mercoledì 7 marzo 2007

Repubblica 7.3.07
L’intervista. Il segretario Giordano: bisogna aprire una trattativa per liberare Mastrogiacomo con tutti i mezzi possibili
"Rifondazione non cambia linea ma ora si faccia la conferenza di pace"
di Umberto Rosso


Noi e l’Afghanistan. Al nostro governo va dato atto di aver assunto un atteggiamento autonomo. Anche quando ha respinto la richiesta della Nato di un ulteriore invio di uomini e mezzi
Il Prc compatto. Fra di noi esistono differenze che abbiamo affrontato e discuteremo ancora. Ma al momento della votazione tutti e 26 i senatori del Prc voteranno compatti il sì

ROMA - «Il nostro voto sulla missione non cambia. Cambia, deve cambiare l´intervento diplomatico in Afghanistan: bisogna fare presto con la conferenza internazionale di pace».
Segretario Giordano, Kabul è teatro feroce di guerra.
«Purtroppo i nostri timori erano fondati, e se fosse dipeso soltanto da noi non avremmo mai mandato laggiù i nostri militari. E in queste ore voglio esprimere anche tutta la solidarietà e l´affetto alla famiglia del giornalista Daniele Mastrogiacomo e ai suoi colleghi. Dobbiamo aprire una trattativa per salvare una vita umana, con tutti i mezzi possibili, mettendo in campo tutte le risorse diplomatiche e di intelligence. E´ una strada che Rifondazione, anche con il governo precedente, ha sempre privilegiato: in primo luogo la salvezza degli ostaggi».
L´escalation della violenza in Afghanistan spinge a rimettere in discussione la presenza italiana?
«Dobbiamo investire su un cambio radicale di strategia. La conferenza internazionale di pace - che le destre hanno osteggiato, bocciandola come irrealistica, irrealizzabile - sta diventando l´unico strumento per invertire la rotta, per supplire ad una replica del conflitto bellico. Dobbiamo mettere in campo la diplomazia, coinvolgendo quando più paesi possibile».
Senza la partecipazione dei talebani però rischia di contare poco.
«Ci sono paesi, come il Pakistan, la Siria, l´Iran che vanno coinvolti e con un ruolo di primo piano nella conferenza. Lo stesso presidente Karzai, all´inizio freddo, si è convinto. E il governo italiano, sta perseguendo questa soluzione via via con sempre più forza».
D´Alema chiede di far luce sugli ultimi raid degli Usa sui civili. Una richiesta sufficiente?
«Il bombardamento delle popolazioni civili, le stragi efferate non sono altro che un´istigazione alla guerra come strumento di deterrenza. Non fanno altro che fornire un ulteriore base di massa alle tensioni che già esistono. Non è anti-americanismo, il nostro. E´ il no alla guerra preventiva di Bush. Al governo va dato atto di aver assunto un atteggiamento che si può riassumere in una sola parola: autonomia. Anche quando ha respinto la richiesta della Nato di un ulteriore invio di uomini e mezzi».
Vale anche a futura memoria?
«Certo. Il richiamo all´articolo 11 della Costituzione ci impedisce di accettare certe richieste. E voglio dire che sulle scelte ha molto inciso il movimento pacifista, finito invece ogni volta sotto pressione, come dimostra la lettera scritta dai sei ambasciatori al nostro governo sulla permanenza in Afghanistan».
L´exit strategy da Kabul che fine ha fatto?
«Non mi chiedete una cosa che fa parte del nostro dna, è nelle nostre corde, alla guerra in Afghanistan noi non avremmo mai preso parte».
E quindi, segretario?
«Oggi investiamo sulla conferenza di pace. E anche su altro. Come l´aumento della cooperazione civile, e delle risorse per dare a quel paese la possibilità di affrontare le grandi difficoltà economiche e sociali. Per arrivare ad una stabilizzazione politica. Un passo avanti significativo anche la riconversione dell´oppio a fini sanitari, come ha chiesto la stessa Organizzazione mondiale della sanità».
In Senato l´Unione corre nuovi pericoli, sul decreto?
«Non credo che ci saranno problemi sul voto».
Nessun problema nemmeno all´interno di Rifondazione, dopo l´escalation della guerra?
«Fra di noi esistono differenze, è noto, che abbiamo affrontato e discuteremo ancora. Ma al momento della votazione tutti e 26 i senatori di Rifondazione voteranno in maniera compatta».
Escluso Turigliatto, espulso dal gruppo.
«Naturalmente».
E la tentazione di rispondere al divampare dello scontro con una risposta militare più dura?
«Sarebbe un tragico errore. Che, oltre a determinare ulteriori tensioni, non risolverebbe nulla».
I soldati italiani corrono intanto pericoli ancora più gravi.
«A loro va tutta la nostra solidarietà, agli uomini che rischiano la vita dobbiamo far sentire il nostro calore e il nostro appoggio».

Repubblica 7.3.07
Roma, per i magistrati il medico che interruppe la ventilazione meccanica non commise alcun reato: non fu la sedazione a farlo morire
"Welby, staccare la spina era suo diritto"
La procura: lo dice la Costituzione. "Guarigione impossibile, caso da archiviare"
di Elsa Vinci


ROMA - Nessun reato. «L´interruzione della ventilazione meccanica ha realizzato la volontà di Welby in esplicazione di un diritto che gli spettava». E che trova «fonte nella Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall´ordinamento italiano e ribadite nel codice di deontologia medica». La procura di Roma chiede l´archiviazione del fascicolo aperto subito dopo la morte assistita di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, immobile da anni, senza più sogni né desideri, se non di smettere di soffrire. Nessun reato: l´anestesista Mario Riccio, che ha sedato il paziente e poi ha staccato il ventilatore polmonare, già assolto dall´ordine dei medici di Cremona, viene adesso prosciolto dal procuratore della Repubblica, Giovanni Ferrara. «Nessun addebito a chi, in presenza di una impossibilità fisica del paziente, abbia materialmente operato il distacco dal ventilatore. In quanto l´azione ha dato effettività a quel diritto del malato e quindi non può essere ritenuta contra legem».
Il provvedimento ricostruisce la storia che commosso l´Italia, gli ultimi istanti di vita di Piergiorgio Welby. «Non solo cosciente, ma liberamente determinato a non continuare la cura, perché consapevole dell´impossibilità della guarigione o anche solo di un miglioramento o dell´attenuazione della sofferenza». Tanto che alla procura «non sembra nemmeno adeguato parlare di riconoscimento di un incondizionato libero arbitrio». Nella richiesta di archiviazione sulla quale si pronuncerà il gup, si afferma che «si era di fronte a situazione ove le cure erano palesemente inutili». E, dunque, non appare «censurabile il comportamento del medico».
La decisione del pm è arrivata dopo l´esame di una perizia tossicologica affidata a un collegio di consulenti, che hanno concluso: la sedazione non ha ucciso. «Non ha determinato nemmeno un acceleramento dell´evento, che è sopravvenuto per causa naturale». Welby si è spento da solo. «L´irreversibile insufficienza respiratoria che ha condotto al decesso - scrive la procura - è da attribuire unicamente alla sua impossibilità di ventilare in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare». I fatti si sono svolti esattamente come li aveva raccontati alla Digos il dottor Riccio: «Ho provveduto, alla presenza di più persone e in adesione alle richieste di Welby alla sedazione e al contestuale distacco del ventilatore automatico». La morte è arrivata in 45 minuti. Ogni passaggio è stato riportato in un diario clinico firmato dallo stesso medico e da chi era presente in quel momento, la moglie e la sorella di Welby, i radicali Marco Pannella e Marco Cappato.
«Nel caso di specie, può affermarsi che sussistesse il diritto del paziente a non sottoporsi a trattamenti medici indesiderati». Secondo il pm non è sostenibile che «un siffatto diritto costituzionalmente tutelato troverebbe limite nelle superiori esigenze di salvaguardia della vita umana che nel nostro ordinamento costituisce un diritto inviolabile». Dunque, si conclude: «Deve ritenersi che il diritto fondamentale a rifiutare il trattamento medico vale di regola senza esclusioni e quindi anche con riferimento a terapie di cosiddetto sostegno vitale, che non potranno essere imposte con la forza a un soggetto dissenziente e nemmeno proseguite contro la sua volontà».

Repubblica 7.3.07
Mario Riccio, l´anestesista: ho avuto paura ma sapevo di essere nel giusto
"Mai pensato di violare la legge ora altri non soffriranno come lui"


Norme. Non amo infrangere le norme, mi batto per cambiarle
Verità. È un bene che i pm abbiano indagato e chiarito tutto

ROMA - «Ho avuto molti timori anche se ero convinto di essere nel giusto, di aver agito all´interno della legalità», dice Mario Riccio, il medico anestesista per il quale è stata chiesta l´archiviazione.
Se la richiesta della procura sarà accolta, dopo il proscioglimento dell´ordine dei medici, arriverà anche quello della giustizia ordinaria.
«Mentre sedavo Piero, mentre gli staccavo il respiratore ero sicuro di fare qualcosa di permesso dalla legge ma esserne convinto e avere la certezza di non finire sott´accusa è tutta un´altra cosa. Io sono infatti contrario ad infrangere le leggi, le norme casomai vanno cambiate».
E Welby?
«Sono felice soprattutto per Piero che era una persona molto forte. È lui oggi l´eroe, quello che trova risposta dai magistrati. Non è morto inutilmente, ma si è sacrificato con la sua lotta perché altri non soffrissero come lui, per stabilire un diritto che alcuni parevano aver dimenticato».
Principi già esistenti per legge, ha sottolineato la procura.
«Sì, la notizia, per assurdo, è che in realtà non c´è notizia. La procura ha stabilito il diritto di rifiutare le cure, tutte le cure, anche quelle salvavita. Ha stabilito la possibilità di revocare il consenso. Tutti principi secondo me previsti nella Costituzione, nella Convenzione di Oviedo e nel codice deontologico dei medici».
Ora?
«Sono contento che i magistrati abbiano aperto una fascicolo perché altrimenti qualcuno avrebbe sempre potuto dire è stato un assassini o eutanasia. In questo paese c´è una lunga confusione voluta tra eutanasia e diritto a rifiutare le cure perché l´Italia è secondo me un paese arretrato dal punto si vista del dibattito etico».
(c.p.)

Repubblica 7.3.07
Il nuovo libro di Emilio Gentile sul dopo 11 settembre
Gli Stati Uniti sotto le ali di Dio
Come Bush assurto al ruolo di "pontifex et imperator" ha organizzato la sua strategia
di Massimo L. Salvadori


