lunedì 5 marzo 2007

La Stampa 4.3.07
Intervista a Fausto Bertinotti
Presidente della Camera dei Deputati


Al presidente del Consiglio che ha ammonito gli alleati con la metafora del bastone e la carota, il presidente della Camera, visto il suo ruolo, non vorrebbe rispondere. Ma come Oscar Wilde, anche lui può resistere a tutto tranne che alle tentazioni. E infatti non resiste: «Per formazione e per amicizia con i conigli, preferisco le carote». Con Fausto Bertinotti parliamo ovviamente di tutto o quasi quel che accade nel mondo della politica italiana, dalla crisi appena conclusa alla futura legge elettorale, sulla quale lui non ha dubbi: «Preferisco il modello tedesco, un proporzionale con sbarramento».

Presidente Bertinotti, come esce il governo dalla sua prima crisi politica?
«Sicuramente la crisi lo ha segnato nel rapporto con il suo popolo, nel senso che ha accentuato le difficoltà tra chi governa e chi lo vota. Ma paradossalmente la crisi ha anche sottolineato la sua assoluta insostituibilità. Gli stessi che fino al giorno prima erano ipercritici, il giorno dopo protestavano perché la crisi si era aperta. La mia impressione comunque è che alla fine il governo ne esca così come ne era entrato, si può dire che la crisi sia stata una parentesi».
Una parentesi fino a un certo punto, per esempio la legge sui Dico rischia di finire in un cassetto.
«Propongo di fare di necessità, virtù. E cioè di aprire tutti insieme, sinistra radicale e riformista, laici, liberali, una grande battaglia politica e culturale in Parlamento e nel Paese sui Dico e su tutti i diritti civili. Come ai tempi del divorzio».
Nel frattempo il governo ricomincia il suo lavoro come se nulla fosse accaduto. Tutto va bene?
«Per niente. Perché invece bisogna affrontare appunto il rapporto tra il governo e il popolo, o se vogliamo la società civile con i suoi conflitti progressivi o corporativi. In mezzo c’è un deserto che accentua la separazione dei cittadini dalla politica. Per questo penso alla rinascita di grandi partiti, che costruiscano consenso attraverso idee forti, che sappiano radicarsi nella società e essere dentro i fenomeni reali».
Lei pensa che questo processo possa essere aiutato da una nuova legge elettorale?
«Io credo che il sistema politico che abbiamo oggi, fortemente condizionato dal maggioritario, abbia accentuato il fenomeno che ho appena descritto. Si guarda al governo come unica bussola e si perde di vista il resto. Ma così si provoca lo scollamento col popolo e, nel quadro politico, si incoraggiano processi centrifughi che mettono in discussione la stessa coalizione e la stabilità. Noi dobbiamo sapere che siamo di fronte a un quadro terremotato, in cui quasi tutte le forze politiche sono investite da processi di cambiamento. Tra quattro anni non voteremo gli stessi partiti di oggi. Ma per accompagnare questi processi, serve stabilità e appunto una nuova legge elettorale».
E qual è quella che lei preferirebbe?
Premetto che bisogna farla col consenso di tutti, maggioranza e opposizione. Dopo di che, la mia preferenza va al sistema tedesco. Proprio perché è quello più funzionale alla ricostruzione del peso e dell’autorevolezza dei partiti nella società, senza i quali il governo diventa una cattedrale nel deserto. E’ un sistema, quello tedesco, che lascia libere le forze politiche di definire il loro futuro ma contemporaneamente le favorisce nelle aggregazioni per formare soggetti più pesanti grazie alla soglia di sbarramento. Mentre il sistema maggioritario obbliga solo a costruire alleanze, di cui poi si lamenta l’eterogeneità».
Ma con il proporzionale ognuno è libero di presentarsi alle elezioni e contrattare dopo se stare di qua o di là.
«Non è vero. Credo invece che ognuno dovrà dire in partenza, prima delle elezioni, con chi vuole stare. Un grande partito non può presentarsi agli elettori senza indicare quale governo vuole, con chi e per fare che cosa».
A proposito di partiti vecchi e nuovi, lei vede realistica la nascita del Partito democratico?
«E’ un’ipotesi plausibile, anche perché constato che risponde a grandi attese di unità che ci sono nell’elettorato di centrosinistra, basti pensare alle primarie. Nello stesso tempo, mostra diversi problemi: non risolve la questione della presenza di una forza socialista in Italia. Problema che resta aperto, dentro e fuori i Ds. Un problema di tutta la sinistra».
Quindi anche della «sua» sinistra, Rifondazione comunista diventerà Rifondazione socialista?
«Lasciamo stare i nomi, diciamo che una sinistra alternativa oggi si costruisce solo su un vero impianto revisionistico. Cioè andando oltre il Novecento. Mantenendo ovviamente quello che vive e vivrà nella storia del movimento operaio. Ma mettendo al centro nuovi valori come la non violenza, la critica del potere, l’ambientalismo, il femminismo, il modello di sviluppo».
Ultimamente c’è stato qualche segnale di disgelo tra i vari protagonisti di questa nuova aggregazione, il segretario del Pdci Diliberto che le stringe la mano in aula...
«Perché stiamo entrando in una fase di grandi cambiamenti, che ci costringe tutti a un’accelerazione. Ci vuole quella che io ho chiamato una massa critica, che sia dunque più grande e più efficace possibile. Il mio invito è di ricominciare a discutere per verificare se oltre alle differenze abbiamo anche un destino comune. E non penso ai comunisti con i comunisti, i socialisti con i socialisti, i verdi con i verdi, i cattolici democratici con i cattolici democratici. Ma a tutti con tutti. Senza steccati ideologici e di organizzazione».
Il suo Partito ha punito il senatore Turigliatto con un provvedimento disciplinare. Lei condivide?
«Non entro nelle decisioni del mio Partito, dico solo che bisogna garantire il mandato che hai chiesto agli elettori. Perché se non sei in grado di garantirlo, sei azzoppato».

Repubblica 5.3.07
Centinaia di militanti all'Eliseo
Rifondazione: non permetteremo il ritorno delle destre
No al cartello con il Pdci di Diliberto In platea c´è anche Lella Bertinotti


ROMA - Rifondazione comunista «non permetterà il ritorno delle destre». Certi errori del passato non saranno ripetuti, non di certo nell´imminente voto sulla missione in Afghanistan. Nessun cenno al "compagno" allontanato Franco Turigliatto, il senatore trotzkista che ha contribuito con la sua astensione a mandare in crisi e quasi a far cadere il governo Prodi. Ma se più di seicento tra iscritti e militanti hanno risposto all´invito del segretario Giordano e si sono ritrovati in una domenica primaverile al Teatro Eliseo di Roma è stato proprio per ribadire che il partito è altro da quel parlamentare, soprattutto che sarà coerente con la maggioranza, anche se non rinuncerà alla propria natura.
Rischiava di essere una seduta di autocoscienza collettiva, per ragazzi dei movimenti e i parlamentari tutti, dopo la debacle scampata. In prima fila sedeva anche Lella Bertinotti, moglie del presidente della Camera, dopo tanto tempo di nuovo a un appuntamento del Prc. Il momento è difficile, d´altronde. Il leader Giordano ha avvertito chiaro il rischio che il partito resti stretto tra il ritorno alle urne (e della Cdl) e una fase due del governo dai forti connotati moderati. Allora ha lanciato le «nuove sfide» di Rifondazione. Prima fra tutte «procedere nel percorso della Sinistra europea, la costruzione di un nuovo soggetto politico, ma solo se staremo tutti insieme». E se Fassino e Rutelli anticipano i tempi per il Partito democratico, anche il segretario del Prc confida nel fatto che «in questo anno ci sia l´atto fondativo del nuovo progetto che terrà insieme movimenti e sinistra alternativa». Non sarà un partito unitario, però, e tanto meno il progetto è aperto ai cugini-avversari dei Comunisti italiani: «Non siamo disposti a scambiare il nostro progetto con una sommatoria di partiti».
Ha parlato la senatrice Lidia Menapace, hanno parlato i militanti. Tutti d´accordo sulla necessità di evitare nuovi rischi al governo, soprattutto sulla politica estera. E così, sul decreto sull´Afghanistan che oggi comincerà il cammino alla Camera, Giordano indica l´elemento di svolta accendendo l´entusiasmo dei suoi: «Noi i militari non li avremmo mai mandati, ma con la conferenza di pace, la prospettiva è cambiata». Dunque il via libera non è in discussione. Per dirla con Giovanni Russo Spena, capo dei senatori al Senato, «abbiamo condiviso un programma e a quello ci sentiamo legati «. Ma ora il cammino è ripreso, dice al termine dell´arringa di un´ora Giordano, che sembra aver convinto i suoi, e «all´attuale coalizione non c´è alternativa: Rifondazione non permetterà il ritorno delle destre». Per adesso il pericolo è scampato e dopo tre ore di confronto può tornare a suonare l´Internazionale. (c. l.)

l’Unità 5.3.07
Quante chimere tra illusione e ragione
di r. carn.


Nell’Iliade la chimera è rappresentata come un mostro spaventoso. Così nella classica traduzione di Vincenzo Monti: «Era il mostro d’origine divina, / lion la testa, il petto capra, e drago / la coda; e dalla bocca orrende vampe / vomitava di foco...». Le chimere danno gioia e conforto, ma sono anche pericolose e distruttive. Qui siamo, ovviamente, nei territori della mitologia, ma chimere sono, metaforicamente, le speranze, le utopie, le illusioni. A una ricca e interessantissima attraversata dell’idea di illusione nella cultura occidentale, di cui vengono ripresi alcuni aspetti e momenti salienti, è dedicato questo ponderoso volume di Lionello Sozzi. L’autore ha vagliato con scrupolo centinaia di fonti letterarie, dall’antichità all’epoca contemporanea. L’illusione è l’opposto della ragione? La conclusione è no. Anzi, una delle epoche in cui fiorirono maggiormente le «chimere» fu, a quanto pare, l’Illuminismo, il momento in cui ci si rese conto che il sonno della ragione genera mostri. Ma che la ragione, pure da sveglia, è in grado di generare almeno qualche chimera.

Lionello Sozzi, Il paese delle chimere, Sellerio, pp. 420, euro 24,00


domenica 4 marzo 2007

Corriere della Sera 4.3.07
Il cardinale: «Meglio contestati che irrilevanti»
Ruini: «Cattolici svegliatevi»
Appello alla mobilitazione dei pensatori cattolici, senza respingere la cultura del tempo, del presidente della Conferenza episcopale
di Virginia Piccolillo


ROMA - «Se noi cristiani ci rassegniamo ad essere una subcultura, in un mondo che guarda dai tetti in giù, niente potrà salvarci». La mano ossuta accarezza il Crocifisso appeso alla lunga catena argentea, poi lo sguardo del cardinale Camillo Ruini si accende, come il suo sorriso. E si affretta ad aggiungere: «Salvo un intervento della Provvidenza. Certamente». Con questo appello alla mobilitazione dei pensatori cattolici il cardinale vicario di Roma ha appena chiuso la due giorni di studi su: «La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà». Ultimo appuntamento di quel forum che dieci anni fa ha lanciato il tema del «progetto culturale», così gradito ora al Pontefice. Un appuntamento da record per numero e qualità degli interventi di giuristi, matematici, filosofi, fisici e teologi che segna anche l'addio del cardinale settantaseienne al ruolo di presidente della Conferenza episcopale. «La prossima volta sarò da quella parte e non da questa», dice alludendo alla sua imminente sostituzione per motivi di età, suscitando gli applausi affettuosi degli studiosi.
Ruini tira le fila della riflessione comune e confessa la sua intenzione di «mostrare che per dire quel "grande sì all'uomo" auspicato da Ratzinger e per mostrare la verità, la bellezza e la vivibilità della fede, bisogna andare alle radici della razionalità contemporanea». Non è un invito a respingere la cultura del nostro tempo. Anzi. Sollevando la testa dai suoi fitti appunti, il cardinale sottolinea: «Qualcuno sostiene che c'è molto da assumere da Kant. Io, a costo di scandalizzare, voglio dire anche da Hegel. E guai a chiudersi e buttare via tutto», ammonisce. Quella che attende il cattolico, spiega, è una sfida «ineludibile»: «Deve svegliarsi. Deve giocare di proposta e dare un orientamento alla cultura. E per questo occorre che ci sia una crescita del senso di appartenenza alla Chiesa e a Cristo e una più precisa consapevolezza della radicalità della sfida che abbiamo davanti».
A convegno chiuso, finite le strette di mano, ascoltate le richieste più disparate (compresa quella di ribadire l'inconsistenza dei vangeli apocrifi), il cardinal vicario si aggiusta l'abito e ci spiega meglio perché nutre molte speranze che i cattolici possano abbracciare la sua sfida a diventare bussola della cultura e vincerla: «Dall'interno del cattolicesimo cresce la consapevolezza che c'è bisogno di farlo. Perché i problemi che riguardano l'uomo in quanto tale e il dialogo tra le religioni spingono ormai in una direzione convergente: fanno sentire a molti il bisogno di riscoprire la propria identità cristiana». Eppure, da fuori, sembra che il periodo sia molto più complesso. E fortemente scosso dai contrasti sui temi etici.

