Liberazione 17.2.07
Parla l’ambasciatore, autore di un libro sui rapporti tra Stato e cattolici
Romano: «La Chiesa è ingerente? Ha paura. Non è più maggioranza»
di Tonino BucciIntervista all’ambasciatore, autore di un libro sulla storia italiana e i rapporti tra lo Stato e le gerarchie vaticane. «Oggi in Italia esiste una parte significativa della società che vuole una legge sulle coppie di fatto»Sergio Romano: «La famiglia è cambiata. E la Chiesa si spaventa»Coppie di fatto e Dico, ultimo anello di una catena. Prima c’è stata l’eutanasia, prima ancora la fecondazione assistita e le staminali, c’è stato un tempo in cui era la clonazione a far parlare le gerarchie vaticane. Sull’embrione no, l’attenzione non è mai calata e l’aborto è sempre un dente dolente per le sfere ecclesiastiche. E’ cambiato qualcosa negli ultimi decenni, le ingerenze clericali nella politica sono più forti che in passato? Oppure non dobbiamo stupirci più di tanto perché Stato e Chiesa, in Italia, hanno sempre avuto una storia tormentata, di conflitti e di compromessi, dal non expedit di Pio IX ai Patti Lateranensi, dalla nascita del partito popolare alle leggi sul divorzio e l’aborto. Questo rapporto a doppio segno tra cattolici e laici, a volte di guerra aperta, a volte invece di vera e propria sudditanza dei secondi rispetto ai primi, ha attraversato oltre un secolo. Sergio Romano ha studiato questa storia e in un suo libro ancora recente, Libera Chiesa. Libero Stato? , sosteneva che l’Italia è un paese anomalo nel quale coesistono, l’uno di fianco all’altro, due autorità, due governi, due poteri - l’uno spirituale, l’altro temporale - in potenziale concorrenza fraloro. L’ambasciatore non è uomo di sinistra, anzi. E’ un conservatore? Può essere ma di quelli che hanno il merito di raccontare le cose con realismo, senza infingimenti. La sua idea è che il nostro paese non sia mai stato a sufficienza liberale e che la Chiesa abbia spesso sconfinato nella vita politica, causa anche la debolezza altrui. E’ convinto, però, che l’offensiva delle gerarchie vaticane contro la legge sulle coppie di fatto, «c’è una minoranza significativa ormai che la vuole» - sia dovuta più che altro a debolezza. «La Chiesa ha paura», dice. Paura di non riuscire più a controllare la società italiana in via di trasformazione. Un contrappeso non c’è, in Italia manca una politica liberale che si limiti a dare regole a una società che le chiede. E dal suo punto di vista Romano lancia una frecciatina alla sinistra: crede a uno «Stato etico» ed «educatore», che indichi un modello di comportamento nella vita privata, sia pure alternativo. Gli si potrebbe obiettare, naturalmente, che i Dico - nella loro versione annacquata – servono invece a garantire la libertà degli individui di poter convivere come meglio credono senza obbligo di sottostare a modelli imposti dall’alto, religiosi o tradizionali che siano. Ma tant’è. Comunque a un primo sguardo il protagonismo della Chiesa nel dibattito pubblico sembra aumentato. Soprattutto per quel che riguarda temi da sempre considerati rilevanti per il messaggio cattolico: la nascita, la vita, la malattia, la morte, l’amore.
Ma davvero questi temi riguardano soltanto la sfera privata? Oppure riguardano la politica e quelli della Chiesa sono semplici sconfinamenti?Non dimentichiamo che anche in altre epoche la Chiesa è intervenuta nella politica italiana. Le elezioni del 1948 videro da parte sua una partecipazione forte. L’organizzazioned dei comitati civici avvenne alll’interno dell’Azione cattolica. La Chiesa era presente e consapevole. Il clero delle parrocchie era attivo e impegnato. Ci fu addirittura il decreto di scomunica dei comunisti ad opera di Pio XII anche se non venne mai applicato per davvero. Insomma di sconfinamenti nella storia ce ne sono stati tanti. Però la situazione oggi è cambiata. Per due ragioni. La prima, è che la Chiesa ha paura. Aveva paura anche prima, nel 1948 c’era il pericolo comunista. Ma allora esisteva un alleato forte della Chiesa, gli Stati Uniti, con i quali aveva rapporti eccellenti. La Chiesa si sentiva il volto spirituale di un blocco contro la minaccia comunista. Oggi si sente più isolata perché l’Europa sta diventando sempre meno cristiana. Il cristianesimo come pratica devozionale sta diventando minoritario in tutto il continente. La scienza, lo sviluppo della società e le nuove tecnologie stanno mettendo in discussione i tre momenti fondamentali dell’esistenza, la nascita, la procreazione e la morte. Si può nascere morire e procreare in modo diverso da quello tradizionale e questo naturalmente preoccupa la Chiesa. Qualsiasi modifica dell’istituto familiare costituisce una minaccia a quello che è stato sempre il veicolo tradizionale per la trasmissione el messaggio cristiano. Quindi ha paura. La Chiesa è su posizioni difensive soprattutto in Europa. Altrove no, sta andando bene paradossalmente anche se sulla sua strada trova l’Islam che sta facendo grandi progressi.
La fine della Dc che mediava gli interessi della Chiesa con quelli generali della società non ha, paradossalmente, spinto il Vaticano a occuparsi di politica in prima persona?Questa è la seconda ragione. La Chiesa interferisce oggi di più proprio perché non esiste la Democrazia Cristiana. Quando c’era la Dc sapeva che esisteva un partito cattolico con la sua identità politico-religiosa. Quel partito aveva responsabilità di governo e, nel contesto internazionale dell’epoca, non gli si poteva rendere la vita impossibile mettendolo di fronte a degli aut-aut. La Chiesa era costretta perciò a moderare le proprie richieste, a parte il fatto che in quegli anni non si ponevano problemi così traumatici per il Vaticano come quelli di oggi: eutanasia, clonazione, fecondazione assistita, unioni fra omosessuali... Quando il partito confessionale si è dissolto, tutti i laici in Italia hanno pensato che fosse una buona cosa. Ecco, lì ci siamo sbagliati alla grande. E’ avvenuto il contrario. Non abbiamo previsto che i cattolici si sarebbero sparsi su tutto l’arco politico e che la Chiesa avrebbe avuto più leve su cui manovrare. Liberata dalla responsabilità di dare retta al partito democratico cristiano la Chiesa si è sentita più libera. Teniamo poi conto che i papi non sono più italiani. Anche questo ha avuto il suo effetto. Le preoccupazioni erano tante, i papi erano presi anche da altre cose, anche se sono stati sempre attenti un retroterra territoriale in Italia.
Ratzinger è attento a quel che succede in Italia. Giovanni Paolo II guardava più al mondo?Alla Polonia, soprattutto. Era assorbito dal suo paese. Mentre questo ultimo papa non si occupa della Germania. Aggiungiamo anche un sistema politico italiano fragile che è ancora in fase di transizione. La fragilità dell’uno è sempre la forza dell’altro.