Dove va l´America? E´ un interrogativo che gli europei e non solo gli europei hanno sollevato ad ogni grande svolta della storia degli Stati Uniti che ha cambiato il rapporto tra questi e il resto del mondo. Tra la fine del Settecento e la prima guerra mondiale la progressiva ascesa dell´America fu bensì un dato di enorme portata, ma essa si accompagnò alla dottrina e alla pratica dell´isolazionismo. Per tutto quel periodo fu come se l´America - animata dalla convinzione che il suo grandioso esperimento politico e civile godesse della protezione privilegiata della divina Provvidenza e che esso andasse difeso dalle influenze negative che provenivano anzitutto dall´Europa segnata da instabilità istituzionale e politica, rivalità interne, conflitti ideologici e sociali, inesauste ambizioni imperialistiche - si ponesse «di fronte» agli altri paesi. Poi la prima guerra mondiale cambiò radicalmente la scena. L´America entrò nel conflitto con il proposito di affermare pienamente la propria immensa forza materiale e il presidente Wilson, animato da un esplicito messianesimo politico, indicò al suo paese il compito di assumere nelle sue mani la guida di un mondo lacerato incapace di governarsi civilmente. Sennonché, finito il conflitto, fu l´America stessa a respingere il piano wilsoniano.
E´ con l´ingresso in guerra nel 1941 che si determina la svolta che ha aperto l´era nella quale ancora ci troviamo: gli Stati Uniti si sono candidati ad essere non solo un modello, ma un modello da far valere attivamente nelle vesti di potenza maggiore del mondo, la più forte e la migliore. Oggi l´America vive soggettivamente ancora in pieno nella scia di questa svolta. Vinta la grande battaglia di mezzo secolo con l´Unione Sovietica, dopo il 1989 ha creduto di poter inaugurare una nuova fase della storia restando in questa condizione di incontrastato primato. Ma ecco la novità dell´impetuoso emergere di nuove grandi potenze a partire dalla Cina e dall´India. Ed ecco anche la novità della sfida lanciata dal terrorismo islamico che è riuscito con l´attacco dell´11 settembre 2001 a colpire al cuore l´America: un evento senza precedenti per un paese che dopo la guerra con gli inglesi del 1812-14 non aveva più subito un attacco al proprio territorio proveniente dall´esterno.
Tra le varie e numerose riflessioni sull´11 settembre e sulla risposta degli americani si presenta assai interessante quella di Emilio Gentile nel suo libro La democrazia di Dio. La religione americana nell´era dell´impero e del terrore, pubblicato da Laterza (pagg. 266, euro 16). Il titolo fa capire di primo acchito in quale direzione si svolga la ricerca dell´autore: l´intreccio tra religione e politica, un approccio alla politica, massimamente interpretato dal presidente Bush, fondato sull´idea che la democrazia americana, messa sotto tiro dai terroristi, debba fare appello a tutte le proprie risorse mediante un agire sorretto dalla persuasione che a condurre l´America nella giusta battaglia sia in primo luogo Dio, alla cui guida occorre anzitutto rivolgersi nell´ora del pericolo: da ciò il significato dell´espressione «democrazia di Dio» e del riferimento alla «religione americana» in quanto religione civile che risponde alle finalità della politica, si nutre di teologia ed è sorretta dalla convinzione - propria del presidente, dei settori del partito repubblicano che più lo sostengono e della destra religiosa - di possedere «il monopolio delle definizione del bene e del male» e di avere una missione universalistica volta ad espandere nel mondo mercato e democrazia. Ad indagare sui nessi tra religione e politica nell´America odierna, Gentile, che si è distinto nel nostro panorama storiografico per intelligenti e originali studi sul fascismo, ha certo buoni titoli come mostra in particolare il saggio del 2001, da lui stesso ricordato, su Le religioni della politica. Fra democrazia e totalitarismi.
Gentile non si limita a ragionare sull´America attuale. Nel farlo cerca le radici della concezione di Bush e dei suoi sostenitori nelle origini stesse e negli sviluppi nel corso di oltre due secoli dell´ideologia del primato morale e politico dell´America posto sotto le ali di Dio. Il che conferisce al saggio un ampio respiro, il quale consente di capire quali motivazioni abbia l´impegnativa affermazione, in riferimento certo a Bush ma anche ai suoi predecessori, secondo cui «il presidente americano non è solo il capo politico della nazione, ma è anche il pontefice della sua religione civile». Orbene il libro di Gentile è un´indagine su come Bush, assurto al ruolo di pontifex et imperator, abbia interpretato un tale ruolo nelle condizioni specifiche create dal trauma generato dall´11 settembre e abbia organizzato e diretto la strategia che ha trovato le sue manifestazioni nella mobilitazione interna dell´America e nella seconda guerra irakena, nel quadro di una parabola che lo ha però visto passare da un iniziale enorme consenso patriottico intorno alla sua leadership ad una crisi via via crescente di questo.
L´autore, che non manca di mettere opportunamente in evidenza quali resistenze e opposizioni la «democrazia di Dio» di Bush abbia incontrato anche in importanti correnti del cristianesimo americano e per parte sua inclina a ritenere che non esista il pericolo che abbia a prevalere in America una religione politica nutrita di impulsi autoritari, osserva nondimeno che «quando religione e politica congiungono le loro forze nell´esercizio del potere» allora «si annuncia una stagione incerta e insicura». Tra le voci, citate da Gentile, che si sono levate in opposizione all´integralismo che fonde religione e politica, vi è stata anche quella di Alan Wolfe.
Di lui è uscito presso la Utet il saggio Ritorno alla grandezza. Come l´America ha perso la consapevolezza dei propri fini e come può ritrovarla (pagg. 191, euro 18). Ed è indicativo che il tema del rapporto tra religione e politica occupi un posto centrale anche nelle osservazioni conclusive di questo autore; il quale, dopo aver annotato che con la rielezione di Bush nel 2004 gli americani «hanno scelto di continuare a credere d´essere un popolo speciale benedetto da Dio e destinato a grandi cose, poco importa se il resto del mondo li considera prigionieri della loro stessa innocenza», esce a dire senza mezzi termini che gli americani con le scelte compiute «hanno tradito le aspettative del mondo» e si domanda se e quando gli stessi americani «finiranno per comprendere che anche le loro aspettative sono state tradite».

l’Unità Roma 7.3.07
Bach, Mullova e un clavicembolo
La violinista russa, accompagnata da Ottavio Dantone, reinterpreta in chiave d’epoca il compositore affrontato fin dagli esordi della carriera
di Giovanni Fratello


DOPO AVER APERTO la stagione scorsa della Filarmonica Romana, la violinista Viktoria Mullova torna al Teatro Olimpico accompagnata da Ottavio Dantone al clavicembalo per un concerto dedicato a Bach che si terrà domani con inizio alle 21.15. La pregevole tecnica violinistica russa s’incontra in Mullova con un temperamento dalla musicalità forte e nervosa, che negli anni le ha permesso di affrontare con risultati notevoli sia il repertorio classico romantico - in particolare Schubert, Mendelssohn e Brahms - , sia quello russo - soprattutto Stravinskij e Sciostakovic. Più recentemente la violinista ha ulteriormente allargato il suo raggio d’azione verso la musica barocca, dedicandosi allo studio della prassi musicale d’epoca, utilizzando anche in concerto l’archetto più ricurvo nonché montando sul violino una muta di corde di budello, com’era in uso nel Settecento.
Il risultato raggiunto è molto personale e per certi versi sorprendente: infatti vi convivono la scuola del virtuosismo trascendentale - di cui Mullova è figlia - estraneo però alla musica antecedente a Paganini, e lo stile morbido ed estroso del Barocco, in particolare negli abbellimenti. Nel suo concerto monografico eseguirà insieme a Dantone le Sonate per violino e clavicembalo n. 2 BWV 1015 e n. 5 BWV 1018, e come solista la Partita per violino solo n. 3 BWV 1006 e la celeberrima Ciaccona dalla Partita n. 2 per violino solo BWV 1004: in Bach Mullova ritrova uno dei compositori affrontati da lei fin dagli esordi della sua carriera, ma reinterpretato in chiave d’epoca, come dimostra la presenza del clavicembalo suonato da Dantone, uno dei più apprezzati esecutori italiani della prassi musicale antica.
06.3201752, www.filarmonicaromana.org 06.326599

l’Unità Roma 7.3.07
L’8 marzo con «Processo per stupro»
E poi spettacoli teatrali, letture e dibattiti


Trent’anni dopo torna sugli schermi il primo film documentario girato in un’aula di tribunale. Si tratta di “Processo per stupro” la pellicola diretta da Loredana Rotondo che nel 1979 scosse le coscienze mostrando il volto di un’Italia maschilista. Il documentario Rai domani sarà al centro delle manifestazioni per l’8 marzo dal titolo “La memoria ha futuro”, organizzate dal Comune di Roma nei quattro municipi presieduti da donne. Dalle 17 alle 20 proiezione e dibattito rispettivamente nel centro cittadino per le migrazioni (IX municipio), nella sala consigliare di via Ignazio Silone (XII), nella scuola media Caetani di piazza Mazzini (XVII) e all’auditorium delle Fornaci (XVIII). A fare la parte del leone il XVII municipio, quello dei tribunali, dove il presidente Antonella De Giusti, ospiterà il sindaco e l’avvocato Lagostena Bassi che difese Donatella Colasanti. «Dal 2001 la giunta è composta per metà da donne - ha detto il sindaco Walter Veltroni - Abbiamo 4 presidenti donne nei municipi e abbiamo triplicato le donne nei Cda delle nostre aziende e il nostro obiettivo è di raggiungere il 50 per cento. Le donne, lo vedo in consiglio comunale, dimostrano una grande concretezza e una fortissima motivazione». «Contro la violenza sessuale il nostro non è l’impegno di un giorno» ha sottolineato l’assessore alle pari opportunità Gramaglia, ricordando che il comune di Roma è stato il primo a costituirsi parte civile in un processo per stupro, e i corsi di addestramento alla prevenzione della violenza rivolti ai lavoratori che fanno turni di notte. Anche la commissione delle elette presieduta dalla consigliera Adriana Spera, per l’8 marzo ha organizzato una serie di iniziative: “La giornata internazionale della donna”. Tra queste un dibattito di solidarietà per le mogli dei cinque cubani detenuti negli Stati Uniti, alle 17 alla Villetta in via degli Armatori, e alle 21 lo spettacolo teatrale Un pesciolino di Pier Paolo Pasolini al teatro Colosseo. Anche al teatro Belli un debutto a tema: Donne di Adriana Martino, in replica fino al 19 marzo. Al teatro di Tor Bella Monaca, invece, alle ore 21 va in scena Tango-la donna vestita di sole, ingresso libero. Per chi volesse tirare tardi c’è “La notte delle donne” organizzata dalla Regione Lazio: in replica alle 20, alle 21.30 e alle 23 al museo di Roma Palazzo Braschi di piazza San Pantaleo, letture da testi di Amelia Rosselli, Mariangela Gualtieri, Elsa Morante e Margherita Sarfatti. Gioia Salvatori

Il Giornale 7.3.07
La sterzata radical dei comunisti
di Alessandro Gnocchi


Sarà che il cachemire logora chi ce l'ha, sarà che il toscano adesso si fuma nei salotti, fatto sta che il compagno Presidente della Camera Fausto Bertinotti ha sterzato decisamente sul versante «radical». Visto che «chic» lo era già, come resistere alla tentazione di mettere insieme le due cose? E infatti non ha resistito.
Al diavolo le volgari rivendicazioni salariali, al diavolo le nuove povertà e al diavolo anche le vecchie. È arrivato il momento di radicaleggiare. E così, ecco che la Terza Carica dello Stato alza il tiro perché serve «una grande battaglia politica e culturale in Parlamento e nel Paese sui Dico e sui diritti civili. Come ai tempi del divorzio». E per farlo bisogna mettere insieme «sinistra radicale e riformista, laici e liberali».
Non sfuggirà che la Terza Carica dello Stato, fiore all'occhiello di un partito che si chiama Rifondazione comunista, non parla di «comunisti» ma di sinistra radicale riferendosi al suo schieramento. Tale terminologia manderà magari in fibrillazione il direttore di Radio Radicale, che ogni volta spiega che i veri radicali sono, scusate il gioco di parole, i radicali e non la sinistra radicale. Però spiega un fenomeno del quale bisogna prendere atto: quel che resta del vecchio Pci, nei diversi tronconi che vanno da Fassino a Bertinotti e Diliberto, si è trasformato in una sorta di partito radicale di massa: più agguerrito, più numeroso e persino, se mai fosse possibile, più cinico del plotoncino pannelliano.
Basta fare un prova. Prendete un operaio comunista sui sessant'anni, bendategli gli occhi e calatelo in una manifestazione per i cosiddetti diritti civili. Poi toglietegli la benda: tempo dieci secondi e se ne uscirebbe con una gragnuola di enormità così politicamente scorrette che lo prenderebbero per un provocatore fascio-clerico-leghista. Invece, il poveretto è solo rimasto al Pci che faceva il Pci. Al partito che, come ricorda Massimo Caprara che ne fu il braccio destro, ebbe in Palmiro Togliatti un deciso avversario dell'aborto. Al partito che, con l'inserimento della norma sui corpi sociali nella Costituzione, non pensava certo di dare il via libera al matrimonio degli omosessuali. Al partito che espulse per indegnità morale Pier Paolo Pasolini.
Se tornassero in servizio oggi, Marx ed Engels dovrebbero cambiare una parola del celebre incipit del loro Manifesto. Là dove scrivevano «Uno spettro s'aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo» dovrebbero sostituire «comunismo» con «laicismo». E non dovrebbero fare neanche tanta fatica, perché il laicismo non è altro che il cadavere putrescente del comunismo. La promessa radiosa del «tutto qui e subito» si è rovesciata nel «nulla ora e per sempre». Dall'utopia totalitaria si è passati a quella nichilista attraverso il semplice cambiamento d'uso delle medesime parole d'ordine: alienazione, coscienza, progresso, liberazione, uguaglianza, diritti civili e via delirando.
Con ciò, non si vuole rimpiangere Togliatti e il suo Pci. Ma solo mettere in guardia i gonzi che pensano di poter trattare impunemente con gli eredi di quella storia e di quei metodi. La piazza evocata da Bertinotti non è altro che un immenso Hotel Lux, l'albergo al civico 10 di via Gorkij a Mosca in cui ai tempi del Komintern dimoravano gli alti funzionari del Partito e i capi dei partiti comunisti stranieri. Ruth Fischer von Mayenburg, lo ricorda così: «Qui si discuteva, si cospirava e a volte si taceva in preda a un'angoscia di morte. Qui c'erano lacrime, sogni, tragedie».
Attenzione a quella piazza. E al compagno Bertinotti, subcomandante della sinistra ton sur ton, che la guarderà dall'alto. Magari in vestaglia come il Berlinguer della famosa vignetta di Forattini.
Mario Palmaro

Repubblica.it 7.3.07
Biografia del nuovo presidente della Cei, successore di Ruini ma soprattutto erede di Siri
Una vita tra Genova e le missioni militari in Bosnia, Iraq, Afghanistan e Libano
Bagnasco, l'arcivescovo con le stellette difensore del ruolo dei cattolici nella società