Il cardinal vicario allarga le braccia, annuisce e sorride: «È vero che la contestazione contro la Chiesa aumenta. Ma è preferibile essere contestati che essere irrilevanti». E aggiunge: «In altri Paesi come la Francia forse c'è minore contestazione, ma solo perché minore è il peso specifico dei cattolici». Si ferma, si illumina e aggiunge: «Se ci considerassero a fine corsa ci attaccherebbero meno». «Tra l'altro - fa notare - i rapporti numerici tra credenti e non credenti nella totalità della popolazione sono molto diversi da quelli che appaiono sui media. Io credo che qui in Italia, come negli Stati Uniti, sono maggioritari quelli che hanno Dio come punto di riferimento». Il rischio insito nello scontro però è di ritrovarsi nemici senza volerlo. Ora che l'etica è divenuto terreno di polemica politica ne abbiamo esempi quotidiani. E ieri l'altro il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, intervenendo sui Dico, la legge sui diritti per le coppie di fatto, ha lanciato un monito alla religione a trattare con amore «legami forti anche fuori da quelli convenzionali» e non respingerli come «un peccato da cancellare», «sennò regaliamo a Satana un tempo che non è detto sia il tempo di Satana».

Ruini, divenuto nella considerazione di alcuni il paradigma di una visione severa che sembra voler più escludere che includere, allontana da sé questo sospetto con garbo: «Non ho mai pensato di demonizzarli. Certo io suggerisco il matrimonio, ma non sono contro le persone che vivono in una coppia di fatto. Per carità. Quella è una loro libera scelta. Va rispettata. D'altra parte non si vede perché dargli una struttura giuridica che rischia di sovrapporsi a quella esistente e a fare confusione». «E del resto non la vogliono. A dirlo sono loro stessi. Noi ne conosciamo molti, giacché molte sono le coppie che si sposano dopo aver convissuto. Sono una sorta di coppie di fatto in transito verso il matrimonio. Da quanto risulta ai sacerdoti che hanno ogni giorno a che fare con loro, queste coppie non chiedono forme diverse dal matrimonio».

Nel convegno era già stata messa in discussione una nuova tendenza, quella della richiesta sempre più diffusa di nuovi diritti (c'è chi ne reclama anche per l'intelligenza artificiale) senza farsi carico dei corrispondenti doveri. Un diritto che voglia essere ragionevole, era stato detto, deve invece riuscire a bilanciarli. Nella conclusione il cardinale evidenzia che «il punto decisivo è l'apertura della razionalità umana alla trascendenza, cioè, in concreto, a Dio e anche all'uomo che non può essere considerato un pezzo di natura». Altrimenti, fa notare condividendo l'intervento di un professore di letteratura russa, «ricadiamo nell'errore descritto dal pensatore sovietico Soloviev». Nel suo romanzo metaforico c'è un uomo, progressista, umanista, pacifista, che riusciva a mettere d'accordo tutto il mondo, persino le religioni diverse. Ma viene smascherato: è l'Anticristo.

Fuor di metafora, Ruini e i pensatori del Forum sono convinti: «Occorre tenere conto della novità e della importanza decisiva della fede cristiana rispetto alla razionalità. Non basta adottare i valori senza riconoscere l'importanza decisiva di Cristo. Questa è la sfida culturale ineludibile dei cattolici. E per vincerla non basta organizzarsi. Occorre una consapevolezza dell'appartenenza. Ci sono gruppi religiosi numericamente non molto diffusi ma capaci di esprimere una presenza assai incisiva. Lo abbiamo visto». Malgrado le critiche affilate e gli sbeffeggiamenti subìti dalla satira Ruini non rifugge dai media: «Gli attacchi non mi hanno mai dato fastidio. E credo che, come cattolici, dobbiamo stare dentro alle dinamiche della comunicazione. Senza limitarci al gioco di rimessa. Solo in questo modo la cultura cristiana potrà avere piena cittadinanza nel pensiero attuale. Ma soprattutto dare alla cultura di tutti un nuovo slancio». In uno slogan: «Cattolici svegliatevi».


l’Unità 4.3.07

Mussi: Non farò la sinistra del Pd

Durerà poco: «L’Ulivo era una novità nel ’95 oggi è solo un accordo Ds-Dl»
di Simone Collini


FABIO MUSSI dice che non è intenzionato a fare la sinistra del Partito democratico per due ragioni. La prima: «È un rassemblement elettorale senza identità, senza una chiara tavola dei valori, senza una collocazione internazionale. E come tale durerà poco». La seconda: «Nasce come un partito più al centro dei Ds e che prepara una politica che guarda più al centro dello schieramento politico». Ci sarebbe poi una terza ragione che, se non gli dovesse riuscire di «fermare il treno del Pd», lo porterebbe a lavorare fuori da questo terreno: «La vera novità di oggi non è questo Ulivo, ma il fatto che per la prima volta nella storia d’Italia tutta la sinistra è al governo. È arrivato il momento di affrontare il problema delle divisioni della sinistra».
Cosa dimostra la crisi, ministro?
«La legge elettorale è pessima, ma non è la responsabile del filo di rasoio su cui si cammina al Senato. Ci siamo soffermati troppo poco a riflettere sulle nostre difficoltà politiche e sul risultato delle elezioni del 2006. L’Unione vince per un soffio di voti alla Camera e per un soffio di seggi al Senato. La lista dell’Ulivo alla Camera, che aveva preso più del 33% due anni prima alle europee, prende il 31%. E i due unici partiti rimasti a convivere nella lista dell’Ulivo, Ds e Margherita, al Senato vanno decisamente male, con i Ds al 17,5%. È chiaro che un partito che si presenta alle politiche annunciando sostanzialmente il suo superamento non è destinato a raccogliere trionfali successi».
Questa crisi per Fassino spinge ad accelerare il processo del Pd.
«È molto importante che la crisi sia stata superata, ora bisogna mettere il più possibile in sicurezza il governo dandoci l’intera legislatura per cambiare l’Italia. Sul Pd siamo al time over. Questo è il congresso che scioglie i Ds. Non lo si vuol dire perché bisogna convincere i compagni che dubitano, che pensano ci possa essere un secondo tempo per dire no, ma la verità è questa. Sparisce la Quercia, la Rosa del socialismo europeo, sparisce la parola “sinistra”».
Però l’argomento che bisogna porre rimedio alla frammentazione attuale ha fondamento.
«Sì, ma non si può procedere con un’operazione burocratica, perché a seconda di come metti insieme può anche darsi che provochi ulteriori frammentazioni. Bisogna sapere qual è il progetto».
Il progetto è quello dell’Ulivo.
«Si dice così, e si dice che questa è l’unica novità politica nell’Italia di questi anni. Lo era nel ‘95, oggi è molto meno nuova. E soprattutto, nel ‘95 prese il 44% dei voti, con i Ds a oltre il 21%. Da allora l’Ulivo ha perso Di Pietro, Udeur, Verdi, Pdci, Sdi. Sono rimasti Ds e Margherita, al 31%. È un esperimento genetico di debole consistenza, una chimera di cui non si capisce quale sia la tavola dei valori e quale la collocazione internazionale».
Le forze progressiste non si esauriscono nel Pse, nota D’Alema.
«Il Pd non va “oltre” la socialdemocrazia, va fuori e indietro rispetto a quella tradizione. Io voglio stare nel Pse, essere la sinistra del Pse, aprirlo a tutte le culture critiche nuove, anche quelle nate fuori dal socialismo tradizionale».
Perché essere la sinistra del Pd no?
«Intanto, perché il Pd dura poco. È un grande rassemblement elettorale che avrà poca vita perché non ha struttura, identità, collocazione internazionale. E poi c’è poco da fare, nasce come un partito più al centro dei Ds. E temo che prepari una politica che guardi di più al centro dello schieramento politico. Guardate anche in queste ore la polemica tra Fassino (Pd nel Pse) e Bindi (mai nel Pse). Si va ad una decisione storica con un conflitto frontale sul piano cruciale. Penso che alla fine prevarrà il punto di vista della Margherita».
Per quanto vi riguarda?
«Vogliamo fermare il treno del Pd».
Nel caso non vi riuscisse?
«Decideremo democraticamente cosa fare. Sapendo che c’è un altro elemento di novità: per la prima volta nella storia d’Italia tutta la sinistra è al governo. La divisione tra riformisti e radicali sarà destinata ad essere superata da questa comune assunzione di responsabilità. E siccome siamo preoccupati della frammentazione, dico che non è velleitario provare ad affrontare una questione che va più al fondo della storia italiana, quella cioè della divisione della sinistra. Che è stata e sarà, se dovesse permanere, uno dei fattori della crisi italiana. Non penso di contrapporre la federazione delle sinistre al progetto del Pd. Ma è certo che la formazione del Pd sarà un terremoto che rimette in moto tutto il centrosinistra. E dobbiamo tenere il governo al riparo da questo terremoto».

l’Unità 4.3.07
«L’omosessualità? Una devianza»
È lite in tv tra Binetti e Grillini


Abbassare i toni? Impossibile. Leggete qui: «L'omosessualità è: a) una devianza della personalità; b) una caratteristica della personalità». Il quiz è stato posto ieri durante la trasmissione '”Tetris”, il “surreality” di Luca Telese in onda su La7. Il quiz, lanciato dal conduttore (e letto da Mike Buongiorno), ha fatto scattare il putiferio. Gli ospiti: la senatrice teodem Paola Binetti e il presidente onorario dell'Arcigay e parlamentare Ds, Franco Grillini con Chiara Moroni, deputata del Nuovo Psi, a fare da paciere. La parlamentare Dl riflette un pò, ma alla fine, messa alle strette da Telese, finisce per optare per la risposta a): una devianza. «Tu sei fuori dalla categoria degli psicologi e degli psichiatri che su questo dicono tutt'altro! Parli contro il tuo ordine!», l'attacca Grillini. «Sovrapponi la religione alla scienza - dice ancora - e li confondi!». Breve stacco pubblicitario, poi la senatrice peggiora anziché allerire il clima: «A mio avviso è un comportamento diverso. Molto diverso dalla norma iscritta in un codice morfologico, genetico, endocrinologico e caratteriologico». Diversità della razza? Grillini non ci sta. «Tu - si arrabbia - usi del ciarpame scientifico per sostenere una posizione razzista!». E citando il fatto che la Binetti è un membro numerico dell'Opus Dei la attacca: «l'Opus Dei vuole curare gli omosessuali!». Binetti si spazientisce: «Non esiste una clinica dell'Opus Dei. E comunque nella psichiatria una grande raccolta di modelli e pazienti anche omosessuali esiste». Grillini quindi è anche un peccatore? Lui glissa e cita Bernard Shaw: «Il paradiso è perfetto per il clima, l'inferno per la compagnia...». Lei se la cava con un «nessuno è escluso dalla misericordia...». Ma non sono le uniche scintille nella movimentata trasmissione. Altro battibecco scatta quando Grillini se la prende con la Chiesa che «non è una organizzazione democratica ma una dittatura». La Binetti si arrabbia: «ma dai! ma cosa dici!». Unico momento di consonanza tra i due quando Grillini “difende” la libertà della senatrice di usare il cilicio.


