L’intervista. Il segretario Giordano: bisogna aprire una trattativa per liberare Mastrogiacomo con tutti i mezzi possibili
"Rifondazione non cambia linea ma ora si faccia la conferenza di pace"
di Umberto Rosso
Noi e l’Afghanistan. Al nostro governo va dato atto di aver assunto un atteggiamento autonomo. Anche quando ha respinto la richiesta della Nato di un ulteriore invio di uomini e mezzi
Il Prc compatto. Fra di noi esistono differenze che abbiamo affrontato e discuteremo ancora. Ma al momento della votazione tutti e 26 i senatori del Prc voteranno compatti il sì
ROMA - «Il nostro voto sulla missione non cambia. Cambia, deve cambiare l´intervento diplomatico in Afghanistan: bisogna fare presto con la conferenza internazionale di pace».
Segretario Giordano, Kabul è teatro feroce di guerra.
«Purtroppo i nostri timori erano fondati, e se fosse dipeso soltanto da noi non avremmo mai mandato laggiù i nostri militari. E in queste ore voglio esprimere anche tutta la solidarietà e l´affetto alla famiglia del giornalista Daniele Mastrogiacomo e ai suoi colleghi. Dobbiamo aprire una trattativa per salvare una vita umana, con tutti i mezzi possibili, mettendo in campo tutte le risorse diplomatiche e di intelligence. E´ una strada che Rifondazione, anche con il governo precedente, ha sempre privilegiato: in primo luogo la salvezza degli ostaggi».
L´escalation della violenza in Afghanistan spinge a rimettere in discussione la presenza italiana?
«Dobbiamo investire su un cambio radicale di strategia. La conferenza internazionale di pace - che le destre hanno osteggiato, bocciandola come irrealistica, irrealizzabile - sta diventando l´unico strumento per invertire la rotta, per supplire ad una replica del conflitto bellico. Dobbiamo mettere in campo la diplomazia, coinvolgendo quando più paesi possibile».
Senza la partecipazione dei talebani però rischia di contare poco.
«Ci sono paesi, come il Pakistan, la Siria, l´Iran che vanno coinvolti e con un ruolo di primo piano nella conferenza. Lo stesso presidente Karzai, all´inizio freddo, si è convinto. E il governo italiano, sta perseguendo questa soluzione via via con sempre più forza».
D´Alema chiede di far luce sugli ultimi raid degli Usa sui civili. Una richiesta sufficiente?
«Il bombardamento delle popolazioni civili, le stragi efferate non sono altro che un´istigazione alla guerra come strumento di deterrenza. Non fanno altro che fornire un ulteriore base di massa alle tensioni che già esistono. Non è anti-americanismo, il nostro. E´ il no alla guerra preventiva di Bush. Al governo va dato atto di aver assunto un atteggiamento che si può riassumere in una sola parola: autonomia. Anche quando ha respinto la richiesta della Nato di un ulteriore invio di uomini e mezzi».
Vale anche a futura memoria?
«Certo. Il richiamo all´articolo 11 della Costituzione ci impedisce di accettare certe richieste. E voglio dire che sulle scelte ha molto inciso il movimento pacifista, finito invece ogni volta sotto pressione, come dimostra la lettera scritta dai sei ambasciatori al nostro governo sulla permanenza in Afghanistan».
L´exit strategy da Kabul che fine ha fatto?
«Non mi chiedete una cosa che fa parte del nostro dna, è nelle nostre corde, alla guerra in Afghanistan noi non avremmo mai preso parte».
E quindi, segretario?
«Oggi investiamo sulla conferenza di pace. E anche su altro. Come l´aumento della cooperazione civile, e delle risorse per dare a quel paese la possibilità di affrontare le grandi difficoltà economiche e sociali. Per arrivare ad una stabilizzazione politica. Un passo avanti significativo anche la riconversione dell´oppio a fini sanitari, come ha chiesto la stessa Organizzazione mondiale della sanità».
In Senato l´Unione corre nuovi pericoli, sul decreto?
«Non credo che ci saranno problemi sul voto».
Nessun problema nemmeno all´interno di Rifondazione, dopo l´escalation della guerra?
«Fra di noi esistono differenze, è noto, che abbiamo affrontato e discuteremo ancora. Ma al momento della votazione tutti e 26 i senatori di Rifondazione voteranno in maniera compatta».
Escluso Turigliatto, espulso dal gruppo.
«Naturalmente».
E la tentazione di rispondere al divampare dello scontro con una risposta militare più dura?