ROMA - Angelo Bagnasco, 63 anni, attuale arcivescovo di Genova e generale di corpo d'armata collocato a riposo dopo aver accompagnato i contingenti italiani in Bosnia, Iraq, Afghanistan e Libano, è nato da genitori genovesi a Pontevico in provincia di Brescia, dove la famiglia era sfollata per la guerra.
Il padre era pasticcere, la madre casalinga. Ha studiato nel seminario di Genova ed è stato ordinato prete nel '66 da Giuseppe Siri, l'allora arcivescovo del capoluogo ligure che lo ha preceduto anche alla guida della Cei. Laureato in filosofia, docente di Metafisica e ateismo contemporaneo presso la Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, è stato per 25 anni vicino agli scout e per 15 assistente della Fuci.
Dal 1986 al 1994 Bagnasco è stato preside e docente dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova, con competenza per tutta la Regione Ecclesiastica Ligure. Dal '95 al '98 ha diretto il seminario di Genova, è diventato poi vescovo di Pesaro, nel 2003 ordinario militare, fino alla nomina a Genova, successore di Tarcisio Bertone, dove si è insediato lo scorso 24 settembre.
E' presidente del consiglio di amministrazione del quotidiano della Cei, Avvenire, e dal 2002 al 2005 è stato anche segretario della Commissione Episcopale per l'Educazione, la Scuola e l'Università.
Bagnasco è considerato soprattutto l'erede del cardinale Siri, che lo ha guidato nella sua maturazione spirituale e culturale. Sulla sua posizione nel dibattito attuale sulla posizione della Chiesa all'interno dei vari Stati si è pronunciato recentemente, anche in un'intervista a Repubblica: "Cercano spesso di farci passare per degli intolleranti. Non è così. Il problema è quello dell'identità culturale, in Italia come in Francia. In Europa siamo il cuore del mondo, ma fatichiamo a definire la nostra identità", ha detto nei giorni scorsi.
Secondo Bagnasco, "i cattolici devono difendere la famiglia e la Chiesa cattolica deve richiamarli a questo compito". "Non si vogliono fare guerre sante: i nostri valori - ha affermato Bagnasco - vanno difesi con serenità, moderazione, ma anche con fermezza di fronte allo Stato che fa le sue leggi".

Repubblica 7.3.07
Esce venerdì "In memoria di me" il film-scandalo del cineasta romano
Costanzo: "Il silenzio un valore da scoprire"
"Bellocchio è il maestro a cui devo tanto"
di Maria Pia Fusco


Il dialogo. Non mi piace il muro contro muro, credo nell´apertura e nel dialogo
Vivere in convento. Non ci sono indicazioni, non c´è l´apologia del vivere in convento o all´esterno

ROMA - «Non ho voluto fare un film sulla religione né mi interessa la polemica pruriginosa. Ma se il film non piacerà al cardinal Ruini non mi stupirò, ne sarò perfino orgoglioso: significa che sarò riuscito ad innescare una riflessione». È la risposta di Saverio Costanzo alle critiche del gesuita Federico Lombardi sul suo film In memoria di me che, dopo la positiva accoglienza al festival di Berlino, esce venerdì in Italia con 80 copie. «Non credo che, come dice Lombardi, senza fede non si possa parlare di fede. Non mi piace il muro contro muro, credo nell´apertura e nel dialogo, credo che l´argomento religioso, inserito in un contesto cattolico perché questa è la nostra cultura, possa essere affrontato anche da un punto di vista laico».
Andrea, il protagonista del film, cerca le risposte ai dubbi e alle domande sulle ragioni del vivere chiudendosi tra le mura di un convento, dove il silenzio e i ritmi lenti del vivere quotidiano inducono al dialogo interiore, alla ricerca dell´assoluto. È il bacio di un giovane sulle labbra di un istruttore prima di uscire nel mondo esterno che potrebbe accendere la polemica. Costanzo rifiuta ogni confronto con la "mala educacion": «L´omosessualità, più presente nel libro di Furio Monicelli a cui il film è liberamente ispirato, non è il tema centrale. Il bacio è un invito a lasciarsi andare all´amore, non quello fisico, ma l´amore per l´altro, per gli altri, di cui parla il Vangelo, l´opposto del bacio di Giuda. Il tema è quello delle domande "impossibili" che tutti, laici o religiosi, ci poniamo da sempre».
Le letture alla base del film «sono state varie, da Ignazio da Loyola alle meditazioni nel deserto ai teologi francesi. Non è un film di parte, volevamo la libertà di un´apertura totale. Non ci sono indicazioni per una scelta precisa, non c´è nessuna apologia del vivere in convento o all´esterno. Abbiamo girato in un´isola di fronte a Venezia, riconoscibile per gli italiani, ma un´isola è comunque un luogo astratto, internazionale. La vita di Andrea e dei novizi si svolge nel chiuso dell´interno, ma il mondo esterno continua i suoi ritmi, c´è e si vede », dice Costanzo che, prima delle riprese, è stato per giorni in un convento insieme agli attori - Christo Jivkov, Marco Baliani, Filippo Timi, ecc. - «ed è stata una preparazione perfetta. Abbiamo scoperto che durante i pasti i religiosi non ascoltano canti sacri ma musica varia, dalla polka al valzer, ci ha aiutato per il film. E abbiamo scoperto l´importanza del silenzio. Che per molte persone è diventata un´esigenza, negli ultimi anni in occasione di certe festività i conventi si riempiono di ospiti».
Nel film si ringrazia Marco Bellocchio, «il cineasta verso il quale mi sento più in debito, un maestro che, grazie alla moglie Francesca che è la montatrice del film, abbiamo avuto la fortuna di interpellare. E ci ha spinto a tagliare e tagliare, ci ha insegnato ad essere essenziali». In memoria di me è il secondo titolo di Costanzo dopo Private, due film lontani - l´unica similitudine è nei personaggi costretti in un luogo delimitato - due storie "adulte", sorprendenti per un autore giovane. «Non so perché ho scelto questi temi, è vero sono due film "anziani": forse la giovinezza con me ha saltato un giro».

La Stampa 7.3.07
Non è una deriva questo è un sogno
Intervista ad Oreste Scalzone
Il leader di Potere Operaio venerdì all’Askatasuna
“Le armi? Tutti le avevamo. Un altro ’77 è possibile”
di Lodovico Poletto


Torino. Noi eravamo contro il socialismo reale o capitalismo di Stato. E contro l’egualitarismo, inteso come quello al ribasso, che livella. Noi eravamo rivoluzionari. Ci attaccava il Pci perché eravamo con gli operai della Polonia. Noi dicevamo che l’odio di classe partiva dall’odio dell’operaio verso la sua indigenza e alienazione: noi eravamo operaisti». Parla Oreste Scalzone, anima e fondatore di Potere operaio, rientrato ufficialmente in Italia soltanto da pochi mesi. Parla e spiega il suo mondo, quello degli Anni 70, il Movimento del ‘77. Racconta la sua esperienza, e anticipa ciò che dirà agli autonomi di Askatasuna che lo hanno invitato a Torino a parlare di quegli anni. «Sui muri di Bologna, nel ‘77, comparve una scritta che diceva “Siamo il ‘77 e non il ‘68” con riferimenti all’operaismo e al movimento studentesco. Oggi la questione della precarizzazione non si può arrestare e non si può tornare agli operai. Oggi il terreno dello scontro è questo: la precarizzazione, la globalizzazione, Internet. Questo è 2007 non il 1977».
Insomma siamo a un deja vù, un salto indietro nel tempo?
«In fondo sì, mi sembra un po’ una ripetizione di ciò che accadde allora».
Secondo lei c’è il rischio di una deriva armata oggi?
«Io non la chiamerei deriva, ma sogno o delirio. Comunque se oggi ci fosse questa deriva, e la dico come direbbe Leo Valiani, si spazzerebbe via l’ordine costituito».
Però forse, allora, eravate molti di più?
«Eravamo 150 mila, non di più, anche se qualcuno dice che si era oltre 600 mila. Eravamo questi, anche se, forse, almeno un milione di persone era in qualche modo vicino a noi».
Ha senso, oggi, ripercorrere i fatti del ‘77 e di tutti gli anni che sono seguiti?
«Io vengo a parlare del ‘77 che potrebbe arrivare domani. O meglio, che a mio parere potrebbe arrivare. Oggi è inattuale, assolutamente: ma è lì. E io e sono disposto a raccontare pezzi della mia memoria: dagli Anni 60 in poi».
Viene ad anticipare i tempi?
«Assolutamente no. Questo incontro serve per tentare di capire quello che è stato».
Si sente nostalgico?
«No, non parlo per compiacermi. Non sono per nulla nostalgico. Mi dicono che vivo come allora, e se è vero che vivo così, non mi mancano certamente quelle sensazioni».
Si sente un cattivo maestro?
«Per quelli che mi dicono queste cose, in punto di morte, mi rammaricherò di non esserlo stato abbastanza. E se, per qualcuno, sarò stato un buon maestro, gli risponderò come diceva Gesù: “Tu l’hai detto”. Comunque, il mio vero pensiero è questo: beata la gente che non ha bisogno di maestri. Buoni o cattivi che siano».
Eppure lei, nella sua esperienza, ha impugnato le armi. Non è vero?
«Le armi, a me, sono passate per le mani: lo ammetto. A me come a molti altri».
A tutti quelli che hanno partecipato al movimento del ‘77?
«Guardi, provocatoriamente mi verrebbe da dire di sì. Se si va a spulciare le sentenze di processi vedrà che ci sono pacchi di condanne per reati dalla rapina in su. Insomma: ogni organizzazione ha avuto militanti passati nei gruppi armati. E si sarebbe disonesti nel dire che la questione delle armi, in quegli anni, riguardò soltanto Potere Operaio».

martedì 6 marzo 2007

Repubblica 6.3.07
Sabato a Roma la protesta del mondo gay. Le adesioni di Bellocchio, Fo, Rame, Dandini, Cecchi Paone
Cristicchi tra i testimonial al raduno per le unioni civili

di Alberto Custodero


ROMA - «A piazza Farnese ci sarà anche il vincitore di Sanremo Simone Cristicchi». Lo ha annunciato Alessandro Zan, l´organizzatore della manifestazione nazionale del mondo gay che si dà appuntamento il 10 marzo per chiedere ai politici di entrambi gli schieramenti una legge sulle unioni civili. «L´autore di "Ti regalerò una rosa" - ha precisato Zan - ci ha assicurato la sua presenza, compatibilmente ai suoi impegni». Sfilerà, accanto alla senatrice Franca Rame, - se faranno entrambi in tempo ad essere a Roma - anche il premio Nobel Dario Fo, che approfitta dell'occasione per dare dell´«oscurantista» alla senatrice teodem Paola Binetti che, qualche giorno fa, ha definito l´omosessualità una «devianza».
«Ben venga la manifestazione - è la benedizione di Dario Fo - visto che l´atteggiamento della Chiesa oramai non è cattolico, ma zeppo di forme razziste nei confronti del mondo gay». «Le esternazioni alla Binetti, esponente politico della Margherita con le spine - ha chiosato Fo - e quelle clericali del Vaticano sono da mentalità oscurantista da basso Medio Evo, quando gli omosessuali venivano bruciati in piazza». A proposito di Margherita, sabato ci sarà, a sorpresa, un suo esponente: si tratta di Alessandro Ranieri, vicepresidente del consiglio municipio Roma 17. Quella di piazza Farnese, per dirla con il suo organizzatore Alessandro Zan, «sarà una manifestazione per i diritti, e non contro la famiglia, al contrario del family day di maggio organizzato dai movimenti cattolici contro i Dico». Lo speaker, sabato, sarà Alessandro Cecchi Paone, che, della sua «omoaffettività» ha fatto outing su Vanity Fair. «Il raduno di piazza - ha spiegato - s´è sottratto alla politica e alle sue strumentalizzazioni. Non sarà una Vicenza pro o contro il governo. Ma ci saranno 3 gruppi di persone che avranno occasione di farsi sentire. Gli omosessuali, per dire "basta" alle infamie dette da preti, cardinali, teodem e teocom. Tutti quelli che hanno amici e parenti gay, che staranno al nostro fianco in questo momento di aggressione. E, infine, la comunità che crede nella laicità dello stato». L´invito di Cecchi Paone rivolto a questi 3 gruppi di persone di «risvegliarsi le coscienze» sarà sostenuto da esponenti del mondo dello spettacolo, della cultura e del sindacato, dai conduttori televisivi Serena Dandini e Piero Luigi Diaco all´attore Dario Vergassola, a Morena Piccinini, responsabile dei «nuovi diritti» della Cgil, all´editore Luca Formenton, al regista Marco Bellocchio. Non certo per caso, la conferenza stampa del raduno gay si svolgerà domani al senato (dove il governo è caduto ufficialmente sulla politica estera, in realtà sui Dico), proprio il giorno in cui inizierà alla commissione Giustizia la discussione sulle unioni civili. Sabato mattina Luciana Littizzetto lancerà la manifestazione dalla sua rubrica di radio Deejay

Repubblica Lettere 6.3.07
Quel killer non era fuori a causa dell'indulto
di Luigi Manconi. Sottosegretario alla Giustizia


Spiace dover tornare ancora sulla questione della recidiva (ovvero della commissione di nuovi reati) da parte dei beneficiari dell'indulto, argomento al quale il ministero della Giustizia ha dedicato uno studio e una conferenza stampa non più di due settimane fa. I risultati della ricerca sono stati correttamente riportate da la Repubblica del 20 u.s. («Indulto, solo uno su 10 è tornato in cella»). Sento il dovere, ora, di informare i lettori a proposito di una notizia di cronaca riportata anche da Repubblica. Da una verifica nelle banche dati del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, è emerso che Vincenzo D'Errico, reo confesso dell'omicidio di Luigia Polloni, avvenuto a Caravaggio (BG) mercoledì scorso, non risulta essere stato detenuto nelle carceri italiane dopo il 21 settembre 2004; e, dunque, ho ragione di ritenere che il titolo con il quale la Repubblica ha dato notizia dei fatti ("Bergamo, il killer era fuori per l'indulto") non corrisponde alla verità finora accertata, bensì alle sole frasi (e, immagino, ai desideri) del senatore della Lega, Ettore Pirovano, vicesindaco della cittadina, che ha parlato, appunto, di un "assassino liberato dall'indulto".