Non sarà per questo che una buona parte della classe politica guarda alla Chiesa in cerca di modelli e valori assoluti?La parola valore mi dà i brividi. Esistono nuclei conservatori che si oppongono ai cambiamenti di costume e delle nuove tecnologie e che rappresentano serbatoi di voti. Non è roba da buttar via. Che ci siano forze politiche che per non perdere consenso, si interessano a questa parte di elettorato sensibile alle parole d’ordine della Chiesa non mi sorprende.
Ma è poi vero che la Chiesa abbia ancora una presa maggioritaria sulla nostra società?Chi può saperlo? Tenderei a dire che esiste una minoranza importante, una minoranza
agissant direbbero i francesi, che agisce e che vuole decisamente questa legge sul “terzo matrimonio” di cui essa ritiene abbia bisogno la società italiana.
il Riformista 2.3.07
Affari. Si diffonde la pratica dei "Counselors"
Non mi sento bene, vado dal filosofo
di Livia ProfetiLa filosofia cerca il suo sbocco professionale e si propone in Italia come “cura dell'anima”: la consulenza filosofica. Nata in Germania nel 1981 dalle conversazioni che il tedesco Achenbach intratteneva con i suoi ospiti, da qualche anno sta cercando di farsi strada anche in Italia.
La sua applicazione è ancora esigua, ma crescono divulgazione e formazione post-laurea. Il costo di tale formazione non sembra essere alla portata di tutti, anche se è difficile evincerlo tra l'insieme di convegni, corsi, master universitari e le molte associazioni private, che aspirano alla creazione di un albo professionale specifico. A titolo di esempio, se il seminario pomeridiano di un famoso
maître à penser può richiedere anche 210 euro, il blasonato master biennale alla Ca' Foscari di Venezia ne costa 6.000, mentre ne sono sufficienti 1.500 per quello di Roma Tre, annuale.
Sono molti i filosofi noti che a diverso titolo e vicinanza sono entrati nell'orbita della consulenza filosofica: Vattimo, Volpi, Bodei, Natoli, Ferraris solo per citarne alcuni. Il suo vero nume tutelare è però Umberto Galimberti, che già nel 2003 sostenne il primato della filosofia sulla psicoterapia, ipotizzando su
Repubblica che quest'ultima fosse nata solo a causa di una “diserzione” della prima. Già vicepresidente dell'associazione Phronesis e direttore scientifico del master veneziano, il filosofo svolge anche direttamente formazione e cura per Apogeo, una collana dedicata al fenomeno.
In un contesto di allarme mondiale sui disagi psichici in aumento, per Maurizio di Bartolo la consulenza filosofica cerca di occupare quella fetta di mercato «tra il lettino e il confessionale», uno spazio in espansione perché legato all'altrettanta crescente confusione tra sanità e malattia mentale, una differenza diventata “virtuale” (
Golem L'Indispensabile n. 4/05). I problemi che i consulenti filosofici cercano di affrontare si sovrappongono infatti a quelli delle psicoterapie e psicoanalisi, ma i
counselors rifiutano la definizione di terapia psichica e preferiscono parlare di cura dell'anima: un dialogo socratico che dovrebbe guidare il consultante alla comprensione, e quindi realizzazione, della propria “filosofia personale”.
Da un punto di vista teorico, se per Galimberti i nomi di riferimento sono quelli di Heidegger, Binswanger e Jaspers (
La casa di psiche), secondo Pier Aldo Rovatti le idee fondamentali sono quelle del francese Foucault (
La filosofia può curare?). Rovatti rivendica anche la prossimità della consulenza filosofica con le posizioni di Franco Basaglia, l'ispiratore della nostra legge del '78 sul trattamento della malattia mentale, tuttora in vigore. La
querelle pare destinata ad una pacifica integrazione, anche perché sia Foucault che Basaglia hanno diversi debiti con le icone galimbertiane.
L'aria di famiglia si respira infatti nelle parole di Neri Pollastri, uno dei primi
counselors italiani, membro fondatore di Phronesis, il quale assicura che nella consulenza filosofica non c'è alcuna terapia (parola detestata sia dal foucaultiano Rovatti che dal filo-fenomenologo Galimberti), perché «l'intervento efficace» non spetta al consulente, bensì alla persona stessa che deve essere lasciata libera di agire «secondo la propria filosofia personale».
Non solo in teoria quindi, ma anche nella prassi la consulenza filosofica mostra la sua parentela con l'heideggeriana daseinanalisi di Ludwing Binswanger. Anche il nume della psichiatria fenomenologica faceva infatti lunghe chiacchierate con i suoi pazienti e come i
counselors non interveniva terapeuticamente, a volte però con esiti tragici. Lo storico Hirschmüller rivela infatti nel suo
Ellen West: tre tentativi di cura e il loro fallimento (
Il sogno della farfallan. 1/05) che nel '21 Binswanger “liberò” la paziente dalla sua clinica di Kreuzlingen anche se ben consapevole che ella si sarebbe suicidata, cosa che regolarmente avvenne. Anni dopo, nel '44, senza rimpiangere la decisione di allora, egli giustificò il suicidio della giovane donna, alla luce della daseinanalisi, come un atto di libertà e di “autentico” compimento della propria esistenza.
Il primo a sancire la superiorità della filosofia esistenziale sulle altre scienze umane fu proprio Martin Heidegger, che nel '27 scrisse in Essere e Tempo che essa veniva «prima di qualsiasi psicologia, antropologia, e, a maggior ragione, biologia». Da lì a 5 anni sarebbe diventato il primo rettore-Führer della storia del nazionalsocialismo. Ci sarà da domandarsi qualcosa?
l’Unità 2.3.07
SAGGI Un pamphlet di Luciano Canfora lo dimostra tra ricorsi e paralleli storici: dalle guerre del Peloponneso alla guerra in Iraq del 2002
«Esportare la libertà»? Da sempre un imbroglio a danno dei popoli
di Bruno GravagnuoloChe esportare la libertà fosse un mito destinato al fallimento lo sapeva bene Immanuel Kant, che pure era filosofo alieno dalla Realpolitik e dagli arcana imperii. Infatti nel 1795 nel suo celebre Per la pace perpetua, metteva in guardia da coloro che in nome della libertà, politica o di commercio, reclamavano il diritto a intervenire nelle vicende di altri stati. Mascheratura di interessi, diceva. Talché aggiungeva, col diritto di intervento umanitario occorreva andarci cauti. Sottoponendolo a tali e tante clausole di diritto cosmopolitico da renderlo quasi impossibile.