«Sarebbe un tragico errore. Che, oltre a determinare ulteriori tensioni, non risolverebbe nulla».
I soldati italiani corrono intanto pericoli ancora più gravi.
«A loro va tutta la nostra solidarietà, agli uomini che rischiano la vita dobbiamo far sentire il nostro calore e il nostro appoggio».
Repubblica 7.3.07
Roma, per i magistrati il medico che interruppe la ventilazione meccanica non commise alcun reato: non fu la sedazione a farlo morire
"Welby, staccare la spina era suo diritto"
La procura: lo dice la Costituzione. "Guarigione impossibile, caso da archiviare"
di Elsa Vinci
ROMA - Nessun reato. «L´interruzione della ventilazione meccanica ha realizzato la volontà di Welby in esplicazione di un diritto che gli spettava». E che trova «fonte nella Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall´ordinamento italiano e ribadite nel codice di deontologia medica». La procura di Roma chiede l´archiviazione del fascicolo aperto subito dopo la morte assistita di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, immobile da anni, senza più sogni né desideri, se non di smettere di soffrire. Nessun reato: l´anestesista Mario Riccio, che ha sedato il paziente e poi ha staccato il ventilatore polmonare, già assolto dall´ordine dei medici di Cremona, viene adesso prosciolto dal procuratore della Repubblica, Giovanni Ferrara. «Nessun addebito a chi, in presenza di una impossibilità fisica del paziente, abbia materialmente operato il distacco dal ventilatore. In quanto l´azione ha dato effettività a quel diritto del malato e quindi non può essere ritenuta contra legem».
Il provvedimento ricostruisce la storia che commosso l´Italia, gli ultimi istanti di vita di Piergiorgio Welby. «Non solo cosciente, ma liberamente determinato a non continuare la cura, perché consapevole dell´impossibilità della guarigione o anche solo di un miglioramento o dell´attenuazione della sofferenza». Tanto che alla procura «non sembra nemmeno adeguato parlare di riconoscimento di un incondizionato libero arbitrio». Nella richiesta di archiviazione sulla quale si pronuncerà il gup, si afferma che «si era di fronte a situazione ove le cure erano palesemente inutili». E, dunque, non appare «censurabile il comportamento del medico».
La decisione del pm è arrivata dopo l´esame di una perizia tossicologica affidata a un collegio di consulenti, che hanno concluso: la sedazione non ha ucciso. «Non ha determinato nemmeno un acceleramento dell´evento, che è sopravvenuto per causa naturale». Welby si è spento da solo. «L´irreversibile insufficienza respiratoria che ha condotto al decesso - scrive la procura - è da attribuire unicamente alla sua impossibilità di ventilare in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare». I fatti si sono svolti esattamente come li aveva raccontati alla Digos il dottor Riccio: «Ho provveduto, alla presenza di più persone e in adesione alle richieste di Welby alla sedazione e al contestuale distacco del ventilatore automatico». La morte è arrivata in 45 minuti. Ogni passaggio è stato riportato in un diario clinico firmato dallo stesso medico e da chi era presente in quel momento, la moglie e la sorella di Welby, i radicali Marco Pannella e Marco Cappato.
«Nel caso di specie, può affermarsi che sussistesse il diritto del paziente a non sottoporsi a trattamenti medici indesiderati». Secondo il pm non è sostenibile che «un siffatto diritto costituzionalmente tutelato troverebbe limite nelle superiori esigenze di salvaguardia della vita umana che nel nostro ordinamento costituisce un diritto inviolabile». Dunque, si conclude: «Deve ritenersi che il diritto fondamentale a rifiutare il trattamento medico vale di regola senza esclusioni e quindi anche con riferimento a terapie di cosiddetto sostegno vitale, che non potranno essere imposte con la forza a un soggetto dissenziente e nemmeno proseguite contro la sua volontà».
Repubblica 7.3.07
Mario Riccio, l´anestesista: ho avuto paura ma sapevo di essere nel giusto
"Mai pensato di violare la legge ora altri non soffriranno come lui"
Norme. Non amo infrangere le norme, mi batto per cambiarle
Verità. È un bene che i pm abbiano indagato e chiarito tutto
ROMA - «Ho avuto molti timori anche se ero convinto di essere nel giusto, di aver agito all´interno della legalità», dice Mario Riccio, il medico anestesista per il quale è stata chiesta l´archiviazione.
Se la richiesta della procura sarà accolta, dopo il proscioglimento dell´ordine dei medici, arriverà anche quello della giustizia ordinaria.