Repubblica 6.3.07
Maometto fu creato due volte
Le antiche vite del profeta
di Pietro Citati


La prima volta nacque in un tempo anteriore a ogni tempo quando Adamo non c'era ancora, la seconda lo partorì Amina in un trionfo di luce
I biografi non idealizzano la sua esistenza, era lui a ripetere: sono soltanto un uomo
Quando lasciava la città saliva in una caverna sulle colline di Al-Hira passando le notti in adorazione
Durante il giorno mentre camminava per la campagna sentiva voci uscire dai sassi e dai muri
Dopo i quarant'anni ebbe le prime visioni la notte gli compariva in sogno una figura enorme e sconosciuta

Credo che pochissimi europei conoscano quale sterminata moltitudine di storie, aneddoti, immagini, leggende, idee, detti, aforismi, favole, fantasie si siano raccolte, nei secoli, attorno alla figura di Maometto.
Le troviamo dovunque: in biografie e raccolte di sentenze, in storie di città e prologhi di poemi; narrate, volta per volta, con le voci gelose delle tribù arabe che avevano avuto rapporti di parentela con lui o lo avevano conosciuto. Il Corano aveva dichiarato: «Voi avete, nel Messaggero di Allah, un esempio buono per chiunque speri in Allah e nell´ultimo giorno»: Gesù, che era Dio, non poteva essere, alla lettera, un esempio; e i Vangeli raccontavano pochi particolari sulla sua esistenza. Maometto era soltanto un uomo: il fedele musulmano pensava a lui con affetto, calore, fiducia, e una familiarità piena di venerazione. Se imitare Allah era impossibile, imitare Maometto era facile e divertente. Così, per quattordici secoli, i musulmani cercarono di svegliarsi e aprire gli occhi come li apriva il profeta, di fregare i denti con lo stesso ramoscello verde con cui li puliva, di lavarsi come egli si lavava, di tagliare le unghie come se le tagliava, di mangiare come lui le spalle di pecora, e di pregare come lui quando si rivolgeva al Signore.
Presso Mondadori, escono in questi giorni le Vite antiche di Maometto (pagg. XL-392, euro 17): un libro che non ha equivalenti in nessuna lingua moderna. Michael Lecker, un notissimo studioso israeliano, ha scritto l´introduzione e le note: Roberto Tottoli ha scelto le tradizioni più antiche, diffuse o degne di fede, e tradotto i testi arabi in modo piacevolissimo. Fino a cinquanta o sessanta anni or sono, gli studiosi occidentali avevano scarsa fiducia nelle vite e nelle raccolte di detti (hadith) attribuite a Maometto: le consideravano fantastiche, tardive, o menzognere. Negli ultimi tempi, specie grazie a Josef van Ess, un eccellente studioso olandese, autore di un´opera in sei volumi sulla teologia islamica nell´ottavo e nel nono secolo, l´atteggiamento è completamente mutato. Molte tradizioni sono state retrodatate, come narrava la cultura musulmana. Alle prime generazioni dell´Islam viene oggi attribuita una grande creatività religiosa. Non è più usuale, come un tempo accadeva, ricercare il modello ebraico o cristiano di un´idea teologica o di una tendenza mistica, che invece appartiene al primo Islam. E nessuno osa più chiedersi se Maometto fosse sincero; o eccedesse (come egli amava dire) nella passione per le donne e i profumi.
***
Se Gesù si incarnò una volta sola, nella leggenda islamica la creazione di Maometto avvenne due volte. La prima volta egli nacque in un tempo anteriore ad ogni tempo, quando Adamo non era ancora formato. Secondo il primo racconto della Genesi, Dio creò Adamo a «propria immagine e somiglianza»: immagine e somiglianza con Dio che Maometto, nella severa tradizione monoteistica musulmana, non avrebbe mai potuto condividere. Maometto era soltanto una creatura: come noi siamo.
Allah ordinò a Gabriele e agli angeli della schiera più alta, quelli che sostengono il trono, di scendere a terra e di prendere della terra pura. Nello stesso luogo, migliaia d´anni più tardi, sarebbe stata scavata la tomba di Maometto; e di lì egli sarebbe risorto. Nascita, morte e resurrezione avvenivano dunque nello stesso spazio privilegiato. Gabriele portò la terra in cielo, la immerse nelle acque di una fonte paradisiaca, trasformandola in una perla bianca, e poi la tuffò per giorni nei fiumi del Paradiso, fino a quando la perla emanò una luce settanta volte più forte di quella del Sole - splendore che raccoglieva lo splendore di tutte le tradizioni religiose anteriori. Questa era l´essenza di Maometto: terra divenuta luce, che si propagò a tutti i profeti, da Adamo a Seth, a Noè a Sem, ad Abramo ad Ismaele ed ad Elia, illuminando la Ka´ba e innalzandosi fino al cielo, come se ogni luce dell´universo derivasse da una perla.
Quando il padre di Maometto si congiunse con la madre, Amina, la luce si trasferì sul volto di lei, come in uno specchio senza macchia. La notte in cui fu concepito Maometto, ogni animale della tribù proferì parole. In quel momento la madre vide uno splendore che usciva da lei, e una fiamma che illuminava i lontani castelli della Siria. Poco prima del parto, Allah disse agli angeli: «Aprite le porte del cielo e quelle del paradiso». Tutti gli angeli discesero rallegrandosi: le montagne si protesero verso l´alto, i mari si sollevarono, le creature si felicitarono, gli alberi si riempirono di frutta: in ogni cielo vennero erette una colonna di crisolito e una di giacinto, le Vergini Uri si ricoprirono di preziosi; gli idoli caddero in frantumi, gli altari di fuoco dei templi zarathustriani si spensero. Il giorno del parto, Amina sentì il frastuono di una scossa violenta, e venne presa dallo spavento. Poi vide qualcosa di simile all´ala di un uccello bianco, che le sfiorava il cuore. La paura e il dolore l´abbandonarono. Quando si voltò, scorse accanto a sé una bevanda bianca come il latte. Ne bevve a lungo: era più dolce del miele, e la penetrava di luce.
Mentre Maometto si separava dalla madre, lo splendore illuminò l´Oriente e l´Occidente. Maometto cadde al suolo, poi si sollevò sulle mani, quindi prese una manciata di terra, la strinse, e sollevò le dita e la testa verso il cielo, come ogni creatura terrena che invoca Dio. Una nuvola lo sottrasse alla vista. E dal cielo una voce disse: «Fategli visitare i confini dell´Oriente e dell´Occidente, e fategli vedere tutti i mari, perché conoscano il suo nome, vedano qual è il suo aspetto e sappiano che egli è stato chiamato Colui che cancellerà, perché non rimarrà idolatria del suo tempo che non verrà cancellata».
***
Passati i quarant´anni, il secondo Maometto ebbe le prime visioni. La notte gli compariva in sogno una figura enorme e sconosciuta, che con la testa toccava il cielo e con i piedi la terra, e si avvicinava per afferrarlo. Durante il giorno, mentre camminava per la campagna sentiva voci uscire dai sassi, dai muri e dal ventre degli animali: voci che gli dicevano: «Salute, o apostolo di Allah». Il divino gli si presentava come l´esperienza del tremendo: una forza che non aveva nome, che poteva venire da tutte le parti, che non aveva a che fare col bene, che era solo contraddistinta dalla propria potenza, irrompeva sopra di lui, lo afferrava, lo dominava, e voleva soggezione senza limiti. Era sconvolto da brividi di freddo o si copriva di sudore: strani suoni di campana o fruscii di lontane ali celestiali o fragori gli risuonavano nella mente, e restava a terra senza coscienza.
Come confessò più tardi, gli sembrava che qualcuno gli strappasse l´anima a pezzi. Diventò inquieto: temeva di impazzire o di essere posseduto da un demone: «O Khadija» disse alla prima moglie, «temo di diventare pazzo». «Perché?» gli domandò lei. «Sento in me i segni degli indemoniati: voci misteriose per le strade, figure enormi nel sonno». Khadija gli rispose: «O Maometto, non inquietarti. Con le qualità che hai, tu che non adori gli idoli, tu che ti astieni dal vizio, che fuggi la menzogna, che pratichi la generosità e la carità, non hai nulla da temere. Dio non ti lascerà cadere sotto il potere dei demoni».
Quando Maometto lasciava la città, saliva in una caverna sulle colline di Al-Hira, passando le notti nella meditazione e nell´adorazione, come un monaco cristiano. Una notte, la figura enorme dei primi incubi gli si presentò nella visione o nel sogno. Aveva in mano una veste di broccato: sopra c´era scritto qualcosa. Gli disse: «Leggi». Maometto rispose: «Non so leggere». La figura lo strinse con tanta forza che Maometto pensò di morire. Tre volte gl´impose: «Leggi!», tre volte Maometto rifiutò; finché, per liberarsi, disse: «Cosa devo dunque leggere?». L´altro rispose:
Leggi in nome di quel Dio che creò,
che creò l´uomo da un grumo di sangue.
Leggi! Il tuo Signore è il più generoso,
ha insegnato per mezzo del calamo,
ha insegnato all´uomo quello che non sapeva.
Secondo la tradizione islamica, erano i primi versi del Corano.
Maometto lesse, e la figura si allontanò da lui. Allora si accorse che le parole erano scritte nella profondità del suo cuore. Come accadde a Ezechiele e a Giovanni nell´Apocalisse, qualcuno gli aveva imposto con la violenza uno scritto vergato in un altro mondo. Ezechiele e Giovanni l´ingoiarono: lui l´aveva fatto diventare parte del proprio cuore. Soltanto attraverso questa totale appropriazione fisica, la rivelazione celeste diventò Apocalisse, e ora sarebbe divenuta Corano. Ezechiele e Giovanni accettarono senza timore il libro dal sapore dolce-amaro, certi del suo carattere sacro. Più dubbioso, inquieto e consapevole dell´ambiguità della parola ispirata, Maometto non osava accettare la rivelazione. Temeva di essere un «poeta estatico» o un «uomo posseduto»: uno di quei kahin, che in Arabia profetavano ispirati dai demoni.
Travolto dall´angoscia, avrebbe voluto uccidersi, e cercò di precipitarsi dalla collina. In quel momento, udì una voce dal cielo. Girò la testa, e scorse l´angelo Gabriele, con i piedi a cavalcioni sull´orizzonte, che diceva: «O Maometto, tu sei l´apostolo di Allah e io sono Gabriele». Era la stessa figura della visione: sebbene Maometto avesse l´impressione di scorgere una Figura molto più augusta, quella invisibile di Allah, nascosta dietro il suo angelo. Rimase stupito: girò la faccia dall´altra parte, e verso qualunque luogo del cielo guardasse, dovunque spingesse gli occhi ansiosi, scorgeva il corpo del grande angelo. Gabriele lo prese dolcemente tra le ali, in modo che non potesse muoversi, e gli ripetè: «Non temere, tu sei il profeta di Allah, e io sono Gabriele, il suo angelo».
Maometto discese dalla collina: tremava in tutto il corpo per il terrore della rivelazione, ma ripeteva tra sé le frasi di Gabriele, che cominciavano a rassicurarlo. Tornò a casa, raccontò la visione a Khadija, e le disse le parole dell´angelo. Poi fu ancora colto dal freddo e chinò la testa chiedendo: «Coprimi! Coprimi!» La moglie lo avvolse in un mantello, e lui si addormentò al suolo, come un bambino terrorizzato. Khadija andò da un vicino cristiano. Mentre Maometto dormiva, Gabriele entrò nella casa e gli parlò: «Alzati, tu che sei coperto con un mantello». Maometto si risvegliò e rispose: «Eccomi, che debbo fare?». E Gabriele: «Alzati e avverti gli uomini e chiamali a Allah». Maometto gettò via il mantello e si alzò. Quando la moglie tornò, gli disse: «Perché non dormi, e non ti riposi?» Maometto rispose: «Il mio sonno e il mio riposo sono finiti. Gabriele è tornato, e mi ha ordinato di trasmettere il messaggio di Allah agli uomini».
Dopo le prime visioni, Maometto rimase qualche giorno senza scorgere l´angelo. Se ne afflisse moltissimo: ora lo torturava l´assenza, non la presenza della rivelazione. Correva da un´altura all´altra, avanti e indietro, come impazzito, fin sulla cima del monte Thabir, e voleva ancora gettarsi nel vuoto. Poi, di nuovo, venne tramortito dal suono della voce. Alzò la testa. Davanti a lui c´era Gabriele, seduto su un trono tra il cielo e la terra, e lo confortava. «O Maometto, non temere, gli ripeté, tu sei l´inviato di Allah e io sono Gabriele». Maometto si rallegrò. La sua angoscia era calmata. L´animo era quieto. Le rivelazioni divennero sempre più intense e frequenti, come se fosse divenuto un solo, ardente grumo di sogni.