Sullo stesso tema arriva un breviario elegante e prezioso. Intitolato appunto: Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (Mondadori, pp. 104, euro12). Scritto da Luciano Canfora, grande filologo, erudito e saggista, protagonista l’anno passato della polemica con l’editore tedesco che censurò il suo La democrazia. Storia di un’ideologia (Laterza) bloccandone la pattuita pubblicazione. E a motivo di un suo presunto filo-stalinismo, nel discorrere di Stalin e Urss. In realtà Canfora, che è comunista non pentito, va letto per quello che è: un storico realpolitiker e controcorrente. Che ama far le bucce alla banalità del senso comune liberale. E con una vena da sottile controversista, proclive anche al caso indiziario. Come nel suo bel libro sull’esecuzione di Giovanni Gentile, trama multipla in cui entravano in gioco non solo gli esecutori materiali, ma altri attori di sfondo (fascisti, servizi inglesi).
Bene qual è il senso del volumetto? Nient’altro che « temprare lo scettro ai regnatori», come avrebbe detto il Foscolo «interprete» di Machiavelli. Vale a dire mostrare che l’esportazione della libertà è solo la proiezione ideologica e strategica della politica di potenza su larga scala. E scala gepolitica s’intende. Dalla grande guerra del Peloponneso(431-404) fino alle guerre irachena e afghana dei nostri giorni. Con incunaboli vari a riprova, quali l’appello motu proprio di Pio IX alla Francia contro la Repubblica romana, in favore della «vera libertà». Le guerre napoleoniche, il «grande gioco» inglese in Afganisthan, le occupazioni dell’Armata Rossa all’est dopo il 1945, le ribellioni regionali tra i blocchi dopo Jalta: Ungheria, Cile, Argentina. Su su sino all’ordine imperiale unipolare attuale: la «Pax» americana.
Tra paralleli e ricorsi storici, dipanati con abilità da Canfora, non solo si mostra che costringere i popoli alla libertà è contraddittorio. Ma anche che sempre la costrizione alla libertà e magari alla rivoluzione coincide con ben precisi assestamenti geopolitici di potenza.Vale per le campagne napoleoniche, benché in Europa abbiano i prodotto sussulti di rivoluzioni passive modernizzanti come scriveva Gramsci. Vale per l’imperialismo Usa: dalla dottrina Monroe all’arbitrato in medioriente. E vale per il dominio ex sovietico, che trasformò la rottura dell’Ottobre 1917 in un sistema egemonico guidato dallo stato guida (benché contestato dalla Cina). Qui Canfora non usa il termine «impero». E però in certi periodi vi fu anche sfruttamento dei «satelliti». Inoltre egli critica l’Urss per aver appoggiato illusoriamente le «borghesie nazionali», invece dei Pc nel mondo arretrato. Il che ha favorito il fondamentalismo. Eppure non per questo quel sistema crollò. Crollò semmai per costituiva incapacità autoriproduttiva. Per il primitivismo congenito di quel socialismo barbarico e giacobino. Costretto sin da subito a dominare brutalmente. Per sopravvivere ed espandersi.
l’Unità 2.3.07
LA MOSTRA A Palazzo Strozzi le opere dell’artista raccolte dai collezionisti Egisto Paolo Fabbri e Charles A. Loeser
Quando Cézanne era «di casa» a Firenze
di Gianni CaverniCi sarebbe da non crederci! Proprio a Firenze, città da tempo immemorabile piuttosto restia ad accogliere le novità, soprattutto in campo artistico, c’era, fra l’Ottocento e il Novecento, la più grande collezione di opere di Cézanne. Una cinquantina di pezzi messi insieme da due giovani e appassionati collezionisti americani venuti a vivere in riva all’Arno: Egisto Paolo Fabbri e Charles Alexander Loeser.
I Fabbri, emigrati negli Stati Uniti dove avevano messo insieme una straordinaria ricchezza, si trasferirono a Firenze nel 1885. Egisto Paolo aveva studiato pittura a New York, e continuò a farlo qui nello studio di Michele Gordigiani. Frequenti i suoi viaggi a Parigi dove alla fine si stabilì nel 1896 per tornare infine nel 1913. Mise insieme ben 32 dipinti del maestro di Aix, allora la più grande collezione d’Europa e di America.
Loeser comprò a Parigi i primi Cézanne nel 1896, ne raccolse 15 che affiancò alla collezione di disegni e di arte antica, si trasferì sulle colline fiorentine, vicino a Bernard Berenson che aveva conosciuto ad Harward. I protagonisti di questa mostra sono decisamente loro, la loro lungimiranza e la loro vitalità, testimoni di un’attenzione che doveva in qualche modo essere anche della città, almeno nelle sue componenti più colte e cosmopolite. Certo spesso quei quadri così poco «facili» dovevano suscitare qualche perplessità fra gli amici che frequentavano la loro casa, e, raccontò lo stesso Loeser, più di una riserva su Cézanne espresse sir Winston Churcill, più noto daltronde come statista che come pittore se pur dilettante.
Con questa mostra, curata da Francesca Bardazzi e Carlo Sisi e voluta dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, si inaugura la stagione espositiva della Fondazione Palazzo Strozzi. Tornano così a Firenze più di venti opere del maestro francese dopo che la collezione, soprattutto quella di Egisto Paolo Fabbri, era stata via via smantellata. Opere di altissima qualità come La signora Cézanne sulla poltrona rossa, Casa sulla Marna (che Loeser donò al Presidente degli Stati Uniti e che Jaqueline Kennedy volle nello studio giallo della Casa Bianca), Le bagnanti, l’autoritratto con berretto. Articolata in cinque sezioni, la mostra offre l’opportunità di vedere raccolte opere di grande suggestione: di Van Gogh Il giardiniere della Galleria d’arte moderna di Roma, di Matisse il piccolo ma straordinario Alberi presso Melun proveniente da Belgrado, di Sargent A Torre Galli, donne in un giardino da Londra. E poi alcuni bronzi, gessi e cere di Medardo Rosso, e ancora Fattori, Gordigiani, Soffici, Andreotti, Ghiglia, Rosai. Washington, New York, Londra, San Pietroburgo, Detroit sono alcune delle città dalle cui collezioni pubbliche e private provengono le opere. Oltre alla rinnovata limpida bellezza di Palazzo Strozzi, oltre alle opere di colui che giustamente è considerato il padre di tutta la pittura moderna, oltre alle opere degli artisti italiani e stranieri suoi contemporanei, si finisce per scoprire l’ottima qualità anche della pittura di Egisto Paolo Fabbri.
Repubblica 2.3.07
Si può scegliere come nascere?
La nuova polemica tra la chiesa e la scienza
di Luca e Francesco Cavalli-SforzaIl Papa ha di recente ammonito la ricerca ossessiva del "figlio perfetto"In che modo l´intervento sulla natura umana può convivere con la nostra eticaÈ noto che Darwin trasse spunto, nel formulare la teoria della selezione naturale, dall´osservazione delle pratiche di incrocio fra animali domestici, che erano diffuse da millenni e venivano applicate metodicamente dagli allevatori del suo tempo, accoppiando gli esemplari migliori per ottenere vacche e cavalli, pecore e cani dotati delle qualità più desiderabili (la cosiddetta selezione artificiale). Nel 1883, un anno dopo la morte di Darwin, suo cugino Francis Galton, uno scienziato eclettico che aveva contribuito a più rami del sapere, suggerì che attraverso incroci opportuni sarebbe stato possibile migliorare la razza umana, al pari di qualunque razza animale, così da ottenere individui provvisti di eccellenti qualità fisiche e morali. Galton promosse un movimento d´opinione che battezzò con un neologismo tratto dal greco, "eugenica", cioè "di buona nascita".
