell´aula «bomboniera» del Senato, la nota di agenzia cardinalizia ha fatto un effetto un po´ strano, ma tutto sommato piuttosto rivelatore. Perché dall´identikit dell´Anticristo era nettamente escluso qualsiasi tratto distintivo del centrodestra. E se pure Solov´ev è passato a miglior vita agli albori del secolo scorso, beh, insomma: pacifismo, ambientalismo e riconoscimento della necessità di dialogare con altre religioni e civiltà rientrano a pieno titolo nel complesso di valori riconosciuti nelle varie e periodiche «carte» che pochissimi leggono, ma che i saggi e gli ottimati del centrosinistra continuano incessantemente a scrivere.
A rigor di logica e di sonante, terrifica evocazione, nel profilo biffiano mancava la figura del gay. Ma a ben vedere era anch´essa compresa nella suddetta abominevole triade. A meno che la triste sorte toccata ai Dico, cancellati dalla corsia preferenziale del rinnovato governo Prodi, non avesse consigliato oltretevere un supplemento di prudenza. Ma tant´è.
Ieri mattina, neanche a farlo apposta giorno consacrato a san Romano (monaco), alcuni iper-cattolici tradizionalisti si sono messi a pregare con i loro rosari davanti a Montecitorio per la caduta dell´esecutivo, sempre a causa delle unioni civili: «Questo governo - hanno spiegato - va contro natura e contro Dio, ha i piedi d´argilla e cadrà». Probabile, peraltro. Erano pochi, una ventina, e mansueti: ma le inedite orazioni parlamentari confermano senza dubbio la netta impressione di un ritorno millenaristico e se il termine non suonasse qui a sproposito, anche parecchio manicheo. «Verrà il giorno - ha tuonato un frate, come nei Promessi Sposi - in cui anche Pannella si convertirà». Può darsi anche questo. Comunque il diavolaccio radicale, si è già ampiamente beccato pure lui a suo tempo accuse anticristiche. Così come, per ragioni d´ineffabile contabilità, il suo seguace Cappato si ritrova seduto al Parlamento di Bruxelles sul banco numero 666, che sarebbe quello del Dragone, o della Bestia, e con l´Anticristo siamo lì.
L´amnesia dell´eterno, d´altra parte, e la più strenua attenzione all´«aldiqua» generano curiosi cortocircuiti e sorprendenti omissioni. Ma anche su questo, pazienza. L´Anticristo è argomento vasto e figura così antica da trovarsi nei libri appartenenti al genere apocalittico dell´Antico Testamento. Ma il punto che forse qui vale sottolineare è che nel corso dei secoli tale spaventosa nomea, che prefigurando la fine dei tempi spaventa i bambini più sensibili, ha sempre trovato qualcuno o qualcosa a cui essere appiccicata: imperatori romani (Nerone, Diocleziano, Caligola) e bizantini; eretici e fondatori di religioni concorrenti (da Maometto a Lutero); poi grandi rivoluzionari sociali e condottieri militari come Napoleone (con loro grande soddisfazione), e Hitler, Stalin, il comunismo, il denaro, la televisione, fino a Bin Laden e a Marilyn Manson che a onor del vero ha chiarito: «Se cercate l´Anticristo, non sono io».
E magari è nell´uomo cercarlo - nei giochi enigmistici e di carte, nella roulette, nei codici informatici, nella pubblicità, nel web - ma nella politica, intesa come terreno di scontro, la ricerca è ancora più insaziabile. Per cui ogni tanto si alza qualcuno e dice che qualcun altro magari non è proprio l´Anticristo, però è un suo seguace e quindi in pratica sì, lo è. E valga qui l´esempio di Umberto Eco, che per il suo Pendolo di Foucault ebbe storie con la rivista Studi Cattolici; e poi nei confronti di Gianni Vattimo che presa una cotta per il pensiero del cistercense Gioacchino da Fiore e candidatosi come sindaco a San Giovanni in Fiore, sulla Sila, si ritrovò discretamente insolentito dal clero locale con argomenti da Inquisizione. Questo per dire i rischi connessi alla proliferazione polemologica degli Anticristi.
E tuttavia, per quanto giornalista, sul tema Biffi è un´autorità e sa certamente di che cosa sta parlando. «Attenti all´Anticristo» è il titolo di una sua prolusione al meeting ciellino di Rimini, anno 1991 dell´era sbardelliana. Prolusione poi sviluppata nel testo «Pinocchio, Peppone, l´Anticristo e altre divagazioni», libro presentato nel 2005 anche da Giulio Andreotti, ieri proclamato dai teo-dem «defensor fidei», fino all´altroieri notoriamente identificato con il nomignolo di «Belzebù»: a parziale conferma che perfino la più rimbombante, sulfurea e ultimativa demonizzazione tende a sonnecchiare sotto la dittatura del relativismo. Ma non è questo il punto curioso e in qualche modo terminale dell´anticristismo para e meta crisaiolo.