***
Dopo qualche tempo, Maometto discese a Mecca, si spostò a Medina, e in parte abbandonò il suo mondo di visioni, sogni, terrori, incubi, estasi. Questo abbandono colpì, qualche tempo più tardi, i mistici islamici: i quali immaginarono quale sarebbe stata la sua vita, se la rivelazione avesse continuato ad occupare tutta la sua mente, ed egli avesse ascoltato senza fine la voce, senza uscire dalla caverna. Qualche volta, abbiamo l´impressione che Maometto rimpiangesse i primi tempi della sua esistenza, quando era un uomo solo, che vedeva ed ascoltava, e non un Profeta che guidava un popolo alla vittoria. «Che cosa ho a che fare io con questo mondo? Diceva. Io e il mondo siamo come un cavaliere e l´albero sotto il quale egli si ripara dalla violenza del sole. Poi il cavaliere se ne va, e lascia l´albero indietro». E ripeteva: «Sii in questo mondo come uno straniero, o come un passante».
Quali siano stati i suoi dubbi e le sue inquietudini, Maometto non fu uno straniero o un passante. O non lo fu mai per le moltitudini che credettero in lui. Egli era un pezzo di terra, e la sua terra era il luogo al quale apparteneva e dove posava fermamente il piede. Viveva nel sacro: ma il sacro non trasformò le sue passioni umane, non cancellò o annullò in lui il mondo, ma stabilì il mondo come è, nella sua realtà di ogni giorno. Le Vite antiche non idealizzano la sua esistenza, come avrebbe fatto uno scrittore cristiano, che componeva la vita di un santo secondo una serie di modelli agiografici. Maometto ripeteva ai suoi fedeli: «Sono soltanto un uomo: un uomo con occhi che piangono e un cuore che soffre». «Non sono altro che un mortale simile a voi». «Ho ricevuto l´ordine di essere uno di coloro che sono sottomessi a Dio».
Così le Vite antiche diventano lentamente storie di piccole cose. Sebbene fosse la perla che aveva illuminato i profeti, Maometto sosteneva di non essere superiore a nessuno di coloro che l´avevano preceduto. «Che nessuno di voi dica che sono migliore di Giona». «Non vi dico: "posseggo i tesori di Allah", perché non conosco il mistero incomunicabile». Ai suoi fedeli, mostrava la sua modesta esistenza di essere umano. Era povero. Aveva una stanza nuda, con un materasso e tre cuscini per terra. Talvolta non aveva di che nutrirsi. Tra i cibi, preferiva la spalla di pecora. Era incerto, dubbioso, chiedeva consigli agli amici, talora sbagliava. Aveva passioni erotiche: amava i profumi; spesso il suo numeroso harem era uno starnazzante gruppo di galline, dove ora una donna ora l´altra lo attirava nel proprio letto. Talvolta Allah non gli dava giuste notizie: gli taceva cose di rilievo: o permetteva che egli commettesse errori religiosi.
Leggendo il Corano e le Vite antiche, il lettore cristiano cerca di identificare uno spazio puramente religioso. Questo spazio non esiste. Nessuno impedisce di usare la spada contro i nemici, come Cristo nel Getsemani, o distingue ciò che spetta a Dio e ciò che spetta a Cesare. Quando Maometto visse a Mecca e a Medina, la sua esperienza religiosa e quella politica non furono divise da nessuna frattura o incrinatura, come nessun contrasto aveva diviso le esperienze religiose e politiche di un re o di un profeta della Bibbia. Il visionario imbracciò la spada, come se la spada fosse visione. Simile a un grande uomo di stato, possedeva il dono di alternare il sinuoso spirito di compromesso e lo spietato spirito di determinazione. Le antiche biografie non cercano mai di cancellare o velare la sua violenza: ora Maometto si vendica di chi lo ha offeso, ora fa massacrare tribù di ebrei, ora assale a tradimento i nemici, ora infierisce sui morti. Sullo sfondo, scorgiamo l´Arabia del sesto e del settimo secolo: cammelli, montoni, pecore, odore di sterco, di sudore e di rovine: fame, vagabondaggi, orgogli e beghe tribali, tradimenti, liti femminili, pettegolezzi, chiacchere di mercanti; carovane che attraversano il deserto, agguati presso i pozzi, feroci battaglie di predoni, orecchie tagliate, donne che mangiano le lingue e il fegato dei nemici.
Poi c´era il Corano. A´isha, la più giovane e intelligente moglie di Maometto, disse: «La natura di Maometto è il Corano. L´archetipo celeste del Corano era fissato fuori dal tempo in una tavola ben custodita: poi quei racconti, quelle sentenze e quelle prescrizioni si rivelavano nel tempo, ogni volta che la voce colmava Maometto - e venivano trascritte su pezzi di cuoio, ossa di cammello, cocci di ceramica, fibre di palma, che a loro volta ispirarono i libri della terra. In quelle frasi, Maometto aveva cercato di parlare con la stessa voce di Allah, con autorità, furore e dolcezza, come se il suo accento terreno fosse davvero la Voce. Eppure, il Corano era incompleto. «Se tutti gli alberi della terra fossero penne, e se il mare, alimentato da altri sette mari, fosse inchiostro, non si riuscirebbe a trascrivere fino all´ultimo le parole di Dio». Qualsiasi libro, persino quello supremo, era un fallimento, perché non poteva raccogliere l´immenso flutto marino dell´ispirazione.
Quel libro inesauribile e pieno di contraddizioni suscitava la stabilità della fede. C´era Allah, unico: creatore assoluto e arbitrario di ogni cosa: Allah responsabile di tutti gli eventi dei quali, tuttavia, l´uomo poteva portare la colpa: Allah che ignora le regole che ci ha imposto: Allah che non ha nessun obbligo verso di noi, nemmeno di giustizia; Allah che talvolta prodiga a un uomo cento carezze e abbatte un altro con cento colpi di frusta, senza che il primo abbia compiuto un solo atto devoto e il secondo abbia peccato. E c´era l´uomo, del quale Maometto aveva un´idea altissima. L´uomo aveva la conoscenza dei nomi: era superiore agli angeli; veniva venerato dagli angeli; non era sfiorato dall´ombra della malinconia che il peccato originale lascia nell´anima cristiana. Infine, c´era l´ultimo sigillo; il sigillo della tolleranza; «Allah desidera agio per voi, non disagio». «Agevolate, non inasprite». «Non vi sia costrizione nella fede». «Nella mia comunità», al contrario che nelle comunità religiose anteriori, «il disaccordo è una occasione per la misericordia divina».
Secondo le testimonianze delle Vite, Maometto esercitava una fascinazione alla quale non si poteva resistere. Il suo volto era (quando voleva) così dolce, penetrante e attraente, che nessuno poteva smettere di guardarlo: ciascuno dimenticava la fame, il dolore, l´abbandono, il male, la morte. Maometto conosceva l´irradiazione affettuosa di questo dono. «Nessuno di voi - dice un hadith - avrà la fede finché io non gli sarò più caro di suo figlio, di suo padre e di tutti gli altri uomini messi insieme». Un altro detto racconta: «Una volta Maometto stese la mano per afferrare qualcosa e poi la ritirò. Un amico gli chiese il motivo: "Ho visto il Paradiso - rispose - e ho cercato di cogliere un grappolo d´uva. Se lo avessi colto, voi ne avreste mangiato sino alla fine del mondo"». Un acino d´uva: l´eternità del Paradiso non era altro.
***
In una notte di primavera del 632, ventidue anni dopo la rivelazione, Maometto mandò a chiamare un liberto. Gli disse: «Mi è stata offerta la scelta tra le chiavi dei tesori di questo mondo, una lunga vita quaggiù e poi il paradiso, oppure l´incontro immediato con il mio Signore e il Paradiso». «O inviato di Allah, insistette il liberto, tu che mi sei caro come mio padre e mia madre, scegli i tesori di questo mondo, una lunga vita quaggiù e poi il Paradiso». Maometto rispose: «Ho già scelto di incontrare subito il mio Signore e il Paradiso». Poi pregò e tornò nella sua casa.
Il giorno dopo iniziò la lunga malattia di Maometto. Aveva febbri e dolori di capo così forti da farlo gridare. Continuava a passare le notti nelle case delle sue spose. Qualche giorno dopo chiese loro di potersi trasferire in quella di A´isha. Da principio si occupò degli affari di stato, prese decisioni, dettò lettere: poi smise; spesso sveniva e non poteva parlare. Una mattina si sentì meglio. Al momento della preghiera comune si alzò, sollevò la tenda che serviva da porta e si fermò sulla soglia. Lì accanto c´era la moschea - un povero muro di mattoni essiccati al sole, coperti da rami di palma - , dove i suoi fedeli, guidati da Abu Bakr, il futuro califfo, dicevano le orazioni. Quando lo videro, per la gioia interruppero la preghiera: ma egli fece un cenno con la mano, invitandoli a continuare. Era felice: il suo viso si illuminò; disse: «Grazie siano rese a Dio, perché, dopo la mia morte, il mio popolo seguirà le mie istituzioni». Qualcuno affermò di non aver mai visto il suo viso così radioso.
Quando mancarono tre giorni alla morte di Maometto, l´arcangelo Gabriele scese da lui e gli disse: «Allah mi ha mandato a te per renderti onore e per testimoniarti la sua grazia. Ti chiede quello che egli conosce meglio di te: "come ti senti?"». «Mi sento, o Gabriele, rattristato e preoccupato». Il terzo giorno Gabriele discese, seguito dall´Angelo della Morte, e da un altro angelo in volo, Ismael, che era a capo di settantamila altri angeli, ognuno dei quali, a sua volta, ne guidava altri settantamila. Gabriele disse a Maometto: «Questo è l´Angelo della Morte che chiede il permesso di prenderti. Non lo ha mai chiesto a nessun altro uomo prima di te». Allora l´Angelo della Morte annunciò: «La pace sia con te, o Inviato di Allah. Allah mi ha mandato da te con l´ordine di ubbidirti in quello che mi ordinerai. Se mi ordini di prenderti l´anima, la prenderò, ma se mi ordini di lasciarla, te la lascerò». Gabriele rivelò a Maometto: «Allah desidera ardentemente incontrarti». «O Angelo della Morte, disse Maometto, fà quello che ti è stato ordinato». Per la seconda volta, scelse la morte: era la scelta definitiva.
La mattina dell´8 giugno, Maometto sembrava guarito. A´isha, che ignorava la visione notturna, gli chiese se voleva un ramoscello verde, un piccolo ramo di salvadora persica, per pulirsi i denti. Maometto disse di sì. Allora A´isha prese il legno, lo masticò, lo rese tenero, e glielo porse. Quando Maometto cominciò a fregarsi i denti con vigore, A´isha gli disse: «Non strofinarti troppo i denti, se no li guasti». Egli rispose: «O A´isha, Gabriele mi ha sempre raccomandato di fare così». Così per l´ultima volta ripeteva di essere soltanto un uomo: la sua vita era composta di particolari infimi; ma ognuno di questi particolari - persino il modo di pulirsi i denti - aveva un esempio angelico. Appena Abu Bakr ebbe terminato le preghiere comuni, corse nella casa di A´isha, dove vide Maometto che si puliva i denti. Anche lui pensò che fosse guarito. Cercando di farlo ridere, si mise a scherzare con A´isha: «Ora che il Profeta è guarito, dovrà passare questa notte nella casa di un´altra moglie». A´isha si offese e disse: «Quando era malato, è stato con me. Ora che è sano, andrà nella casa di un´altra donna?». Maometto rise, ma restò in silenzio.
Poco dopo, Maometto avvertì attorno a sé le grandi ali silenziose dell´Angelo della Morte. Si sentì mancare. A´isha si sedette dietro di lui, lo attrasse e gli prese la testa nel grembo. Maometto rimase disteso per qualche tempo. La fronte cominciò a sudare, lo sguardo diventò fisso: mentre A´isha lo udiva mormorare: «No, l´amico sommo del Paradiso... ». Era l´ultima volta che Maometto ricordava il nome di Gabriele, dietro il quale aveva spesso celato quello di Allah. Dopo la morte, gli uomini lavarono il corpo. Non sapevano dove seppellirlo. Abu Bakr disse: «Ho sentito dire all´Inviato di Dio: "Ogni profeta è stato sepolto dove è morto"». Allora spostarono il letto e scavarono nella terra. Così, senza saperlo, nascosero il corpo nel luogo puro dal quale, al tempo della prima creazione, l´avevano tratto gli Angeli del trono. Fra poco, Maometto avrebbe accolto i suoi fedeli presso un lago del Paradiso. Quell´acqua li avrebbe dissetati per sempre.