Il Sole-24 Ore Domenica 4.3.07
Freud, l'inconscio greco
di Enrico Berti

recensione di Yamina Oudai Celso, «Freud e la filosofia antica», Bollati Boringhieri, Torino, pagg.226, €22,00

Dall’interpretazione dei sogni alla libido, al metodo catartico. Yamina Oudai Celso analizza l’influenza dei classici sul fondatore della psicoanalisi

Un filone di studi filosofici che da alcuni decenni si sta rivelando particolarmente fecondo, e che richiede conoscenze storiche estese congiunte a forti interessi teorici, è la storia dell’influenza della filosofia antica sulla filosofia contemporanea. Si può dire che Gadamer ne sia statao uno degli iniziatori, ma esso è stato proseguito da studiosi più giovani sia a proposito di importanti filosofi continentali come Heidegger, sia a proposito della filosofia analitica anglo-americana, con risultati spesso interessanti. Ora esso è stato applicato a Freud, personaggio che - malgrado il declino di considerazione in cui sembra essere caduta la pisicanalisi per colpa dei suoi spesso vacui epigoni - conserva immutato, specialmente presso i filosofi, il fascino di un “maestro del sospetto”. Nel libro di Yamina Oudai Celso, Freud e la filosofia antica (Bollati Boringhieri 2006), si mostra quanto grande sia il debito di Freud non solo verso la cultura greca in generale - si pensi all’utilizzo del mito di Edipo - ma in modo specifico verso la filosofia greca.
L’autrice anzitutto documenta rigorosamente i rapporti che Freud ebbe con grandi studiosi di filosofia antica quali l’ristotelico Franz Brentano, che fu suo professore a Vienna tra il 1874 e il 1876, i due Gomperz (Theodor e il figlio Henrich), il filologo Jakob Bernays, zio della moglie di Freud, e i membri del «Circolo di Basilea», cioé Bachofen, Nietzsche, Rohde e Burckhardt. Poi illustra la derivazione, attestata da precise citazioni, delle più importanti teorie di Freud da altrettante tematiche sviluppate dai filosofi antichi. Anzitutto l’interpretazione dei sogni, oggetto della prima importante opera di Freud (1899), prende lo spunto da due scritti di Aristotele, il De devinatione per somnum e il De insomniis, per il suo apsetto di spiegazione scientifica e dal Libro dei sogni di Artemidoro (II secolo d.c), per il suo apsetto di interpretazione mantico-religiosa. Indi la famosa teoria freudiana della libido si richiama esplicitamente alla teoria platonica dell’eros, sia per il carattere - per così dire - “trascendentale” che questo rivela nel Simposio, avendo per oggetto qualsiasi forma di bellezza, sia per la possibilità di una sua sublimazione, risultante dal discorso di Diotima, sia infine per la nostalgia della totalità che esso contiene, come risulta dal discorso di Aristofane.
Ma anche la più celebre “scoperta” freudiana, quella dell’inconscio, riprende aspetti della concezione tripartita dell’anima in Platone (anima razionale, impetuosa e concupiscente), nonché della concezione ugualmente tripartita, ma in modo diverso, dell’anima in Aristotele (intellettiva, sensitiva, nutritiva). La prima di queste due concezioni ha fatto scrivere a un grecista come Werner Jager che Platone fu «il padre della psicanalisi» (Paideia, 1944), e Oudai mostra la corrispondenza quasi perfetta fra le tre parti dell’anima e le nozioni freudiane di Super-io, Io ed Es. La seconda viene da lei opportunamente valorizzata con un riferimento al passo del De anima in cui Aristotele afferma che l’anima superiore contiene - potenzialmente - in sé quelle inferiori (414 b 28 ss.), perché questo è precisamente il rapporto che Freud stabilisce fra i tre livelli della personalità. Del resto il De anima era stato oggetto di un famoso libro di Brentano (La psicologia di Aristotele, 1867), maestro di Freud.
Interessantissimo è poi il nesso che Oudai scopre fra il “metodo catartico”, raccomandato da Freud sin dai giovanili Studi sull’isteria, scritti in collaborazione con Breuer (1892-95), e il celebre concetto aristotelico di “catarsi” tragica, interpretato non più in chiave moralistica, come solevano Lessing e Wilamowitz, ma secondo le indicazioni di Bernays, Nietzsche, Rohde, da un lato come sfogo delle passioni rimosse e dall’altro come sollievo di tipo cognitivo prodotto dalla “coazione a ripetere”. Non a caso, rileva giustamente l’autrice, sia Freud che Aristotele tennero come modello della catarsi l’Edipo re di Sofocle. Infine il libro mette in rilievo la presenza, sia in Platone che in Freud, del paralllismo tra psyche e polis, strutture analoghe in cui il momento autoritario viene rappresentato rispettivamente dalla “legge del padre”, che vieta l’incesto, e dalla Legge della città, che disciplina le passioni e i comportamenti immorali. Tutto questo viene mostrato senza trascurare le enormi differenze che separano Freud dai filosofi antichi, specialmente nel modo di concepire l’etica, la politica e la religione.

Repubblica 4.3.07
La missione impossibile del governo Prodi
di Eugenio Scalfari


Prima che Prodi metta ancora una volta la questione di fiducia su un provvedimento del governo ne dovrà passare di acqua sotto i ponti del Tevere! Governerà col Parlamento, ha detto più volte dopo aver superato l´ostacolo al Senato con due soli voti di maggioranza. La formula di governare col Parlamento, suggerita dal Capo dello Stato, può sembrare ovvia e invece non lo è affatto. Tradotta in volgare significa abbandonare l´idea di blindare la maggioranza e disporsi invece a maggioranze variabili da costruire caso per caso con contributi anch´essi variabili di tutta o parte dell´opposizione.
Questa è la vera e importante novità dopo la crisi di fine febbraio, di cui la prima sperimentazione ha avuto luogo con il «sì» di Follini. Può sembrare un esperimento su scala lillipuziana ma non è affatto così. Follini non è un isolato; tanto meno un trasformista e un traditore - come l´ha definito il suo ex fratello siamese Pierferdinando Casini. Follini funge da possibile apripista. Perciò i suoi percorsi vanno seguiti con attenzione. Ma è evidente che la partita principale si gioca sull´agenda di Prodi. Durerà? Quanto durerà? Come durerà?
Queste sono le questioni che lo coinvolgono come capo del governo e leader della maggioranza. Deve al tempo stesso riguadagnare il consenso degli italiani, mobilitare i riformisti attorno all´obiettivo del partito democratico, mantenere l´intesa politica con la sinistra radicale e... governare col Parlamento, cioè utilizzando le convergenze di volta in volta possibili con l´opposizione o parte di essa.
L´impresa non è facile, ma neppure impossibile.
* * *
Le prime mosse le ha già fatte nella direzione più urgente e preliminare che è quella di recuperare il consenso. Ha annunciato la decisione di distribuire un «bonus» fiscale di 6 miliardi ai contribuenti, a valere sulle maggiori entrare che si sono verificate nel 2006 e che continueranno ad affluire all´erario in misura consistente nel 2007.
In gran parte esse dipendono dalla lotta anti-evasione e anti-elusione avviata da Vincenzo Visco fin dal giugno dello scorso anno. Ma lo stesso Visco non ha mancato di invocare fin dall´inizio una diminuzione della spesa e una diminuzione della pressione fiscale. Il «bonus» fiscale di 6 miliardi risponde a quest´ultima richiesta; il contenimento della spesa è la parte più difficile dell´operazione e ad essa è direttamente impegnato il ministro dell´Economia che intanto porta a casa il risultato di un debito netto sotto alla soglia del 3 per cento: obiettivo raggiunto con la tanto deprecata legge finanziaria del 2007 che sta centrando l´obiettivo primario che si era proposto per recuperare i parametri della stabilità europea.