Sull´argomento si è esercitato anche don Gianni Baget Bozzo, il cappellano del berlusconismo. E grosso modo (davvero) il suo falso e seducente profeta ha a che fare - o almeno così lo bacchettò a suo tempo l´Avvenire - con i supposti impicci recati alla Chiesa dal Concilio, questione anch´essa non proprio freschissima. Il bello - se si vuole e ci si accontenta - è che nell´estate del 1999 Francesco Cossiga... Sì, proprio lui: poteva mancare Cossiga all´appello politico e alla casistica sulla Bestia che da secoli personifica l´impostura del male? No, e infatti quell´estate Cossiga si portò a San Teodoro proprio «L´avvento dell´Anticristo» di Vladimir Solov´ev, il libro ieri citato dal cardinal Biffi. Ebbene: cosa ti va a confidare, il presidente emerito della Repubblica, alla Nuova Sardegna, ultimata la lettura? «Giravo pagina e quasi per caso pensavo a Silvio Berlusconi. Sì perché ci sono tratti di Berlusconi che ricordano l´Anticristo. Il suo sorriso senz´anima mi ispira uno strano timore spirituale, qualcosa che ti può intaccare l´anima». Fece un respiro, sempre più pensieroso: «Se fossi in lui mi ripiegherei con umiltà in me stesso».
Com´è noto, il Cavaliere non seguì il consiglio. Anzi, citò pure lui l´Anticristo, per dire che bisognava dire cose del genere per dare il senso dello scontro finale, definitivo. Ma questo scontro in realtà sembra che non finisca mai. E ieri era ancora lì a baccagliare. Ha sempre tempo di diventare pacifista, ecologista ed ecumenico. Ma intanto, come si chiedeva già secoli orsono Dionigi il Certosino: «Ma non ne abbiamo ancora abbastanza di questo maledetto Anticristo?». Forse bisogna solo non aver troppa paura del futuro. Dio vede e provvede.

Repubblica 1.3.07
La grande prova del governo minimo
di Francesco Merlo


Per il cardinale lasciare la Cei senza aver fatto cadere la legge sulle unioni di fatto sarebbe come farsi crocifiggere
La battaglia di Ruini sui Dico non riguarda tanto il contenuto del progetto quanto l´atteggiamento di Prodi

Si sa che ai pittori di piccola statura si devono gli affreschi e a quelli alti e grossi si devono invece le miniature. Ebbene, oggi nasce il governo piccolo piccolo, cheforse durerà poco, ma non è detto che non sia abbastanza. Ha un programma che da 281 pagine è stato ridotto alla sua minima lunghezza, vale a dire a una sola paginetta suddivisa in dodici punti, che potrebbero persino piacere agli italiani, non solo perché il troppo storpia, ma soprattutto perché l´obesità della politica è considerata un male sociale, e si può ritrovare il gusto delle cose nell´ideologia delle piccole cose. Anzi, qualche volta, a certe cose intere sono preferibili le mezze cose.
Pensate, per esempio, come sarebbe bello se i ministri Bianchi, Pecoraro Scanio, Mastella, Ferrero, Damiano e Di Pietro, sentendosi finalmente debordanti e impresentabili, aspirassero all´autodimezzamento, o praticassero l´autoriduzione come, del resto, imporrebbe il programmino che, al puntino 11, affida a Silvio Sircana l´intera comunicazione del governo.
D´altra parte, come si è visto in Senato, anche Prodi ha messo a dieta le proprie ambizioni. Ha addirittura promesso una leadership senza adipe, palestrata. E noi, che crediamo che il progresso umano è dovuto allo sforzo dei piccoli proprio perché insofferenti del poco spazio che occupano, ebbene noi guarderemo con attenzione l´arguzia e l´irascibilità del presidente piccolo piccolo.
Insomma ci aspettiamo che il piccolo Prodi, nell´impossibilità di far valere il suo punto di vista, e di compiere la sua riforma generale, cerchi, non appena potrà, di avere una rivincita, e dunque, da bravo piccolo, si innamori di poche cose grandi, come la riforma delle pensioni per esempio, e si lanci in un solo progetto vasto, come la riforma elettorale da realizzare insieme all´opposizione, e soprattutto si spenda e rischi se stesso nella laicità, in quei Dico che permetterebbero anche a Gesù di sorridere e di benedire la grandezza di un governo piccolo piccolo.
Tante volte abbiamo scritto che non ci risulta che Cristo stia davvero con Ruini in questa sua ossessione di trasformare l´Italia in una gigantesca Dc, in questa sua smania di frequentare i corridoi della politica. All´infinito potremmo ripetere che, secondo noi, i cattolici italiani non seguono le indicazioni, i moniti e le fobie del cardinale Ruini. Questa volta, però, il punto della questione non è questo. Quel che infatti si capisce nella battaglia di Ruini contro i Dico è che la parte ostica e insopportabile, la parte da addomesticare, non è il contenuto reale del progetto, che è moderato, compromissorio, e forse, da un punto di vista liberale, persino pasticciato, ma nella ribellione appunto di Romano Prodi. Ecco quel che c´è sul cammino del governo piccolo: un nemico grande che cova un rancore grande.
Si sa che Ruini celebrò il matrimonio di Romano Prodi. Per quasi venti anni è stato il suo confessore, come lo è stato del resto di moltissimi leader democristiani, da Forlani ad Andreotti (e chissà quante ne sa). Ma è in casa Prodi che, in quegli anni, sceglieva di passare e di festeggiare il Natale.