Repubblica 6.3.07
La Cina delle vergogne
Esce in Italia un'inchiesta sulla disastrosa realtà delle campagne
di Federico Rampini


Chen Guidi e Wu Chuntao hanno suscitato con la loro indagine un grande scalpore
È facile, viaggiando nelle zone rurali, riconoscere subito il leader del partito: è l'unico grasso
All'emozione subentrò lo scandalo e il libro venne proibito e ritirato
Da allora circola in maniera clandestina e gli autori sono isolati

Sta per uscire Può la barca affondare l'acqua? di Chen Guidi e Wu Chuntao, un libro inchiesta sulla Cina rurale e povera (Marsilio, pagg. 240, euro 15), costato agli autori una dura repressione. Anticipiamo parte della prefazione di Federico Rampini

Quando si viaggia nelle campagne povere della Cina è facile riconoscere a colpo d´occhio il capo villaggio, il leader locale del partito comunista: è l´unico grasso in mezzo a un esercito di magri; nei paesini dove manca l´acqua potabile e dove la scuola elementare non ha finestre né riscaldamento la sua casa è nuova e spaziosa: sul suo tetto è ben visibile la parabola satellitare; l´auto nera di servizio è parcheggiata nel cortile. A furia di girare nelle province remote del paese ci si abitua allo spettacolo di questi privilegi insolenti. Chen Guidi e Wu Chuntao quello spettacolo non l´hanno ancora accettato.
Mentre scrivo questa introduzione i coniugi Chen e Wu vivono da oltre due anni come dei vigilati speciali. Le autorità cinesi li hanno isolati per impedire loro ogni contatto con i mezzi d´informazione stranieri. In quanto ai giornalisti cinesi, sanno quali rischi corrono se cercano d´intervistarli. L´effetto-choc provocato dalla loro inchiesta non si è spento, la terribile verità rivelata in queste pagine fa ancora paura.
Pubblicato alla fine del 2003, questo libro è il frutto di tre anni di indagine sul terreno, attraverso ripetute visite a 50 villaggi della provincia dello Anhui, intervistando migliaia di persone. Come raccontano gli autori questo rapporto sulla condizione contadina ebbe all´inizio una diffusione libera in Cina, suscitò un immenso interesse, venne discusso in popolari talk-show televisivi, esercitò un impatto perfino sui vertici del regime. Ma il clima attorno a loro cambiò presto.
All´emozione subentrò lo scandalo, poi la paura, infine la repressione: il 25 febbraio 2004 improvvisamente il telefono di casa Chen tacque, le richieste di interviste cessarono, il libro venne proibito e ritirato dalla distribuzione, anche le recensioni e i commenti su Internet vennero oscurati dai filtri della censura. Da allora continua a circolare in Cina solo in forma clandestina. Ne sono state vendute almeno 8 milioni di copie-pirata.
Gli autori stimano a 900 milioni la popolazione rurale del loro paese. Da quando scrissero questo reportage la cifra è scesa di alcune decine di milioni per effetto del massiccio e inarrestabile esodo verso le città. Resta il fatto che in Cina vive il 40% di tutti i contadini del pianeta. Il destino esposto in queste pagine è, in tutti i sensi, un dramma mondiale. E´ anche un brutale richiamo alla realtà, un antidoto di fronte alle descrizioni troppo idilliache e ammirate del "miracolo cinese". L´altra faccia di questo miracolo l´ha sintetizzata nel novembre 2006 uno studio della Banca mondiale sull´evoluzione economica del paese nel periodo dal 2001 al 2003: in quel triennio di forsennata crescita economica del paese, il 10% della popolazione (cioè 130 milioni di persone) vide il proprio reddito diminuire del 2,4%. Nello stesso periodo, il 10% dei cinesi più ricchi incassavano un aumento del reddito del 16%. «Per quelli che sono sotto la soglia della povertà - ha spiegato l´economista della Banca mondiale Bert Hofman - è stato necessario attingere ai magri risparmi familiari solo per sopravvivere». Nella Cina di oggi la distanza tra ricchi e poveri ha superato il livello di diseguaglianze sociali degli Stati Uniti di Bush e della Russia di Putin. (...)
Le testimonianze raccolte dai due autori ricostruiscono un gigantesco mosaico di sofferenze, il lamento corale di una moltitudine di vittime, un esercito di afflitti e di disperati. Queste storie hanno tutte dei tratti comuni. Il prelievo di imposte e balzelli fiscali - spesso illegali - è lo strumento di un´estorsione sistematica da parte della nomenklatura comunista a danno dei più poveri. Quando l´abuso oltrepassa i limiti della sopportazione, quando esplode la rivolta degli oppressi, scatta da parte dei satrapi locali una repressione sfrenata: vendette, arresti arbitrari, pestaggi di polizia, torture, esecuzioni, fino alle stragi che decimano interi villaggi. Perfino la politica del controllo delle nascite - la regola del figlio unico - è il pretesto per incassare tangenti. Il quadro che emerge è raccapricciante per l´avidità e l´arroganza delle autorità, l´inesistenza di regole e diritti, la prepotenza dei privilegiati. In molte regioni povere sotto le bandiere del partito comunista comandano dei veri e propri boss mafiosi, a capo di clan spietati, con tanto di milizie private al loro servizio, protetti dalla collusione o dall´asservimento di ogni autorità dello Stato, dalla magistratura alla polizia.
Svanita l´ideologia, intimidazione e violenza bruta sono gli strumenti che impongono l´ordine e la disciplina. Dal "pizzo" prelevato sugli agricoltori i capibanda estraggono la loro rendita parassitaria, che redistribuiscono alla rete dei complici. Sotto il tallone di questi racket di Stato vive un´umanità dolente, inebetita dagli stenti, rassegnata a subire la supremazia del più forte. Quando nasce qualche protesta, dalla controreazione indignata e violenta dei boss contestati trapela anche un vero e proprio razzismo sociale, un veleno diffuso nella nomenklatura: per i dirigenti del partito e dell´amministrazione pubblica i contadini sono degli esseri inferiori, cafoni ignoranti e senza diritti. Come si permettono... Questi atteggiamenti da signori feudali convivono tranquillamente con le vestigia del culto di Mao Zedong: il ritratto del Grande Timoniere, leader della rivoluzione contadina, non manca mai nel commissariato di polizia locale o nel salotto del sindaco. C´è del resto una crudele continuità con l´epoca maoista, quando i contadini subirono vessazioni e violenze a non finire, a decine di milioni morirono nelle carestie provocate dal regime; anche se l´ironia della sorte vuole che spesso tra i contadini più poveri affiori nel XXI secolo una nostalgica venerazione di Mao, la convinzione che «si stava meglio quando si stava peggio». (...)
La fuga dei contadini cinesi verso le fabbriche e i cantieri urbani si scontra con un altro problema che viene menzionato in Può la barca affondare l´acqua? In città il destino che attende i provinciali è quello di cittadini di serie B, vittime di un vero e proprio apartheid sociale.
Privi dello status di residenti urbani, gli immigrati dalle campagne non hanno diritto all´assistenza sanitaria né alle scuole per i figli. Sono condannati ai lavori più umili, sottopagati, ricattati dai datori di lavoro che spesso sospendono per mesi il pagamento dei salari. Quel miglioramento delle libertà personali che negli ultimi decenni ha sostanzialmente cambiato la qualità della vita dei cittadini rispetto ai tempi di Mao - oggi hanno la libertà di scegliersi la scuola e il lavoro, di viaggiare all´estero, godono la liberazione sessuale e dei costumi - è del tutto teorico per il sottoproletariato confinato nelle squallide periferie delle megalopoli. Come ricordano Chen e Wu, il ceto medio urbano mostra addirittura una certa assuefazione di fronte allo spettacolo della miseria di tanti loro concittadini. Questa indifferenza alla povertà altrui è rivelatrice. Trent´anni di sbornia ideologica dell´egualitarismo maoista - durante i quali la nomenklatura di partito non si negò mai alcun privilegio - hanno lasciato in eredità al paese una inesauribile riserva di cinismo e di individualismo. (...) Gli slogan di Deng Xiaoping che diedero avvio un quarto di secolo fa al più grande boom economico della storia umana - «arricchirsi è glorioso» e poi «qualcuno si arricchirà più degli altri, prima degli altri» - assomigliano al concetto reaganiano dell´alta marea che solleva tutti i battelli, gli yacht dei miliardari e le barche dei pescatori.

Alto Adige 4.3.07
CINE-STORIA. Bellocchio, un film sul figlio trentino del Duce
Il regista sta lavorando sulla vicenda di Benito Albino, di Sopramonte
di Paolo Morando


Marco Bellocchio (foto) sta lavorando a un film sul figlio segreto che Benito Mussolini ebbe durante gli anni trentini da Ida Dalser, di Sopramonte. Lei lo chiamò Benito Albino ma il duce ne nasconderà l’esistenza, e morirà a neppure 27 anni nell’ospedale psichiatrico di Mombello, in Piemonte, ufficialmente per “marasma”. La notizia è stata anticipata ieri dal Giornale, in un lungo articolo in cui lo stesso regista di “Buongiorno, notte” e “L’ora di religione” conferma a denti stretti: «È una tragedia italiana, un film che farà molto discutere, credo. C’è l’impegno di Raicinema, ma servono apporti esterni per la ricostruzione d’epoca. Sono in piena elaborazione. Non riuscirà a farmi dire altro».
La vicenda almeno in Trentino è nota, soprattutto grazie alle ricerche del giornalista della Rai Marco Zeni, ma già negli anni Cinquanta un altro cronista trentino, Alfredo Pieroni, ne aveva raccontato i dettagli sulla Settimana Incom. Tutto era però tornato prepotentemente alla ribalta della cronaca poco più di due anni fa, quando la trasmissione “La grande storia” se ne occupò in prima serata. La puntata, che il 14 gennaio del 2005 apriva il nuovo ciclo di quell’anno del fortunato programma di Raitre, si intitolava “Il segreto di Mussolini” e raccontò per la prima volta in televisione la storia, tragica, del primogenito di Benito Mussolini, Benito Albino Bernardi, avuto l’11 novembre del 1915 dalla Dalser, con cui l’allora giovane direttore del quotidiano socialista L’Avanti aveva una relazione clandestina, avendo già avuto da Rachele Guidi la figlia Edda. Gli autori dell’inchiesta erano Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli, con la consulenza dello storico Giovanni Sabbatucci.
Benito Mussolini era infatti bigamo: prima di “donna Rachele”, aveva sposato Ida Dalser, conosciuta di sfuggita a Sopramonte nel 1909 al termine di un comizio, quando il futuro duce era socialista e giornalista a Il Popolo di Cesare Battisti. Poi l’aveva incontrata a Milano nel 1913 quando era direttore dell’Avanti e lei gestiva un istituto estetico. Benito Albino aveva frequentato le scuole elementari a Sopramonte, presenza documentata nel registro della seconda classe dell’anno 1924-1925, dove si legge: «Benito Albino Mussolini, nato a Milano, figlio di Benito, Presidente del Consiglio dei Ministri e di Ida Dalser rappresentata dalla zia Paicher».
Per Mussolini duce e dittatore la bigamia e l’esistenza di un figlio segreto erano evidentemente un problema. E così la povera Ida Dalser venne fatta internare prima al manicomio di Pergine, poi in quello di Venezia, il cui direttore stabilì però che era perfettamente sana di mente. Fu quindi riportata a Pergine, ma nella notte del 15 luglio 1935, durante un violentissimo temporale, fuggì dal manicomio e raggiunse Sopramonte. Il giorno dopo la milizia rastrellò il paese, la donna venne catturata e internata nel manicomio San Clemente di Venezia, dove morirà segregata e semiparalizzata il 3 dicembre 1935, per un’emorragia cerebrale.