Se – come è probabile – la dinamica del prodotto interno lordo nell´anno in corso si manterrà a livello del 2 per cento del 2006 o se – come è possibile – riuscirà addirittura a superarlo, anche il rapporto tra debito pubblico e Pil migliorerà. Questa è la scommessa.
In parte sarà determinata dalla congiuntura internazionale e da quella europea in particolare. In parte dall´andamento della domanda interna per consumi e per investimenti. Ma soprattutto dalla crescita della produttività.
Padoa Schioppa ha più volte insistito su questo elemento. Alcuni segnali positivi ci sono, ma siamo ancora lontani dall´obiettivo. La produttività è ferma in Italia da quindici anni per responsabilità paritarie degli imprenditori, dei sindacati, dello Stato. E´ necessario un patto triangolare sulla produttività. Le parti sociali sembrano d´accordo. Il governo dovrà mettere tutto il peso di cui dispone per realizzare questo obiettivo primario. Su di esso si vince o si perde l´intera partita. Le liberalizzazioni di Bersani hanno un ruolo importante nel risultato.
* * *
La partita dell´economia – se concertata con equilibrio e condotta con determinazione – può centrare contemporaneamente tre obiettivi: il recupero del consenso elettorale, una più equa distribuzione del reddito, l´aumento della domanda interna. L´«en plein» si avrà se la congiuntura internazionale continuerà a svilupparsi positivamente. Quest´ultimo elemento, del quale non si può sottovalutare l´importanza, è tuttavia al di fuori del nostro controllo. Ragione di più per concentrare tutti gli sforzi – del governo, degli enti locali, del sistema bancario, degli imprenditori e delle rappresentanze dei lavoratori – su un circuito virtuoso che sostenga la crescita e liberalizzi il mercato da strutture corporative.
Su questo terreno non dovrebbero esserci impedimenti politici: la maggioranza è concorde, le parti sociali anche. Perfino i pochi dissidenti non pongono su queste questioni problemi di coscienza e di ideologia.
Le resistenze invece si addensano sul tema delle pensioni. Non è qui il caso di entrare sulle modalità di questa riforma se non per osservare che le resistenze sono concentrate sul tema dello «scalone», cioè dell´età pensionabile e sull´erogazione dei coefficienti di calcolo delle pensioni in rapporto all´invecchiamento della popolazione. E´ invece di opinione comune la necessità di procedere all´innalzamento delle pensioni che si trovino al di sotto dei mille euro mensili (la media supera di poco i 500 euro).
Qui il problema è quello della sostenibilità del sistema. Della auspicata ma sempre rinviata separazione tra le erogazioni previdenziali e quelle assistenziali. Della creazione di un unico ente previdenziale con i relativi miglioramenti di efficienza e di costo. Della previdenza integrativa. Degli ammortizzatori sociali. Del mercato del lavoro.
Materia ampia e contrastata. Negoziato complesso, nel quale non si può governare col Parlamento perché, prima dei partiti, su questi temi sono protagonisti insieme al governo le parti sociali. Una sola considerazione in merito deve essere posta dal governo ai partiti dell´alleanza: nessuno di loro deve scavalcare le organizzazioni sindacali, delle quali il governo costituisce la sola contropartita. Altrimenti non si potrà far nulla e resterà in vigore la legge Maroni e lo scalone che porta l´età pensionabile a sessant´anni. Le parti sociali lo sanno, perciò si regolino di conseguenza.
* * *
Verrà a scadenza tra pochi giorni il voto sul rifinanziamento della nostra missione militare in Afghanistan. Si sa già che la maggioranza politica al Senato non ci sarà per la defezione già annunciata dei dissidenti di sinistra.
Ma si sa anche che il governo non metterà la fiducia. Il tema è decisamente «bipartisan» come tutti quelli di politica estera. Prodi prevede una maggioranza al Senato di 300 voti, cioè di fatto l´unanimità. E poco importa se la maggioranza politica otterrà il voto determinante dell´opposizione - a parte il fatto che i senatori a vita voteranno con ogni probabilità compattamente il «sì» e contribuiranno di conseguenza a togliere alla votazione ogni colore di parte.
A parte questo imminente appuntamento la nostra politica estera continuerà a svolgersi sotto il segno della continuità delle nostre tradizionali alleanze ma con l´autonomia che fornisce un connotato di discontinuità rispetto alla linea del precedente governo.
E´ auspicabile che su questa visione complessiva anche le dissidenze di sinistra possano essere riassorbite in alcuni casi. In altri sovverranno i voti di parti dell´opposizione quando siano in gioco gli interessi e il prestigio del paese.
Certo tutto può cambiare se in Afghanistan, come sostengono Bush e il Pentagono, l´«Enduring Freedom» dovesse trasformarsi in guerra guerreggiata e addirittura preventiva contro i talebani e contro i «signori della guerra» cioè i capi tribali che contestano ogni ipotesi di governo centrale.
Essenziale, per portare a soluzione questo problema, l´accordo con l´Iran e con il Pakistan affinché contribuiscano alla pacificazione del paese. Essenziale ma quasi impossibile.
Se questa finalità non sarà realizzata, gli Stati europei presenti su quello scacchiere formulino una proposta comune e la sostengano all´Onu e nella Nato.
Questa è la linea di Prodi e di D´Alema e su di essa l´Unione dovrebbe essere compatta se esiste ancora una logica.
* * *
Il tema della laicità fa parte delle carte identitarie della maggioranza di governo, senza eccezioni. Prodi e D´Alema l´hanno percepito e due giorni fa l´hanno riaffermato con forza riproponendo la questione delle convivenze di fatto.
Si parla del disegno di legge sulle convivenze come di un argomento «eticamente sensibile». E´ un errore. Il disegno di legge non pone problemi di etica ma di diritti civili. Non si obbliga nessuno a convivere senza e fuori dal matrimonio, bensì si tutelano alcuni diritti importanti soprattutto per i conviventi più deboli.
L´ipotesi di provvedere a questi diritti cambiando alcuni articoli del codice civile è campata in aria perché delle due l´una: o il codice acquisisce il concetto delle coppie di fatto e ne legifera i diritti «erga omnes» e allora non c´è differenza alcuna rispetto a un disegno di legge che finirebbe con l´essere un «testo unico» di alcuni articoli del codice; oppure la codificazione si limita a validare i contratti privati tra conviventi senza più disporne la validità rispetto ai terzi, e in tal caso la tutela dei diritti risulterebbe del tutto inefficace.
Naturalmente resta lo scoglio, per molti insuperabile, della legalizzazione delle coppie omosessuali. Problema serio perché affonda le sue radici nel costume, nei pregiudizi, nei tabù e comunque nella oggettiva constatazione che la coppia omosessuale non può generare e quindi è «imperfetta» rispetto ad una delle finalità essenziali di una coppia.
Questa obiezione è seria rispetto al costume, ma non giuridicamente. Se il regime di convivenza e i diritti che ne conseguono viene esteso, come i Dico prevedono, anche a coppie di sorelle e fratelli e zii e nipoti che sostengano vicendevolmente la vecchiaia e la solitudine dell´uno e dell´altro, non si vede perché lo stesso criterio non si possa estendere a coppie omosessuali.
Personalmente comunque non avrei messo nel disegno di legge sulle convivenze lo specifico richiamo agli omosessuali. Avrei parlato di convivenze di fatto senza alcun´altra specificazione e mi sarei rimesso, alle prime contestazioni, al giudizio determinante della Corte costituzionale. La nostra Costituzione vieta esplicitamente ogni discriminazione. Veda dunque la Corte se gli omosessuali possono essere discriminati; checché ne pensi e ne dica il senatore Andreotti, do per certo che la Corte impedirebbe l´esclusione e la discriminazione.
* * *
Questo giro d´orizzonte sull´andamento della politica italiana nei prossimi mesi e anni sarebbe incompleto se non si considerasse, sia pure in brevissima sintesi la nascita e il ruolo del partito democratico e quello della riforma della legge elettorale.
Il partito democratico si farà. In breve tempo. I motori hanno cominciato a girare e non credo si fermeranno.
Ci saranno scontri duri all´interno dei partiti; ci sarà mobilitazione di associazioni e società civile; ci saranno primarie negli ultimi congressi di partito e primarie alla nascita del Pd. Non sarà un percorso facile, ma nel 2008 quel nuovo partito riformista comincerà ad esistere.
Non sarà un partito moderato e neppure un partito rivoluzionario. Sarà un partito, appunto, democratico e riformista. Quindi il nuovo baricentro della politica italiana derivante dall´incontro tra liberal-socialisti e cattolici democratici.
Ricorderete che la Dc degasperiana e poi morotea si definiva un partito di centro che guardava a sinistra. Mi azzardo a dire che il partito democratico sarà un partito riformista che guarda verso il centro. Ma aggiungo: non verso partiti di centro, che non esistono e non esisteranno, ma verso gli elettori che si addensano al centro e che sono, in tutte le democrazie bipolari, l´obiettivo che le formazioni contrapposte si propongono di conquistare. A condizione di non perdere il contatto con gli elettori che stanno più a sinistra del riformismo e più a destra dei moderati.
Io non credo che ci sarà rottura e taglio delle ali.
L´ala sinistra non ha alcun interesse a mettersi fuori dal gioco politico e i riformisti dal canto loro non hanno interesse ad amputare la coalizione da essi guidata.
Del resto in Usa, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, le cose vanno a questo modo: due formazioni maggiori, due mezze ali (in Francia Bayrou è la tipica mezz´ala di Sarkozy) e gli elettori centristi come preda contesa e preziosa dei due schieramenti.
Una nuova legge elettorale dovrebbe dare evidenza e voce a questo progetto politico perciò – ha ragione Follini – viene dopo il disegno politico e non prima. Per recuperare l´interesse del corpo elettorale credo che si dovrebbe prevedere l´elezione diretta del premier e un premio di maggioranza in favore del vincente. Ma di questo ci sarà tempo per parlare.

venerdì 2 marzo 2007

Liberazione 17.2.07
Parla l’ambasciatore, autore di un libro sui rapporti tra Stato e cattolici
Romano: «La Chiesa è ingerente? Ha paura. Non è più maggioranza»
di Tonino Bucci


Intervista all’ambasciatore, autore di un libro sulla storia italiana e i rapporti tra lo Stato e le gerarchie vaticane.
«Oggi in Italia esiste una parte significativa della società che vuole una legge sulle coppie di fatto»
Sergio Romano: «La famiglia è cambiata. E la Chiesa si spaventa»

Coppie di fatto e Dico, ultimo anello di una catena. Prima c’è stata l’eutanasia, prima ancora la fecondazione assistita e le staminali, c’è stato un tempo in cui era la clonazione a far parlare le gerarchie vaticane. Sull’embrione no, l’attenzione non è mai calata e l’aborto è sempre un dente dolente per le sfere ecclesiastiche. E’ cambiato qualcosa negli ultimi decenni, le ingerenze clericali nella politica sono più forti che in passato? Oppure non dobbiamo stupirci più di tanto perché Stato e Chiesa, in Italia, hanno sempre avuto una storia tormentata, di conflitti e di compromessi, dal non expedit di Pio IX ai Patti Lateranensi, dalla nascita del partito popolare alle leggi sul divorzio e l’aborto. Questo rapporto a doppio segno tra cattolici e laici, a volte di guerra aperta, a volte invece di vera e propria sudditanza dei secondi rispetto ai primi, ha attraversato oltre un secolo. Sergio Romano ha studiato questa storia e in un suo libro ancora recente, Libera Chiesa. Libero Stato? , sosteneva che l’Italia è un paese anomalo nel quale coesistono, l’uno di fianco all’altro, due autorità, due governi, due poteri - l’uno spirituale, l’altro temporale - in potenziale concorrenza fraloro. L’ambasciatore non è uomo di sinistra, anzi. E’ un conservatore? Può essere ma di quelli che hanno il merito di raccontare le cose con realismo, senza infingimenti. La sua idea è che il nostro paese non sia mai stato a sufficienza liberale e che la Chiesa abbia spesso sconfinato nella vita politica, causa anche la debolezza altrui. E’ convinto, però, che l’offensiva delle gerarchie vaticane contro la legge sulle coppie di fatto, «c’è una minoranza significativa ormai che la vuole» - sia dovuta più che altro a debolezza. «La Chiesa ha paura», dice. Paura di non riuscire più a controllare la società italiana in via di trasformazione. Un contrappeso non c’è, in Italia manca una politica liberale che si limiti a dare regole a una società che le chiede. E dal suo punto di vista Romano lancia una frecciatina alla sinistra: crede a uno «Stato etico» ed «educatore», che indichi un modello di comportamento nella vita privata, sia pure alternativo. Gli si potrebbe obiettare, naturalmente, che i Dico - nella loro versione annacquata – servono invece a garantire la libertà degli individui di poter convivere come meglio credono senza obbligo di sottostare a modelli imposti dall’alto, religiosi o tradizionali che siano. Ma tant’è. Comunque a un primo sguardo il protagonismo della Chiesa nel dibattito pubblico sembra aumentato. Soprattutto per quel che riguarda temi da sempre considerati rilevanti per il messaggio cattolico: la nascita, la vita, la malattia, la morte, l’amore.
Ma davvero questi temi riguardano soltanto la sfera privata? Oppure riguardano la politica e quelli della Chiesa sono semplici sconfinamenti?
Non dimentichiamo che anche in altre epoche la Chiesa è intervenuta nella politica italiana. Le elezioni del 1948 videro da parte sua una partecipazione forte. L’organizzazioned dei comitati civici avvenne alll’interno dell’Azione cattolica. La Chiesa era presente e consapevole. Il clero delle parrocchie era attivo e impegnato. Ci fu addirittura il decreto di scomunica dei comunisti ad opera di Pio XII anche se non venne mai applicato per davvero. Insomma di sconfinamenti nella storia ce ne sono stati tanti. Però la situazione oggi è cambiata. Per due ragioni. La prima, è che la Chiesa ha paura. Aveva paura anche prima, nel 1948 c’era il pericolo comunista. Ma allora esisteva un alleato forte della Chiesa, gli Stati Uniti, con i quali aveva rapporti eccellenti. La Chiesa si sentiva il volto spirituale di un blocco contro la minaccia comunista. Oggi si sente più isolata perché l’Europa sta diventando sempre meno cristiana. Il cristianesimo come pratica devozionale sta diventando minoritario in tutto il continente. La scienza, lo sviluppo della società e le nuove tecnologie stanno mettendo in discussione i tre momenti fondamentali dell’esistenza, la nascita, la procreazione e la morte. Si può nascere morire e procreare in modo diverso da quello tradizionale e questo naturalmente preoccupa la Chiesa. Qualsiasi modifica dell’istituto familiare costituisce una minaccia a quello che è stato sempre il veicolo tradizionale per la trasmissione el messaggio cristiano. Quindi ha paura. La Chiesa è su posizioni difensive soprattutto in Europa. Altrove no, sta andando bene paradossalmente anche se sulla sua strada trova l’Islam che sta facendo grandi progressi.
La fine della Dc che mediava gli interessi della Chiesa con quelli generali della società non ha, paradossalmente, spinto il Vaticano a occuparsi di politica in prima persona?
Questa è la seconda ragione. La Chiesa interferisce oggi di più proprio perché non esiste la Democrazia Cristiana. Quando c’era la Dc sapeva che esisteva un partito cattolico con la sua identità politico-religiosa. Quel partito aveva responsabilità di governo e, nel contesto internazionale dell’epoca, non gli si poteva rendere la vita impossibile mettendolo di fronte a degli aut-aut. La Chiesa era costretta perciò a moderare le proprie richieste, a parte il fatto che in quegli anni non si ponevano problemi così traumatici per il Vaticano come quelli di oggi: eutanasia, clonazione, fecondazione assistita, unioni fra omosessuali... Quando il partito confessionale si è dissolto, tutti i laici in Italia hanno pensato che fosse una buona cosa. Ecco, lì ci siamo sbagliati alla grande. E’ avvenuto il contrario. Non abbiamo previsto che i cattolici si sarebbero sparsi su tutto l’arco politico e che la Chiesa avrebbe avuto più leve su cui manovrare. Liberata dalla responsabilità di dare retta al partito democratico cristiano la Chiesa si è sentita più libera. Teniamo poi conto che i papi non sono più italiani. Anche questo ha avuto il suo effetto. Le preoccupazioni erano tante, i papi erano presi anche da altre cose, anche se sono stati sempre attenti un retroterra territoriale in Italia.
Ratzinger è attento a quel che succede in Italia. Giovanni Paolo II guardava più al mondo?
Alla Polonia, soprattutto. Era assorbito dal suo paese. Mentre questo ultimo papa non si occupa della Germania. Aggiungiamo anche un sistema politico italiano fragile che è ancora in fase di transizione. La fragilità dell’uno è sempre la forza dell’altro.
Non sarà per questo che una buona parte della classe politica guarda alla Chiesa in cerca di modelli e valori assoluti?
La parola valore mi dà i brividi. Esistono nuclei conservatori che si oppongono ai cambiamenti di costume e delle nuove tecnologie e che rappresentano serbatoi di voti. Non è roba da buttar via. Che ci siano forze politiche che per non perdere consenso, si interessano a questa parte di elettorato sensibile alle parole d’ordine della Chiesa non mi sorprende.
Ma è poi vero che la Chiesa abbia ancora una presa maggioritaria sulla nostra società?
Chi può saperlo? Tenderei a dire che esiste una minoranza importante, una minoranza agissant direbbero i francesi, che agisce e che vuole decisamente questa legge sul “terzo matrimonio” di cui essa ritiene abbia bisogno la società italiana.