Si sa com´è Ruini: è un uomo che mangia poco, non beve, non fuma, e si appassiona solo alla dottrina e alla politica, al punto da avere promosso la beatificazione di De Gasperi, che fece i miracoli del Centrismo e della Dc, la quale fu, secondo Ruini, al tempo stesso «il male e il meglio dell´Italia», concetto ossimorico e tuttavia indispensabile alla politica nazionale e alla pratica delle sue due etiche. Negli anni di Tangentopoli, Norberto Bobbio disse di Ruini: «Non capisco come possa essere il più grande sostenitore della Dc e al tempo stesso condannare il sistema».
Figlio di un primario ospedaliero, Ruini viene dalla rossa Sassuolo, la città delle piastrelle che vanta due celebrità: il cardinale appunto, la cui tortuosa intelligenza è come una fosforescenza che scintilla su uno sfondo nero, e Caterina Caselli, quella che cantava, lei sì beatamente, «la verità ti fa male, lo so». Buono sciatore, gran passeggiatore, gli occhi celesti (c´è una logica nei colori dell´Uomo?), un bel cranio a pera spennacchiato, il naso a scimitarra lungo affilato e storto, Ruini è più temuto che amato. Riservato, taciturno, scostante, una voce stridula, è un uomo allo stesso tempo autoritario ed obbediente. E nella Chiesa comandare e obbedire, si sa, è tutt´ uno. Alcuni parroci di Roma lo chiamano monsignor Ruina e però, malgrado la leggenda, Ruini non è uomo di destra, è moderatamente moderato, centrista appunto, come il beato De Gasperi. E anzi si è formato mescolando San Tommaso (sul quale fece una dottissima tesi) con il padre del modernismo Karl Rahner, quello che il Baget Bozzo prima maniera bollava come «pervertitore dell´ortodossia». E invece Ruini è un gendarme della Sacra Dottrina e un politico finissimo, di quelli che non perdonano, molto più severo con i presunti traditori che con i nemici. Affaticato e stanco, Ruini, come si sa, sta per lasciare il suo posto. Ebbene, lasciarlo con i Dico firmati da Romano Prodi per lui sarebbe come farsi crocifiggere.
Dunque Ruini non farà l´errore di sottovalutare un governo piccolo piccolo. Sa come toccare i cuori, poi pungerli, poi medicarli per pungerli ancora. Ecco: si può misurare la piccolezza del governo dai nuovi piccoli uomini sui quali si regge, il troskista Turigliatto, il comunista Rossi, il piccolissimo De Vita del partito dei consumatori che si vanta di controllare il voto di Rossi e dunque di avere in pugno Prodi. Si può misurarne la piccolezza dalla stramberia di nominare un portavoce unico che, smilzo e con una visione anoressica del mondo, ha simpaticamente detto a Mastella che voleva parlargli: «Non ho tempo». Forse la comunicazione del governo piccolo piccolo potrebbe avvenire con il sistema degli sms, che è fondato, come si sa, sull´abolizione delle vocali che sono appunto il grasso del linguaggio.
Di sicuro sono molti i rimandi e troppe le metafore per un governo dimezzato: si va dalle mezze maniche alla mezze calzette, alla consapevolezza nascosta di essere mezzi uomini, come diceva Sciascia. Ma se si misura il governo dalla grandezza del suo nemico e dalla forza che sta dispiegando, se si considera la sproporzione, uno sopra e uno sotto la misura, un aldiqua e un aldilà del buon senso, ebbene allora: occhio ai piccoli.
Come tutto un uomo può essere contenuto in un aforisma o in una barzelletta, e come la storia può essere scandita da singole ore fatali, dai celebri «Momenti» di Stephen Zweig, così alla grandezza di un governo piccolo piccolo potrebbe bastare una sola vittoria.

Repubblica 1.3.07
S'inaugura domani a Palazzo Strozzi
Quando l'Atene d'Italia scoprì il nuovo della pittura
di Paolo Vagheggi

Una collezione di capolavori
I gialli, gli azzurri, i rossi di Cézanne
gli accesi colori di un secolo nuovo


I dipinti portano il visitatore all'inizio del Novecento quando i capolavori erano ancora nel capoluogo toscano
Ricostruite le straordinarie raccolte di Egisto Fabbri e Charles Loeser tra i primi collezionisti del maestro

FIRENZE. S'impegna a seguire più strade, la mostra Cézanne a Firenze che s'inaugura domani a Palazzo Strozzi, promossa dalla Cassa di Risparmio di Firenze e curata da Francesca Bardazzi e Carlo Sisi: a rendere alla città, pur soltanto per alcuni mesi, una memoria concreta della quasi incredibile concentrazione di opere di Cézanne che vi trovò casa all´inizio del XX secolo, grazie al collezionismo illuminato di due uomini, Egisto Fabbri e Charles Loeser, che avevano, a partire dagli anni Novanta dell´Ottocento, acquisito a Parigi numerosi e importanti suoi dipinti; a rivisitare la grande mostra sull´impressionismo (la prima in Italia) tenutasi al Lyceum di Firenze nel 1910, per iniziativa e grazie agli studi e alle conoscenze di Ardengo Soffici, che aveva vissuto per lunghi anni a Parigi e che su La Voce aveva pubblicato alcuni fondamentali scritti di prima apertura sul movimento; a documentare, infine, l´impatto che quella mostra ebbe sulla cultura artistica italiana, e toscana in particolare, ben prima che la retrospettiva dedicata al padre della pittura moderna ospitata dalla Biennale di Venezia nel 1920 (anch´essa, peraltro, innervata soprattutto dai Cézanne "fiorentini") rendesse disponibile a un pubblico più vasto le sue opere.