«Mentre sedavo Piero, mentre gli staccavo il respiratore ero sicuro di fare qualcosa di permesso dalla legge ma esserne convinto e avere la certezza di non finire sott´accusa è tutta un´altra cosa. Io sono infatti contrario ad infrangere le leggi, le norme casomai vanno cambiate».
E Welby?
«Sono felice soprattutto per Piero che era una persona molto forte. È lui oggi l´eroe, quello che trova risposta dai magistrati. Non è morto inutilmente, ma si è sacrificato con la sua lotta perché altri non soffrissero come lui, per stabilire un diritto che alcuni parevano aver dimenticato».
Principi già esistenti per legge, ha sottolineato la procura.
«Sì, la notizia, per assurdo, è che in realtà non c´è notizia. La procura ha stabilito il diritto di rifiutare le cure, tutte le cure, anche quelle salvavita. Ha stabilito la possibilità di revocare il consenso. Tutti principi secondo me previsti nella Costituzione, nella Convenzione di Oviedo e nel codice deontologico dei medici».
Ora?
«Sono contento che i magistrati abbiano aperto una fascicolo perché altrimenti qualcuno avrebbe sempre potuto dire è stato un assassini o eutanasia. In questo paese c´è una lunga confusione voluta tra eutanasia e diritto a rifiutare le cure perché l´Italia è secondo me un paese arretrato dal punto si vista del dibattito etico».
(c.p.)
Repubblica 7.3.07
Il nuovo libro di Emilio Gentile sul dopo 11 settembre
Gli Stati Uniti sotto le ali di Dio
Come Bush assurto al ruolo di "pontifex et imperator" ha organizzato la sua strategia
di Massimo L. Salvadori
Dove va l´America? E´ un interrogativo che gli europei e non solo gli europei hanno sollevato ad ogni grande svolta della storia degli Stati Uniti che ha cambiato il rapporto tra questi e il resto del mondo. Tra la fine del Settecento e la prima guerra mondiale la progressiva ascesa dell´America fu bensì un dato di enorme portata, ma essa si accompagnò alla dottrina e alla pratica dell´isolazionismo. Per tutto quel periodo fu come se l´America - animata dalla convinzione che il suo grandioso esperimento politico e civile godesse della protezione privilegiata della divina Provvidenza e che esso andasse difeso dalle influenze negative che provenivano anzitutto dall´Europa segnata da instabilità istituzionale e politica, rivalità interne, conflitti ideologici e sociali, inesauste ambizioni imperialistiche - si ponesse «di fronte» agli altri paesi. Poi la prima guerra mondiale cambiò radicalmente la scena. L´America entrò nel conflitto con il proposito di affermare pienamente la propria immensa forza materiale e il presidente Wilson, animato da un esplicito messianesimo politico, indicò al suo paese il compito di assumere nelle sue mani la guida di un mondo lacerato incapace di governarsi civilmente. Sennonché, finito il conflitto, fu l´America stessa a respingere il piano wilsoniano.
E´ con l´ingresso in guerra nel 1941 che si determina la svolta che ha aperto l´era nella quale ancora ci troviamo: gli Stati Uniti si sono candidati ad essere non solo un modello, ma un modello da far valere attivamente nelle vesti di potenza maggiore del mondo, la più forte e la migliore. Oggi l´America vive soggettivamente ancora in pieno nella scia di questa svolta. Vinta la grande battaglia di mezzo secolo con l´Unione Sovietica, dopo il 1989 ha creduto di poter inaugurare una nuova fase della storia restando in questa condizione di incontrastato primato. Ma ecco la novità dell´impetuoso emergere di nuove grandi potenze a partire dalla Cina e dall´India. Ed ecco anche la novità della sfida lanciata dal terrorismo islamico che è riuscito con l´attacco dell´11 settembre 2001 a colpire al cuore l´America: un evento senza precedenti per un paese che dopo la guerra con gli inglesi del 1812-14 non aveva più subito un attacco al proprio territorio proveniente dall´esterno.