il manifesto 6.3.07
Bertinotti corteggia la sinistra Ds
«Faccio un appello a tutti quelli che si dicono di sinistra: mettiamoci attorno ad un tavolo e discutiamo»
E intanto Rutelli e Fassino litigano sul Pd


Roma. «Sospendiamo tutte le formule di ingegneria organizzativa e proviamo a discutere di cultura politica. Stiamo ciascuno nella propria casa e interroghiamoci su quale è lo stato della sinistra in Italia e in Europa, perché è ridicolo questo affanno a costruire nuove abitazioni che poi rischiano di venir su un po' sghembe». Così il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, durante la registrazione di Otto e mezzo su La7, in merito al dibattito politico sul Partito Democratico.
Bertinotti esclude la possibilità di realizzare, accanto al Pd, un altro soggetto che riunisca Verdi, Comunisti italiani e Rifondazione. Al contrario, fa un «appello a tutti quelli che si dicono, che si definiscono di sinistra, dai Ds a tutto ciò che c'è più a sinistra: mettiamoci attorno ad un tavolo e discutiamo». Un amo lanciato verso l'ex correntone Ds che da mesi si fa corteggiare da Rifondazione comunista ma senza decidere il da farsi. L'offerta è lanciata di sicuro a loro, molto più che alla Margherita anche se alla battuta di Giuliano Ferrara Bertinotti risponde diplomatico: «Io sarei per non escludere nessuno. Il confine è assai mobile, lo stabilisce la soggettività medesima».
Quindi, gli chiedono gli intervistatori, pensa a creare un grande partito della sinistra? «Diciamo che c'è andato abbastanza vicino - conclude - come si diceva da bambini, "fuochino"». «Se, come in molti fanno, si dice che il Partito democratico non è una gran cosa perché non si capisce quale sia il suo profilo - prosegue Bertinotti - allora non facciamo la stessa cosa a sinistra, cioè non privilegiamo il contenitore rispetto al contenuto». Più in generale, Bertinotti sostiene che «il partito della sinistra europea è un investimento da potenziare. Quindi, ognuno faccia la sua strada, ma, contemporaneamente, non arrendiamoci a quello che stiamo facendo, ma pensiamo anche che forse c'è un destino comune - conclude - da riscoprire nelle sinistre».
Le proposte di Bertinotti arrivano proprio mentre al di là della barricata, ovvero nel futuribile Partito democratico, la discussione si fa più accesa. Con un'intervista al Corriere della sera Rutelli ha buttato lì che il Pd dovrà sostenere il centrista Francois Bayrou e non Segolene Royal alle prossime presidenziali, e ha poi ribadito che «la Margherita non entrerà mai nel Partito socialista europeo». Piero Fassino ha risposto duro: «Se il Pd vuole rappresentare il riformismo, allora deve stare dove stanno gli altri partiti riformisti che sono organizzati in due forum: l'Internazionale socialista ed il Pse».

il manifesto 6.3.07
intervista
«Una novità per unirci»
Cesare Salvi risponde all'appello di Bertinotti: «Noi ci battiamo in queste settimane contro la costruzione del Partito democratico, poi certo non gli faremo da ala sinistra. Bertinotti introduce una novità dopo le divisioni degli anni '90»
di Carla Casalini


Scampata la caduta del governo Prodi, si stringono i nodi su cruciali questioni politiche - subito ll'Afghanistan, poi i «tavoli» su lavoro e pensioni, e la legge sui Dico. Ne discutiamo con Cesare Salvi, leader di Socialismo 2000, componente di quella «sinistra Ds» che oggi oggetto del desiderio di molti, da Bertinotti a una parte dei socialisti che stanno cercando di ricostruire una «casa» comune.

Sulla crisi di governo e sua risoluzione, ci si è concentrati molto sui «numeri» o sui «colpevoli». Mi pare che l'invito di Fausto Bertinotti a ricostruire una sinistra che faccia «massa critica», non dissimilmente da ciò che Rossanda ha scritto sul 'manifesto', proponga di guardare un po' oltre, ai processi reali sottesi alla crisi.
Se non ho capito male, provo a dirlo con parole mie: come mai gli elettori di centrosinistra, ma non solo loro, sono «più a sinistra» della loro rappresentanza politica? I sondaggi vanno sempre presi con misura, ma ne risulta che la maggioranza degli italiani di qualsiasi orientamento sono per il ritiro dall'Afghanistan, a favore delle unioni civili, chiedono di combattere il precariato...Il problema che si pone è quello di una sinistra che sappia dare rappresentanza, non minoritaria, non ideologica, ma concreta e seria alle posizioni prevalenti nell'elettorato di centrosinistra e talvolta nel paese. E per realizzare questo obiettivo il primo compito per noi della Sinistra Ds è cercare di impedire che si realizzi il progetto del Partito democratico.

In realtà il Pd pare in accelerata costruzione, e Rutelli ne ribadisce la natura «di centro». Che c'è da aspettare? O per il momento voi pensate al da farsi dentro il vostro partito, poi si vedrà...
No. La nostra battaglia contro questo esito politicamente centrista e socialmente moderato, proprio dopo l'ultima «accelerazione» ha il tempo di poche settimane, se non giorni. Poi io condivido pienamente ciò che ha detto Fabio Mussi: non ci sto a fare la sinistra del Partito democratico. Perciò l'appello di Bertinotti ha indubbiamente una forte novità, così come la risposta del segretario del Pdci Diliberto, rispetto al dibattito di questi anni. Secondo noi serve un grande soggetto politico unitario della sinistra, in cui si ricompongano tradizioni provenienti dallo stesso partito socialista, e dal partito comunista, perché le divisioni degli anni '90 erano legate alla contingenza politica di quell'epoca del dopo-muro. Oggi, i problemi mondiali della globalizzazione del capitlae, il riflesso in Europa con la ridiscussione sul trattato costituzionale, in Italia con i compiti di governo nel momento in cui per la prima volta nella nostra storia vi è approdata tutta la sinistra, richiedono di pensare al futuro e squadernano l'esigenza di una grande sinistra per la quale ciascuno sia disponibile a rimettere in discussione le sue bandierine.

La sinistra Ds è sempre più ambita. Bertinotti esclude una architettura «organizzativistica», dubque sembra eleggere a interlocutori ideali voi, che non avete un partito da buttare sul piatto, mentre Diliberto deve vedersela con l'«identità» del Pdci. Non a caso vi chiama anche una parte dei socialisti che ridiscutono di «casa comune» ...
Noi, effettivamente, abbiamo un'interlocuzione aperta anche con il campo socialista. Credo che nell'attenzione riservataci ci sia un riconoscimento della coerenza di una battaglia: senza voler enfatizzare la nostra rilevanza, siamo in una posizione di crocevia e cercheremo di fare la nostra parte per non deludere chi ritiene che il nostro ruolo possa essere significativo in questa fase.

Ma intanto stringono i problemi del governo, e la proposta che Prodi possa cercare di volta in volta i consensi che gli occorrono in parlamento con «maggioranze variabili», sostenuta con forza anche da Amato, non configura una sorta di maggioranza 'à la carte', a danno di una strategia politica?
Per la verità, che Prodi su materie considerate essenziali per la sua politica ponga la questione della fiducia, ma che su alcuni temi si affidi al dibattito alle camere mi pare una proficua rivalutazione del parlamento dopo l'ebbrezza 'maggioritaria' degli anni passati. Anzi, noi abbiamo sofferto nelle settimane scorse per questa volontà di avere insieme una maggioranza autosufficiente e una larga convergenza, la botte piena e la moglie ubriaca.
Certo, il problema vero è quello di una maggioranza politica, che non si misura però solo dentro il parlamento ma, ripeto, su ciò che sa rispondere alle domande degli elettori e del paese, perché un governo che perde nei suoi primi mesi il 15% dei consensi è troppo debole ben aldilà dei numeri al senato.

Ebbene, la discussione sui Dico sta iniziando ma incombe quella sulla guerra, un 'tema' che deborda dalle aule parlamentari. Rifinanziare la missione nell'Afghanistan, probabile imminente teatro di una nuova «guerra preventiva», pone un problema di giudizio politico. Persino Scalfari, nell'omelia domenicale, avanza dubbi.
Io ho già votato in passato contro questa missione, che pure era diversa dall'Iraq, proprio temendo trasformazioni future. In più, queste guerre non più fra stati implicano un pesante sacrificio di civili. Oggi, mentre riconosco la «discontinuità» introdotta da D'Alema rispetto al servilismo a Bush del governo Berlusconi, penso che va valutato il mutare degli eventi e proposta una posizione comune di tutta la sinistra.

Il Sole-24 Ore 5.3.07
Turco insedia la Consulta per la Salute mentale


Il Ministro della Salute Livia Turco ha insediato oggi la “Consulta per la salute mentale” cui partecipano diverse Associazioni del settore, in rappresentanza di pazienti, familiari, operatori e volontariato impegnati in Italia con molteplici esperienze associative.

La Consulta, coordinata dal dottor Marco D’Alema, responsabile del Centro salute mentale della Asl RmH di Roma, ha le seguenti finalità:
- concertare le linee e le strategie delle politiche nazionali in tema di tutela della salute mentale;
- rilevare bisogni, disuguaglianze, criticità dell’assistenza nelle diverse realtà regionali e locali;
- promuovere il coordinamento delle attività di volontariato e associazionismo attraverso lo scambio di esperienze e buone pratiche, con particolare riferimento all’integrazione socio-sanitaria dei servizi e delle iniziative di assistenza e tutela;
- collaborare alla definizione del nuovo Piano strategico nazionale per la salute mentale;
- coadiuvare il Ministero della Salute nella preparazione della II Conferenza nazionale sulla salute mentale in programma per il mese di aprile 2008.

«La rinnovata attenzione che abbiamo posto a questo settore - ha sottolineato il Ministro Turco - nasce dalla necessità di riappropriarci di una vera politica per la salute mentale dopo anni di sostanziale disinteresse da parte del centro destra.

Un atteggiamento testimoniato dalla progressiva riduzione dei fondi e degli investimenti e da un sostanziale allontanamento dallo spirito della legge 180 che ha caratterizzato la politica del precedente governo e che ha avuto come prima conseguenza quella di una generale percezione di abbandono da parte delle Istituzioni nei confronti dei malati e delle loro famiglie.
Per questo pensiamo sia importante riannodare quei contatti, quelle sensibilità e quelle esperienze maturate in questi decenni di attività dai servizi di tutela della salute mentale e dal mondo delle Associazioni con l’obiettivo di ridare centralità al problema del disagio psichico.

In questo senso non può che rendermi felice il fatto che a vincere il festival di Sanremo sia stato un brano dedicato proprio a questo disagio, alle difficoltà e alle discriminazioni di cui sono ancora oggi oggetto tantissime persone che soffrono di disturbi mentali. Lo considero un segno di grande sensibilità da parte dei cittadini che hanno votato quella canzone. Evidentemente, pur nella leggerezza e spensieratezza del festival della canzone italiana, essi hanno voluto comunque dare un segnale di attenzione e partecipazione a una problematica di cui si parla sempre troppo poco pur riguardando da vicino milioni di persone.

Non dimentichiamo infatti che, secondo le stime più recenti dell’Oms, una persona su quattro nel corso della sua vita incontrerà problemi di natura psichiatrica che necessitano di interventi puntuali e mirati e che diversi milioni di italiani soffrono abitualmente di problemi connessi alla salute mentale di varia intensità e gravità.

Per questo, nel 2008, sarà indetta una Conferenza nazionale sulla salute mentale con al centro un prioritario grande obiettivo: quello di ridare centralità alla psichiatria di comunità intesa come capacità di prendersi cura delle persone e delle loro famiglie in modo complesso e intersettoriale e non limitato agli aspetti strettamente medici e farmacologici.
Un impegno trasversale che deve coinvolgere le Regioni, il Ssn e le altre istituzioni locali, ma anche la scuola, la cultura e il mondo del lavoro a testimonianza di un rinnovato impegno sociale e di civiltà di tutto il Paese».