il Riformista 2.3.07
Affari. Si diffonde la pratica dei "Counselors"
Non mi sento bene, vado dal filosofo
di Livia Profeti


La filosofia cerca il suo sbocco professionale e si propone in Italia come “cura dell'anima”: la consulenza filosofica. Nata in Germania nel 1981 dalle conversazioni che il tedesco Achenbach intratteneva con i suoi ospiti, da qualche anno sta cercando di farsi strada anche in Italia.
La sua applicazione è ancora esigua, ma crescono divulgazione e formazione post-laurea. Il costo di tale formazione non sembra essere alla portata di tutti, anche se è difficile evincerlo tra l'insieme di convegni, corsi, master universitari e le molte associazioni private, che aspirano alla creazione di un albo professionale specifico. A titolo di esempio, se il seminario pomeridiano di un famoso maître à penser può richiedere anche 210 euro, il blasonato master biennale alla Ca' Foscari di Venezia ne costa 6.000, mentre ne sono sufficienti 1.500 per quello di Roma Tre, annuale.
Sono molti i filosofi noti che a diverso titolo e vicinanza sono entrati nell'orbita della consulenza filosofica: Vattimo, Volpi, Bodei, Natoli, Ferraris solo per citarne alcuni. Il suo vero nume tutelare è però Umberto Galimberti, che già nel 2003 sostenne il primato della filosofia sulla psicoterapia, ipotizzando su Repubblica che quest'ultima fosse nata solo a causa di una “diserzione” della prima. Già vicepresidente dell'associazione Phronesis e direttore scientifico del master veneziano, il filosofo svolge anche direttamente formazione e cura per Apogeo, una collana dedicata al fenomeno.
In un contesto di allarme mondiale sui disagi psichici in aumento, per Maurizio di Bartolo la consulenza filosofica cerca di occupare quella fetta di mercato «tra il lettino e il confessionale», uno spazio in espansione perché legato all'altrettanta crescente confusione tra sanità e malattia mentale, una differenza diventata “virtuale” (Golem L'Indispensabile n. 4/05). I problemi che i consulenti filosofici cercano di affrontare si sovrappongono infatti a quelli delle psicoterapie e psicoanalisi, ma i counselors rifiutano la definizione di terapia psichica e preferiscono parlare di cura dell'anima: un dialogo socratico che dovrebbe guidare il consultante alla comprensione, e quindi realizzazione, della propria “filosofia personale”.
Da un punto di vista teorico, se per Galimberti i nomi di riferimento sono quelli di Heidegger, Binswanger e Jaspers (La casa di psiche), secondo Pier Aldo Rovatti le idee fondamentali sono quelle del francese Foucault (La filosofia può curare?). Rovatti rivendica anche la prossimità della consulenza filosofica con le posizioni di Franco Basaglia, l'ispiratore della nostra legge del '78 sul trattamento della malattia mentale, tuttora in vigore. La querelle pare destinata ad una pacifica integrazione, anche perché sia Foucault che Basaglia hanno diversi debiti con le icone galimbertiane.
L'aria di famiglia si respira infatti nelle parole di Neri Pollastri, uno dei primi counselors italiani, membro fondatore di Phronesis, il quale assicura che nella consulenza filosofica non c'è alcuna terapia (parola detestata sia dal foucaultiano Rovatti che dal filo-fenomenologo Galimberti), perché «l'intervento efficace» non spetta al consulente, bensì alla persona stessa che deve essere lasciata libera di agire «secondo la propria filosofia personale».
Non solo in teoria quindi, ma anche nella prassi la consulenza filosofica mostra la sua parentela con l'heideggeriana daseinanalisi di Ludwing Binswanger. Anche il nume della psichiatria fenomenologica faceva infatti lunghe chiacchierate con i suoi pazienti e come i counselors non interveniva terapeuticamente, a volte però con esiti tragici. Lo storico Hirschmüller rivela infatti nel suo Ellen West: tre tentativi di cura e il loro fallimento (Il sogno della farfallan. 1/05) che nel '21 Binswanger “liberò” la paziente dalla sua clinica di Kreuzlingen anche se ben consapevole che ella si sarebbe suicidata, cosa che regolarmente avvenne. Anni dopo, nel '44, senza rimpiangere la decisione di allora, egli giustificò il suicidio della giovane donna, alla luce della daseinanalisi, come un atto di libertà e di “autentico” compimento della propria esistenza.
Il primo a sancire la superiorità della filosofia esistenziale sulle altre scienze umane fu proprio Martin Heidegger, che nel '27 scrisse in Essere e Tempo che essa veniva «prima di qualsiasi psicologia, antropologia, e, a maggior ragione, biologia». Da lì a 5 anni sarebbe diventato il primo rettore-Führer della storia del nazionalsocialismo. Ci sarà da domandarsi qualcosa?

l’Unità 2.3.07
SAGGI Un pamphlet di Luciano Canfora lo dimostra tra ricorsi e paralleli storici: dalle guerre del Peloponneso alla guerra in Iraq del 2002
«Esportare la libertà»? Da sempre un imbroglio a danno dei popoli
di Bruno Gravagnuolo


Che esportare la libertà fosse un mito destinato al fallimento lo sapeva bene Immanuel Kant, che pure era filosofo alieno dalla Realpolitik e dagli arcana imperii. Infatti nel 1795 nel suo celebre Per la pace perpetua, metteva in guardia da coloro che in nome della libertà, politica o di commercio, reclamavano il diritto a intervenire nelle vicende di altri stati. Mascheratura di interessi, diceva. Talché aggiungeva, col diritto di intervento umanitario occorreva andarci cauti. Sottoponendolo a tali e tante clausole di diritto cosmopolitico da renderlo quasi impossibile.
Sullo stesso tema arriva un breviario elegante e prezioso. Intitolato appunto: Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (Mondadori, pp. 104, euro12). Scritto da Luciano Canfora, grande filologo, erudito e saggista, protagonista l’anno passato della polemica con l’editore tedesco che censurò il suo La democrazia. Storia di un’ideologia (Laterza) bloccandone la pattuita pubblicazione. E a motivo di un suo presunto filo-stalinismo, nel discorrere di Stalin e Urss. In realtà Canfora, che è comunista non pentito, va letto per quello che è: un storico realpolitiker e controcorrente. Che ama far le bucce alla banalità del senso comune liberale. E con una vena da sottile controversista, proclive anche al caso indiziario. Come nel suo bel libro sull’esecuzione di Giovanni Gentile, trama multipla in cui entravano in gioco non solo gli esecutori materiali, ma altri attori di sfondo (fascisti, servizi inglesi).
Bene qual è il senso del volumetto? Nient’altro che « temprare lo scettro ai regnatori», come avrebbe detto il Foscolo «interprete» di Machiavelli. Vale a dire mostrare che l’esportazione della libertà è solo la proiezione ideologica e strategica della politica di potenza su larga scala. E scala gepolitica s’intende. Dalla grande guerra del Peloponneso(431-404) fino alle guerre irachena e afghana dei nostri giorni. Con incunaboli vari a riprova, quali l’appello motu proprio di Pio IX alla Francia contro la Repubblica romana, in favore della «vera libertà». Le guerre napoleoniche, il «grande gioco» inglese in Afganisthan, le occupazioni dell’Armata Rossa all’est dopo il 1945, le ribellioni regionali tra i blocchi dopo Jalta: Ungheria, Cile, Argentina. Su su sino all’ordine imperiale unipolare attuale: la «Pax» americana.
Tra paralleli e ricorsi storici, dipanati con abilità da Canfora, non solo si mostra che costringere i popoli alla libertà è contraddittorio. Ma anche che sempre la costrizione alla libertà e magari alla rivoluzione coincide con ben precisi assestamenti geopolitici di potenza.Vale per le campagne napoleoniche, benché in Europa abbiano i prodotto sussulti di rivoluzioni passive modernizzanti come scriveva Gramsci. Vale per l’imperialismo Usa: dalla dottrina Monroe all’arbitrato in medioriente. E vale per il dominio ex sovietico, che trasformò la rottura dell’Ottobre 1917 in un sistema egemonico guidato dallo stato guida (benché contestato dalla Cina). Qui Canfora non usa il termine «impero». E però in certi periodi vi fu anche sfruttamento dei «satelliti». Inoltre egli critica l’Urss per aver appoggiato illusoriamente le «borghesie nazionali», invece dei Pc nel mondo arretrato. Il che ha favorito il fondamentalismo. Eppure non per questo quel sistema crollò. Crollò semmai per costituiva incapacità autoriproduttiva. Per il primitivismo congenito di quel socialismo barbarico e giacobino. Costretto sin da subito a dominare brutalmente. Per sopravvivere ed espandersi.

l’Unità 2.3.07
LA MOSTRA A Palazzo Strozzi le opere dell’artista raccolte dai collezionisti Egisto Paolo Fabbri e Charles A. Loeser
Quando Cézanne era «di casa» a Firenze
di Gianni Caverni


Ci sarebbe da non crederci! Proprio a Firenze, città da tempo immemorabile piuttosto restia ad accogliere le novità, soprattutto in campo artistico, c’era, fra l’Ottocento e il Novecento, la più grande collezione di opere di Cézanne. Una cinquantina di pezzi messi insieme da due giovani e appassionati collezionisti americani venuti a vivere in riva all’Arno: Egisto Paolo Fabbri e Charles Alexander Loeser.
I Fabbri, emigrati negli Stati Uniti dove avevano messo insieme una straordinaria ricchezza, si trasferirono a Firenze nel 1885. Egisto Paolo aveva studiato pittura a New York, e continuò a farlo qui nello studio di Michele Gordigiani. Frequenti i suoi viaggi a Parigi dove alla fine si stabilì nel 1896 per tornare infine nel 1913. Mise insieme ben 32 dipinti del maestro di Aix, allora la più grande collezione d’Europa e di America.
Loeser comprò a Parigi i primi Cézanne nel 1896, ne raccolse 15 che affiancò alla collezione di disegni e di arte antica, si trasferì sulle colline fiorentine, vicino a Bernard Berenson che aveva conosciuto ad Harward. I protagonisti di questa mostra sono decisamente loro, la loro lungimiranza e la loro vitalità, testimoni di un’attenzione che doveva in qualche modo essere anche della città, almeno nelle sue componenti più colte e cosmopolite. Certo spesso quei quadri così poco «facili» dovevano suscitare qualche perplessità fra gli amici che frequentavano la loro casa, e, raccontò lo stesso Loeser, più di una riserva su Cézanne espresse sir Winston Churcill, più noto daltronde come statista che come pittore se pur dilettante.
Con questa mostra, curata da Francesca Bardazzi e Carlo Sisi e voluta dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, si inaugura la stagione espositiva della Fondazione Palazzo Strozzi. Tornano così a Firenze più di venti opere del maestro francese dopo che la collezione, soprattutto quella di Egisto Paolo Fabbri, era stata via via smantellata. Opere di altissima qualità come La signora Cézanne sulla poltrona rossa, Casa sulla Marna (che Loeser donò al Presidente degli Stati Uniti e che Jaqueline Kennedy volle nello studio giallo della Casa Bianca), Le bagnanti, l’autoritratto con berretto. Articolata in cinque sezioni, la mostra offre l’opportunità di vedere raccolte opere di grande suggestione: di Van Gogh Il giardiniere della Galleria d’arte moderna di Roma, di Matisse il piccolo ma straordinario Alberi presso Melun proveniente da Belgrado, di Sargent A Torre Galli, donne in un giardino da Londra. E poi alcuni bronzi, gessi e cere di Medardo Rosso, e ancora Fattori, Gordigiani, Soffici, Andreotti, Ghiglia, Rosai. Washington, New York, Londra, San Pietroburgo, Detroit sono alcune delle città dalle cui collezioni pubbliche e private provengono le opere. Oltre alla rinnovata limpida bellezza di Palazzo Strozzi, oltre alle opere di colui che giustamente è considerato il padre di tutta la pittura moderna, oltre alle opere degli artisti italiani e stranieri suoi contemporanei, si finisce per scoprire l’ottima qualità anche della pittura di Egisto Paolo Fabbri.