Le idee di Galton ebbero vasta risonanza. L´Inghilterra vittoriana era ossessionata dal grande numero di emarginati e poveracci di cui la rivoluzione industriale aveva riempito le sue strade: analfabeti, accattoni, bevitori, imbecilli, delinquenti.
Soprattutto, i benpensanti si preoccupavano nel vedere questa classe di derelitti riprodursi più vigorosamente della classe media e della classe operaia. Nella totale ignoranza della distinzione fra ciò che è biologico (innato) e ciò che è culturale (appreso), tipica dei tempi, Galton sosteneva, in sostanza, l´opportunità di incoraggiare le persone più dotate a unirsi in matrimonio e proliferare, onde arricchire di queste doti le nuove generazioni. E ciò che oggi chiamiamo eugenica positiva. Le sue idee furono adottate dai socialisti fabiani, da cui sarebbe nato in quegli anni il partito laburista, nella convinzione di potere così riformare gradualmente la società migliorando la qualità dei suoi membri. «L´eugenica è l´autodeterminazione dell´evoluzione umana» recita un manifesto eugenista del 1921.
Oltreoceano, negli Stati Uniti, questo movimento avrebbe però preso un´altra strada. Sulla spinta di studi genealogici che mostravano come famiglie di malviventi avessero continuato a delinquere per generazioni, e nella convinzione che le tendenze criminali si ereditassero per via genetica, si affermò un movimento di eugenica negativa, volto cioè a impedire che gli individui ritenuti socialmente pericolosi o inutili generassero figli.
Le leggi che governano l´eredità, formulate da Gregor Mendel oltre trent´anni prima, furono riscoperte nel 1900, dando vita negli anni successivi ad un´intensa attività di ricerca volta a capire come si manifestavano in vari organismi, compreso l´uomo.
Un biologo americano, Charles Davenport, persuaso che qualsiasi caratteristica umana fosse inesorabilmente determinata dai geni, raccolse un numero enorme di genealogie, facendo di ogni erba un fascio e documentando la ricomparsa di tratti fisici o morali in successive generazioni, dando per scontato che le capacità musicali come la propensione alla violenza fossero tratti ereditari alla stessa stregua dell´albinismo o di malattie quali la corea di Huntington.
Oggi, con un secolo di ricerca genetica alle spalle, abbiamo ben chiaro come i tratti del comportamento siano fondamentalmente il prodotto dell´ambiente di crescita, dell´educazione ricevuta, delle scelte individuali, e come i geni abbiano sì una parte, ma sovente minoritaria, nel determinare queste caratteristiche. Ma ai tempi di Davenport, le sue conclusioni pseudoscientifiche incontrarono il favore di un vasto movimento di opinione, che già organizzava nelle fiere di paese concorsi per le "famiglie più adatte", accanto a quelli per tori, porcelli e cani, incoraggiando la riproduzione dei più sani e più virtuosi. In parallelo, si andava diffondendo la convinzione che in vista di una società migliore sarebbe stato meglio impedire agli asociali di riprodursi. Il movimento per l´eugenica si rivelò una lobby potente e nei primi decenni del secolo ben trenta stati americani promulgarono leggi di sterilizzazione coatta nei confronti di provati «criminali, idioti, stupratori e ritardati mentali». Al 1941, circa 60.000 persone erano state così sterilizzate, la metà nella sola California. Altri paesi seguirono l´esempio statunitense: la Germania nazista, la Svizzera e i paesi scandinavi.
I primi test sul quoziente di intelligenza avevano avuto vasta diffusione fin dal principio del secolo. Tenuti rigorosamente in inglese e applicati ad immigranti analfabeti, davano risultati catastrofici per chi proveniva dall´Europa meridionale come da ogni altra regione povera del mondo, rafforzando la convinzione che alcune "razze", come quella "mediterranea" e i neri africani, fossero geneticamente inferiori e "degenerate". La legge federale del 1924 che limitava severamente l´immigrazione di chi proveniva da tali paesi (Italia compresa) fu applaudita come il trionfo del movimento per l´eugenica. Applicando gli stessi criteri, il matrimonio fra bianchi e neri fu vietato in parecchi stati (in alcuni il divieto perdurò fino al tempo del movimento per i diritti civili del 1963).
Ma il vero trionfo dell´eugenica si sarebbe manifestato nella Germania nazista. Nel 1933, una legge decretava la sterilizzazione coatta di ogni individuo "inadatto alla propagazione", nelle parole di Hitler: 225.000 persone la subirono nell´arco di tre anni. Al tempo stesso, il regime incoraggiava gli ufficiali delle SS ad avere il maggior numero possibile di figli (naturalmente con donne di "pura razza ariana"). La categoria degli "inadatti" si sarebbe estesa, negli anni successivi, a comprendere criminali e comunisti, omosessuali e deficienti, ebrei e zingari. Una legge del 1936 vietava il matrimonio e ogni rapporto sessuale tra tedeschi ed ebrei. Dal 1939, l´eutanasia di chi "non merita di vivere" fu vista come una soluzione preferibile alla sterilizzazione (perché spendere per nutrire pazzi e carcerati, degenerati ed ebrei)? Si avviò la costruzione delle camere a gas.
Il grande massacro che ne seguì spiega perché l´eugenica sia screditata, come orientamento e come pratica, dalla fine della guerra in poi. Gli scienziati migliori l´avevano condannata senza mezzi termini fin dai tempi della sua prima affermazione. Alfred Russell Wallace, che aveva scoperto la selezione naturale contemporaneamente a Darwin, la definiva, nel 1912: «l´intrigante interferenza di arroganti pratiche scientifico-religiose». «Gli eugenisti ortodossi vanno in direzione opposta ai fatti più certi della scienza della genetica», scriveva Raymond Pearl nel 1928.