Tra le varie e numerose riflessioni sull´11 settembre e sulla risposta degli americani si presenta assai interessante quella di Emilio Gentile nel suo libro La democrazia di Dio. La religione americana nell´era dell´impero e del terrore, pubblicato da Laterza (pagg. 266, euro 16). Il titolo fa capire di primo acchito in quale direzione si svolga la ricerca dell´autore: l´intreccio tra religione e politica, un approccio alla politica, massimamente interpretato dal presidente Bush, fondato sull´idea che la democrazia americana, messa sotto tiro dai terroristi, debba fare appello a tutte le proprie risorse mediante un agire sorretto dalla persuasione che a condurre l´America nella giusta battaglia sia in primo luogo Dio, alla cui guida occorre anzitutto rivolgersi nell´ora del pericolo: da ciò il significato dell´espressione «democrazia di Dio» e del riferimento alla «religione americana» in quanto religione civile che risponde alle finalità della politica, si nutre di teologia ed è sorretta dalla convinzione - propria del presidente, dei settori del partito repubblicano che più lo sostengono e della destra religiosa - di possedere «il monopolio delle definizione del bene e del male» e di avere una missione universalistica volta ad espandere nel mondo mercato e democrazia. Ad indagare sui nessi tra religione e politica nell´America odierna, Gentile, che si è distinto nel nostro panorama storiografico per intelligenti e originali studi sul fascismo, ha certo buoni titoli come mostra in particolare il saggio del 2001, da lui stesso ricordato, su Le religioni della politica. Fra democrazia e totalitarismi.
Gentile non si limita a ragionare sull´America attuale. Nel farlo cerca le radici della concezione di Bush e dei suoi sostenitori nelle origini stesse e negli sviluppi nel corso di oltre due secoli dell´ideologia del primato morale e politico dell´America posto sotto le ali di Dio. Il che conferisce al saggio un ampio respiro, il quale consente di capire quali motivazioni abbia l´impegnativa affermazione, in riferimento certo a Bush ma anche ai suoi predecessori, secondo cui «il presidente americano non è solo il capo politico della nazione, ma è anche il pontefice della sua religione civile». Orbene il libro di Gentile è un´indagine su come Bush, assurto al ruolo di pontifex et imperator, abbia interpretato un tale ruolo nelle condizioni specifiche create dal trauma generato dall´11 settembre e abbia organizzato e diretto la strategia che ha trovato le sue manifestazioni nella mobilitazione interna dell´America e nella seconda guerra irakena, nel quadro di una parabola che lo ha però visto passare da un iniziale enorme consenso patriottico intorno alla sua leadership ad una crisi via via crescente di questo.
L´autore, che non manca di mettere opportunamente in evidenza quali resistenze e opposizioni la «democrazia di Dio» di Bush abbia incontrato anche in importanti correnti del cristianesimo americano e per parte sua inclina a ritenere che non esista il pericolo che abbia a prevalere in America una religione politica nutrita di impulsi autoritari, osserva nondimeno che «quando religione e politica congiungono le loro forze nell´esercizio del potere» allora «si annuncia una stagione incerta e insicura». Tra le voci, citate da Gentile, che si sono levate in opposizione all´integralismo che fonde religione e politica, vi è stata anche quella di Alan Wolfe.
Di lui è uscito presso la Utet il saggio Ritorno alla grandezza. Come l´America ha perso la consapevolezza dei propri fini e come può ritrovarla (pagg. 191, euro 18). Ed è indicativo che il tema del rapporto tra religione e politica occupi un posto centrale anche nelle osservazioni conclusive di questo autore; il quale, dopo aver annotato che con la rielezione di Bush nel 2004 gli americani «hanno scelto di continuare a credere d´essere un popolo speciale benedetto da Dio e destinato a grandi cose, poco importa se il resto del mondo li considera prigionieri della loro stessa innocenza», esce a dire senza mezzi termini che gli americani con le scelte compiute «hanno tradito le aspettative del mondo» e si domanda se e quando gli stessi americani «finiranno per comprendere che anche le loro aspettative sono state tradite».
l’Unità Roma 7.3.07
Bach, Mullova e un clavicembolo
La violinista russa, accompagnata da Ottavio Dantone, reinterpreta in chiave d’epoca il compositore affrontato fin dagli esordi della carriera
di Giovanni Fratello
DOPO AVER APERTO la stagione scorsa della Filarmonica Romana, la violinista Viktoria Mullova torna al Teatro Olimpico accompagnata da Ottavio Dantone al clavicembalo per un concerto dedicato a Bach che si terrà domani con inizio alle 21.15. La pregevole tecnica violinistica russa s’incontra in Mullova con un temperamento dalla musicalità forte e nervosa, che negli anni le ha permesso di affrontare con risultati notevoli sia il repertorio classico romantico - in particolare Schubert, Mendelssohn e Brahms - , sia quello russo - soprattutto Stravinskij e Sciostakovic. Più recentemente la violinista ha ulteriormente allargato il suo raggio d’azione verso la musica barocca, dedicandosi allo studio della prassi musicale d’epoca, utilizzando anche in concerto l’archetto più ricurvo nonché montando sul violino una muta di corde di budello, com’era in uso nel Settecento.