Repubblica 2.3.07
Si può scegliere come nascere?
La nuova polemica tra la chiesa e la scienza
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Il Papa ha di recente ammonito la ricerca ossessiva del "figlio perfetto"
In che modo l´intervento sulla natura umana può convivere con la nostra etica

È noto che Darwin trasse spunto, nel formulare la teoria della selezione naturale, dall´osservazione delle pratiche di incrocio fra animali domestici, che erano diffuse da millenni e venivano applicate metodicamente dagli allevatori del suo tempo, accoppiando gli esemplari migliori per ottenere vacche e cavalli, pecore e cani dotati delle qualità più desiderabili (la cosiddetta selezione artificiale). Nel 1883, un anno dopo la morte di Darwin, suo cugino Francis Galton, uno scienziato eclettico che aveva contribuito a più rami del sapere, suggerì che attraverso incroci opportuni sarebbe stato possibile migliorare la razza umana, al pari di qualunque razza animale, così da ottenere individui provvisti di eccellenti qualità fisiche e morali. Galton promosse un movimento d´opinione che battezzò con un neologismo tratto dal greco, "eugenica", cioè "di buona nascita".
Le idee di Galton ebbero vasta risonanza. L´Inghilterra vittoriana era ossessionata dal grande numero di emarginati e poveracci di cui la rivoluzione industriale aveva riempito le sue strade: analfabeti, accattoni, bevitori, imbecilli, delinquenti.
Soprattutto, i benpensanti si preoccupavano nel vedere questa classe di derelitti riprodursi più vigorosamente della classe media e della classe operaia. Nella totale ignoranza della distinzione fra ciò che è biologico (innato) e ciò che è culturale (appreso), tipica dei tempi, Galton sosteneva, in sostanza, l´opportunità di incoraggiare le persone più dotate a unirsi in matrimonio e proliferare, onde arricchire di queste doti le nuove generazioni. E ciò che oggi chiamiamo eugenica positiva. Le sue idee furono adottate dai socialisti fabiani, da cui sarebbe nato in quegli anni il partito laburista, nella convinzione di potere così riformare gradualmente la società migliorando la qualità dei suoi membri. «L´eugenica è l´autodeterminazione dell´evoluzione umana» recita un manifesto eugenista del 1921.
Oltreoceano, negli Stati Uniti, questo movimento avrebbe però preso un´altra strada. Sulla spinta di studi genealogici che mostravano come famiglie di malviventi avessero continuato a delinquere per generazioni, e nella convinzione che le tendenze criminali si ereditassero per via genetica, si affermò un movimento di eugenica negativa, volto cioè a impedire che gli individui ritenuti socialmente pericolosi o inutili generassero figli.
Le leggi che governano l´eredità, formulate da Gregor Mendel oltre trent´anni prima, furono riscoperte nel 1900, dando vita negli anni successivi ad un´intensa attività di ricerca volta a capire come si manifestavano in vari organismi, compreso l´uomo.
Un biologo americano, Charles Davenport, persuaso che qualsiasi caratteristica umana fosse inesorabilmente determinata dai geni, raccolse un numero enorme di genealogie, facendo di ogni erba un fascio e documentando la ricomparsa di tratti fisici o morali in successive generazioni, dando per scontato che le capacità musicali come la propensione alla violenza fossero tratti ereditari alla stessa stregua dell´albinismo o di malattie quali la corea di Huntington.
Oggi, con un secolo di ricerca genetica alle spalle, abbiamo ben chiaro come i tratti del comportamento siano fondamentalmente il prodotto dell´ambiente di crescita, dell´educazione ricevuta, delle scelte individuali, e come i geni abbiano sì una parte, ma sovente minoritaria, nel determinare queste caratteristiche. Ma ai tempi di Davenport, le sue conclusioni pseudoscientifiche incontrarono il favore di un vasto movimento di opinione, che già organizzava nelle fiere di paese concorsi per le "famiglie più adatte", accanto a quelli per tori, porcelli e cani, incoraggiando la riproduzione dei più sani e più virtuosi. In parallelo, si andava diffondendo la convinzione che in vista di una società migliore sarebbe stato meglio impedire agli asociali di riprodursi. Il movimento per l´eugenica si rivelò una lobby potente e nei primi decenni del secolo ben trenta stati americani promulgarono leggi di sterilizzazione coatta nei confronti di provati «criminali, idioti, stupratori e ritardati mentali». Al 1941, circa 60.000 persone erano state così sterilizzate, la metà nella sola California. Altri paesi seguirono l´esempio statunitense: la Germania nazista, la Svizzera e i paesi scandinavi.
I primi test sul quoziente di intelligenza avevano avuto vasta diffusione fin dal principio del secolo. Tenuti rigorosamente in inglese e applicati ad immigranti analfabeti, davano risultati catastrofici per chi proveniva dall´Europa meridionale come da ogni altra regione povera del mondo, rafforzando la convinzione che alcune "razze", come quella "mediterranea" e i neri africani, fossero geneticamente inferiori e "degenerate". La legge federale del 1924 che limitava severamente l´immigrazione di chi proveniva da tali paesi (Italia compresa) fu applaudita come il trionfo del movimento per l´eugenica. Applicando gli stessi criteri, il matrimonio fra bianchi e neri fu vietato in parecchi stati (in alcuni il divieto perdurò fino al tempo del movimento per i diritti civili del 1963).
Ma il vero trionfo dell´eugenica si sarebbe manifestato nella Germania nazista. Nel 1933, una legge decretava la sterilizzazione coatta di ogni individuo "inadatto alla propagazione", nelle parole di Hitler: 225.000 persone la subirono nell´arco di tre anni. Al tempo stesso, il regime incoraggiava gli ufficiali delle SS ad avere il maggior numero possibile di figli (naturalmente con donne di "pura razza ariana"). La categoria degli "inadatti" si sarebbe estesa, negli anni successivi, a comprendere criminali e comunisti, omosessuali e deficienti, ebrei e zingari. Una legge del 1936 vietava il matrimonio e ogni rapporto sessuale tra tedeschi ed ebrei. Dal 1939, l´eutanasia di chi "non merita di vivere" fu vista come una soluzione preferibile alla sterilizzazione (perché spendere per nutrire pazzi e carcerati, degenerati ed ebrei)? Si avviò la costruzione delle camere a gas.
Il grande massacro che ne seguì spiega perché l´eugenica sia screditata, come orientamento e come pratica, dalla fine della guerra in poi. Gli scienziati migliori l´avevano condannata senza mezzi termini fin dai tempi della sua prima affermazione. Alfred Russell Wallace, che aveva scoperto la selezione naturale contemporaneamente a Darwin, la definiva, nel 1912: «l´intrigante interferenza di arroganti pratiche scientifico-religiose». «Gli eugenisti ortodossi vanno in direzione opposta ai fatti più certi della scienza della genetica», scriveva Raymond Pearl nel 1928.
La genetica del dopoguerra ha riconosciuto l´importanza preponderante dell´ambiente di crescita e della trasmissione culturale nel plasmare i caratteri del comportamento, ma per la verità alle persone di buon senso doveva essere evidente già cent´anni fa che se è frequente che molti figli di industriali, di musicisti o di criminali continuino nella stessa attività, è prima di tutto perché crescono con i genitori. La genetica ha proposto una strategia alternativa, molto più umana dell´eugenica negativa, con cui non ha nulla a che fare: sottoporre a interruzione di gravidanza entro il terzo mese gli embrioni che darebbero origine a bambini affetti da malattie gravi e incurabili, un procedimento accettato dai Paesi più civili, fra i quali è compresa in questo caso, stranamente, anche l´Italia (grazie, Pannella!). Si evita così la nascita di futuri pazienti affetti da malattie incurabili (oggi, e - non facciamoci illusioni - per molto tempo ancora): vengono risparmiati i loro dolori e le gravi sofferenze dei famigliari. Ma il procedimento fa esattamente ciò che avrebbe fatto la selezione naturale, la grande madre della vita, perché quasi nessuno di questi pazienti si sarebbe riprodotto. Quindi non fa eugenica negativa. A una parte molto influente della Chiesa cattolica questo non è piaciuto e ha preferito stabilire che l´anima entra nel corpo con lo spermatozoo, facendo così di ogni aborto un omicidio.

Repubblica 2.3.07
Storia di un sapere che il nazismo utilizzò in chiave razzista
Quando l’eugenetica è diventata un tabù
di Francesco Cassata


Che cosa abbraccia. L’eugenetica non è solo la sterilizzazione obbligatoria, ma anche il controllo delle nascite e le campagne contro la talassemia