La genetica del dopoguerra ha riconosciuto l´importanza preponderante dell´ambiente di crescita e della trasmissione culturale nel plasmare i caratteri del comportamento, ma per la verità alle persone di buon senso doveva essere evidente già cent´anni fa che se è frequente che molti figli di industriali, di musicisti o di criminali continuino nella stessa attività, è prima di tutto perché crescono con i genitori. La genetica ha proposto una strategia alternativa, molto più umana dell´eugenica negativa, con cui non ha nulla a che fare: sottoporre a interruzione di gravidanza entro il terzo mese gli embrioni che darebbero origine a bambini affetti da malattie gravi e incurabili, un procedimento accettato dai Paesi più civili, fra i quali è compresa in questo caso, stranamente, anche l´Italia (grazie, Pannella!). Si evita così la nascita di futuri pazienti affetti da malattie incurabili (oggi, e - non facciamoci illusioni - per molto tempo ancora): vengono risparmiati i loro dolori e le gravi sofferenze dei famigliari. Ma il procedimento fa esattamente ciò che avrebbe fatto la selezione naturale, la grande madre della vita, perché quasi nessuno di questi pazienti si sarebbe riprodotto. Quindi non fa eugenica negativa. A una parte molto influente della Chiesa cattolica questo non è piaciuto e ha preferito stabilire che l´anima entra nel corpo con lo spermatozoo, facendo così di ogni aborto un omicidio.
Repubblica 2.3.07
Storia di un sapere che il nazismo utilizzò in chiave razzista
Quando l’eugenetica è diventata un tabù
di Francesco CassataChe cosa abbraccia. L’eugenetica non è solo la sterilizzazione obbligatoria, ma anche il controllo delle nascite e le campagne contro la talassemiaNel dibattito pubblico italiano, tutta l´efficacia simbolica del discorso ostile alla biomedicina e alla genetica contemporanee deriva dall´impiego polemico e strumentale di connotazioni fortemente negative della parola "eugenica". Si tratti di fecondazione assistita, di clonazione umana terapeutica o di eutanasia, è sempre questa parola-tabù a comparire. E ad accompagnarla è sempre l´evocazione di uno spettro: quello dello sterminio nazista. La diagnosi preimpianto - per citare solo un esempio - sarebbe la "punta dell´iceberg", il primo passo in un "piano inclinato", che conduce necessariamente alla violenza del nazismo.
Dal punto di vista storiografico, un primo limite di tale reductio ad Hitlerum del concetto di eugenica consiste nell´assolutizzazione dell´esempio nazista, eretto a paradigma totalizzante di un´eugenica interpretata sostanzialmente come "pseudo-scienza razzista e antisemita". In realtà, ogni passaggio di questa argomentazione si rivela, agli occhi dello storico, superficiale e infondato. Innanzitutto, è difficile liquidare genericamente come "pseudo-scienza" quello che rimane un primo tentativo di approccio sperimentale al problema dell´eredità umana. Non solo molti fra i più importanti statistici, biologi e genetisti del novecento erano eugenisti (ad esempio, Ronald A. Fisher, Wilhelm Weinberg, Hermann J. Muller), ma anche numerose acquisizioni nel campo della genetica medica - si pensi soltanto al "metodo dei gemelli" - sono scaturite da ricerche di impronta eugenetica. Allo stesso modo, l´equivalenza fra eugenica e razzismo è altrettanto fallace. Nella Germania weimariana, la maggior parte degli eugenisti non era né razzista né antisemita: il termine Eugenik era stato appositamente coniato dagli ambienti scientifici berlinesi per sostituire la nozione di Rassenhygiene, largamente compromessa con i circoli bavaresi del razzismo völkisch. E l´influenza degli eugenisti "filo-ariani" non fu mai così debole come negli anni che precedettero l´affermazione politica del nazionalsocialismo. Non vi è dubbio che preoccupazioni classiste e razziste abbiano alimentato lo sviluppo dell´eugenica britannica e statunitense: se il bersaglio principale dell´Eugenics Education Society londinese era, infatti, il sottoproletariato (residuum o pauper class), ritenuto pericoloso per il suo basso livello intellettivo e la sua alta fertilità, negli Stati Uniti ad alimentare l´ideologia e la prassi eugenetica fu soprattutto l´incubo del "suicidio razziale" della nazione americana, prodotto dalle ondate di "plasma germinale difettoso" degli immigrati giunti dall´Europa dell´Est, dai Balcani, dall´Italia. Non a caso la legge restrittiva dell´immigrazione del 1924 - il Johnson-Reed Restriction Act - verrà elaborata con la consulenza di eugenisti statunitensi come Harry Laughlin e Charles B. Davenport.
Sarebbe, tuttavia, errato limitare l´eugenica agli orizzonti ideologici delle élite conservatrici. Con la sua progettualità modernizzatrice e la sua logica tecnocratica, il programma eugenetico attirò, infatti, le attenzioni, nella prima metà del Novecento, dei new liberal, dei fabiani britannici (si pensi a George Bernard Shaw o ai coniugi Webb), dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi, dei "progressisti" americani, dei radicali e comunisti francesi. Negli anni Trenta, biologi di orientamento marxista come Lancelot Hogben o John B. S. Haldane sostennero l´idea di un´eugenica "bolscevica": soltanto l´eliminazione delle disuguaglianze prodotte dal sistema capitalistico avrebbe consentito il pieno sviluppo delle potenzialità biologiche degli individui. Nello stesso periodo, l´interpretazione "razionale" della maternità suggerita dall´eugenica suscita gli entusiasmi dei movimenti neomalthusiani e dei gruppi femministi, alimentando le prime campagne per la depenalizzazione dell´aborto, per il controllo delle nascite, per l´educazione anticoncezionale delle donne: ben noti sono i nomi di Margaret Sanger e di Marie Stopes, paladine del birth control rispettivamente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
Non soltanto sul piano degli orientamenti ideologici, ma anche su quello delle politiche eugenetiche il quadro internazionale appare estremamente complesso e sfumato. A partire dai primi decenni del Novecento, infatti, all´eugenica "nordica", essenzialmente anglo-americana e tedesco-scandinava, contraddistinta da birth control, sterilizzazioni e certificati prematrimoniali obbligatori, si contrappone - in paesi come l´Italia, la Francia, il Belgio e diversi stati dell´America centro-meridionale - un´eugenica "latina", i cui precetti rientrano generalmente negli ambiti dell´assistenza materno-infantile, della medicina sociale preventiva, del natalismo demografico.
All´assolutizzazione del modello nazionalsocialista, l´uso pubblico del concetto di eugenica alterna paradossalmente la sua banalizzazione. I nazisti, in sostanza, non avrebbero inventato nulla: le democrazie statunitensi e scandinave non hanno anch´esse approvato delle leggi di sterilizzazione? L´analisi delle connessioni - pur esistenti e accuratamente studiate dagli storici - fra l´eugenica americana e quella nazista, lungi dall´aiutare a comprendere la complessa rete delle affinità e delle divergenze, viene invece invocata per sostenere un´identità: l´americanismo è un nazismo. Né miglior sorte tocca alle socialdemocrazie scandinave, le cui politiche eugenetiche, fortemente legate ai processi di elaborazione dei modelli locali di Welfare State, vengono anch´esse immediatamente assimilate alla Rassenhygiene tedesca. L´eugenica nazista, eretta in precedenza a categoria onnicomprensiva, si fa ora opaca: non molta strada separa così Adolf Hitler da Theodore Roosevelt, Heinrich Himmler da Gunnar Myrdal. Ad essere banalizzata è ovviamente la drammatica originalità storica - tanto qualitativa quanto quantitativa - dell´eugenica nazista: soltanto la legge sulla sterilizzazione del 14 luglio 1933 prevedeva, infatti, la coercizione e l´uso della violenza fisica contro i disabili; e nei primi quattro anni di applicazione, furono tra i 320 mila e i 400 mila i cittadini tedeschi sterilizzati in questo modo. E soltanto nella Germania nazista si giunse all´elaborazione di un programma di eutanasia (l´operazione T4) finalizzato all´assassinio di malati di mente, invalidi e anziani.