Fabbri detenne oltre trenta Cézanne; Loeser quindici; così che, insieme ad uno dei ritratti di Victor Chocquet (dipinto da Cézanne nel 1889 circa) posseduto da Gustavo Sforni, Firenze poté contare su un nucleo di opere del maestro di Aix allora unico al di fuori della Francia e di Mosca. Benché gelosamente custoditi - né paragonabili in questo alla divulgazione che i due collezionisti russi Schukin e Morozov facevano delle loro collezioni, aperte a scadenze regolari al pubblico che le volesse visitare - non è difficile immaginare come questa singolarissima concentrazione, in una città e in un Paese tutt´altro che pronti e capaci di volgere lo sguardo alle vicende più attuali della pittura europea contemporanea, non potesse rimanere senza conseguenze nell´orientamento delle più giovani generazioni. Che - unitamente alla nuova percezione, giunta solo dopo la morte del maestro livornese (1908), della grandezza del primo Fattori macchiaiolo, e della sua tarda produzione incisa - proprio da Cézanne infatti mostrarono di voler muovere i loro passi: e la mostra di oggi documenta questa suggestione largamente operante ad esempio in Alfredo Muller, Edoardo Gordigiani e Oscar Ghiglia, oltre che negli stessi Egisto Fabbri e Gustavo Sforni, anch´essi pittori; e ancora, ovviamente, Soffici, Carena, Rosai, fino a Medardo Rosso, cui fu dedicata nel 1910 una intera sezione nell´ambito della mostra fiorentina sull´impressionismo.
Fiore all´occhiello della rassegna odierna sono però i venti Cézanne che i curatori sono riusciti a richiamare a Firenze da tutto il mondo; quindici dei quali transitati attraverso le collezioni Fabbri (nove) e Loeser (sei), e molti dei quali non più presentati in Italia dopo la già ricordata Biennale di Venezia del ‘20: giacché presero presto, quei dipinti, le vie maggiori del collezionismo internazionale. E il nostro Paese li perse non solo per una oggettiva sua minorità sul piano economico, ma anche per cecità critica e trascuratezze amministrative, quando rinunciò a far valere una prelazione nella loro acquisizione ancora possibile: e rimane, questa perdita, non certo l´unica ma probabilmente la più grave che sia toccata alla vicenda del collezionismo italiano della pittura moderna.
Il nucleo più cospicuo dei dipinti in mostra è relativo agli anni che vanno dalla prima maturità di Cézanne alla fine degli anni Ottanta: in particolare dalle due versioni dei Bagnanti della seconda metà degli anni Settanta, provenienti da Detroit e dal Metropolitan di New York alla Casa sulla riva della Marna, uno degli otto dipinti che Loeser volle donare alla Presidenza degli Stati Uniti, e che è oggi direttamente prestato dalla Casa Bianca. Nei Cinque bagnanti di Detroit (appartenuto a Fabbri, che ne fece una bella copia) un colore singolarmente acceso, e racchiuso in un forte contorno marginale, è usualmente indicato come uno dei possibili antecedenti di Gauguin: che Cézanne, che aveva poca stima del più giovane compagno, accusò poi, forse proprio pensando a questo suo quadro, «di avermi rubato la mia piccola sensazione». Nella Casa sulla riva della Marna è invece giunta a compimento quella scheggiatura del colore in porzioni geometrizzate iniziata quasi quindici anni prima e presente, oggi a Firenze, già in un paesaggio di Pontoise d´inizio decennio.
Ma il vertice della qualità è forse da ravvisare in due ritratti: il primo, quello di Madame Cézanne sulla poltrona rossa, proveniente da Boston, e l´altro, assai più tardo, raffigurante un Uomo seduto, della Galleria Nazionale di Oslo (già visto di recente in Italia alla mostra livornese Cézanne, Fattori e il Novecento in Italia del 1997). Madame Cézanne si data al 1877: che è l´ultimo anno che vede Cézanne in qualche modo implicato con l´impressionismo, di cui si tiene in primavera la terza mostra di gruppo - l´ultima, appunto, a cui egli parteciperà. Questo dipinto ce ne offre forse una ragione: tanto definitivo vi appare il grado di adesione ai dettami del movimento - l´abolizione delle ombre, trasformate in un colore d´acqua, e l´adesione intera della figura, erosa nella sua massa, alla superficie - che Cézanne poté ritenere che, proseguendo su questa strada, egli avrebbe perso il possesso dell´integrità della cosa, cui non volle mai rinunciare. Tanto dopo, l´Uomo seduto di Oslo (1898-1900) è un altro immenso capolavoro: Cézanne, di cui s´approssimano gli anni ultimi, ha riconquistato da tempo il possesso del volume e della pesantezza della realtà: ma non rinuncia a porre queste sue conquiste in dialettica con l´imperio moderno alla superficie, dunque a una pittura che non sia mera imitazione del visibile. E la conflagrazione si chiude in quel corpo, immenso e gracile, che s´accampa al centro della tela come un gigante antico, e insieme a stento resiste ai colpi dello spazio che sembra ripiegarglisi addosso, come una oscura minaccia.