Il risultato raggiunto è molto personale e per certi versi sorprendente: infatti vi convivono la scuola del virtuosismo trascendentale - di cui Mullova è figlia - estraneo però alla musica antecedente a Paganini, e lo stile morbido ed estroso del Barocco, in particolare negli abbellimenti. Nel suo concerto monografico eseguirà insieme a Dantone le Sonate per violino e clavicembalo n. 2 BWV 1015 e n. 5 BWV 1018, e come solista la Partita per violino solo n. 3 BWV 1006 e la celeberrima Ciaccona dalla Partita n. 2 per violino solo BWV 1004: in Bach Mullova ritrova uno dei compositori affrontati da lei fin dagli esordi della sua carriera, ma reinterpretato in chiave d’epoca, come dimostra la presenza del clavicembalo suonato da Dantone, uno dei più apprezzati esecutori italiani della prassi musicale antica.
06.3201752, www.filarmonicaromana.org 06.326599
l’Unità Roma 7.3.07
L’8 marzo con «Processo per stupro»
E poi spettacoli teatrali, letture e dibattiti
Trent’anni dopo torna sugli schermi il primo film documentario girato in un’aula di tribunale. Si tratta di “Processo per stupro” la pellicola diretta da Loredana Rotondo che nel 1979 scosse le coscienze mostrando il volto di un’Italia maschilista. Il documentario Rai domani sarà al centro delle manifestazioni per l’8 marzo dal titolo “La memoria ha futuro”, organizzate dal Comune di Roma nei quattro municipi presieduti da donne. Dalle 17 alle 20 proiezione e dibattito rispettivamente nel centro cittadino per le migrazioni (IX municipio), nella sala consigliare di via Ignazio Silone (XII), nella scuola media Caetani di piazza Mazzini (XVII) e all’auditorium delle Fornaci (XVIII). A fare la parte del leone il XVII municipio, quello dei tribunali, dove il presidente Antonella De Giusti, ospiterà il sindaco e l’avvocato Lagostena Bassi che difese Donatella Colasanti. «Dal 2001 la giunta è composta per metà da donne - ha detto il sindaco Walter Veltroni - Abbiamo 4 presidenti donne nei municipi e abbiamo triplicato le donne nei Cda delle nostre aziende e il nostro obiettivo è di raggiungere il 50 per cento. Le donne, lo vedo in consiglio comunale, dimostrano una grande concretezza e una fortissima motivazione». «Contro la violenza sessuale il nostro non è l’impegno di un giorno» ha sottolineato l’assessore alle pari opportunità Gramaglia, ricordando che il comune di Roma è stato il primo a costituirsi parte civile in un processo per stupro, e i corsi di addestramento alla prevenzione della violenza rivolti ai lavoratori che fanno turni di notte. Anche la commissione delle elette presieduta dalla consigliera Adriana Spera, per l’8 marzo ha organizzato una serie di iniziative: “La giornata internazionale della donna”. Tra queste un dibattito di solidarietà per le mogli dei cinque cubani detenuti negli Stati Uniti, alle 17 alla Villetta in via degli Armatori, e alle 21 lo spettacolo teatrale Un pesciolino di Pier Paolo Pasolini al teatro Colosseo. Anche al teatro Belli un debutto a tema: Donne di Adriana Martino, in replica fino al 19 marzo. Al teatro di Tor Bella Monaca, invece, alle ore 21 va in scena Tango-la donna vestita di sole, ingresso libero. Per chi volesse tirare tardi c’è “La notte delle donne” organizzata dalla Regione Lazio: in replica alle 20, alle 21.30 e alle 23 al museo di Roma Palazzo Braschi di piazza San Pantaleo, letture da testi di Amelia Rosselli, Mariangela Gualtieri, Elsa Morante e Margherita Sarfatti. Gioia Salvatori
Il Giornale 7.3.07
La sterzata radical dei comunisti
di Alessandro Gnocchi
Sarà che il cachemire logora chi ce l'ha, sarà che il toscano adesso si fuma nei salotti, fatto sta che il compagno Presidente della Camera Fausto Bertinotti ha sterzato decisamente sul versante «radical». Visto che «chic» lo era già, come resistere alla tentazione di mettere insieme le due cose? E infatti non ha resistito.
Al diavolo le volgari rivendicazioni salariali, al diavolo le nuove povertà e al diavolo anche le vecchie. È arrivato il momento di radicaleggiare. E così, ecco che la Terza Carica dello Stato alza il tiro perché serve «una grande battaglia politica e culturale in Parlamento e nel Paese sui Dico e sui diritti civili. Come ai tempi del divorzio». E per farlo bisogna mettere insieme «sinistra radicale e riformista, laici e liberali».