Alla luce di queste considerazioni, una messa a punto storiografica deve essere considerata come il primo passo verso il superamento dell´uso pubblico distorto del concetto di eugenica. E questo per due ragioni. Innanzitutto, per un necessario dovere di obiettività: nel nome dell´eugenica molte teorie e politiche differenti sono state formulate e realizzate. L´eugenica non è soltanto Madison Grant o Josef Mengele, ma anche Julian Huxley o Havelock Ellis; non è soltanto la sterilizzazione obbligatoria, ma anche il controllo delle nascite, il free love, le campagne anti talassemia.
In secondo luogo, perché la complessità storiografica può far luce sull´ambiguità semantica attuale della parola "eugenica". Una delle principali sorgenti delle convulse discussioni sul problema dell´eugenica scaturisce, infatti, proprio dal fatto che gli interlocutori, nel loro uso del termine, non cessano di oscillare tra l´accezione più larga (una coppia sogna di avere bambini privi di gravi anomalie) e quella più ristretta (uno Stato attua un programma esplicito di azione eugenetica). La riflessione storiografica sull´eugenica può in tal senso favorire, nell´ottica del presente, una ridefinizione semantica del concetto, incentrata sulla distinzione fra le due diverse accezioni in gioco: da un lato, un significato forte, che interpreta l´eugenica come il progetto di miglioramento dei caratteri genetici di una popolazione, attuato da uno Stato per mezzo di provvedimenti coercitivi; dall´altro, un significato debole, che identifica, invece, le pratiche selettive della genetica contemporanea basate sul rispetto dell´etica medica e dell´autonomia riproduttiva dell´individuo. Soltanto attraverso una precisa distinzione fra i due significati, storiograficamente fondata, la parola "eugenica" potrà conservare ancora un qualche senso nel dibattito pubblico italiano, cessando di essere un mero strumento di delegittimazione del nemico ideologico.
Repubblica 2.3.07
Un nuovo fronte di discussione bioetica
Dove comincia la vita umana
di Michele AraminiParalleli. Interferire sulle nascite è un po’ come scartare tutti quei prodotti industriali che si ritengono difettosiL´intervento di Benedetto XVI ai membri della Pontificia Accademia Pro Vita, di qualche giorno, fa ha aperto un nuovo fronte di discussione bioetica. Il Papa ha detto che: «nei Paesi più sviluppati cresce l´interesse per la ricerca biotecnologica più raffinata, per instaurare sottili ed estese metodiche di eugenismo fino alla ricerca ossessiva del "figlio perfetto", con la diffusione della procreazione artificiale e di varie forme di diagnosi tendenti ad assicurarne la selezione. Una nuova ondata di eugenetica discriminatoria trova consensi in nome del presunto benessere degli individui». L´eugenismo è una realtà sempre più diffusa e il Papa invita a sottoporlo a riflessione critica.
La crescita di pratiche selettive nei confronti degli embrioni non è per nulla un fatto casuale. Da tempo ormai N. Agar nel suo saggio Liberal eugenetic ha proposto un "manifesto" che teorizza una nuova eugenetica: «Se precettori specializzati, programmi di training, persino la somministrazione dell´ormone della crescita per aumentare di qualche pollice la statura, rientrano nell´ambito discrezionale con cui i genitori allevano i figli, perché mai sarebbe meno legittimo un intervento genetico teso a migliorare i normali caratteri della prole?».
Si parla di nuova eugenetica perché si vorrebbe marcare una distanza rispetto alla vecchia eugenetica di stampo darwiniana e poi nazista. Si dovrebbe ricordare infatti il movimento culturale anglosassone derivato dalle teorie di Darwin, che perseguiva due obiettivi: l´eugenetica positiva, consistente nell´aumento dei soggetti particolarmente "validi" e l´eugenetica negativa, consistente nella limitazione della capacità riproduttiva dei soggetti non adatti attraverso la sterilizzazione. Il nazismo poi realizzerà questo secondo obiettivo con il programma di eliminazione fisica di queste persone.
La nuova eugenetica ha gli stessi obiettivi della precedente, ma si differenzia per il fatto che li persegue con tecniche più raffinate, ed è figlia della predominanza del modello economico di considerazione dell´uomo. Questo modello economicistico è così tanto diffuso da sembrare ai più del tutto ovvio. Con l´eccezione della Chiesa Cattolica, delle altre grandi voci religiose e di pochi anche se qualificati filosofi (Habermas, Spaemann, ecc.), sembra che non ci sia sufficiente spirito critico per respingerlo. Questo modello chiede che all´uomo si applichi lo stesso modello di valutazione che si usa per i prodotti industriali. È noto che i prodotti difettosi si debbono scartare. Ma non basta scartare, occorre pure vincere la gara per la qualità totale (Toyota docet). Perciò trovano giustificazione le tecniche per diagnosticare, eliminare embrioni e si propone ovviamente anche la rimodulazione del Dna.
A dare manforte all´idea di uomo-prodotto si aggiungono i vari "figli" dell´economia: il pensiero debole, pronto a giustificare e supportare ogni desiderio di gratificazione degli adulti; il nichilismo neopagano che ha sempre nostalgia del potere arbitrario sull´uomo.
Infine lo scivolamento verso l´eugenismo viene aiutato dalla diminuzione dei costi soggettivi delle pratiche eugenetiche. Essi sono in costante diminuzione, in particolare nel momento in cui all´eliminazione dei neonati handicappati ed allo stretto controllo forzoso sugli accoppiamenti subentra la sterilizzazione chimica o chirurgica dei ritardi gravi; l´anamnesi prematrimoniale in chiave mendeliana; la diagnosi prenatale e lo screening genetico; la fecondazione artificiale e la manipolazione diretta sul Dna dei gameti umani. Questi ultimi interventi suscitano la naturale empatia nei confronti dei soggetti coinvolti, al punto da renderne imbarazzante il rifiuto, anche se fosse motivato dai valori umanitari ed individualisti a cui si riferiscono gli stessi che li vogliono realizzare. In altre parole, come si fa a rinunciare a un uomo "migliore", anche se per averlo dobbiamo violare la sua autonomia?