La rassegna evoca il clima effervescente d´una città internazionale dove approdarono Egisto Fabbri e Charles Loeser entrambi appassionati d´arte
In esposizione un centinaio di dipinti:venti appartengono al maestro francese, gli altri ad artisti da lui influenzati. Ec´è ancheun´opera di Van Gogh
Storia di equivoci Per una serie di incomprensioni come lamentò Giuliano Briganti questi celebri lavori non furono acquisiti dai musei italiani
Solo per gli intimi Racconta Berenson che lo storico dell´arte conservava le "Bagnanti" nella camera da letto

Parigi, primo decennio della seconda metà dell´Ottocento. Tra i visitatori del Louvre, non ancora preso d´assalto, c´è un giovane appena ventenne, figlio di un banchiere di Aix-en-Provence. Il suo nome è Paul Cézanne. Sogna di diventare un grande pittore, di trasformare l´Impressionismo «in qualcosa di solido e duraturo come l´arte dei musei». Si ferma davanti ai capolavori di Paolo Veronese, alle Nozze di Cana, opera contemplata "in estasi", scrisse poi Henri Gasquet, sussurrando parole d´ammirazione per quel maestro, sommo nell´arte di trasfondere "la pienezza dell´idea nei colori", nel rappresentare figure che risultano "gioiose come se avessero respirato una musica misteriosa", o "rivestite d´una dolce gloria" sotto la "medesima luce attenuata e calda". E si esercita realizzando delle copie di Veronese.
Firenze, 2 marzo 2007, Palazzo Strozzi. Una delle copie veronesiane di Cézanne, la Cena in casa di Simone, probabilmente eseguita tra il 1860 e il 1870, da poco ritrovata in una raccolta privata, apre la mostra Cézanne a Firenze, che celebra il centenario della morte dell´artista attraverso i dipinti che appartenevano a due collezionisti americani, Egisto Paolo Fabbri e Charles Alexander Loeser, entrambi arrivati nel capoluogo toscano intorno al 1890.
A quel tempo Firenze non era più la capitale del Granducato di Toscana e neppure la capitale d´Italia. Erano anni difficili, apparentemente sordi culturalmente, in realtà pronti per nuove straordinarie esplosioni, ovvero la Metafisica e il Futurismo. Ma la città appariva come una capitale anglofona, segnata dalla presenza di una comunità che fu ironicamente marchiata con il termine "anglobecera", ma che non per questo si sentì offesa come avevano testimoniato l´amore di Keats e Shelley, che davanti alla piramide del parco delle Cascine aveva trovato l´ispirazione per l´Ode al vento dell´Ovest. Era Firenze la vera capitale del Grand Tour. E la regina Vittoria in persona vi soggiornò nel 1888, nel 1893 e nel 1894, col suo seguito e vari personaggi del governo. Nel maggio del 1891 arrivarono anche il Principe Leopoldo di Prussia, cugino del Kaiser, e l´Arciduchessa Stefania d´Austria, vedova di Rodolfo.
Quasi senza volerlo era dunque una città internazionale quella dove si trasferirono Paolo Egisto Fabbri e Charles Alexander Loeser, casualmente nello stesso periodo, pittore il primo, storico dell´arte il secondo, entrambi ricchi di famiglia ed entrambi collezionisti di Cézanne. Fabbri arrivò a possederne 32, Loeser 15. La presenza di queste raccolte nel 1910 arricchì la prima mostra italiana dell´Impressionismo che si tenne a Firenze nelle sale del Lyceum, e dieci anni più tardi, nel 1920, fornirono linfa vitale alla sala che la Biennale di Venezia dedicò a Cézanne. Ed è questo clima artistico che vuol ricostruire la mostra di Palazzo Strozzi attraverso un centinaio di dipinti: una ventina di Cézanne appartenuti a Fabbri e Loeser, il Giardiniere di Van Gogh, esposto nel 1910, ottanta opere di artisti amici dei due collezionisti o influenzati dalla visione dei quadri del maestro come Edoardo Gordigiani e Alfredo Muller, Maurice Denis, o gli americani Mabel e Bancel La Farge, nonché i dipinti di Egisto Fabbri.
Nei Cézanne di Firenze esplodono i verdi, i gialli, i rossi. Dominano opere che possono apparire, annotò Ardengo Soffici, "incompiute", ma che in realtà sono dei capolavori creati dall´artista "aggrappandosi a quel che le sue forze gli garantivano". Ecco dunque Madame Cézanne sulla poltrona rossa, monumentale ed espressivo ritratto della moglie, Hortensie Fiquet, ora a Boston, che folgorò il poeta Rainer Maria Rilke, appartenuto a Egisto Fabbri che lo teneva appeso nella sala da pranzo del palazzo fiorentino di via Cavour, o le Bagnanti che arrivano dal Metropolitan di New York, della raccolta che Charles Loeser, così ha raccontato Bernard Berenson, conservava nello spogliatoio e nella camera da letto mostrandola solo a pochi intimi.
Quella camera da letto, come la sala da pranzo di Fabbri, è idealmente ricostruita in una delle cinque sezioni della mostra che ricostruisce la storia di Loeser e di Fabbri e che chiude con quei toscani che elaborarono in un loro linguaggio lo stile di Cézanne, da Ardengo Soffici a Oscar Ghiglia, agli scultori Libero Andreotti e Romano Romanelli. Al contempo presso il museo nazionale Alinari della fotografia di piazza Santa Maria Novella una mostra dedicata a Firenze al tempo di Cézanne presenta una sequenza di scatti d´epoca che contestualizzano quest´avventura: dal ritratto di Egisto Fabbri all´interno della villa fiesolana di Arnold Böcklin, dove l´artista morì nel 1901, maestro di un simbolismo romantico che influenzò fortemente Giorgio de Chirico.