Non sfuggirà che la Terza Carica dello Stato, fiore all'occhiello di un partito che si chiama Rifondazione comunista, non parla di «comunisti» ma di sinistra radicale riferendosi al suo schieramento. Tale terminologia manderà magari in fibrillazione il direttore di Radio Radicale, che ogni volta spiega che i veri radicali sono, scusate il gioco di parole, i radicali e non la sinistra radicale. Però spiega un fenomeno del quale bisogna prendere atto: quel che resta del vecchio Pci, nei diversi tronconi che vanno da Fassino a Bertinotti e Diliberto, si è trasformato in una sorta di partito radicale di massa: più agguerrito, più numeroso e persino, se mai fosse possibile, più cinico del plotoncino pannelliano.
Basta fare un prova. Prendete un operaio comunista sui sessant'anni, bendategli gli occhi e calatelo in una manifestazione per i cosiddetti diritti civili. Poi toglietegli la benda: tempo dieci secondi e se ne uscirebbe con una gragnuola di enormità così politicamente scorrette che lo prenderebbero per un provocatore fascio-clerico-leghista. Invece, il poveretto è solo rimasto al Pci che faceva il Pci. Al partito che, come ricorda Massimo Caprara che ne fu il braccio destro, ebbe in Palmiro Togliatti un deciso avversario dell'aborto. Al partito che, con l'inserimento della norma sui corpi sociali nella Costituzione, non pensava certo di dare il via libera al matrimonio degli omosessuali. Al partito che espulse per indegnità morale Pier Paolo Pasolini.
Se tornassero in servizio oggi, Marx ed Engels dovrebbero cambiare una parola del celebre incipit del loro Manifesto. Là dove scrivevano «Uno spettro s'aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo» dovrebbero sostituire «comunismo» con «laicismo». E non dovrebbero fare neanche tanta fatica, perché il laicismo non è altro che il cadavere putrescente del comunismo. La promessa radiosa del «tutto qui e subito» si è rovesciata nel «nulla ora e per sempre». Dall'utopia totalitaria si è passati a quella nichilista attraverso il semplice cambiamento d'uso delle medesime parole d'ordine: alienazione, coscienza, progresso, liberazione, uguaglianza, diritti civili e via delirando.
Con ciò, non si vuole rimpiangere Togliatti e il suo Pci. Ma solo mettere in guardia i gonzi che pensano di poter trattare impunemente con gli eredi di quella storia e di quei metodi. La piazza evocata da Bertinotti non è altro che un immenso Hotel Lux, l'albergo al civico 10 di via Gorkij a Mosca in cui ai tempi del Komintern dimoravano gli alti funzionari del Partito e i capi dei partiti comunisti stranieri. Ruth Fischer von Mayenburg, lo ricorda così: «Qui si discuteva, si cospirava e a volte si taceva in preda a un'angoscia di morte. Qui c'erano lacrime, sogni, tragedie».
Attenzione a quella piazza. E al compagno Bertinotti, subcomandante della sinistra ton sur ton, che la guarderà dall'alto. Magari in vestaglia come il Berlinguer della famosa vignetta di Forattini.
Mario Palmaro
Repubblica.it 7.3.07
Biografia del nuovo presidente della Cei, successore di Ruini ma soprattutto erede di Siri
Una vita tra Genova e le missioni militari in Bosnia, Iraq, Afghanistan e Libano
Bagnasco, l'arcivescovo con le stellette difensore del ruolo dei cattolici nella società
ROMA - Angelo Bagnasco, 63 anni, attuale arcivescovo di Genova e generale di corpo d'armata collocato a riposo dopo aver accompagnato i contingenti italiani in Bosnia, Iraq, Afghanistan e Libano, è nato da genitori genovesi a Pontevico in provincia di Brescia, dove la famiglia era sfollata per la guerra.
Il padre era pasticcere, la madre casalinga. Ha studiato nel seminario di Genova ed è stato ordinato prete nel '66 da Giuseppe Siri, l'allora arcivescovo del capoluogo ligure che lo ha preceduto anche alla guida della Cei. Laureato in filosofia, docente di Metafisica e ateismo contemporaneo presso la Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, è stato per 25 anni vicino agli scout e per 15 assistente della Fuci.