Nel dibattito pubblico italiano, tutta l´efficacia simbolica del discorso ostile alla biomedicina e alla genetica contemporanee deriva dall´impiego polemico e strumentale di connotazioni fortemente negative della parola "eugenica". Si tratti di fecondazione assistita, di clonazione umana terapeutica o di eutanasia, è sempre questa parola-tabù a comparire. E ad accompagnarla è sempre l´evocazione di uno spettro: quello dello sterminio nazista. La diagnosi preimpianto - per citare solo un esempio - sarebbe la "punta dell´iceberg", il primo passo in un "piano inclinato", che conduce necessariamente alla violenza del nazismo.
Dal punto di vista storiografico, un primo limite di tale reductio ad Hitlerum del concetto di eugenica consiste nell´assolutizzazione dell´esempio nazista, eretto a paradigma totalizzante di un´eugenica interpretata sostanzialmente come "pseudo-scienza razzista e antisemita". In realtà, ogni passaggio di questa argomentazione si rivela, agli occhi dello storico, superficiale e infondato. Innanzitutto, è difficile liquidare genericamente come "pseudo-scienza" quello che rimane un primo tentativo di approccio sperimentale al problema dell´eredità umana. Non solo molti fra i più importanti statistici, biologi e genetisti del novecento erano eugenisti (ad esempio, Ronald A. Fisher, Wilhelm Weinberg, Hermann J. Muller), ma anche numerose acquisizioni nel campo della genetica medica - si pensi soltanto al "metodo dei gemelli" - sono scaturite da ricerche di impronta eugenetica. Allo stesso modo, l´equivalenza fra eugenica e razzismo è altrettanto fallace. Nella Germania weimariana, la maggior parte degli eugenisti non era né razzista né antisemita: il termine Eugenik era stato appositamente coniato dagli ambienti scientifici berlinesi per sostituire la nozione di Rassenhygiene, largamente compromessa con i circoli bavaresi del razzismo völkisch. E l´influenza degli eugenisti "filo-ariani" non fu mai così debole come negli anni che precedettero l´affermazione politica del nazionalsocialismo. Non vi è dubbio che preoccupazioni classiste e razziste abbiano alimentato lo sviluppo dell´eugenica britannica e statunitense: se il bersaglio principale dell´Eugenics Education Society londinese era, infatti, il sottoproletariato (residuum o pauper class), ritenuto pericoloso per il suo basso livello intellettivo e la sua alta fertilità, negli Stati Uniti ad alimentare l´ideologia e la prassi eugenetica fu soprattutto l´incubo del "suicidio razziale" della nazione americana, prodotto dalle ondate di "plasma germinale difettoso" degli immigrati giunti dall´Europa dell´Est, dai Balcani, dall´Italia. Non a caso la legge restrittiva dell´immigrazione del 1924 - il Johnson-Reed Restriction Act - verrà elaborata con la consulenza di eugenisti statunitensi come Harry Laughlin e Charles B. Davenport.
Sarebbe, tuttavia, errato limitare l´eugenica agli orizzonti ideologici delle élite conservatrici. Con la sua progettualità modernizzatrice e la sua logica tecnocratica, il programma eugenetico attirò, infatti, le attenzioni, nella prima metà del Novecento, dei new liberal, dei fabiani britannici (si pensi a George Bernard Shaw o ai coniugi Webb), dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi, dei "progressisti" americani, dei radicali e comunisti francesi. Negli anni Trenta, biologi di orientamento marxista come Lancelot Hogben o John B. S. Haldane sostennero l´idea di un´eugenica "bolscevica": soltanto l´eliminazione delle disuguaglianze prodotte dal sistema capitalistico avrebbe consentito il pieno sviluppo delle potenzialità biologiche degli individui. Nello stesso periodo, l´interpretazione "razionale" della maternità suggerita dall´eugenica suscita gli entusiasmi dei movimenti neomalthusiani e dei gruppi femministi, alimentando le prime campagne per la depenalizzazione dell´aborto, per il controllo delle nascite, per l´educazione anticoncezionale delle donne: ben noti sono i nomi di Margaret Sanger e di Marie Stopes, paladine del birth control rispettivamente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
Non soltanto sul piano degli orientamenti ideologici, ma anche su quello delle politiche eugenetiche il quadro internazionale appare estremamente complesso e sfumato. A partire dai primi decenni del Novecento, infatti, all´eugenica "nordica", essenzialmente anglo-americana e tedesco-scandinava, contraddistinta da birth control, sterilizzazioni e certificati prematrimoniali obbligatori, si contrappone - in paesi come l´Italia, la Francia, il Belgio e diversi stati dell´America centro-meridionale - un´eugenica "latina", i cui precetti rientrano generalmente negli ambiti dell´assistenza materno-infantile, della medicina sociale preventiva, del natalismo demografico.
All´assolutizzazione del modello nazionalsocialista, l´uso pubblico del concetto di eugenica alterna paradossalmente la sua banalizzazione. I nazisti, in sostanza, non avrebbero inventato nulla: le democrazie statunitensi e scandinave non hanno anch´esse approvato delle leggi di sterilizzazione? L´analisi delle connessioni - pur esistenti e accuratamente studiate dagli storici - fra l´eugenica americana e quella nazista, lungi dall´aiutare a comprendere la complessa rete delle affinità e delle divergenze, viene invece invocata per sostenere un´identità: l´americanismo è un nazismo. Né miglior sorte tocca alle socialdemocrazie scandinave, le cui politiche eugenetiche, fortemente legate ai processi di elaborazione dei modelli locali di Welfare State, vengono anch´esse immediatamente assimilate alla Rassenhygiene tedesca. L´eugenica nazista, eretta in precedenza a categoria onnicomprensiva, si fa ora opaca: non molta strada separa così Adolf Hitler da Theodore Roosevelt, Heinrich Himmler da Gunnar Myrdal. Ad essere banalizzata è ovviamente la drammatica originalità storica - tanto qualitativa quanto quantitativa - dell´eugenica nazista: soltanto la legge sulla sterilizzazione del 14 luglio 1933 prevedeva, infatti, la coercizione e l´uso della violenza fisica contro i disabili; e nei primi quattro anni di applicazione, furono tra i 320 mila e i 400 mila i cittadini tedeschi sterilizzati in questo modo. E soltanto nella Germania nazista si giunse all´elaborazione di un programma di eutanasia (l´operazione T4) finalizzato all´assassinio di malati di mente, invalidi e anziani.
Alla luce di queste considerazioni, una messa a punto storiografica deve essere considerata come il primo passo verso il superamento dell´uso pubblico distorto del concetto di eugenica. E questo per due ragioni. Innanzitutto, per un necessario dovere di obiettività: nel nome dell´eugenica molte teorie e politiche differenti sono state formulate e realizzate. L´eugenica non è soltanto Madison Grant o Josef Mengele, ma anche Julian Huxley o Havelock Ellis; non è soltanto la sterilizzazione obbligatoria, ma anche il controllo delle nascite, il free love, le campagne anti talassemia.
In secondo luogo, perché la complessità storiografica può far luce sull´ambiguità semantica attuale della parola "eugenica". Una delle principali sorgenti delle convulse discussioni sul problema dell´eugenica scaturisce, infatti, proprio dal fatto che gli interlocutori, nel loro uso del termine, non cessano di oscillare tra l´accezione più larga (una coppia sogna di avere bambini privi di gravi anomalie) e quella più ristretta (uno Stato attua un programma esplicito di azione eugenetica). La riflessione storiografica sull´eugenica può in tal senso favorire, nell´ottica del presente, una ridefinizione semantica del concetto, incentrata sulla distinzione fra le due diverse accezioni in gioco: da un lato, un significato forte, che interpreta l´eugenica come il progetto di miglioramento dei caratteri genetici di una popolazione, attuato da uno Stato per mezzo di provvedimenti coercitivi; dall´altro, un significato debole, che identifica, invece, le pratiche selettive della genetica contemporanea basate sul rispetto dell´etica medica e dell´autonomia riproduttiva dell´individuo. Soltanto attraverso una precisa distinzione fra i due significati, storiograficamente fondata, la parola "eugenica" potrà conservare ancora un qualche senso nel dibattito pubblico italiano, cessando di essere un mero strumento di delegittimazione del nemico ideologico.

Repubblica 2.3.07
Un nuovo fronte di discussione bioetica
Dove comincia la vita umana
di Michele Aramini


Paralleli. Interferire sulle nascite è un po’ come scartare tutti quei prodotti industriali che si ritengono difettosi

L´intervento di Benedetto XVI ai membri della Pontificia Accademia Pro Vita, di qualche giorno, fa ha aperto un nuovo fronte di discussione bioetica. Il Papa ha detto che: «nei Paesi più sviluppati cresce l´interesse per la ricerca biotecnologica più raffinata, per instaurare sottili ed estese metodiche di eugenismo fino alla ricerca ossessiva del "figlio perfetto", con la diffusione della procreazione artificiale e di varie forme di diagnosi tendenti ad assicurarne la selezione. Una nuova ondata di eugenetica discriminatoria trova consensi in nome del presunto benessere degli individui». L´eugenismo è una realtà sempre più diffusa e il Papa invita a sottoporlo a riflessione critica.
La crescita di pratiche selettive nei confronti degli embrioni non è per nulla un fatto casuale. Da tempo ormai N. Agar nel suo saggio Liberal eugenetic ha proposto un "manifesto" che teorizza una nuova eugenetica: «Se precettori specializzati, programmi di training, persino la somministrazione dell´ormone della crescita per aumentare di qualche pollice la statura, rientrano nell´ambito discrezionale con cui i genitori allevano i figli, perché mai sarebbe meno legittimo un intervento genetico teso a migliorare i normali caratteri della prole?».
Si parla di nuova eugenetica perché si vorrebbe marcare una distanza rispetto alla vecchia eugenetica di stampo darwiniana e poi nazista. Si dovrebbe ricordare infatti il movimento culturale anglosassone derivato dalle teorie di Darwin, che perseguiva due obiettivi: l´eugenetica positiva, consistente nell´aumento dei soggetti particolarmente "validi" e l´eugenetica negativa, consistente nella limitazione della capacità riproduttiva dei soggetti non adatti attraverso la sterilizzazione. Il nazismo poi realizzerà questo secondo obiettivo con il programma di eliminazione fisica di queste persone.
La nuova eugenetica ha gli stessi obiettivi della precedente, ma si differenzia per il fatto che li persegue con tecniche più raffinate, ed è figlia della predominanza del modello economico di considerazione dell´uomo. Questo modello economicistico è così tanto diffuso da sembrare ai più del tutto ovvio. Con l´eccezione della Chiesa Cattolica, delle altre grandi voci religiose e di pochi anche se qualificati filosofi (Habermas, Spaemann, ecc.), sembra che non ci sia sufficiente spirito critico per respingerlo. Questo modello chiede che all´uomo si applichi lo stesso modello di valutazione che si usa per i prodotti industriali. È noto che i prodotti difettosi si debbono scartare. Ma non basta scartare, occorre pure vincere la gara per la qualità totale (Toyota docet). Perciò trovano giustificazione le tecniche per diagnosticare, eliminare embrioni e si propone ovviamente anche la rimodulazione del Dna.
A dare manforte all´idea di uomo-prodotto si aggiungono i vari "figli" dell´economia: il pensiero debole, pronto a giustificare e supportare ogni desiderio di gratificazione degli adulti; il nichilismo neopagano che ha sempre nostalgia del potere arbitrario sull´uomo.
Infine lo scivolamento verso l´eugenismo viene aiutato dalla diminuzione dei costi soggettivi delle pratiche eugenetiche. Essi sono in costante diminuzione, in particolare nel momento in cui all´eliminazione dei neonati handicappati ed allo stretto controllo forzoso sugli accoppiamenti subentra la sterilizzazione chimica o chirurgica dei ritardi gravi; l´anamnesi prematrimoniale in chiave mendeliana; la diagnosi prenatale e lo screening genetico; la fecondazione artificiale e la manipolazione diretta sul Dna dei gameti umani. Questi ultimi interventi suscitano la naturale empatia nei confronti dei soggetti coinvolti, al punto da renderne imbarazzante il rifiuto, anche se fosse motivato dai valori umanitari ed individualisti a cui si riferiscono gli stessi che li vogliono realizzare. In altre parole, come si fa a rinunciare a un uomo "migliore", anche se per averlo dobbiamo violare la sua autonomia?
La "serena" realizzazione del progetto eugenetico richiede poi che si attui una modificazione del linguaggio, in modo da escludere dall´umanità coloro su cui si vuole sperimentare, fino alla eventuale distruzione. Così abbiamo la distinzione insostenibile tra essere umano e persona umana proposta da Singer. I diritti, compreso quello alla vita, vanno riservati alla persona umana capace di vita relazionale e vita mentale superiore. Ovviamente l´embrione umano è classificato solo come un essere umano privo di qualsiasi diritto, anche di quello elementare di vivere. La distinzione, pur insostenibile filosoficamente, è così comoda che pochi sono disposti a rinunciarvi.
In tal modo diventa facile eliminare, secondo la logica dell´eugenetica negativa, i geni malati attraverso l´eliminazione degli embrioni, portatori della tara genetica.
Dal punto di vista morale (solo cattolica o universale?), va ribadita la condanna di tutte le pratiche uccisive degli embrioni. Viene addotta la giustificazione che vengono distrutti in nome della qualità della vita. Ma non esiste alcuna qualità dove non c´è la vita. In realtà si tratta di una violazione della pari dignità di ogni vita umana, fatta in nome di quella riduzione di uomo a prodotto di cui parlavamo e per la quale un prodotto non perfetto si butta via.
Anche per quanto riguarda l´eugenetica positiva e gli studi che intendono modificare il Dna dei gameti, in modo da avere soggetti con specifiche caratteristiche, siamo nel campo dell´illiceità morale. Infatti con l´alterazione del patrimonio genetico si viola il principio di uguaglianza tra gli uomini.
Su questo aspetto la riflessione filosofica ha posto qualche domanda rilevante: abbiamo il diritto di interferire nella vita degli altri? Non si tratta di una indebita violazione dell´autonomia personale di chi deve nascere? Inoltre, in base a quale criterio si può costringere un essere umano a subire un modello impostogli da un altro? Non si tratta forse di arbitrio ingiustificabile?
Domande superflue nell´ottica del mercato. Scegliere un prodotto di consumo non è un male. Per qualcuno, forse per molti, scegliere un figlio con determinate caratteristiche comincia a somigliare alla scelta di un prodotto.
Si potrà ancora invertire la rotta? Si, se riusciamo a recuperare l´idea che generare un figlio è la cosa più profondamente umana che è data su questa terra. E che la tecnologia più sofisticata deve essere usata per curare e non per eliminare gli esseri umani.