Proprio a Firenze nell´anno dell´esposizione impressionista, il 1910, De Chirico avvertì la prima "rivelazione" metafisica guardando piazza Santa Croce: «Ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all´occhio della mia mente...». Prese forma L´enigma di un pomeriggio d´autunno. Al contempo era una città dove nascevano e morivano straordinarie riviste letterarie: Il Marzocco (1896), Leonardo (1903), Hermes (1904), La Voce (1907). Ma era anche una "fortezza del passatismo", come la definì Marinetti, ed ormai prossima ad essere il centro di memorabili scontri tra i futuristi.
Questa era la Firenze di un Cézanne che in Toscana non era ancora riconosciuto come maestro del moderno ma di cui Picasso aveva già inghiottito e digerito la lezione dipingendo uno dei suoi capolavori, Les demoiselles d´Avignon, che inaugurò il periodo cubista. È ben chiaro il richiamo alle figure delle Bagnanti a cui Cézanne dedicò numerose tele, presenti a Palazzo Strozzi nelle versioni prestate dal Detroit Institute e dal Metropolitan di New York, provenienti dalla raccolta Loeser, giovane e ricco rampollo di una famiglia di immigrati tedeschi arrivata negli Stati Uniti con due dollari e un orologio d´argento, che accumulò una fortuna prima grazie alle pellicce e poi a una catena di grandi magazzini. Non aveva problemi economici Charles. Frequentava Parigi, i pittori e l´alta società. I Cézanne li acquistava da Vollard. Ne era geloso e li mostrò a pochi e scelti ospiti. Tra questi vi fu anche Winston Churchill che tra l´altro di dilettava di pittura ma che, a quanto pare, non ne fu "conquistato" come ricordano memorie dell´epoca. Charles Loeser fu anche un grande collezionista di arte antica. Quando morì nel 1928 lasciò gli otto Cézanne, quelli "di maggior valore" al «presidente degli Stati Uniti e ai suoi successori nella carica per ornamento della Casa Bianca a Washington». Uno, la Casa sulla Marna è stato prestato per l´esposizione di Palazzo Strozzi. Nel testamento non dimenticò Firenze. Il quartiere del Mezzanino di Palazzo Vecchio ancor oggi ospita la "donazione Loeser": ritratti di Pietro Lorenzetti, Pontormo, Bronzino, sculture di Tino di Camaino e del Rustici.
Simile la storia di Egisto Fabbri, figlio di immigrati ed anche lui ricchissimo, che fin dall´adolescenza «scelse la pittura come professione« anche se i risultati non furono eccelsi. Ma fu tra i protagonisti della vita culturale europea e soprattutto parigina e come Loeser, disse sarcasticamente Berenson, «egli amava intrattenersi con i re di tutta Europa». Pissarro fu suo maestro, Mary Cassatt lo presentò a Degas, conosceva Sargent, frequentava Walter Pach, scrisse a Cézanne, di cui acquistava i quadri da Vollard, ma non fu ricevuto. Eppure continuò quella collezione che portò a Firenze e che poi fu costretto a vendere. Sotto la spinta della conversione al cattolicesimo, negli anni Venti, avviò la ricostruzione in stile romanico della chiesa di Serravalle in Casentino, distrutta da un terremoto. Finanziariamente fu un disastro. E l´unica strada per risolvere una situazione "molto penosa" fu la cessione dei Cézanne. Allora non vi furono acquisizioni da parte dei musei italiani. E ancor oggi Cézanne è praticamente assente nelle esposizioni permanenti delle nostre istituzioni. Come scrisse Giuliano Briganti fu "una dolente storia di incomprensione, di ignoranza e di occasioni mancate". Cézanne si vede solo in occasione di una mostra. Come quella di Palazzo Strozzi.

L'esposizione "Cézanne a Firenze"

Sottotitolo: "Due collezionisti e la mostra dell'Impressionismo nel 1910" è aperta fino al 29 luglio a Palazzo Strozzi (a fianco un autoritratto). Orario: tutti i giorni dalle 9 alle 20, il giovedì fino alle 23. Catalogo Electa. Informazioni tel. 055 2645155. Prenotazioni e prevendita 055 2469600. Internet www.cezanneafirenze.it Biglietto d'ingresso intero 10 euro. L'esposizione "Firenze al tempo di Cézanne" al museo Alinari di piazza Santa Maria Novella è aperta tutti i giorni dalle 9,30 alle 19,30, il sabato fino alle 23,30. Chiuso il mercoledì. Il catalogo è Alinari.

Repubblica 1.3.07
Critica della ragion cristiana
In libreria un pamphlet di Odifreddi
La tesi che il Cristianesimo sia indegno della razionalità umana è molto antica
L´autore, da bravo matematico inpertinente si è preparato a fondo per questa sua guerra contro la Chiesa e contro la religione
di Giovanni Filoramo


Riflettendo, sulla Repubblica del 21 febbraio, circa i motivi per cui scrivere libri contro la religione è diventato oggi un bestseller, Gabriele Romagnoli individuava tre motivi: è giunto il tempo di non avere più soggezione («rispetto») delle idee religiose; domina la sfiducia in due chimere: il moderatismo religioso e il dialogo tra le fedi; non per ultimo, l´insofferenza per l´ingerenza crescente, anzi inarrestabile, della religione nella vita sociale, ha superato ogni limite.