Dal 1986 al 1994 Bagnasco è stato preside e docente dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova, con competenza per tutta la Regione Ecclesiastica Ligure. Dal '95 al '98 ha diretto il seminario di Genova, è diventato poi vescovo di Pesaro, nel 2003 ordinario militare, fino alla nomina a Genova, successore di Tarcisio Bertone, dove si è insediato lo scorso 24 settembre.
E' presidente del consiglio di amministrazione del quotidiano della Cei, Avvenire, e dal 2002 al 2005 è stato anche segretario della Commissione Episcopale per l'Educazione, la Scuola e l'Università.
Bagnasco è considerato soprattutto l'erede del cardinale Siri, che lo ha guidato nella sua maturazione spirituale e culturale. Sulla sua posizione nel dibattito attuale sulla posizione della Chiesa all'interno dei vari Stati si è pronunciato recentemente, anche in un'intervista a Repubblica: "Cercano spesso di farci passare per degli intolleranti. Non è così. Il problema è quello dell'identità culturale, in Italia come in Francia. In Europa siamo il cuore del mondo, ma fatichiamo a definire la nostra identità", ha detto nei giorni scorsi.
Secondo Bagnasco, "i cattolici devono difendere la famiglia e la Chiesa cattolica deve richiamarli a questo compito". "Non si vogliono fare guerre sante: i nostri valori - ha affermato Bagnasco - vanno difesi con serenità, moderazione, ma anche con fermezza di fronte allo Stato che fa le sue leggi".
Repubblica 7.3.07
Esce venerdì "In memoria di me" il film-scandalo del cineasta romano
Costanzo: "Il silenzio un valore da scoprire"
"Bellocchio è il maestro a cui devo tanto"
di Maria Pia Fusco
Il dialogo. Non mi piace il muro contro muro, credo nell´apertura e nel dialogo
Vivere in convento. Non ci sono indicazioni, non c´è l´apologia del vivere in convento o all´esterno
ROMA - «Non ho voluto fare un film sulla religione né mi interessa la polemica pruriginosa. Ma se il film non piacerà al cardinal Ruini non mi stupirò, ne sarò perfino orgoglioso: significa che sarò riuscito ad innescare una riflessione». È la risposta di Saverio Costanzo alle critiche del gesuita Federico Lombardi sul suo film In memoria di me che, dopo la positiva accoglienza al festival di Berlino, esce venerdì in Italia con 80 copie. «Non credo che, come dice Lombardi, senza fede non si possa parlare di fede. Non mi piace il muro contro muro, credo nell´apertura e nel dialogo, credo che l´argomento religioso, inserito in un contesto cattolico perché questa è la nostra cultura, possa essere affrontato anche da un punto di vista laico».
Andrea, il protagonista del film, cerca le risposte ai dubbi e alle domande sulle ragioni del vivere chiudendosi tra le mura di un convento, dove il silenzio e i ritmi lenti del vivere quotidiano inducono al dialogo interiore, alla ricerca dell´assoluto. È il bacio di un giovane sulle labbra di un istruttore prima di uscire nel mondo esterno che potrebbe accendere la polemica. Costanzo rifiuta ogni confronto con la "mala educacion": «L´omosessualità, più presente nel libro di Furio Monicelli a cui il film è liberamente ispirato, non è il tema centrale. Il bacio è un invito a lasciarsi andare all´amore, non quello fisico, ma l´amore per l´altro, per gli altri, di cui parla il Vangelo, l´opposto del bacio di Giuda. Il tema è quello delle domande "impossibili" che tutti, laici o religiosi, ci poniamo da sempre».
Le letture alla base del film «sono state varie, da Ignazio da Loyola alle meditazioni nel deserto ai teologi francesi. Non è un film di parte, volevamo la libertà di un´apertura totale. Non ci sono indicazioni per una scelta precisa, non c´è nessuna apologia del vivere in convento o all´esterno. Abbiamo girato in un´isola di fronte a Venezia, riconoscibile per gli italiani, ma un´isola è comunque un luogo astratto, internazionale. La vita di Andrea e dei novizi si svolge nel chiuso dell´interno, ma il mondo esterno continua i suoi ritmi, c´è e si vede », dice Costanzo che, prima delle riprese, è stato per giorni in un convento insieme agli attori - Christo Jivkov, Marco Baliani, Filippo Timi, ecc. - «ed è stata una preparazione perfetta. Abbiamo scoperto che durante i pasti i religiosi non ascoltano canti sacri ma musica varia, dalla polka al valzer, ci ha aiutato per il film. E abbiamo scoperto l´importanza del silenzio. Che per molte persone è diventata un´esigenza, negli ultimi anni in occasione di certe festività i conventi si riempiono di ospiti».