Corriere della Sera 6.3.07
LA PROPOSTA / Il presidente della Camera: evitare l'errore del Pd, è ridicolo costruire nuove case che rischiano di venire sghembe
«Un cantiere a sinistra», Bertinotti sfida i Ds
Primi via libera da Salvi e Tortorella
di Roberto Zuccolini



ROMA — Cesare Salvi e Aldo Tortorella sono già pronti al «dialogo». In altre parole la sinistra diessina insieme a esponenti storici del vecchio Pci come, appunto, Tortorella. E questo dialogo «sui contenuti» potrebbe, se non mettere in crisi il futuro Partito democratico, quanto meno esserne una spina nel fianco. Perché, se davvero nascesse una formazione unitaria a sinistra del Pd e fosse «di sinistra» senza per forza avere accenti radicali...
Fausto Bertinotti lo fa capire per la prima volta in modo aperto. Certo, guai a definirlo «contenitore». Il presidente della Camera non ne vuole sapere di dibattiti sulla Cosa Antagonista, che già qualcuno (Diliberto) traccia come possibile e cioè il patto tra Prc-Pdci e Verdi. Bertinotti sposta i confini del discorso, lo allarga e dichiara, fatto inedito, di voler coinvolgere i Ds. Durante Otto e mezzo di Giuliano Ferrara propone di aprire «un cantiere che cominci a discutere della sinistra ». Ovvero, «dai Ds a tutto ciò che c'è di sinistra». Per «non fare lo stesso errore» del nascendo Pd, cioè «privilegiare il contenitore» e non i contenuti: «Sospendiamo l'ingegneria organizzativa: è ridicolo questo affanno a costruire nuove abitazioni che poi rischiano di venire su un po' sghembe...».
Insomma, la sfida, già annunciata anche dal segretario del Prc, Franco Giordano, viene ora rilanciata autorevolmente da Bertinotti. Che lascia volutamente mobili i confini del progetto.
Per motivi ideali e al tempo stesso strategici: l'obiettivo è attrarre il più possibile, anche nelle file della Quercia, ma sarebbe avventato tracciare il profilo di un nuovo soggetto prima di sapere quale sarà la nuova legge elettorale. Se mai ci sarà.
Aldo Tortorella si dichiara favorevole al dialogo: «Noi lo abbiamo già avviato su Critica Marxista. Anzi, credo che con il nostro contributo abbiamo offerto uno stimolo interessante per Fausto Bertinotti». In sintesi: «Va bene il Partito democratico, ma io mi sento più di sinistra e mi pongo il problema di come esprimere certi contenuti». Ancora più esplicito Cesare Salvi: «Bertinotti ha introdotto un elemento di novità rispetto allo stesso Prc: sono d'accordo con lui quando fa notare che gli elettori dell'Unione sono più a sinistra delle politiche portate avanti dal governo. Fa bene quindi ad aprire il dialogo con i Ds. Io sono disponibile».

Corriere della Sera 6.3.07
L'intervista. Mussi: Rutelli? Onesto, ma è la fine del progetto unitario
di Monica Guerzoni


ROMA — «Se fossimo in una situazione politicamente e intellettualmente ordinata, dopo un'intervista così il processo di costruzione del Partito democratico dovrebbe fermarsi».
Furioso con Rutelli, ministro Fabio Mussi?
«Ho un rispetto assoluto per la posizione che il vicepremier ha espresso al Corriere. Ma Rutelli dice tre cose. I Dico non sono una priorità. In Francia sosterrà Bayrou e non la Royal. E il Pd non entrerà mai nel Pse».
Quindi stop, retromarcia, fine dell'unità riformista?
«Mancano i fondamenti. Del resto la posizione di Rutelli è onesta».
Quella di Fassino non lo è?
«Nei discorsi dice che il nuovo partito deve stare nel Pse, ma non lo ha scritto nella mozione che i nostri iscritti voteranno al congresso, dove il problema è affrontato con ambiguità».
Congresso a carte truccate?
«E' un modo per rassicurare i compagni. I quali scopriranno dopo quale è l'approdo di un partito per la cui costituzione sono chiamati a votare».
La nuova casa dei riformisti.
«Questo discorso della nuova casa l'ho sentito anche nel 2003, quando io, che nel '95 avevo contribuito alla costituzione dell'Ulivo, mi opposi alla lista unitaria per le Europee ponendo una questione: dove finiscono gli eletti una volta in Europa? Bene, quelli dei Ds sono finiti nel Pse e quelli della Margherita nel gruppo liberaldemocratico. Come si vede non è una bizza porre con forza la questione delle appartenenze».
E' il solo motivo per cui non entrerà nel Pd?
«Un motivo forte. Un altro centinaio di ragioni sono in quel Manifesto dei saggi...».
Ce ne dica due.
«Il modo acrobatico con cui è posto il tema fondativo della laicità dello Stato e quello con cui sono affrontate altre due questioni fondamentali, lavoro e ambiente. Un testo così si colloca verso la fine del '700. Il programma di Kant, ha detto bene Cesare Salvi».
Che succede al congresso di aprile?
«Che si fa un nuovo partito e quello vecchio si scioglie. Nell'89 io facevo parte di quella segreteria che, con Occhetto, pensò che si dovesse fare i conti con la caduta del Muro. La gente piangeva e si strappava i capelli quando, alla domanda "volete sciogliere il Pci?" rispondevamo "sì". Ci assumemmo pienamente la nostra responsabilità».
Fassino non lo fa?
«Finora non lo ha fatto. Dice "si chiude ma si resta aperti", "si fa un nuovo partito ma i Ds non spariscono"... Cosa vuol dire? Si fa un nuovo partito e i Ds non ci sono più».
Si assuma anche lei le sue responsabilità: farà la scissione?
«Io faccio il congresso per prendere i voti e fermare il treno. Se si accelera, decideremo democraticamente il da farsi».
Una sinistra unita da Bertinotti a Mussi, passando per Diliberto?
«Che Fausto e Oliviero abbiano ripreso a parlarsi è cosa interessante, ma non voglio contrapporre al Pd una izquierda unida. Quel che è certo è che la formazione del Partito democratico provocherà un terremoto a sinistra».
E se in Francia il centrista Bayrou dovesse appoggiare al ballottaggio il neogollista Sarkozy e non la socialista Royal?
«Il Pd finirebbe, ancor prima di cominciare».

Corriere della Sera 6.3.07
Famiglia in crisi. La tecnica separa il sesso e la procreazione e cade il modello del matrimonio tradizionale
Dialogo con Andrea Zanotti, studioso di Diritto canonico. Come cambiano i legami nell'età post capitalistica
di Claudio Magris


Non è pensando tanto ai Pacs o ai Dico quanto agli studiosi e agli studenti, che Andrea Zanotti — ordinario di Diritto canonico nella facoltà di Giurisprudenza a Bologna e presidente dell'Istituto trentino di cultura, autore fra l'altro di studi sul Concordato austriaco del 1855 e sulle manipolazioni genetiche e il diritto della Chiesa — pubblica ora per Giappichelli un testo incisivo, Il matrimonio canonico nell'età della tecnica, in cui cerca di cogliere la portata della scissione tra sessualità e procreazione introdotta dalla tecnica sulla struttura secolare del matrimonio — e del matrimonio cristiano in specie — e della famiglia che ne origina, dando pure un'interpretazione della narrazione religiosa che sostiene il matrimonio canonico, con una visione dei valori sostanzialmente cattolica che non interferisce nell'analisi dei fatti.
Perché, gli chiedo, il matrimonio nell'età della tecnica? Si vuol dire che esso è un'istituzione «forte», caratteristica del mondo pretecnologico in cui fiorivano i sistemi chiusi e compatti, andati in crisi nell'epoca della tecnica con l'affermarsi di varie forme di pensiero debole, che hanno intaccato pure il matrimonio?
Zanotti: Il matrimonio è un istituto forte, ben radicato nelle società arcaiche e nel mondo contadino. Il suo asse ricostruttivo gira attorno alla vocazione procreativa della sessualità che apre alla famiglia. Tutte le narrazioni religiose — soprattutto il cattolicesimo — hanno individuato l'incontro dell'uomo e della donna (e il mistero che esso racchiude) come uno dei punti nodali intorno al quale costruire la propria metafisica e la propria antropologia di riferimento. T. S. Eliot: «Il tempo delle stagioni e delle costellazioni/ Il tempo della mungitura e il tempo del raccolto/ Il tempo dell'accoppiamento dell'uomo e della donna/ E quello delle bestie. Piedi che s'alzano e cadono/ Mangiare e bere. Letame e morte».
Oggi la scissione tra sessualità e procreazione, garantita dalla tecnica, pone in crisi quel modello, e le società post-capitalistiche incentivano, nel loro patto sociale, condotte sessuali non riproduttive. Tramonta, nella virtualità dei corpi, l'immagine potente dell'incarnazione: del sangue, della carne e dello sterco dove la vita origina e finisce: la «una sola carne» dell'uomo e della donna che innerva molte pagine del suo Alla cieca. Di qui la difficile sopravvivenza del matrimonio nell'età della tecnica.
Magris: Si tratta di un processo liberatorio o di una decadenza da combattere?
Zanotti: Il matrimonio e la famiglia non di rado sono state gabbie e prigioni, luoghi di passioni e conflitti: ma hanno rappresentato, oltre che il principio primo di organizzazione sociale, un baluardo formidabile contro le solitudini e le difficoltà della vita che ogni uomo sembra ormai affrontare da solo, come nei suoi
Microcosmi. Il superamento di questa forma prima di organizzazione sociale apre ad una grande libertà di comportamenti soggettivi, ma contiene anche un senso di perdita, la percezione di un appiglio che manca.
Magris: San Tommaso Moro, pensando all'amata prima moglie defunta e amando la seconda, si rammaricava che la morale e le convenienze non avessero permesso a loro di vivere felicemente insieme tutti e tre. Se cade l'idea base del matrimonio (la famiglia fondata sulla coppia eterosessuale) ed esso diviene la sanzione ufficiale di legami affettivi e sessuali, perché dovrebbe limitarsi a due soggetti e non venire esteso a gruppi più ampi di persone che si sentono legate? E perché, ci si potrebbe chiedere paradossalmente, una volta caduto il modello tradizionale di coppia, per adottare un bambino occorrerebbe essere legati da rapporti sessuali e non semplicemente essere persone affidabili che diano garanzia di allevare con impegno e amore il bambino, come i tre cowboys con il neonato nel famoso film Three Godfathers (in italiano In nome di Dio) con John Wayne?
Zanotti: Qui si coglie la distanza ormai incolmabile tra le società post-capitalistiche e la tradizione della Chiesa: per le prime, se il matrimonio non poggia più sulla procreazione, perché deve essere eterosessuale e monogamico, tema assai frequentato in questi giorni di Pacs e di Dico, prime prove tecniche per definire i rapporti giuridico- affettivi nell'età della tecnica? Per la Chiesa, invece, il matrimonio è un sacramento che impegna un solo uomo ed una sola donna davanti a Dio, anche se il desiderio di Tommaso Moro (e forse di molti) riflette una generosità dell'affettività umana che spesso il rapporto monogamico — promessa d'amore ribadita giorno per giorno che termina solo con la morte — sacrifica.
È, oggi, un patto eroico e probabilmente fuori corso. Al di fuori di questa prospettiva, c'è il problema dell'accoglienza e la possibilità di trasmettere valori importanti ad un bambino anche in convivenze che prescindono dall'esercizio della sessualità, come succede nel film che lei ha citato e che trova dei pendant nella letteratura religiosa popolare: Marcellino pane e vino, ad esempio.
Magris: Da quando, come lei scrive, non pretende più di fissare, come all'epoca del Concilio di Trento, i «centimetri di penetrazione» nell'atto sessuale, il diritto canonico ha fatto indubbi progressi. Quali nuovi compiti e traguardi gli si pongono oggi?
Zanotti: Pur in continuità con i fondamenti dogmatici e millenari della fede cristiana, si sono registrati cambiamenti di toni e di accenti, dopo la pagina conciliare, di non poco momento. La sessuofobia ecclesiastica discettava di consumazione del matrimonio in termini di centimetri e di vera penetratio: oggi lo sguardo è più discreto e, soprattutto, l'intonazione di fondo valorizza molto di più che non in passato il matrimonio come intima comunione di vita e d'amore tra le persone. Il fine della procreazione non è più sovraordinato agli altri, e si riconosce nel matrimonio una pluralità di fini che non si esauriscono nella funzione procreativa o nel contenimento della libidine. Ma questa prospettiva personalistica non arriva a sovvertire l'architettura del matrimonio canonico: che è e rimane indefettibilmente legata alla sua natura giuridico- sacramentale.
Magris: Letteratura e diritto si sono spesso influenzati a vicenda. Quali spunti ha suggerito, anche indirettamente, la letteratura al diritto canonico?
Zanotti: Il matrimonio ha costituito il modello normativo di riferimento per lunghi secoli, connotandosi così come la sede istituzionale dell'amore, che per sua stessa indole tutto è fuorché istituzionale; mentre il genio manzoniano coglie bene nei Promessi sposi proprio la tensione dell'amore umano a consolidarsi nella forma giuridica del matrimonio negato da don Abbondio.
Ma, più in generale, la letteratura accoglie, nella sua dimensione di libertà, l'amore, quella preziosa essenza che dal matrimonio spesso svapora e che spinge gli uomini a trasgredire. L'adulterio e le altre sessualità proibite dal diritto diventano allora protagoniste: Paolo e Francesca, Tristano e Isotta, Lancillotto e Ginevra, il mondo delle sessualità discriminate impersonano così l'incarnazione ed il luogo elettivo dell'amore. Senza diritto (canonico e non) non ci sarebbe trasgressione: e senza trasgressione manca l'oggetto della letteratura.