Si tratta di tre buoni motivi, che però sollevano un interrogativo di fondo. Per stare al caso americano dei libri citati di Dawkins e Harris: i sondaggi più recenti d´opinione continuano a confermare che, richiesti di rispondere al quesito se l´uomo è stato creato da Dio nel corso degli ultimi dieci anni o in seguito a un processo evolutivo guidato da Dio o unicamente come effetto di un processo di evoluzione naturale, circa la metà degli americani scelgono la prima opzione, mentre buona parte dei rimanenti propendono per la seconda. Se ne dovrebbe dedurre che i libri di Dawkins e Harris servono a tener su il morale di quel 10% o poco più (quanto basta, comunque, a creare un bestseller negli USA), che si ostinano a pensare che Dio, ammesso che esista, non ha nulla a che fare con l´evoluzione.
Un´osservazione analoga si potrebbe fare per il libro italiano di M. Ferraris, portato ad esempio da Romagnoli, dal momento che il mercato librario ha attribuito un successo molto maggiore ad altri libri, di segno opposto, come L´inchiesta su Gesù di Augias e Pesce. Scrivere, naturalmente bene e in modo convincente, contro la religione può, dunque, convincere chi è già convinto: ma fino a che punto questi libri raggiungono quel pubblico, non dico di credenti dubbiosi e in ricerca, ma prima ancora di agnostici e indifferenti, che costituisce la realtà dominante di una società postsecolare?
Questo interrogativo si ripropone leggendo il libro di Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), in uscita oggi da Longanesi (pagg. 240, euro 16). Anche se non è (ancora) un bestseller, esso si inserisce perfettamente in questa ormai lunga lista, in cui sembra rinascere a nuova vita un genere letterario che pareva caduto, con la secolarizzazione e il confinamento della religione nella sfera del privato, nel dimenticatoio: la critica (radicale) alla religione, ricondotta opportunamente nel caso di Odifreddi entro i confini della religione di casa nostra: il cristianesimo nella sua versione cattolica.
La tesi di fondo, secondo cui «il Cristianesimo è indegno della razionalità e dell´intelligenza dell´uomo», non è certo peregrina e accompagna la storia di questa religione fin dalle fasi più antiche della sua espansione. Già per Celso, un filosofo pagano che, verso la fine del II secolo, l´attacca con violenza sulla base di una solida conoscenza delle sue fonti e delle sue origini, il cristianesimo è essenzialmente una religione di stupidi (i «cretini» di Odifreddi), che, nella stupidità e nella rozzezza dei suoi aderenti, ha le ragioni del proprio successo.
Col tempo, l´elenco dei suoi denigratori è cresciuto almeno quanto quello dei suoi difensori. Gli attacchi all´istituzione si accompagnano, in epoca moderna, con lo smontaggio sistematico, messo in atto dalla moderna critica biblica, dell´edificio dogmatico costruito intorno alla Bibbia. Cresce l´elenco dei misfatti di cui la chiesa è accusata: chi si voglia dilettare non ha che da compulsare i numerosi volumi di Storia criminale del cristianesimo cui ha dedicato la vita uno studioso tedesco, K. H. Dreschner. Che cosa si può ancora aggiungere a questo dossier, per «schiacciare l´infame» oggi?
Dei tre motivi ricordati da Romagnoli, quello che ha mosso Odifreddi nel suo atto di accusa è, ancora una volta, l´ultimo: le ingerenze del cristianesimo in generale e della Chiesa cattolica in particolare nella vita pubblica, con il suo corteo di atei devoti e di devoti clericali, per cui si restringono (o scompaiono) le possibilità di mediazione, proprie del moderatismo religioso e di chi ricerca il dialogo. A la guerre comme à la guerre! E a questa guerra, in cui il rinnovato anticlericalismo, di cui il libro è testimone vibrante, «costituisce più una difesa della laicità dello Stato che un attacco alla religione della Chiesa», Odifreddi si è preparato, come per ogni guerra che si rispetti, in modo serio, anche se, non rinunciando al suo ruolo di «matematico impertinente», secondo per altro le regole del genere, costella il libro di battute fulminanti e di attacchi sarcastici.
Le tappe di questa via crucis sono classiche: smontaggio del testo sacro (Antico e Nuovo Testamento) attraverso la messa in luce di incoerenze, antropomorfismi, violenze, prestiti camuffati da verità, costruzioni di nuovi miti (come in fondo tende a sostenere l´autore a proposito di Gesù); illogicità delle principali credenze cristiane e così di seguito. Insomma, una storia dell´impostura al passo con i tempi, documentata e sarcastica, che delizierà chi vuole sentirsi confortato nella propria «ateologia» o potrà far riflettere quei lettori, giovani e non giovani, che nell´ignoranza culturale e in particolare religiosa tipica della nostra società, non hanno familiarità con questo tipo di problemi. Ma, per ritornare all´interrogativo di fondo, riuscirà a far tacere l´avversario?
L´autore non me ne voglia se esprimo qualche dubbio al proposito.