Nel film si ringrazia Marco Bellocchio, «il cineasta verso il quale mi sento più in debito, un maestro che, grazie alla moglie Francesca che è la montatrice del film, abbiamo avuto la fortuna di interpellare. E ci ha spinto a tagliare e tagliare, ci ha insegnato ad essere essenziali». In memoria di me è il secondo titolo di Costanzo dopo Private, due film lontani - l´unica similitudine è nei personaggi costretti in un luogo delimitato - due storie "adulte", sorprendenti per un autore giovane. «Non so perché ho scelto questi temi, è vero sono due film "anziani": forse la giovinezza con me ha saltato un giro».
La Stampa 7.3.07
Non è una deriva questo è un sogno
Intervista ad Oreste Scalzone
Il leader di Potere Operaio venerdì all’Askatasuna
“Le armi? Tutti le avevamo. Un altro ’77 è possibile”
di Lodovico Poletto
Torino. Noi eravamo contro il socialismo reale o capitalismo di Stato. E contro l’egualitarismo, inteso come quello al ribasso, che livella. Noi eravamo rivoluzionari. Ci attaccava il Pci perché eravamo con gli operai della Polonia. Noi dicevamo che l’odio di classe partiva dall’odio dell’operaio verso la sua indigenza e alienazione: noi eravamo operaisti». Parla Oreste Scalzone, anima e fondatore di Potere operaio, rientrato ufficialmente in Italia soltanto da pochi mesi. Parla e spiega il suo mondo, quello degli Anni 70, il Movimento del ‘77. Racconta la sua esperienza, e anticipa ciò che dirà agli autonomi di Askatasuna che lo hanno invitato a Torino a parlare di quegli anni. «Sui muri di Bologna, nel ‘77, comparve una scritta che diceva “Siamo il ‘77 e non il ‘68” con riferimenti all’operaismo e al movimento studentesco. Oggi la questione della precarizzazione non si può arrestare e non si può tornare agli operai. Oggi il terreno dello scontro è questo: la precarizzazione, la globalizzazione, Internet. Questo è 2007 non il 1977».
Insomma siamo a un deja vù, un salto indietro nel tempo?
«In fondo sì, mi sembra un po’ una ripetizione di ciò che accadde allora».
Secondo lei c’è il rischio di una deriva armata oggi?
«Io non la chiamerei deriva, ma sogno o delirio. Comunque se oggi ci fosse questa deriva, e la dico come direbbe Leo Valiani, si spazzerebbe via l’ordine costituito».
Però forse, allora, eravate molti di più?
«Eravamo 150 mila, non di più, anche se qualcuno dice che si era oltre 600 mila. Eravamo questi, anche se, forse, almeno un milione di persone era in qualche modo vicino a noi».
Ha senso, oggi, ripercorrere i fatti del ‘77 e di tutti gli anni che sono seguiti?
«Io vengo a parlare del ‘77 che potrebbe arrivare domani. O meglio, che a mio parere potrebbe arrivare. Oggi è inattuale, assolutamente: ma è lì. E io e sono disposto a raccontare pezzi della mia memoria: dagli Anni 60 in poi».
Viene ad anticipare i tempi?
«Assolutamente no. Questo incontro serve per tentare di capire quello che è stato».
Si sente nostalgico?
«No, non parlo per compiacermi. Non sono per nulla nostalgico. Mi dicono che vivo come allora, e se è vero che vivo così, non mi mancano certamente quelle sensazioni».
Si sente un cattivo maestro?
«Per quelli che mi dicono queste cose, in punto di morte, mi rammaricherò di non esserlo stato abbastanza. E se, per qualcuno, sarò stato un buon maestro, gli risponderò come diceva Gesù: “Tu l’hai detto”. Comunque, il mio vero pensiero è questo: beata la gente che non ha bisogno di maestri. Buoni o cattivi che siano».
Eppure lei, nella sua esperienza, ha impugnato le armi. Non è vero?
«Le armi, a me, sono passate per le mani: lo ammetto. A me come a molti altri».
A tutti quelli che hanno partecipato al movimento del ‘77?
«Guardi, provocatoriamente mi verrebbe da dire di sì. Se si va a spulciare le sentenze di processi vedrà che ci sono pacchi di condanne per reati dalla rapina in su. Insomma: ogni organizzazione ha avuto militanti passati nei gruppi armati. E si sarebbe disonesti nel dire che la questione delle armi, in quegli anni, riguardò soltanto Potere Operaio».