La "serena" realizzazione del progetto eugenetico richiede poi che si attui una modificazione del linguaggio, in modo da escludere dall´umanità coloro su cui si vuole sperimentare, fino alla eventuale distruzione. Così abbiamo la distinzione insostenibile tra essere umano e persona umana proposta da Singer. I diritti, compreso quello alla vita, vanno riservati alla persona umana capace di vita relazionale e vita mentale superiore. Ovviamente l´embrione umano è classificato solo come un essere umano privo di qualsiasi diritto, anche di quello elementare di vivere. La distinzione, pur insostenibile filosoficamente, è così comoda che pochi sono disposti a rinunciarvi.
In tal modo diventa facile eliminare, secondo la logica dell´eugenetica negativa, i geni malati attraverso l´eliminazione degli embrioni, portatori della tara genetica.
Dal punto di vista morale (solo cattolica o universale?), va ribadita la condanna di tutte le pratiche uccisive degli embrioni. Viene addotta la giustificazione che vengono distrutti in nome della qualità della vita. Ma non esiste alcuna qualità dove non c´è la vita. In realtà si tratta di una violazione della pari dignità di ogni vita umana, fatta in nome di quella riduzione di uomo a prodotto di cui parlavamo e per la quale un prodotto non perfetto si butta via.
Anche per quanto riguarda l´eugenetica positiva e gli studi che intendono modificare il Dna dei gameti, in modo da avere soggetti con specifiche caratteristiche, siamo nel campo dell´illiceità morale. Infatti con l´alterazione del patrimonio genetico si viola il principio di uguaglianza tra gli uomini.
Su questo aspetto la riflessione filosofica ha posto qualche domanda rilevante: abbiamo il diritto di interferire nella vita degli altri? Non si tratta di una indebita violazione dell´autonomia personale di chi deve nascere? Inoltre, in base a quale criterio si può costringere un essere umano a subire un modello impostogli da un altro? Non si tratta forse di arbitrio ingiustificabile?
Domande superflue nell´ottica del mercato. Scegliere un prodotto di consumo non è un male. Per qualcuno, forse per molti, scegliere un figlio con determinate caratteristiche comincia a somigliare alla scelta di un prodotto.
Si potrà ancora invertire la rotta? Si, se riusciamo a recuperare l´idea che generare un figlio è la cosa più profondamente umana che è data su questa terra. E che la tecnologia più sofisticata deve essere usata per curare e non per eliminare gli esseri umani.
Corriere della Sera 2.3.07
Coppie gay, è bufera contro Andreotti
Il senatore: «Sono all'antica, le unioni le vedo solo tra un uomo e una donna». E tra le righe evoca l'equazione omosessuale-pedofiloROMA — Per l'ex senatore comunista Emanuele Macaluso «Giulio Andreotti è rimasto agli anni Sessanta: allora persino il matrimonio civile era considerato concubinato dalla Chiesa... Oggi non riesce a comprendere dove va la società». Il senatore a vita non nega: «Sono all'antica e le unioni le vedo solo tra un uomo e una donna». La polemica sui Dico divide ora il mondo politico tra omofobi e omofili. Non è più soltanto una battaglia ideologica sulla famiglia o uno scontro giuridico sulle tutele per le coppie non sposate.
A scatenare la bagarre sui gay è stato Giulio Andreotti che ha preso il testimone dello schieramento anti-Dico. Al «Messaggero» ieri ha evocato, tra battute degne del miglior Berlusconi («Noi abbiamo sudato lacrime e sangue per fare la riforma agraria e dare la terra ai contadini. Invece, oggi, vogliono dare il contadino al contadino»), anche il rischio che l'omosessualità porti anche alla pedofilia: «Ora capisco perché mia madre da ragazzino non voleva mandarmi al cinema. Temeva facessi brutti incontri, perfino in quel cinemetto in via dei Prefetti, dove ti davano anche la merenda».
Nel centrosinistra la replica è affidata all'ex presidente dell'Arcigay Franco Grillini («E' omofobo») e ai radicali. Per il resto, «per salvare il governo» dice Macaluso, nessuno attacca. «Non accetto che si finisca con l'equazione no ai Dico no ai gay - protesta Giulia Bongiorno, deputata di An, ma molto vicina ad Andreotti - Io sono per superare le discriminazioni e non ho pregiudiziali contro gli omosessuali, però penso che i Dico siano giuridicamente sbagliati perché servono solo a fare una battaglia ideologica». La pregiudiziale sui gay spacca anche l'Udc. Luca Volontè interviene per spiegare che «i fondatori della psicologia moderna descrivono l'omosessualità come patologia clinica», mentre Francesco D'Onofrio ritiene che la battaglia anti-Dico non debba essere basata sulla questione omosessuale: «Sono irritatissimo che passi l'equazione che i cattolici sono naturalmente omofobici e i laici filogay».
G. Fre.
Liberazione 2.3.07
Giordano: «Una crisi per impedire la partecipazione. Il Prc riparte da lì»Intervista al segretario di Rifondazione comunista: «No ad una legge elettorale che cancelli le forze politiche, ma neanche una via refrendaria per la nascita di nuovi soggetti politici». Oggi alla Camera il voto di fiducia al governo ProdiA Caserta - chi ricorda quel vertice? - si disse che aveva vinto la sinistra dell'Unione. Col «sì» alla base di Vicenza, poi, si scrisse tutto il contrario: che la sinistra aveva perso. E adesso? Insomma, Rifondazione è più forte o più debole dopo la fiducia al Senato? Franco Giordano è nel suo ufficio a Viale del Policlinico. La domanda non gli piace. «Scusa se lo dico ma è molto riduttivo mettere così la questione. Perché è una domanda che ci costringe sempre dentro l'annosa querelle del rapporto fra le due sinistre. Antagonisti contro moderati. E' un criterio che ci impedisce però di capire quel che è accaduto».
Perché, cosa è accaduto?La verità è che tutta l'Unione ha subito una battuta di arresto. Mi chiedi cosa è successo? In due parole: proprio mentre la maggioranza produceva il massimo di innovazione sulla politica internazionale, cercando e trovando una sintonia col proprio popolo, col movimento pacifista, curiosamente ci siamo accorti che nel «Palazzo» non c'erano i numeri.
I numeri non ci sarebbero stati comunque. Anche con i due sentori dissidenti. E io non ho mai detto che tutto questo è avvenuto perché due senatori hanno scelto la strada dell'isolamento, la strada solitaria che li ha portati ad abbandonare un percorso comune. Però quel comportamento ha reso invisibili le reali intenzioni di chi ha messo in minoranza il governo. Ha impedito di leggere immediatamente quel che si giocava su quel voto.
E cioè?In aula abbiamo misurato il peso delle resistenze a quel processo di innovazione.
Ora si ricomincia. Come?Fra le tante cose che ha detto Prodi una cosa mi ha colpito: la sua insistenza sulla collegialità della coalizione, sulla maggiore compattezza. E anche, lasciamelo dire, la sua insistenza nel rapporto diverso che vuole stabilire col nostro popolo.