Le religioni in grado di resistere nel tempo sono monete a due facce. La prima, oggetto degli strali polemici della neoletteratura atea, è la dimensione «umana troppo umana», legata alle necessità di una fede o di una rivelazione che, per diventare un credo collettivo - e non semplicemente un rifugio privato - si deve adattare, spesso e volentieri fino a corrompersi e a tradire il messaggio originale, alle tentazioni del mondo: dunque, una vittima predestinata alle critiche degli spirituali, laici e devoti. La seconda è la fede, il filo diretto e, per definizione, sottratto alla ragione, con la fonte della verità, ma prima ancora della salvezza: una «riserva di senso» comunitaria, prima che individuale, che non sembra aver perso il suo fascino proprio per i territori di caccia che le competono.
L´Apocalisse attribuita a Giovanni può apparire un «delirio, di pertinenza più della psicanalisi che della teologia»; può darsi, ma un «delirio» che storicamente si è rivelato un serbatoio inesauribile di movimenti collettivi alla ricerca di un senso della storia svelato nei segni della fine. Su questo piano, come lo stesso autore alla fine riconosce, la scienza non può competere con la religione. Purché quest´ultima sia vitale e non ridotta a una pura richiesta ideologica di potere, come oggi troppo spesso succede: ma, come insegna Machiavelli, il critico moderno più radicale del cristianesimo ecclesiastico, a questo punto la fede, non è più fede, perché si è trasformata in «virtù» politica.

Al dio dell'antica Grecia è dedicata una mostra al Colosseo
Le immagini di Eros, da efebo perfetto a bimbetto alato
Sculture e pitture vascolari ci rimandano i mille volti della più potente e oscura divinità
Claudia Longino
Scuote l'anima mia Eros, come vento sul monte che irrompe entro le querce. (Saffo)
Entità cosmica primordiale, principio animatore e ordinatore dell'universo, costruttore di relazioni sociali, ma anche ferita, disordine, sofferenza. Espugna e non si lascia tenere in pugno, nodo che avvince eppure lama che da noi stessi ci discinde: ha molti nomi e molte facce, molte genealogie, ma è sempre Eros, la divinità dell'antica Grecia a cui il Colosseo dedica la sua nuova mostra, che sarà allestita dal 3 marzo al 16 settembre negli ambulacri del secondo ordine.
Curata dal soprintendente di Roma Angelo Bottini, la grande esposizione tenterà di indagare i diversi, e a volte contrastanti, aspetti della figura del Dio, che, nonostante tutto, è quella meno chiaramente definita. Al Colosseo saranno esposte opere rare, come la pisside attica a figure rosse dal Wagner Museum di Wurzburg che raffigura Anteros (il mitico fratello di Eros, considerato come lui – almeno secondo la più nota genealogia – figlio di Ares, dio della guerra, e Afrodite, dea della bellezza, ma personificazione dell'Amore Corrisposto), ma anche reperti molto noti, tra cui il celebre "Eros arciere" dei Musei Capitolini oppure la splendida "Afrodite accovacciata", dal Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.
Il legame tra le due divinità – Eros e Afrodite – con cui si apre il percorso espositivo, è un tema fondamentale da esplorare per comprendere a fondo la fisionomia di Eros, le cui funzioni sono complementari e al tempo stesso autonome rispetto alla dea. Quest'ultima è la divinità che rappresenta ed evoca l'unione e il godimento sessuale, mentre Eros è una forza più astratta e irresistibile assieme, vento inarrestabile della passione (ma anche nume, vento divino che parla con le sue sillabe arcane attraverso le foglie), come recita Saffo. A questa forza impetuosa neppure gli dei possono resistere. Lo stesso Zeus, signore dell'Olimpo, viene colpito dalle sue frecce: un gruppo di opere racconta i miti che coinvolgono il dio, nelle sue unioni con Leda ed Europa.
Ma non è solo mito: anche i comuni mortali sono vittime di Eros, o suoi prescelti, sempre nel solco dell'ambiguità del dio. D'altronde, nell'antica Grecia le relazioni "erotiche" avevano una parte determinante nella formazione etico-sociale dell'individuo, come dimostrano, tra le altre opere in mostra, due "kylikes" attiche a figure rosse dal Museo archeologico nazionale di Firenze con esplicite scene erotiche, oppure lo "skyphos" attico dal Museo archeologico nazionale di Taranto con giovani atleti nel ginnasio (un dono-elogio dell'amante all'amato).
I rapporti eterosessuali o matrimoniali compaiono invece nel piatto apulo dal Museo etrusco di Villa Giulia, nonché in un gruppo fittile di figurine a banchetto proveniente dal Louvre, e anche nella 'kylix' attica di Scite (dal Louvre).
Nel IV secolo a.C. la figura di Eros è al centro della riflessione filosofica, e dalle pagine di Platone lo ritroviamo nelle sculture di Prassitele (in mostra una copia dell'Eros dal Museo archeologico nazionale di Parma). Il mito di Eros e Psiche, come allegoria del percorso dell'anima fino all'unione col divino, è illustrato dal "Gruppo di Amore e Psiche" del Museo Nazionale romano di Palazzo Altemps e nel piccolo "Eros che abbraccia Psiche" dal Louvre.
Dal IV secolo in poi, dal punto di vista figurativo, l'immagine di Eros cambia: il giovane efebo diventa un bambino, il "putto", che si moltiplica nelle scene e nei contesti più diversi, perdendo vigore e acquistando talora una valenza puramente decorativa. Povero dio.