Corriere della Sera 2.3.07
Coppie gay, è bufera contro Andreotti
Il senatore: «Sono all'antica, le unioni le vedo solo tra un uomo e una donna». E tra le righe evoca l'equazione omosessuale-pedofilo


ROMA — Per l'ex senatore comunista Emanuele Macaluso «Giulio Andreotti è rimasto agli anni Sessanta: allora persino il matrimonio civile era considerato concubinato dalla Chiesa... Oggi non riesce a comprendere dove va la società». Il senatore a vita non nega: «Sono all'antica e le unioni le vedo solo tra un uomo e una donna». La polemica sui Dico divide ora il mondo politico tra omofobi e omofili. Non è più soltanto una battaglia ideologica sulla famiglia o uno scontro giuridico sulle tutele per le coppie non sposate.
A scatenare la bagarre sui gay è stato Giulio Andreotti che ha preso il testimone dello schieramento anti-Dico. Al «Messaggero» ieri ha evocato, tra battute degne del miglior Berlusconi («Noi abbiamo sudato lacrime e sangue per fare la riforma agraria e dare la terra ai contadini. Invece, oggi, vogliono dare il contadino al contadino»), anche il rischio che l'omosessualità porti anche alla pedofilia: «Ora capisco perché mia madre da ragazzino non voleva mandarmi al cinema. Temeva facessi brutti incontri, perfino in quel cinemetto in via dei Prefetti, dove ti davano anche la merenda».
Nel centrosinistra la replica è affidata all'ex presidente dell'Arcigay Franco Grillini («E' omofobo») e ai radicali. Per il resto, «per salvare il governo» dice Macaluso, nessuno attacca. «Non accetto che si finisca con l'equazione no ai Dico no ai gay - protesta Giulia Bongiorno, deputata di An, ma molto vicina ad Andreotti - Io sono per superare le discriminazioni e non ho pregiudiziali contro gli omosessuali, però penso che i Dico siano giuridicamente sbagliati perché servono solo a fare una battaglia ideologica». La pregiudiziale sui gay spacca anche l'Udc. Luca Volontè interviene per spiegare che «i fondatori della psicologia moderna descrivono l'omosessualità come patologia clinica», mentre Francesco D'Onofrio ritiene che la battaglia anti-Dico non debba essere basata sulla questione omosessuale: «Sono irritatissimo che passi l'equazione che i cattolici sono naturalmente omofobici e i laici filogay».
G. Fre.

Liberazione 2.3.07
Giordano: «Una crisi per impedire la partecipazione. Il Prc riparte da lì»

Intervista al segretario di Rifondazione comunista: «No ad una legge elettorale che cancelli le forze politiche, ma neanche una via refrendaria per la nascita di nuovi soggetti politici». Oggi alla Camera il voto di fiducia al governo Prodi

A Caserta - chi ricorda quel vertice? - si disse che aveva vinto la sinistra dell'Unione. Col «sì» alla base di Vicenza, poi, si scrisse tutto il contrario: che la sinistra aveva perso. E adesso? Insomma, Rifondazione è più forte o più debole dopo la fiducia al Senato? Franco Giordano è nel suo ufficio a Viale del Policlinico. La domanda non gli piace. «Scusa se lo dico ma è molto riduttivo mettere così la questione. Perché è una domanda che ci costringe sempre dentro l'annosa querelle del rapporto fra le due sinistre. Antagonisti contro moderati. E' un criterio che ci impedisce però di capire quel che è accaduto».
Perché, cosa è accaduto?
La verità è che tutta l'Unione ha subito una battuta di arresto. Mi chiedi cosa è successo? In due parole: proprio mentre la maggioranza produceva il massimo di innovazione sulla politica internazionale, cercando e trovando una sintonia col proprio popolo, col movimento pacifista, curiosamente ci siamo accorti che nel «Palazzo» non c'erano i numeri.
I numeri non ci sarebbero stati comunque. Anche con i due sentori dissidenti.
E io non ho mai detto che tutto questo è avvenuto perché due senatori hanno scelto la strada dell'isolamento, la strada solitaria che li ha portati ad abbandonare un percorso comune. Però quel comportamento ha reso invisibili le reali intenzioni di chi ha messo in minoranza il governo. Ha impedito di leggere immediatamente quel che si giocava su quel voto.
E cioè?
In aula abbiamo misurato il peso delle resistenze a quel processo di innovazione.
Ora si ricomincia. Come?
Fra le tante cose che ha detto Prodi una cosa mi ha colpito: la sua insistenza sulla collegialità della coalizione, sulla maggiore compattezza. E anche, lasciamelo dire, la sua insistenza nel rapporto diverso che vuole stabilire col nostro popolo.
Parli spesso di popolo dell'Unione. Ma in realtà un po' tutti gli analisti dicono che questo governo da tempo è in calo di consensi. Non è la tua impressione?
Anch'io ho visto le difficoltà di questi mesi. Ma in questi giorni ho visto anche come quelle stesse persone ci hanno chiesto - e con che forza - di continuare l'esperienza del governo Prodi. E attenzione: non ce l'hanno chiesto per ragioni di "emergenza democratica". Non c'è solo la paura che torni Berlusconi. Le nostre persone ci chiedono una cosa semplice: che quella straordinaria stagione che abbiamo chiamato dei movimenti, quella che ha permesso di sconfiggere le destre, vada fino in fondo. Arrivi a compimento, insomma.
Tu dici che il paese reale più che la politica ha salvato Prodi? E' così?
Io dico che Prodi ha sollecitato quello che m'è sembrata una vera e propria irruzione del sociale nella politica. Ha parlato di povertà, di precarietà, ha parlato di pensioni minime, di valori ambientali. Ha parlato della casa, delle case che mancano. Ha parlato di pace, di rispetto della Costituzione.
Ha parlato anche di riforma elettorale.
Noi dirigenti politici siamo accusati spesso di non essere molto chiari. Io, invece, lo voglio essere. E ti dico che siamo consapevoli, come tutti, delle difficoltà determinate da questa brutta legge elettorale, alla quale ci siamo opposti. Non è un mistero che siamo a favore d'un sistema proporzionale alla tedesca. Certo, so anche bene che siamo parte di un'aggregazione composita, per cui dovremo arrivare ad un accordo che tenga insieme due esigenze. Il rispetto della rappresentanza e l'attenzione all'efficacia dell'azione di governo. Ma una cosa deve essere chiara: che ci opporremo a qualsiasi tentativo di cancellazione delle forze politiche.
Insomma, Rifondazione non ci sta alle spinte ipermaggioritarie?
Tutti dovremmo imparare dalla lezione che ci viene dall'ultima legge. Una legge fatta su misura per qualcuno, fatta da metà del Parlamento contro l'altra. Insomma, la prossima riforma elettorale non potrà essere fatta per interessi privati.
Che vuol dire?
Che non si può fare una riforma per far nascere nuovi soggetti politici. Inventandosi, magari, una via referendaria ai nuovi partiti. Ecco, questo sarebbe inaccettabile.
Il concetto è chiaro. Ma questo, al di là della riforma elettorale, questo che significa? Che Rifondazione non si sente più nell'angolo? Che ha ancora la forza di porre i suoi temi?
Io sono convinto che chi ha provocato la crisi avesse come obiettivo prioritario quello che chiamiamo modello partecipativo. Un'idea della politica, insomma, aperta alla società, ai movimenti. Quella che tenacemente abbiamo provato ad imporre. Su questo però non possiamo in alcun modo farci intimidire. Dobbiamo insistere. E' il nostro compito, il nostro obiettivo. Dobbiamo far entrare dentro l'Unione i temi sociali.
Dentro l'Unione, insisti. Dentro le scelte del governo Prodi. Parli come se sapessi che questo governo duri a lungo. Invece molti già disegnano scenari futuri, con altre maggioranze.
Per noi, invece, non ci sono alternative a questa coalizione. E credo che qualsiasi tentativo di governo istituzionale o di larghe intese farebbe solo tornare indietro le lancette dell'orologio sociale. Oltre che essere devastante dal punto di vista democratico.
Ma se così è, se a Prodi non c'è alternativa, che fine faranno i "dico"?
L'iter parlamentare è avviato. E Rifondazione si batterà con tutte le sue forze per la loro approvazione. Con una annotazione.
Quale?
Che molti osservatori ci invitano ad approdare al tema della modernità. Loro con questa parola intendono altro - politiche economiche e sociali regressive - però questo ci dicono. Bene, mi chiedo: è concepibile che ci chiede di diventare moderni poi cancelli dal linguaggio della politica il tema dei diritti civili? Chi è che si deve modernizzare?
Ancora. Molti sostengono che comunque dopo una fiducia con Follini questo governo s'è spostato al centro...
Una lettura davvero troppo semplicistica. Che resta sempre dentro l'autonomia della politica. Come se un senatore - che ha un progetto diverso dal mio ma di cui ho sempre apprezzato il suo ancoraggio ai valori democratici - come se un senatore, dicevo, spostasse equilibri. Che dipendono, invece, dai movimenti, dai conflitti, dal sociale.
Comunque, molti lo sostengono. E fra questi, Diliberto, che dice: Prodi si sposta al centro, uniamo tutta la sinistra per compensare questo scivolamento.
Io credo che debba essere accolto bene qualsiasi cosa che vada nella direzione di sgombrare gli elementi competitivi fra le forze della sinistra. E' importante. Ma insisto a costo di sembrare monotematico: sono convinto che le novità non si giocano nel rapporto fra stati maggiori. Ma nel rapporto fra politica e società, fra politica e movimenti. Ecco come immagino una nuova dialettica a sinistra.
E' più o meno quel che sollecitava l'intervista a Liberazione del Presidente della Camera, no?
La condivido integralmente. E non c'è dubbio che Bertinotti scarti ogni ipotesi di semplificazione organizzativistica, eviti con cura ogni semplificazione legate a nuovi contenitori. O a modelli che siano la semplice somma di quel che c'è. No, Fausto ci ha chiesto un'altra cosa: di promuovere una vera e propria offensiva culturale, a cominciare proprio da quale idea abbiamo del socialismo. Una discussione a tutto campo, capace di incalzare tutta la sinistra, anche quella tradizionale. Vogliamo discutere, insomma, sottraendoci ai limiti imposti dalle vicende politiche di tutti i giorni. Questo per noi è la costruzione della Sinistra europea.
C'è chi ragiona in un altro modo. E vede un legame fra progetti e contingenza politica. «Europa», per esempio, il giornale di Rutelli, scrive che il partito democratico va fatto prima del previsto perché c'è il rischio che Prodi cada. E una crisi senza partito riformista sarebbe pericolosa. Come commenti?
Che non sono d'accordo. Soprattutto sulla filosofia che c'è dietro queste parole. Può dirle solo chi tende a far coincidere nuovi soggetti politici con l'idea del governo. Ma non credo che sia la strada giusta. Un partito, una formazione si costruisce con un'idea del mondo, con una percezione, un angolo di visuale della società. Questo è il nostro metodo.
L'ultima cosa. La crisi, la sua nascita e la sua conclusione, come la racconti tu è molto diversa dalla crisi raccontata in questi giorni dai quotidiani. Dai grandi quotidiani nazionali. Che idea ti sei fatta dei media in questo passaggio?
Non credo di dire nulla di originale se spiego che i media, i grandi quotidiani registrano soggettività politiche precise. Quelle di chi, da tempo, chiede di ridimensionare il nostro ruolo, il nostro peso. Ci hanno provato anche stavolta, mi pare evidente. Ma - come dire? - Rifondazione ha davvero la pelle dura.
Stefano Bocconetti (venerdì 2 marzo)