Parli spesso di popolo dell'Unione. Ma in realtà un po' tutti gli analisti dicono che questo governo da tempo è in calo di consensi. Non è la tua impressione?Anch'io ho visto le difficoltà di questi mesi. Ma in questi giorni ho visto anche come quelle stesse persone ci hanno chiesto - e con che forza - di continuare l'esperienza del governo Prodi. E attenzione: non ce l'hanno chiesto per ragioni di "emergenza democratica". Non c'è solo la paura che torni Berlusconi. Le nostre persone ci chiedono una cosa semplice: che quella straordinaria stagione che abbiamo chiamato dei movimenti, quella che ha permesso di sconfiggere le destre, vada fino in fondo. Arrivi a compimento, insomma.
Tu dici che il paese reale più che la politica ha salvato Prodi? E' così?Io dico che Prodi ha sollecitato quello che m'è sembrata una vera e propria irruzione del sociale nella politica. Ha parlato di povertà, di precarietà, ha parlato di pensioni minime, di valori ambientali. Ha parlato della casa, delle case che mancano. Ha parlato di pace, di rispetto della Costituzione.
Ha parlato anche di riforma elettorale.Noi dirigenti politici siamo accusati spesso di non essere molto chiari. Io, invece, lo voglio essere. E ti dico che siamo consapevoli, come tutti, delle difficoltà determinate da questa brutta legge elettorale, alla quale ci siamo opposti. Non è un mistero che siamo a favore d'un sistema proporzionale alla tedesca. Certo, so anche bene che siamo parte di un'aggregazione composita, per cui dovremo arrivare ad un accordo che tenga insieme due esigenze. Il rispetto della rappresentanza e l'attenzione all'efficacia dell'azione di governo. Ma una cosa deve essere chiara: che ci opporremo a qualsiasi tentativo di cancellazione delle forze politiche.
Insomma, Rifondazione non ci sta alle spinte ipermaggioritarie?Tutti dovremmo imparare dalla lezione che ci viene dall'ultima legge. Una legge fatta su misura per qualcuno, fatta da metà del Parlamento contro l'altra. Insomma, la prossima riforma elettorale non potrà essere fatta per interessi privati.
Che vuol dire?Che non si può fare una riforma per far nascere nuovi soggetti politici. Inventandosi, magari, una via referendaria ai nuovi partiti. Ecco, questo sarebbe inaccettabile.
Il concetto è chiaro. Ma questo, al di là della riforma elettorale, questo che significa? Che Rifondazione non si sente più nell'angolo? Che ha ancora la forza di porre i suoi temi?Io sono convinto che chi ha provocato la crisi avesse come obiettivo prioritario quello che chiamiamo modello partecipativo. Un'idea della politica, insomma, aperta alla società, ai movimenti. Quella che tenacemente abbiamo provato ad imporre. Su questo però non possiamo in alcun modo farci intimidire. Dobbiamo insistere. E' il nostro compito, il nostro obiettivo. Dobbiamo far entrare dentro l'Unione i temi sociali.
Dentro l'Unione, insisti. Dentro le scelte del governo Prodi. Parli come se sapessi che questo governo duri a lungo. Invece molti già disegnano scenari futuri, con altre maggioranze.Per noi, invece, non ci sono alternative a questa coalizione. E credo che qualsiasi tentativo di governo istituzionale o di larghe intese farebbe solo tornare indietro le lancette dell'orologio sociale. Oltre che essere devastante dal punto di vista democratico.
Ma se così è, se a Prodi non c'è alternativa, che fine faranno i "dico"?L'iter parlamentare è avviato. E Rifondazione si batterà con tutte le sue forze per la loro approvazione. Con una annotazione.
Quale?Che molti osservatori ci invitano ad approdare al tema della modernità. Loro con questa parola intendono altro - politiche economiche e sociali regressive - però questo ci dicono. Bene, mi chiedo: è concepibile che ci chiede di diventare moderni poi cancelli dal linguaggio della politica il tema dei diritti civili? Chi è che si deve modernizzare?
Ancora. Molti sostengono che comunque dopo una fiducia con Follini questo governo s'è spostato al centro...Una lettura davvero troppo semplicistica. Che resta sempre dentro l'autonomia della politica. Come se un senatore - che ha un progetto diverso dal mio ma di cui ho sempre apprezzato il suo ancoraggio ai valori democratici - come se un senatore, dicevo, spostasse equilibri. Che dipendono, invece, dai movimenti, dai conflitti, dal sociale.
Comunque, molti lo sostengono. E fra questi, Diliberto, che dice: Prodi si sposta al centro, uniamo tutta la sinistra per compensare questo scivolamento.Io credo che debba essere accolto bene qualsiasi cosa che vada nella direzione di sgombrare gli elementi competitivi fra le forze della sinistra. E' importante. Ma insisto a costo di sembrare monotematico: sono convinto che le novità non si giocano nel rapporto fra stati maggiori. Ma nel rapporto fra politica e società, fra politica e movimenti. Ecco come immagino una nuova dialettica a sinistra.
E' più o meno quel che sollecitava l'intervista a Liberazione del Presidente della Camera, no?La condivido integralmente. E non c'è dubbio che Bertinotti scarti ogni ipotesi di semplificazione organizzativistica, eviti con cura ogni semplificazione legate a nuovi contenitori. O a modelli che siano la semplice somma di quel che c'è. No, Fausto ci ha chiesto un'altra cosa: di promuovere una vera e propria offensiva culturale, a cominciare proprio da quale idea abbiamo del socialismo. Una discussione a tutto campo, capace di incalzare tutta la sinistra, anche quella tradizionale. Vogliamo discutere, insomma, sottraendoci ai limiti imposti dalle vicende politiche di tutti i giorni. Questo per noi è la costruzione della Sinistra europea.
C'è chi ragiona in un altro modo. E vede un legame fra progetti e contingenza politica. «Europa», per esempio, il giornale di Rutelli, scrive che il partito democratico va fatto prima del previsto perché c'è il rischio che Prodi cada. E una crisi senza partito riformista sarebbe pericolosa. Come commenti?Che non sono d'accordo. Soprattutto sulla filosofia che c'è dietro queste parole. Può dirle solo chi tende a far coincidere nuovi soggetti politici con l'idea del governo. Ma non credo che sia la strada giusta. Un partito, una formazione si costruisce con un'idea del mondo, con una percezione, un angolo di visuale della società. Questo è il nostro metodo.
L'ultima cosa. La crisi, la sua nascita e la sua conclusione, come la racconti tu è molto diversa dalla crisi raccontata in questi giorni dai quotidiani. Dai grandi quotidiani nazionali. Che idea ti sei fatta dei media in questo passaggio?Non credo di dire nulla di originale se spiego che i media, i grandi quotidiani registrano soggettività politiche precise. Quelle di chi, da tempo, chiede di ridimensionare il nostro ruolo, il nostro peso. Ci hanno provato anche stavolta, mi pare evidente. Ma - come dire? - Rifondazione ha davvero la pelle dura.
Stefano Bocconetti (venerdì 2 marzo)